Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La tecnica della pittura

254413
Previati, Gaetano 41 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
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Tutti i guai dei dipinti che conducono al rapido annerimento dei colori ed alle screpolature, disquamazioni, vesciche e crolli di colore, dipendono generalmente dalle riprese del lavoro tanto spesso improvvisato sulla tela senza studi o cartoni per l’insieme delle linee e gli effetti di luce, per cui lo spostamento a tentoni degli scuri sui lumi e sulle parti chiare su quelle sottostanti oscure, senza preveggenza nel considerare se il disotto sia secco o bagnato, trascina a stratificazioni irregolari, qua urtanti per l’eccesso dei colori accatastati, là improvvidi per una sottigliezza che non basta a coprire la tela; e per tutto il dipinto le tracce di una contraddizione persistente nell’idea dell’artista, rivelata dall’andamento diverso del pennello negli strati più profondi del colore, che le pennellate superficiali non bastano a nascondere.

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La ripresa del lavoro riapre il problema dell’aderenza dei nuovi colori sull’abbozzo, il quale, comunque condotto, viene a presentare una condizione sfavorevolissima per una salda congiuntura cogli strati che verranno a coprirlo, se questi, anzichè contenersi nei limiti di sottili impasti e velature, quali bastano per risolvere un lavoro condotto a buon punto, non saranno invece che un rifacimento del dipinto e un soverchio ingrossamento portato sull’abbozzo, rapidamente e tumultuariamente eseguito.

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Il primo di questi pericoli può essere procacciato dall’abuso dell’essenza di petrolio, che, per alcune sue proprietà superiori a quelle dell’essenza di trementina, tende a sostituirla compiutamente negli usi per l’arte.

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Ma due circostanze d’indole affatto diversa e pure cospiranti allo stesso risultato, sono venute a minacciare la pittura ad olio di questo sgretolamento rovinoso, quasi che non fossero sufficienti i pericoli che incombono su questo processo di dipingere soggetto a tante cause di alterazioni fisiche e chimiche.

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Ma queste che sono parte delle considerazioni per cui si abbandonò totalmente il processo propriamente detto a tempera, non dovettero toccare molto artisti, come il Cennini, abituati a «triare de’ colori; e imparare a cocere delle colle e triare de’ gessi, e pigliare la pratica nell’ingessare le ancone, e rilevarle e raderle; metter d’oro; granare bene, per tempo di sei anni. E poi in praticare a colorire, ad ornare di mordenti, far drappi d’oro, usare di lavorare di muro per altri sei anni sempre disegnando, non abbandonando mai nè in dì di festa nè in dì di lavorare».

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Nè gli antichi pittori italiani mai rinunziarono a questa estrema densità del colore cagionata dalla presenza del torlo d’uovo nella misura necessaria perchè la tempera potesse essere verniciata senza alterazione dei toni: cosa che si accerta osservando come tutte le antiche tempere dalle bizantine alle ultime toscane, presentino inalterati i caratteri tipici del meccanismo del pennello a tratti. I quali, ben dice il Baldinucci, non si praticano nella tempera, come nell’affresco, per ostentazione ma per necessità, quantunque, a detta del Vasari, non fossero pochi i tentativi che si facevano dagli artefici dell’epoca, sino, come il Baldovinetti, a rimetterci i suoi dipinti, pure di togliersi quel tedio del tratteggio e dell’altre mende della tempera, che secondo il grande storico dell’arte, condussero alla scoperta del processo ad olio.

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La rapida alterazione dei toni di questi dipinti, le screpolature che si contano dapprincipio e finiscono in una rete minuta che offende l’occhio a distanza, i disgustosi raggrinzamenti dei colori insaccati in pellicole oleose, le colature dell’asfalto ad ogni aumento di temperatura producono di consueto la salutare reazione che conduce il giovane artista a ritornare sui suggerimenti dei maestri, a consultarsi coi colleghi, a ricercare gli autori che si sono occupati dell’insegnamento pratico del dipingere.

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Ridotti i colori nel massimo stato di divisibilità che si può ottenere da accurata macinazione, onde avvenga più facile e regolare il loro miscuglio coi solventi particolari di ogni processo di pittura, un ulteriore cambiamento d’aspetto viene loro portato dal passaggio dallo stato di polvere a quello di impasto o soluzione liquida nel conglutinante ad essi aggiunto che serve a tenere aggregato in sè il colore e farlo aderire alle superfici appropriate a ciascun processo di dipingere.

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Per iniziare un esperimento qualsiasi dapprima sarà necessario precisare a quale giallo, a quale rosso e a quale azzurro si dovrà dare la preferenza risultando effetti molto diversi dalla diversa materia di uno stesso tipo di colore.

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D’altronde fu questa impossibilità di provvedere personalmente a tutto, condizione comune a tutte le epoche dell’arte e ad ogni lavoro umano, nè si potrebbe ragionevolmente ricavare per uso dell’arte il principio che l’artista non potendo fare tutto da sè rinunzi anche a quello che è in facoltà di ottenere.

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Per estrarre il colore azzurro dal minerale occorrono due operazioni distinte che il Bouvier descrive in questo modo: Dapprima se la pietra è in pezzi troppo grossi bisogna ridurla a media grandezza rompendola alla meglio a gran colpi di martello. Si arroventa poi il lapislazzuli entro un crogiuolo posto su braciere ardente tuffandolo quindi nell’aceto. Questa operazione si ripete diverse volte perchè serve a rendere friabile il minerale; bruciare e far evaporare le piriti e le parti sulfuree che contiene.

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Dal residuo pastello si può ancora ricavare una cenere d’oltremare, aggiungendovi quattro volte d’olio di lino e facendolo liquefare a bagno maria, sino a che la cenere azzurra coli a fondo. Decantato il fluido, si rimette olio e si ripete l’operazione per esaurire completamente il pastello liquido da ogni residuo d’oltremare, che fatto bollire e lavato più volte in acqua, finalmente si lascia seccare e si ripone per l’uso.

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Giudicando dai caratteri esterni che le resine presentano in natura, la copjpale e l’ambra furono sempre reputate quelle che avrebbero meglio risposto alla difesa dei dipinti, onde la mira di ridurle a vernice fu incessante. Senonchè, non sciogliendosi queste resine che a fuoco nudo e non mescolandosi agli oli e alle essenze che a temperatura elevatissima, il prodotto della soluzione è così trasformato da ridursi inetto all’impiego sui dipinti.

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In generale non si deve riempire che a metà il matraccio o la bottiglia che si pone sul fuoco, affine di ovviare a che sollevandosi la materia in ebullizione abbia a traboccare.

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Di qui la timidezza e l'inefficacia, e anche gli errori di tante opere moderne testimoni irrefragabili delle aspirazioni a nuovi orizzonti d’arte, ma prove altresì evidenti del persistente pregiudizio di sopperire coll’intuito o i formulari empirici, o peggio colla imitazione d’altri artisti, a quelle cognizioni, a quegli esperimenti, che si compendiano nel sussidio nuovo portato dalla scienza a benefizio dell’arte, dai quali solo può scaturire la potenzialità di interpretare gli effetti della luce e dei colori del vero con personale e razionale carattere.

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Dal litargirio bollito nell’aceto distillato, fatto filtrare e ridotto col fuoco a certa consistenza, si ricavano nel raffreddamento dei cristalli agati che sono il sal saturno; essiccante che si trova pure in commercio in tubetti simili a quelli dei colori.

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Quando si devono ridurre in soluzione acquosa i pezzi secchi di colla, si mettono in molle per una notte con tanta quantità d’acqua che basti solo a coprirli. La colla secca si gonfia lentamente, e poi, a lento fuoco e meglio a bagnomaria, si allunga d’altra acqua sino alla scorrevolezza che si desidera.

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L’avvertimento del Cennini di fare le colle in gennaio e marzo viene dall’opportunità di operare in stagioni d’aria secca per il più rapido indurimento della gelatina, ed anche dipingendo a tempera di colla è da evitarsi il mantenere umide le tele o il preparato a gesso od a colla dei muri che verrebbero ad imputridire e guastare il dipinto.

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Il gesso o solfato di calce è una combinazione dell’acido solforico colla calce che si trova in natura sotto forma di pietre, dette pietre da gesso o scagliola secondo si presenta nelle cave a blocchi od a scaglie.

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Una circostanza estrinseca all’arte, come la possibile preventiva preparazione di questa varietà d’ingredienti, che un sano criterio d’applicazione, unito ad una vigilanza compatibile coll’attenzione richiesta dal lavoro pittorico, è bastevole a sottrarre, per quanto lo comporti l’indole dei materiali stessi, da quelle alterazioni che non scongiurate a tempo inducono a rovina le opere, contribuì a sollevare il lavoro dell’artista, dalla cura soverchia che avrebbe arrecato il provvedere minuziosamente tocco per tocco di pennello ad una proporzionalità prefissa di colori e solventi; seppure non si potesse dire che essendo mancato un materiale pieghevole a questa condizione sarebbe mancata l’arte stessa, come avviene nelle industrie che si valgono dell’arte condizionata tanto a ragioni di incompatibilità fra certe materie coloranti, che l’arte rimane sopraffatta dal procedimento tecnico.

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E pratiche d’arte vi si fanno credere il simulare le orditure delle tele calcando sullo stucco ancora molle del rappezzo tela simile a quella del dipinto, perchè secco lo stucco, il colore sovrappostovi col pennello si adagi come se applicato alla trama della tela originale. Minuziosi avvertimenti occorrono per cosiffatti maestri a ben spiegare come si ostentino vigorose pennellate di colore grasso innalzandole a furia di piccole sovrapposizioni di tinta e si istruisca perfino a tracciare i solchi lasciati nel colore dalle setole del pennello maestro che si contraffà, incidendoli invece con speciali strumenti perchè il pennello del contraffattore non è sicuro neanche per così misera bisogna.

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Tanto ripetersi di consimili abusi dei mezzi tecnici rivelati in tante guise e meno poi sfuggiti a chi ha famigliarità coi dipinti, o per semplice amore dell’arte o per incarico di custodia, si direbbe incredibile abbia potuto mantenere fede al restauro che intacca la superficie dei colori se il continuo pervenire a notizia del pubblico di danni arrecati ad opere insigni non dimostrasse le radici profonde di questa mala pratica deturpatrice del patrimonio pubblico e privato d’arte, antitesi di quella venerazione che le cose belle infondono alle intelligenze meno favorite dalla sorte e, pare, sconosciuta a chi pomposamente si professa cultore dell'arte e, doloroso a dirsi, agli artisti stessi, perchè non si può supporre che il restauratore vadi a togliere di mano i dipinti ai possessori e si arbitri sempre a fare e disfare a suo talento, nè è ammessibile che contro il concorde parere degli amatori d’arte e degli artisti perdurasse e si potesse compiere il ritocco del quadro antico.

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Sono proverbiali le fucilate a pallini che si dice usino certi imitatori di mobili antichi per simulare i buchi del tarlo, espressione popolare che sintetizza salacemente l’ingenuità dei consumatori di simile mercanzia, ma le arditezze di certi restauri sfidano l’immaginazione più viva. Il Nestore dei ristauratori italiani, il celebre Prof. Guizzardi bolognese (1) a togliere una vernice ribelle a tutti i solventi usava spalmare il dipinto con acqua ragia e appiccarvi il fuoco!

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Nè sulle pitture murali più antiche contribuì poco l’intervento dei rapezzi ad olio od a cera, a tempera ed a guazzo, ad impedire che se ne potessero indagare i procedimenti tecnici, ritrovandovisi sempre tale promiscuità di sostanze da rendere vane le più sottili induzioni e le più accurate indagini chimiche.

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La composizione diversa del colore, essendo inevitabile che il colore nuovo debba col tempo alterarsi per proprio conto, condurrà presto il ritocco a differenziare anche esteriormente ed in modo sensibilissimo dal dipinto antico cui per un momento e per occhio superficiale poteva confondersi. Affidarsi ai vantati processi per rendere inalterabili a mai sempre i colori di cui pare, a leggere i manuali dei restauratori, che vi sia abbondanza e siano solo i pittori che non abbiano mai potuto azzeccarne uno, è un voler ragionare sul serio di colori eterni; cioè aggiungere storpiature di criteri tecnici a vecchie storpiature del senso comune — potendosi bensì ammettere anche l’eternità dei colori — ma al solo patto che si sottraggano assolutamente a quelle condizioni normali cui vanno soggetti i dipinti.

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Non è fuori di luogo notare qui come in tutti i manuali del restauro quando si tratta della tempera, del pastello o dell’acquerello, si abbia il buon senso di riconoscere d’un tratto la vanità o, più esplicitamente, la stolidezza di ricorrere a tutta la farragine di intrugli che sino a ieri si riversarono per ogni nonnulla sui dipinti ad olio, pure sapendosi quanto pericolo per l’opere portassero seco e quali ne fossero le conseguenze immancabili, non facendosi mai alcuna pulitura che non costringesse in qualche punto a dar mano alla tavolozza per velare o armonizzare di nuovo o meglio, al solito impiastricciare sempre il dipinto così detto pulito. Questa rassegnazione a tenersi certi generi di pitture come il caso volle ridurle, è giocoforza si estenda a tutti i dipinti qualunque sia il loro processo d’esecuzione, ogniqualvolta, esperiti senza risultato i mezzi inoffensivi pei colori, si debba mettere a rischio quello che già si possiede d’integro dell’opera d’arte.

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In una tomba gallo-romana, scoperta a Saint-Mèdard des Près, in Vandea, si è trovato un bagaglio completo da pittore ad encausto, composto fra gli altri oggetti di una scatola di bronzo a guisa di tavolozza, e di una spatola, la cui forma ricorda quella del cestrum, istrumento caratteristico della pittura a cera.

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I primi tentativi di dipingere a cera si iniziarono a Parigi. «Poche parole di Vitruvio e di Plinio, e queste oscure a’ dì nostri e dai critici variamente lette ed intese, erano la carta e la bussola da scoprire questo nuovo metodo», scrive il Lanzi.

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L’abate Requeno sciogliendo al fuoco cera e diverse resine coi colori in polvere, trovò una composizione che, macinata ad acqua, si presta obbediente al pennello come una tempera, e verniciata a cera, si fonde col calore, formando un corpo solo, a detta dell’autore, di una solidità considerevole. Allora contrappose arditamente il suo trovato ai processi presi in considerazione dall’Accademia francese, insieme scrivendo una critica poco lusinghiera per gli inventori premiati a Parigi.

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Ma questa ipotesi è troppo debole, essendo noto che Vitruvio non parla che di pitture architettoniche, semplici tinte di pareti e riquadrature, nulla ostando però che la sola vernice a cera si potesse applicare anche a dipinti d’ornato e di figure. Anzi quest’incerato esteriore fu quello che illuse, secondo Sir Eastlake, il Winckelmann sulle pitture murali di Pompei; nè ciò basterebbe ancora a spiegarne il processo vero, nè a conchiudere che i Greci ed i Romani dipingessero così comunemente a fresco, come furono propensi a crederlo gli scrittori d’arte; sui libri dei quali, come osserva l’Emeric David nel suo Discorso storico sulla pittura moderna, incorre la parola «affresco» ogni qualvolta non conoscono il processo di esecuzione di una pittura murale.

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In Grecia alcuni frammenti di pittura murale tratti dagli scavi dell’isola di Thèra, mostrarono colori di una intensità ragguardevole al momento della scoperta, ma che il contatto dell’aria fece subito scomparire; però in una casa si rilevò che la preparazione del muro fu iniziata con stucco di terra battuta, coperto di calce pura, sul quale si scorgevano le leggere linee tracciate a punta che servirono a limitare il campo dei colori e presumibilmente il lavoro possibile in una giornata (1). L’esame di frammenti di epoche posteriori affidati anche a scienziati illustri, come lo Chevreul, nulla aggiunse a questi dati, coi quali in genere si presentano le pitture murali più antiche, ond’è impossibile precisare il veicolo dei colori.

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Nella Pisa illustrata nelle arti di A. da Morrona l’A. così descrive e commenta l’antico processo:

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All’epoca del Cennini quella pratica del rinnovare il disegno dell’arricciato sull’ultimo smalto diminuiva il tempo utile della giornata pel lavoro dei colori, e la necessità del ritocco si dovette sentire assai più che non quando sostituitisi i cartoni si venne a semplificare molto i preliminari del colorire, onde si spiega come il Cennini non potesse riguardare il ritocco come una causalità talvolta evitabile del dipingere a fresco, ma esplicitamente scriva a proposito delle tempere per dipingere a secco sul muro: «Nota che ogni cosa che lavori in fresco vuol essere tratta a fine e ritoccata a secco con tempera». Gli affreschi del Pinturicchio fatti a Siena nel 1503 sono finiti a tempera come si vede dalla lacca e da certi altri colori (1) i quali colla calce non si potrebbero mescolare. Ed il Vasari racconta di alcune opere di Gerolamo da Cotignola in San Michele in Bosco lavorate in secco: e di certi dipinti di Ercole da Ferrara in una cappella a Bologna scrive: «Dicono che Ercole mise nel lavoro di quest’opera dodici anni, sette nel condurla a fresco e cinque in ritoccarla a secco».

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Si è notato come nell’acqua a 15 gradi la solubilità della calce sia di a 54 gradi di ed a 100 di e la lunga immersione nell’acqua abbia appunto per scopo di rendere idrata ogni minima parte della calce, tanto per toglierle il potere caustico che decolora le tinte quanto per assicurare l’intonaco da quei parziali distacchi che le parti di calce rimaste prima insolute e poscia gonfiatesi per il lento assorbimento dell’umidità atmosferica verrebbero a causare con danno del dipinto.

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Lo sbiadimento delle tinte mescolate alla calce per cui sino Teofilo fece seguire alla sua norma del fresco secco il ritocco con colori a tempera innalzò questa promiscuità di processo tecnico a complemento quasi inseparabile del buon fresco.

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Avverrà per tal modo che sul sopranuotante liquido si possano, senza tema, applicare altri e più leggeri strati di colore, vale a dire quelle velature che appunto si devono impiegare per condurre a fine il lavoro prefisso da compiere nella giornata.

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Questo attribuire a processi sconosciuti, a meccaniche indecifrabili proprie di tempi lontani, di uomini singolari appena noti per le opere e scomparsi insieme ai loro segreti; quel confessarsi bonariamente impotenti a raggiungere l’espressione, la bellezza e la verità che irradia dal tecnicismo delle creazioni dei maestri, scambiando così l’effetto per la cagione; quel potere quasi dire: voi pure Raffaello, voi pure Tiziano, se viveste nella nostra oscurità di trovati tecnici, ci sareste compagni di sventura, è uno dei fenomeni tipici del periodo attuale della nostra educazione artistica.

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Secondochè dunque il ritocco sia concesso all’artista o egli sia libero di farlo, il suo miglior esito sarà sempre dipendente dal rifuggire dalle tinte a corpo, sebbene la distanza le mascheri affatto. L’esperienza ha dimostrato che le velature sino a parecchi giorni dopo l’esecuzione del fresco, in condizioni favorevoli, dove cioè la mite temperatura contribuisca all’essiccare progressivo dell’intonaco e non a minacciare le muffe, conseguenza immancabile di una umidità troppo prolungata, le velature possono ancora fare corpo col dipinto apparentemente asciutto.

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Ma indipendentemente dal dipingere sulle tavole o sulle tele fu carattere perspicuo differenziale dell’arte italiana dalla fiamminga l’abbozzare con colori a corpo e su questi condurre poi l’opere alla ultima finitezza per mezzo delle velature. Il Gianbellino, Tiziano, Paolo Veronese, il Correggio, Garofolo, Dosso Dossi pervennero ad una trasparenza e vigoria di colore che nulla ha da invidiare a quelli che sino a Rubens, seguendo le tradizioni di Van-Eych, preparavano invece i loro dipinti, come si è già detto, con tinte sottili e liquide facendo a corpo i soli lumi.

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Cennino Cennini insegna che già si praticava la velatura ad olio sulle tempere, ma nella pittura ad olio, propriamente detta, diede luogo a metodi svariatissimi di applicarla sino a farsene quasi un’arte a sè, tanta fu la prevalenza che ebbe sull’impiego dei colori a corpo.

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Nè valicatosi dall’arte il recinto del chiostro, non abbandonava però totalmente l’artista quelle utili relazioni, lavorando quasi esclusivamente per le chiese ed i conventi, e trovandovi sempre l’aiuto di quelli che di scienze naturali erano dotti, onde il nome dei monaci è sempre frammisto, nei più antichi manoscritti, alle pratiche dell’arte, e l’amicizia dei medici cogli artisti passò nella tradizione, simbolizzata dall’affetto che legò Leonardo da Vinci a Marcantonio della Torre, il Correggio a Giambattista Lombardi e Rubens a Thèodore di Mayerne.

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Piccolo trattato di tecnica pittorica

261177
De Chirico, Giorgio 9 occorrenze
  • 1928
  • Fondazione Giorgio e Isa De Chirico
  • Milano
  • trattato di pittura
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Sulla superficie d’una tela in tal modo preparata non si può disegnare né con il lapis né con la carbonella; se si ha l’abitudine di abbozzare con la carbonella sulla nuda tela bisogna procedere nel modo seguente: si disegnerà a carbone o a matita, quando la tela è soltanto preparata a gesso e prima di dare la seconda mano di colla; poi si fisserà il disegno e si ripasserà sui tratti con un pennello sottile e appuntito intinto in un colore a olio qualsiasi (piuttosto della terra rossa o della terra di Siena bruciata, anche con il nero d’avorio si ottiene un buon risultato). Il colore dev’essere molto diluito nell’essenza di trementina; questo disegno asciuga in qualche minuto, allora si dà a tutta la tela la seconda mano di colla e le due mani d’emulsione; tanto la colla che l’emulsione sono sostanze perfettamente trasparenti e così si ha un disegno dalle linee indelebili e una superficie assai piacevole per principiare a dipingere.

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Ambedue queste vernici sono facilissime a farsi; ecco come si procede.

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Il modo di preparare la tela di cui ho già parlato e che consiste a dare due mani di emulsione a tempera sopra una tela già preparata a gesso è ottimo per eseguire lavori che si vogliono elaborare lungamente e in cui la tela deve sopportare molti strati di colore a corpo e numerose sovrapposizioni di velature. Ma è pure piacevole di lavorare su tele soltanto preparate a gesso. Io ho spesso ottenuto degli ottimi risultati dipingendo su tela da sacco ingessata. Ecco come si procede: si piglia della semplice tela da sacco e si tira bene sopra un telaio a chiavi; su questa tela si passa una sola mano di colla gelatina e bianco di Spagna messi a bollire lungamente a parti eguali in modo che ne risulti una poltiglia piuttosto densa 1; mentre la tela è ancora bagnata la si raschia bene con un tagliacarte o con un vecchio coltello smussato in modo che resti poca imprimitura ma che quella poca penetri bene nei pori. Sopra una tela così preparata e lavorando rapidamente con colore molto diluito nella essenza di trementina, si possono ottenere bellissimi effetti di tinte chiare e opache.

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Non si può dire di conoscere con esattezza assoluta il modo con cui gli antichi dipingevano a encausto. Secondo gli scrittori antichi erano delle pallottole di cera mista a colore che si discioglievano esponendole al calore. I ferri caldi servivano a toccare il colore, penetrare nella cera, scioglierla e plasmarla; servivano anzitutto tali ferri a prolungare l’azione troppo breve del pennello, a rompere i toni, farli passare gli uni negli altri, finire il modellato.

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Per noi moderni la pittura all’encausto è troppo complicata; alcuni pittori e studiosi di tecniche antiche riuscirono, facendosi fabbricare degli strumenti simili a quelli che si trovano disegnati sui vasi o dipinti nelle pitture pompeiane, a ottenere una materia pressapoco eguale a quella degli encausti antichi; ma non continuarono nelle loro esperienze per le troppe difficoltà che dovettero combattere; tali esperienze furono già fatte nel Settecento dal Conte di Caylus. Più tardi vennero riprese in condizioni migliori da Henry Cros, scultore e pittore, aiutato dalle pazienti ricerche d’un erudito: Charles Henry. Tra i tedeschi Arnoldo Böcklin, l’instancabile tecnico, dipinse a encausto una Saffo che trovasi a Monaco nella collezione Schack.

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In linea generale a proposito della tempera si può dire che questa, sia essa magra o grassa, è sempre una pittura più pura della pittura a olio.

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I migliori quadri che ho dipinto a tempera tra cui trovasi l’Autoritratto con la tavolozza, ora al museo di Essen, sono dipinti con questa ricetta. È la tempera che consiglio come superiore a ogni altra. Forse i colori non brillano come nelle tempere di ciliegio, forse non si ottiene una lavorazione di dettagli come con la tempera a colla, ma possiede tante e tali qualità che per queste si possono fare alcuni sacrifici.

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Una pittura eseguita completamente a vernice non è consigliabile. È vero che si ottiene sin dalle prime pennellate una materia preziosa e ricca che è facile possa indurre in tentazione; ma non bisogna fidarsi, presto questa materia piglia un aspetto antipaticamente cristallino, scurisce e le fatali screpolature fanno la loro apparizione. Meglio è velare con colori a vernice una pittura a olio o a tempera eseguita a base di toni neutri e scuri. I colori per tali toni saranno piuttosto la terra d’ombra e la terra di Siena bruciata, la terra verde e il nero. La terra d’ombra e la terra verde sono ottime per preparare il tono neutro delle carni nei nudi. Poi con colori a vernice si può velare e anche coprire con una rete di velature fitte al punto che risulti quasi un impasto; ciò si vede specialmente nelle pitture di Carpaccio.

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Non bisogna macinare colori a vernice in quantità eccessiva. Meglio è farne la quantità necessaria per il lavoro della giornata. Durante le lunghe pause bisogna togliere dalla tavolozza i colori a vernice rimasti e metterli in un piatto fondo con dell’acqua.

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