Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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LE ULTIME FIABE

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Capuana, Luigi 20 occorrenze

Incomincio anche oggi dall'arrosto ... lo voglio mangiare a modo mio! Che buon odore! ... (Mangiando avidamente.) Fate entrare a una a una le persone che vogliono udienza.

(Torna a sedersi a tavola, e sbuccia e mangia fichi, prugne, pere, pesche, vuotando presto una fruttiera. Vedendo che la Regina non parla, le ripete:) Regina, raccontate ... (E si rimette a mangiare la frutta.)

Salute a Sua Maestà! Salute a Sua Maestà! (Si ode un prolungato squillo di tromba.)

Maestà, avete fatto tanto male a tutti ... lasciatemi dire ... che nessuno, naturalmente, può pensare a farvi un po' di bene. Per questo voi siete destinato a morire il giorno delle nozze della Reginotta! Però ... Però ...

Però, se vi rassegnerete a rinunziare di essere Re ... e a distribuire al popolo quel che avete mangiato in tanti anni ...

A poco a poco, dietro gli alberi, il cielo si schiarisce fino al rosseggiare dell'aurora; intanto si odono risa, poi canti dolcissimi

(A un gesto del Re, il Reuccio e la Reginotta si precipitano riconoscenti a baciare le mani alla Fata.)

(A tutti indicando il Reuccio e la Reginotta:) ono venuta a posta per loro! (Prende per mano il Re e la Regina, e li fa rizzare in piedi.) Ho visto, ho sentito quel Mago presuntuoso ... Se oggi lui avesse toccato le teste del Reuccio e della Reginotta, le povere creature sarebbero subito morte ... (Al Re e alla Regina) Voi non sapete quanto sono grata ai vostri figliuoli! Questa mattina - la notte sono Fata, il giorno sono rana - il Reuccio e la Reginotta hanno impedito a quelle ... (indica le Cameriere) a quelle talpe, di ammazzarmi a sassate!

Non voglio farne l'esperimento a mie spese ... Ed ecco, dal dispiacere mi si è smosso di nuovo l'appetito! Anche a voi, è vero, Eccellenza?

Maestà, una Strega mi ha detto: Se vuoi campare fino a cento anni devi chiedere al Re una porzione di capretto ... Maestà, Maestà fatemi campare fino a cento anni!

(Le Cameriere cominciano a rattrappirsi, e, trasformate in grosse talpe, si dànno a scavarsi le tane.)

(Si rimette a mangiare.)

(a Centovite): Re nuovo ... Ministri nuovi!

(riprendendo a mangiare): Che buon odore!

Se ce la portassimo a palazzo?

Lo dirò a Sua Maestà il Re!

Certamente, se ha fatto dimenticare a Vostra Maestà ...

Il cielo, a poco a poco, si copre di stelle. Appare, dietro gli alberi, la luna falcata che sembra cullarsi tra le nuvole. Riprende, dal ruscello, il gracidio delle rane.

E come potrei fare a distribuire ...

Se fa piacere a Sua Maestà ...

STORIE ALLEGRE

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Collodi, Carlo 5 occorrenze

Masino, pochi giorni dopo, andò in camera a cercare il suo babbo (il quale si era corretto del bruttissimo vizio di brontolare) e gli disse: "Sai, babbo, che cosa mi ha fatto il maestro?". "Che ti ha fatto?" "Con la scusa che ho sbagliato a rispondere nell'Aritmetica, mi ha messo in penitenza ... " "Ma queste son cose orribili! ... Lo racconterò ai carabinieri! ... " "Senti, babbo; io non voglio più andare a scuola." "Io farei come te. A che serve la scuola? La scuola non è altro che un supplizio inventato apposta per tormentare voialtri poveri ragazzi." "Capisci? Mettermi in penitenza perché l'Aritmetica non vuole entrarmi nella testa! Sta' a vedere che un libero cittadino non è padrone di non saper l'abbaco? Perché anch'io sono un libero cittadino, ne convieni, babbo?" "Sicuro che ne convengo." "Il mio maestro è un buon omo: ma è un omo piccoso. Figurati! pretenderebbe che i suoi scolari dovessero studiare! ... " "Pretensioni ridicole! Se viene a dirlo a me, non dubitare che lo servo io." "Dovresti andare a trovarlo!" "Vi anderò sicuro: e gli dirò che i maestri possono pretendere che i loro scolari sappiano la lezione ... ma obbligarli a studiare, no, no, mille volte no." "La volontà è libera, ne convieni, babbo?" "Sicuro che ne convengo, e quando un ragazzo dice: "Io non voglio studiare" nessuno può costringerlo." "Figurati! Pretenderebbe che, durante la lezione, i suoi scolari stessero tutti zitti! Com'è possibile di stare zitti quando si sente la voglia di parlare?" "Hai mille ragioni! Che forse la parola venne data all'uomo, perché a scuola stesse zitto? Lascia fare a me: domani vado a trovarlo, e gli dirò il fatto mio."

Fra tutte queste galanterie, la più agognata per il nostro Gigino era il cappello a tuba. Un giorno, sfogandosi con la Veronica, la cameriera che per il solito lo accompagnava a spasso, arrivò fino a dire: "Credilo, Veronica, per un cappello a tuba darei tutti i miei libri di scuola." "O perché non se la fa comprare dal babbo?" ripigliò la cameriera, ridendo come una matta. "E perché ridi?" domandò Gigino impermalito. "Rido, perché a vedere un ragazzo, come lei, col cappello a tuba, mi parrebbe di vedere un fungo porcino." "Povera donna! ti compatisco ... " "La mi compatisca quanto la vuole, ma a me i ragazzi vestiti da ominini grandi mi somigliano tante maschere fuori di carnevale ... " La mattina dopo (era per l'appunto giovedì, giorno di vacanza per la scuola) il nostro Gigino, frugando nell'armadio di guardaroba, gli venne fatto di trovare un vecchio cappello di felpa, tutto bianco dalla polvere. Era un vecchio cappello del suo babbo. Tutto allegro, come se avesse trovato un tesoro, se lo portò via di sotterfugio; e ritiratosi nella sua camera, si pose a spazzolarlo e a strigliarlo, come se fosse stato un cavallo. Quel povero cappello in alcuni punti era diventato bianchiccio a cagione del pelo andato via: ma Gigino, senza perdersi d'animo, vi rimediò subito, e presa la boccettina dell'inchiostro, restituì alla felpa del cappello il suo bellissimo color morato. Poi se lo pose in testa: ma il cappello era così largo, che gli calava fino al principio del naso. Gigino non se ne dette per inteso: e andandosi a guardare nello specchio, cominciò a dire gongolando dalla gioia: "Ecco qui ... non sono più il medesimo: paio proprio un altro ... neanche la mamma mi riconoscerebbe! ... Bisogna convenire che il cappello a tuba è quello che fa parere uomini ... Se gli uomini portassero i berretti, come noi, sarebbero tanti ragazzi ... Che cosa pagherei di farmi vedere con questo cappello dai miei compagni di scuola! ... Chi lo sa come m'invidierebbero! ... E il maestro? ... Scommetto che, se andassi a scuola con questo cappello, anche il maestro avrebbe un po' di soggezione di me ... Oh! che bell'idea! ... ". Detto fatto, Gigino ebbe lì per lì una bellissima idea. Levatosi il cappello, corse da sua madre e le disse: "Ti contenti, mamma, che vada qui dal cartolaro, sulla cantonata, per comprare un quinternino di carta?" "Mi prometti di tornar subito?" "In un lampo." "E non ti fermare dinanzi alle vetrine delle botteghe." "Che mi credi un ragazzo?" E senza stare a dir altro, Gigino ritornò in camera; e dopo due minuti era giù in mezzo alla strada, con in testa il suo bellissimo cappello a tuba, ritinto a nuovo. La gente si voltava a guardarlo, e rideva: ma lui si pavoneggiava ed era contento come una pasqua. Per altro le contentezze in questo mondo durano poco: tant'è vero che prima di arrivare alla bottega del cartolaro, il nostro Gigino incontrò due monelli di strada, che incominciarono a girargli d'intorno e a fargli delle grandi riverenze e dei grandi salamelecchi, gridando con quanto fiato avevano in gola: "Sor Dottore, buon giorno a lei! ... Ben arrivato sor Dottore!" Altri monelli sopraggiunsero strillando: "Guarda che bel Cappellone! ... Sor Cappellone, la si rigiri! ... Evviva Cappellone! ... ". E lì grandi risate, urli, fischi, un baccano indiavolato, da levar di cervello. Il povero Gigino, che avrebbe pagato Dio sa che cosa per aver le ali come un uccello e tornarsene volando a casa dalla sua mamma, si provò più volte a farsi largo e a svignarsela, ma i monelli, riunitisi in cerchio, gli chiudevano ogni via di salvezza. "Mi pare una bella porcheria!" gridò piangendo. "Io vado per i fatti miei, e non do noia a nessuno ... e non voglio che nessuno dia noia a me ... " "Bravo Cappellone, urlò un ragazzaccio, più sbarazzino degli altri. Bravo Cappellone! ... tu ragioni meglio d'un libro stampato ... e meriti la mancia." E nel dir così, gli diè sul cappello un colpo così screanzato, che il cocuzzolo volò via di netto, e il povero Gigino rimase con la sola tesa penzoloni intorno alla testa. Figuratevi lo scoppio delle risate! Appena tornato a casa, il nostro amico si chiuse in camera per bagnarsi con l'acqua fresca un bel graffio sul naso, raccapezzato in mezzo a quel gran parapiglia.

A sentir lui, era sicurissimo di uscir vittorioso: ma invece, come suol dirsi, rimase schiacciato. Credete forse che se ne accorasse? Nemmeno per sogno. Anzi, quando il babbo e la mamma lo rimproverarono per aver fatto una meschina figura e per aver perduto inutilmente un anno di scuola, volete sapere come rispose? "Che cosa fa un anno di più o un anno di meno? Sono forse un vecchio? Ho appena nove anni, e non mi manca il tempo per ricattarmi." Sissignori! Quel monello, quando era spinto dalla vanità di vestirsi da giovinotto, si cresceva gli anni a manciate: quando poi voleva scusarsi della poca voglia di studiare, allora, a lasciarlo discorrere, ridiventava un bambino di nove o dieci anni appena. Per altro, trovandosi qualche volta solo, andava rimuginando col pensiero la storia burrascosa del famoso cappello a tuba, la risata delle galline per il suo golettone inamidato, gli scapaccioni avuti dal Biondo, sebbene il Biondo non sapesse la scherma, la cascata da cavallo con l'accompagnamento d'un bel corno in mezzo alla testa, e le fumate di quel sigaro traditore, che lo aveva costretto a fare i gattini ... modo pulito per non dire che lo aveva costretto a rimetter fuori alla luce del sole tutta la colazione divorata con tanto gusto poche ore prima. E ripensando a tutte queste cose, e facendo nella sua testina un piccolo calcolo a mezz'aria, venne finalmente a capacitarsi che questa vanità di atteggiarsi a giovinotto prima del tempo, gli aveva fruttato più dispiaceri, che vere consolazioni di amor proprio soddisfatto. E giurò sul serio di voler mutar vita e di rassegnarsi oramai a rimaner ragazzo fino a tanto che il calendario non gli avesse regalato qualche anno di più. E mantenne il giuramento per parecchi mesi. Ebbe in questo periodo di prova molte tentazioni: ma riuscì a spuntarle, e rimase sempre padrone del campo. Ma purtroppo una sera ... Vi racconterò quest'ultima disgrazia di Gigino, ma ve la racconterò con parole quasi allegre per non farvi piangere. Una sera, in casa sua, c'era festa da ballo. Gigino, non volendo sfigurare di fronte agli altri, andò per tempo a chiudersi in camera: e lì si pettinò, si lisciò, e si agghindò, come un vero figurino di Parigi. Aveva una bella camicia bianca, col goletto rovesciato, e una giacchettina di panno nero, che gli tornava a pennello. Quando sentì che il pianoforte accennava i primi preludi della polca e della marzurka, corse subito ... ma prima di entrare in sala, fece capolino alla porta e vide ... Vide un brulichio di cravatte bianche e di giubbe a coda di rondine. La giubba a coda di rondine era stata sempre la sua gran passione, il suo sogno dorato. Prova ne sia che una volta, essendo venuto il sarto a riportargli una giacchettina di velluto, gli domandò in tutta segretezza: "Scusi: a questa giacchettina non si potrebbero attaccare di dietro due falde?". "Volendo, si può far tutte: ma le pare che la giubba sia un vestito adattato per i ragazzi della sua età?" "Quanti anni bisogna avere per mettersi la giubba?" "Per lo meno, diciotto o vent'anni." "Mi pare una bella prepotenza! Dunque, perché siamo ragazzi, dovremo sempre vestire a modo degli altri? ... " "Arrivedella sor Gigino." E il sarto se ne andò scrollando il capo e mordendosi i baffi. La sera della festa da ballo, il nostro amico sentendosi rinfocolare la passione per la giubba, almanaccò col suo cervellino di grillo questo bellissimo ragionamento: "Se mi mettessi la giubba del mio fratello Augusto? ... Augusto è a Roma ... e fino a lunedì non ritorna. La sua giubba mi torna benissimo ... un po' larga, se vogliamo, un po' lunga ... ma in mezzo a quella folla di ballerini e di ballerine, chi se ne avvede?". E lì, fatto un animo risoluto, entrò nella camera del fratello, prese la giubba e se la infilò. Figuratevi quando fece la sua comparsa in sala! Scoppiò una risata, che non finiva più. Ridevano tutti: anche il pianoforte. Una signorina, fra le altre, rise tanto e poi tanto, che venne presa da un singhiozzo convulso, e fu portata fuori della sala quasi svenuta. Allora nacque un mezzo scompiglio. Il pianoforte smesse di suonare: le coppie che ballavano, si sciolsero: la quadriglia rimase a mezzo, e tutti si affollarono per conoscere la causa di quello svenimento. "Povera giovinetta! Ha riso troppo! e il troppo ridere qualche volta fa male!", dicevano alcuni. "E il motivo di quel riso convulso?" domandavano altri. "La giubba del sor Gigino." "Vediamola questa famosa giubba." "Vediamola davvero." E lì dintorno a Gigino, il quale impermalito di far da zimbello ai curiosi, dètte in uno scoppio di pianto e fuggì dalla sala come un gatto frustato. Da quella sera in poi, Gigino, messo il capo a partito, si liberò dalla ridicola passione di vestirsi a uso giovinotto , prima del tempo. E fece bene: perché i ragazzi, vestiti da ragazzi, figurano molto più di quel marmocchi, che hanno la pretesa di mascherarsi da omini anticipati.

Quando furono alla distanza di quattrocento metri si voltarono a guardare, e videro Leoncino, presso la macchia, che tirava bastonate a destra e sinistra, urlando come un tacchino spaventato. Questa lotta disperata durò un buon quarto d'ora. Alla fine il valoroso caporale, appoggiatosi il bastone sulla spalla a uso fucile, tutto glorioso e trionfante tornò indietro a raggiungere i suoi compagni, i quali gli si affollarono subito dintorno, ansiosi di domandargli: "Dunque? Come è andata a finire?". "Bene." "Ti ha graffiato? ti ha morso?" "Si è provata due volte a prendermi il bastone coi denti per inghiottirlo." "L'hai ammazzata?" "Mi è fuggita sul più bello ... ma è fuggita in uno stato da far pietà ... se campa fino a domani è un miracolo." A questo racconto, i cinque ragazzi si erano tanto riscaldati, che non potendo più frenare il loro entusiasmo, saltarono al collo del cugino, lo abbracciarono, gli strinsero la mano, gli fecero mille carezze, Arnolfo volle dargli perfino un gran bacio. Arrivati a casa, come è facile immaginarselo, andarono di corsa dal babbo per raccontargli la gran prova di coraggio che aveva dato Leoncino, combattendo a corpo a corpo con una terribile volpe che pareva un leone. Leoncino, sentendo tutte queste lodi, non capiva più nella pelle dalla consolazione: e già si figurava di aver riconquistato il titolo di generale, la sciabola coll'impugnatura dorata, le spalline color dello zafferano e il berretto con quella striscia bianca, che luccicava come un gallone d'argento. Quand'ecco che sul più bello entrò in sala la serva, annunziando che c'era Tonio, il guardaboschi, il quale desiderava di vedere il signor Leoncino. "Fatelo passar qui" disse lo zio Giandomenico. E di fatti il guardaboschi si presentò, tenendo il suo cappello in mano e portando sulla spalla una volpe impagliata, piena di ammaccature e ridotta in cattivissimo stato. "Che cosa vuoi, Michele?", domandò lo zio. "Dirò, padrone lustrissimo: stamani ho regalato questa volpe al sor Leoncino, che l'ha presa col dire che l'avrebbe portata alla villa ... ma viceversa poi, l'ho ritrovata per caso nascosta nella macchia di Tentennino ... " "Dove?", gridarono i ragazzi a una voce. "Nella macchia di Tentennino? ... " E nel dir così, si scambiarono fra loro un'occhiata sbarazzina e maligna, che tradotta in lingua parlata voleva dire: "Ora abbiamo capito tutto! ... ". Il povero caporal Leoncino, vedendosi oramai scoperto, diventò di tutti i colori, come i segnali delle strade ferrate. "E guardi, padron lustrissimo", continuò il guardaboschi, "come me l'hanno conciata questa povera bestia! ... Se sapessi chi s'è preso il divertimento di bastonarla a questo modo, pover'a lui! ... " Leoncino, che aveva le lacrime in pelle in pelle, uscì di corsa dalla stanza e andò a rinchiudersi in camera. Venuta la sera, disse allo zio che voleva tornarsene subito a casa sua, dal suo babbo e dalla sua mamma. Lo zio Giandomenico si provò a sconsigliarlo e a farlo restare ancora per qualche giorno: ma non ci fu verso. Mentre era sul punto di salire in tranvai, i suoi cugini (sempre un po' monelli), lo baciarono e gli dissero addio: ma intanto gli bisbigliarono in un orecchio: "Continua a combattere con le volpi impagliate: ma ricordati qualche volta il proverbio che dice: "Chi non ha coraggio, non vada alla guerra"".

Ogni volta che Cesarino andava o tornava dalla scuola, aveva preso il vizio di fermarsi a tutte le cantonate per leggere i cartelli dei teatri. Questa era la sua grande passione. E se per caso i cartelli annunziavano qualche commedia tutta da ridere , allora Cesarino cominciava subito a spappolarsi dalle risa, tale e quale come se si fosse trovato in teatro. Un giorno (sul finire di Carnevale) gli venne fatto di leggere un gran cartellone che diceva così: R. TEATRO PAGLIANO Domenica sera gran Festa di Ballo con ingresso alle Maschere. La mascherata che sarà giudicata più bella e più sfarzosa Riceverà un premio di Cento lire. Appena letto quel cartello, il nostro Cesare non ebbe più bene di sé. Nel tornare a casa, andava fantasticando: "Se quelle cento lire le potessi vincere io! ... Che bel signore che diventerei! ... Metterei su carrozza e cavalli! ... comprerei una bella villa con tanti poderi ... e poi, tutti i quattrini che mi rimanessero in tasca, li darei alla mamma per le spese di casa ... Eppure! ... se avessi coraggio, tenterei davvero la fortuna! Chi mi dice che la mascherata inventata da me non riuscisse la più bella di tutte? ... Per inventare una mascherata non ci vuol poi un gran talento! ... Non è come il latino o la grammatica, ché quelle sono due cose uggiose, e per impararle bisogna essere sgobboni ... Qui basta avere un po' di genio! A buon conto, non bisogna dir nulla a nessuno; specialmente a' miei fratelli. Guai se Orazio e Pierino sapessero qualche cosa!". Nel dir così, si trovò quasi senza avvedersene alla porta di casa, e sonò il campanello. Orazio, per l'appunto il suo fratello Orazio, fu quello che aprì. "Giusto te!", disse Cesare con aria di gran mistero appena entrato in casa. "Che t'hanno fatto?" "Nulla ... Ho detto così per ischerzo." "Eppure, a vederti in viso, si direbbe ... " "Nulla, ti ripeto, nulla. Se fossi matto a confidarmi con te! ... " "Hai forse qualche segreto?" "Vedi! Se te lo dicessi, saresti capacissimo di andarlo subito a raccontare alla mamma. La mascherata la farò ... oramai ho detto di farla ... e la farò: ma te e Tonino non dovete saperne il gran nulla." "Quale mascherata?" "Quella per andare domenica al teatro Pagliano, a vincere il premio ... " "E il premio sarebbe?" "Cento lire alla più bella maschera della serata. Non lo dire a nessuno ... ma la più bella maschera sarò io ... capisci? ... " "Allora voglio mascherarmi anch'io ... " "Ma zitto, per carità: e non dir nulla a nessuno: specialmente a Pierino, che anderebbe subito a rifischiarlo alla mamma." "Ti pare che voglia dirlo a Pierino? Piuttosto mi taglierei la lingua ... Eccolo! ... è lui!" In quel mentre entrò nella stanza, ballando e saltando, un ragazzetto di circa nove anni. Era Pierino, il minore de' tre fratelli: il quale, senza perder tempo, gridò strillando come una calandra: "Ditemi, ragazzi, si fa a mosca-cieca?". "Abbiamo altro per la testa", rispose Cesare. "Giusto a mosca-cieca!", soggiunse Orazio. Pierino guardò maravigliato i suoi fratelli: e poi domandò: "Che vi è accaduto qualche disgrazia?." "Finiscila, gua', giuccherello!", disse Orazio. "O dunque? ... " "Tu sei un gran curioso! E a farlo apposta non devi saper nulla! ... " "Nulla! il gran nulla! ... " "E poi, siamo giusti, le mascherate non sono cose per te." "Non sono cose da ragazzucci della tua età." "Che vuoi che il premio lo diano a te?" "Sarebbe dato benino, e non canzono!" "Ma di che premio parlate?" "Delle cento lire, che daranno domenica sera al teatro Pagliano ... " "A chi le daranno? ... ", domandò Pierino, spalancando gli occhi. "A te no di certo. Ma forse a me ... ", disse Cesare. "E a me, soggiunse Orazio." "Che andate in maschera, voialtri?" "Lo dicono." "E dove andate?" "Al teatro Pagliano." "E quando?" "Domenica sera." "Oh! bene! oh bene!", gridò Pierino. "Allora ci vengo anch'io." "Ma zitto! E non dir nulla a nessuno: specialmente alla mamma." "Per chi mi avete preso? per una spia?" "A proposito", disse Cesare, "come ci dovremo mascherare?" "Io non lo so", disse Pierino. "Neanch'io", soggiunse Orazio. "Silenzio tutti! M'è venuta in capo una bella idea! Ma proprio bella ... " "Sentiamola." "Ditemi, ragazzi; le volete davvero queste cento lire?" "A me mi pare che tu ci canzoni ... " "Io non canzono nessuno. Le volete, sì o no, queste cento lire?" "Io son contento se me ne dai quaranta", disse Pierino, ma le voglio tutte in soldi, perché le mi fanno più figura." "Se volete queste cento lire, date retta a quel che vi dico. Domenica sera ci dobbiamo mascherare tutti e tre, e la nostra mascherata deve somigliare a quella stampa colorita, che portò a casa l'altro giorno lo zio Eugenio ... " "Quale stampa? ... ", domandò Orazio. "Quella che rappresenta la famiglia del gobbo Rigoletto." "E chi è questo Rigoletto?", chiese Pierino. "Non lo conosci? Gli è quel gobbo rifatto in musica dal maestro Verdi ... quello che dice: La donna è mobile Col fiume a letto ... " "S'è capito, s'è capito", disse Orazio. "Io, com'è naturale", riprese Cesare, "mi vestirò da Re di Francia, e tu ... " "Mi dispiace di non essere gobbo", disse Orazio, "perché mi vestirei tanto volentieri da Rigoletto!" "Al gobbo ti ci penso io: lascia fare a me ... " "E io?", domandò Pierino. "Tu ti vestirai da Gilda, figliola di Rigoletto." "Io da figliola? Io per tua regola non faccio da figliola a nessuno: sono nato uomo e voglio mascherarmi da uomo: ne convieni?" "Benissimo: vuol dire che invece di vestirti da figliola ti vestirai da figliolo di Rigoletto ... Che vuoi che Rigoletto non avesse in famiglia nemmeno un maschio?" "Così mi piace e ci sto." E i tre fratelli, contenti di questa bellissima trovata, cominciarono a ballare in tondo per la stanza, come se avessero già guadagnato le cento lire del premio. Quand'ecco che Pierino, fermandosi tutt'a un tratto, domandò a' suoi fratelli: "Scusate, ragazzi, e i quattrini per comprare i vestiti da maschera dove sono?". Nessuno rispose. E i quattrini per entrare in teatro, chi ce li da? La solita risposta.

ARABELLA

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Ferruccio prese la via della Guastalla, quasi deserta in quell'ora, e guidato dalla riga dei lampioni, che mettevano un filo luminoso nel buio del suo cervello sconvolto e annuvolato, venne al ponte di porta Vittoria, traversò la piazza spopolata del Verziere, provando l'impressione di chi arriva per la prima volta in una città straniera, o meglio ancora di un prigioniero che ignoti nemici trascinano a una misteriosa destinazione. Sperò di trovare il signor Tognino al caffè Martini in piazza della Scala, dove convengono la sera gli uomini d'affari a consultare gli ultimi telegrammi di borsa, e incontrò per caso il Botola, un brutto vecchio mal vestito che da qualche tempo veniva nello studio a discorrere in gran segretezza col padrone. Il pignoratario lo chiamò e cominciò a fargli un gran discorso a proposito del Mornigani e d'una villa sul lago di Como... ma Ferruccio non aveva il capo a queste cose. Lo piantò, traversò di nuovo la piazza della Scala, e per la via di Santa Margherita venne verso la via Torino. Era il momento del maggior movimento. I cittadini, approfittando delle prime giornate di primavera, uscivano a passeggiare in mezzo allo splendore delle loro belle botteghe, sotto un cielo fatto chiaro e bianco dalla luna che lentamente si distrigava dai pizzi del Duomo. Passeggiavano, affollavano i portici e la Galleria, riempivano i caffè colla pace di chi ha guadagnato il suo riposo. Ferruccio traversò la piazza del Duomo quasi a corsa. In tre minuti fu in via Torino a chiedere del principale. "Lui non c'è," disse la portinaia "è andato in campagna, credo alle Cascine." "C'è la signora?" domandò esitando. "Lei sì, ma non so se a quest'ora può ricevere. Provi." Il ragazzo cominciò a montare le scale a due gradini per volta. Arabella non era una conoscenza nuova per il figliuolo del Berretta e anche lei avrebbe dovuto ricordarsi del Ferruccio del portinaio che l'aveva accompagnata molte volte bambina alla scuola delle monache, quando veniva in casa sua in Carrobbio a portare il pane e il latte della colazione. Ma la signora, che non poneva mai piede nell'ammezzato, seppe solamente molto tardi che ci fosse uno studio in casa, e riconobbe il giovinetto la prima volta, quando presso le feste di Natale venne a raccomandare la povera Stella. Incontratisi, avevano rinnovata la conoscenza. Parlarono di vivi e di morti o per meglio dire parlò lei, perché in quanto a lui, preso dalla soggezione e dal rispetto per la bella signora, non aveva saputo che rispondere sissignora e nossignora. La padroncina aveva promesso di raccomandarlo a suo suocero e forse Ferruccio dovette a lei se il principale gli aumentò lo stipendio alla fine dell'anno. Nei primi mesi del matrimonio Ferruccio aveva fatto un gran discorrere colle zie dei preparativi, della bellezza e della bontà della sposina, poi a un tratto cessò di parlarne e non la nominò più come se fosse morta. Che cosa era accaduto? Per quanto egli guardasse dentro di sé non gli riusciva di vederne il motivo; ma tutte le volte che il discorso cadeva naturalmente o era condotto da altri a nominare la signora Arabella, il ragazzo (e a vent'anni egli si sentiva un vero ragazzo) procurava di uscirne presto, o di dargli un'altra piega, qualche volta le fiamme gli uscivano dal viso, o socchiudeva gli occhi, come fanno certi timorati di Dio, quando sono costretti a guardare in faccia a una bella creatura. Da solo a solo, specialmente di notte, quando si svegliava in mezzo a un sogno lusinghiero, si compiaceva di contemplarla nel buio, a occhi aperti. Capiva che era una sciocchezza, una baia, un passatempo poetico, ma nella sua povertà e nella sua miseria di spirito questa bella immagine signorile teneva il posto che una Madonna dipinta tiene sopra un povero altare di campagna: finché si abituò a riporre la bella visione tra le squallide idee della sua vita di mortificazioni e di stenti con quella devozione con cui la Nunziadina teneva riguardata nelle logore pagine della sua Filotea una splendida immagine di pizzo a fondo d'oro, a cui dava ogni tanto un'occhiata per far belli gli occhi. Perché l'avrebbe cacciata via questa dolce seduzione che lo proteggeva così bene contro le tentazioni e le disperazioni volgari? Altri giovanotti della sua età, che hanno denari da spendere, e anche quelli che non ne hanno, talvolta cercano goder la vita nella compagnia di donne senza onore, e consumano la salute e i quattrini in vizi e in passatempi vergognosi. Egli, senza credere con questo di far male, compiacevasi del suo segreto, se lo portava nel cuore misteriosamente custodito, godeva insomma castamente di un bene, che non rubava a nessuno, e che nessuno gli poteva rubare, perché veniva tutto da lui e, dirò così, dai suoi risparmi morali e dalle sue mortificazioni. Questo primo fuoco del giovine commesso si sarebbe spento a poco a poco da sé, divorato da qualche altro fuoco più naturale, se la guerra spietata mossa dai diseredati e dai parenti alla famiglia Maccagno non avesse trascinato anche lui a dividere le ansie e i patimenti della poverina. Gli ignobili insulti che la donnaccia aveva lanciato contro la signora, furono per Ferruccio peggio che una manata di fango negli occhi. In principio fu una fortuna ch'egli non avesse spirito di reagire. Forse si sarebbe compromesso troppo. Ma la persecuzione non fece che ribadire e dare consistenza di patimento a un sentimento, a cui non aveva ancora trovato un nome. Fu questo patimento che, traboccando a suo dispetto, gli trasse un fiume di lagrime il giorno che aiutò a portare la povera signora svenuta su per le scale. Fu questo patimento o spavento che lo spinse e lo fece correre fino alle Cascine in cerca della signora Beatrice e che lo persuase a rimanere in una casa, dove ormai capiva di non aver più nulla da guadagnare. Ma improvvisamente, ecco, sentivasi ghermito anche lui dal destino che perseguitava buoni e cattivi. Una moneta d'oro può per qualche tempo coprire una piccola macchia d'olio: ma l'olio è più forte dell'oro. Così il male, come la macchia d'olio, dilatandosi, usciva a deturpare le anime più innocenti. Era orribile il pensiero che, per salvare la fama e la ricchezza d'un prepotente, suo padre dovesse andare in prigione! Ed egli aveva fino a ieri mangiato il pane di questo prepotente! Non capiva ancora bene, troppe furie uscivano in una volta dal suo cuore in tempesta, ma sentiva dal suo stesso spavento che in questa orribile guerra d'interessi e di prepotenze era in giuoco la vita di qualcuno. Ansante e strabuffato si attaccò al cordone del campanello e dette una forte strappata. Venne ad aprire l'Augusta che, vedendolo così slavato e stravolto, domandò subito che cosa fosse accaduto. "Ho bisogno di parlare alla signora Arabella." "Una disgrazia? venga avanti, vado a vedere se è ancora su. Di solito si ritira presto." La donna condusse il giovane nel salotto da pranzo, collocò una lampada a globo di vetro sul caminetto e andò ad avvertire la signora. In piedi cogli occhi fissi al globo luminoso, Ferruccio rimase solo, ancora ansante e affannato per la corsa fatta, travolto da una vertigine di tutti i sensi, in cui le molte e torbide sensazioni precipitarono in un affanno solo profondo e straziante, che assorbì tutte le forze della sua vita. Si pentiva d'essere venuto a confessare la sue vergogne alla signora, come se temesse di rompere colle sue mani un delicato e prezioso incanto coll'accusare sé, figlio di un uomo cercato dalla polizia; ma nello stesso tempo sentiva che non si sarebbe mosso di lì, prima d'aver parlato a lei, la sola in cui c'era a sperare qualche cosa di bene. E stava così assorto, le mani in mano, fermo sulle gambe indolenzite, assopito nella luce della lampada, vagando in una confusione oscura d'idee e di affetti, quando una voce lo scosse. Non si era neanche accorto di lei.

LE DUE MARIANNE - I CONIUGI SPAZZOLETTI

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

La mattina seguente col treno di Arona arrivarono a Musocco il cavalier Spazzoletti e la sora Ballanzini. Quello cadde nelle braccia di Margherita esclamando: "Poverina, poverina...". Questa, dopo che il marito l'ebbe aiutata a uscire e a discendere dal vagone, lo prese per un orecchio e gli disse: "Mi dirai tutto, mostro". Era naturale che fra gli Spazzoletti e i Ballanzini nascesse una certa amicizia. Quel giorno pranzarono insieme a Musocco. Dissipati poi tutti i dubbi della sora Ballanzini, l'amicizia continuò anche in seguito. Nove mesi dopo, i Ballanzini ricevevano dal cavaliere Spazzoletti un telegramma con queste parole: " Maschio, mandare balia ".

IL FIASCO DEL MAESTRO Chieco (Racconti musicali)

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Forse perdona, forse perdona il Signore a lui, non a te, mai.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675993
Garibaldi, Giuseppe 6 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
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ad onta di tante circostanze a noi sfavorevoli. A Mentana, io ho veduto i mercenari fuggire colle baionette alle reni dai nostri catenacci,

A Mentana, per un’ora, i volontari hanno potuto passeggiare padroni del campo di battaglia sopra mucchi di cadaveri nemici. Ma a Mentana dopo l’eroismo di tanti prodi caduti e mutilati sul campo si udì risuonare in mezzo ad una folla di traditori codardi la voce «duemila francesi hanno attaccato la retroguardia!» e quella voce divenne persistente, e quella voce ebbe colore di un fatto positivo talché a me stesso fu assicurato da gente che veritiera mi sembrava, coll’aggiungervi: «gli ho veduti». Maledizione! Fino a che punto può giungere la perversità umana! e quale lezione per l’italiana gioventù! Quei vittoriosi militi piegano in ritirata!... né odono più la rauca mia voce e quella dei prodi miei ufficiali!... Ricordiamola questa recente storia: poi ditemi come si fa a non intingere la penna nel fiele, a non temperarla col pugnale!

ove si trova un paese più favorito dalla natura: con un cielo unico, un clima stupendo, produzioni variatissime ed eccellenti, popolazioni vivaci e d’intelligenza non superata da altri popoli, soldati che sarebbero senza dubbio i primi del mondo, se fossero ben diretti, marinari non secondi a nessuno? E tutti questi vantaggi, tutti questi favori della natura sono annientati dalla connivenza, dal mutuo accordo de’ preti con un pessimo governo. Voi trovate miseria, ignoranza e debolezza, umiliazione allo straniero ove dovreste trovare abbondanza, sapienza, forza e fronte alta contro ai prepotenti. Un governo avvilito, impopolare, invece di organizzare un esercito nazionale che potrebbe stare a fronte dei primi eserciti del mondo si contenta, agglomerando carabinieri, a guardie di sicurezza e di finanza di ridurre l’arte di governo a sprecare il denaro della nazione in spaventose spese segrete. Una marina che potrebbe gareggiare colle più floride è ridotta al punto da far compassione per non volerla mettere in mano a gente onesta e capace. E Marina ed Esercito se ne udite gli ufficiali: non sono capaci a far la guerra a chicchessia e solo si adoprano a reprimere le aspirazioni nazionali, ad appoggiare gli atti repressivi e liberticidi del governo.

Nella stazione di Monterotondo dove dopo il glorioso assalto del venticinque Ottobre giacevano tre feriti in attesa del convoglio che li trasportasse a Terni giunsero i soldati del papa e, degni seguaci degli inquisitori, si divertirono a trucidare quegli infelici nostri compagni a colpi di baionetta e col calcio dei fucili.

Io crederei, Beatissimo Padre, che a rimunerare in qualche modo la fede ardente del sig. Duca, V. S. dovesse avere la benignità di conferire o a lui, o a suo fratello Don Rodrigo canonico della cattedrale di Tolosa, la sacra porpora la quale egli si ha già acquistato con le sue escursioni tingendola nel sangue maledetto di quegli sciagurati. Basta che in questi paesi si senta il suo nome perché gli eretici Albigesi tremino da capo a piedi. Il suo costume è di andare per le corte spacciando in un sol colpo i più arrabbiati. Quanti gliene capitano nelle mani costringe a professare la nostra fede con la formola ingiunta da V. S. Se ricusano, li fa battere ben bene mentre che si accende il rogo.

Quando si pensa all’unificazione di questa nostra Italia ed a coloro che l’ebbero a reggere sulla spinosa via che ella percorse, e che percorre ancora, non si può a meno d’inchinarsi davanti ai decreti della provvidenza che veramente volle aiutarla fino a costituirsi in nazione. Io sovente, meditando sulla sorte di questa bella, grande ed infelice nostra patria, nell’immaginazione mia, me l’ho figurata: un carro tirato avanti a stento dalla parte generosa del popolo cui è unica meta il bene generale e che segue la sua stella provvidenziale come faro salvatore. Poi, addietro attaccata, immaginai la turba malvagia de’ reggitori coll’immensa coda de’ loro satelliti scapigliati e spossati ma pure disperatamente intesi a far forza per trascinare indietro il veicolo dello stato anche a rischio d’infrangerlo. Il popolo, impoverito, umiliato da quella ciurmaglia grassa e nuotante nel vizio si ferma pacato, tranquillo nelle sue miserie, sgombra volonteroso gli ostacoli accumulati sulla sua via di redenzione e procede e procede ingenuamente fiducioso in un avvenire di riparazione. Riparazione!? e da chi verrà la riparazione? Povero popolo!... dai restauratori del clericume, del gesuitismo, dell’impostura, ricondotti nel tuo seno, a spese delle tue sostanze per mantenerti nell’ignoranza e nella miseria? Ai molti mezzi di corruzione impiegati dai potenti per tener in servaggio le popolazioni si aggiunge oggi il più scellerato, quello della setta nera, moltiforme, ricca, sostenuta dalla forza della nazione in mani infami. E questa è la riparazione che tu aspettavi, popolo infelice! paria!, ilota delle nazioni! Riparazione!? Da chi riparazione? da chi s’inginocchia ogni giorno, ogni ora, a piedi del sacerdozio della menzogna? Intanto uno degli agenti di cotesto sacerdozio camminava a capo basso attanagliato nei polsi da Orazio e da Attilio mentre Muzio apriva la via, non facile ad aprirsi, in mezzo a quella moltitudine. Finalmente giunsero i quattro in un’osteria situata in una viuzza che metteva nella Riva degli Schiavoni.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676099
Ghislanzoni, Antonio 6 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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gridano a tal punto molte voci. Gli assembrati si levano come un sol uomo, e iportabandiere del giornalismo cominciano a sfilare dinanzi al padiglione. - Sai tu - chiede a Foscolo l'Alfieri - a quanti ascendano i nuovi organi di mistificazione che oggi si istituirono a Milano per la bisogna delle elezioni? ... - Da seicento ad ottocento, salvo errore. - Non meno di duemila ... Ma il rullo dei tamburi, il fragore delle tube egizie, e gli urli dei banditori di giornalismo ingrossati dai saxo-pelitti(33)

E l'Albani, compiuto il mese di dilazione, superata la terribile prova della lontananza e dell'isolamento, tornava a Milano più innamorato che mai, coll'anima piena di entusiasmi e di terrori. In quel mese egli aveva percorse le principali città dell'Unione, soffermandosi di preferenza a Berlino, a Pietroburgo, a Parigi, a Pest, dove era stato chiamato per dirigervi i suoi sorprendenti meccanismi. Negli ultimi giorni di dilazione, egli aveva provate quella febbre tormentosa della impazienza che, all'avvicinarsi di una catastrofe desiderata, sviluppa nei temperamenti irritabili i sintomi della follia. Per illudere sè stesso, per placare quelle ansie affannose, egli aveva anticipata di ventiquattro ore la sua partenza da Pest, servendosi di quei mezzi di trasporto che erano i meno veloci, e come tali, accordati gratuitamente dagli statuti della Unione alla classe dei nullabbienti. Era venuto da Pest a Parigi colla ferrovia a pressione atmosferica; da Parigi a Saint Jean de Maurienne colla Messaggeria pneumatica dei Bonafous; e da ultimo aveva sorpassato il Cenisio colla locomotiva ertoascendente della Società Goudar e Blondeau, una locomotiva che aveva fatto obliare il meraviglioso traforo praticato fino dal secolo precedente nelle viscere del monte.(17)

. - Numero quattro: esaminare i tesseri dei singoli padroni di gondole, portanti le note giornaliere dal dieci settembre fino a questo giorno, e riferire l'itinerario di ciascun conduttore. Ciascun subalterno, appena scoccato l'ordine, scompariva come fantasma, gli altri rimanevano in sentinella alle porte ad attendere i cenni del Capo. Dopo un quarto d'ora di attesa, il numero due entrò nella sala, e depose sul pulpito del Torresani ventiquattro cartoni, sui quali era disegnata la nave volante. Il Capo di Sorveglianza gettò una rapida occhiata sulle fotografie, indi rispose: - Numero cinque: prendete una copia di questo disegno, e compite sollecitamente l'ispezione di raffronto. - Numero sei: portate quest'altra copia nella sala di chimica onde sia ponderata e decomposta. - Numero sette: a voi quest'altro cartone! fate l'inventario dei mobili, degli attrezzi, degli accessorii che appariscono alla superficie della nave. - Numero otto: verificate se da qualche finestra o pertugio apparisce alcun frammento di figura umana, una testa, un naso, un orecchio, una gamba, non importa! riportatemi quei frammenti centuplicati di proporzioni. Per alcuni minuti, fu nella sala un andirivieni di subalterni. Il Torresani, dall'alto del suo pulpito, non cessava di impartire ordini a questi e a quelli. I suoi occhi grigi mandavano faville. In termine di mezz'ora, i documenti più essenziali erano raccolti. Il Torresani li esaminava, li confrontava con feroce compiacenza. Le sue labbra, frattanto, non cessavano di brontolare una specie di monologo, dal quale spiccavano tratto tratto degli ordini, delle interrogazioni, e più spesso dei grugniti di piacere. - Voi dicevate, subalterno numero uno che i vostri duecento magnetizzatori hanno durato molta fatica a trattenere la nave per dieci minuti, vuol dire che abbiamo delle volontà deboli fors'anche dei contrari, dei traditori, che mangiano la pensione del Governo e servono ai cospiratori ... Non importa ... I cinque minuti hanno bastato al Duroni per darmi delle buone fotografie ... La nave è di costruzione americana, porta il numero 2724, probabilmente un numero falso ... Nel gran catalogo delle navi volanti ne abbiamo trovato una perfettamente identica a questa ... Lo stesso disegno ... la stessa forza ... lo stesso peso ... non c'è dubbio ... Ah! ah! ... Questa nave fu fabbricata a Rio Janeiro dagli industriali Thompson e Stefany ... tre anni sono, e fu venduta al Primate Michelet, il quale a sua volta la cedette al Bonafous pel servizio della retta fra Milano e Pietroburgo. Ah! ... comprendo ... ! I Bonafous, due anni sono, la cedettero ai Calzado, fabbricatori di carte da giuoco a Madrid, poi ... poi ... Dacché i Calzado vennero sfrattati dalla Unione, la nave scomparve per due mesi, quindi fu riveduta e segnalata da parecchi aereoscopi, dapprima a Torino, poi a Napoli, quindi a Parigi, più tardi a Pietroburgo, a Berlino, a Lucerna. Confrontiamo le date di queste apparizioni colla Cronaca criminale delle città nominate ... Ci siamo ... ! Ecco ... ! Sta bene! ... L'avrei indovinato; a Torino una sorpresa notturna alle guardie del tesoro reale; a Napoli una sottrazione di monete antiche al pubblico Museo; a Parigi vincite considerevoli al maccao per parte di un truffatore; a Pietroburgo, a Vienna, a Lucerna altri fatti dell'egual genere ... Dapertutto, l'apparizione di questa nave ha portato la truffa, l'aggressione, il delitto ... Dunque io non mi era ingannato ... Là dentro c'era un nido di briganti, di barattieri, fors'anche di assassini ... E voi, signori uffiziali di magnetismo, non avete avuto forza di trattenerli una mezz'ora, tanto che io potessi ottenere un mandato di arresto eccezionale ... Basta! ... C'è ancora una speranza ... Non tutti quei bricconi saranno partiti colla nave ... può darsi che qualcuno sia rimasto fra noi ... Il Lissoni, proprietario di gondole al quartiere del Macello pubblico, riferisce che uno dei suoi conduttori, il nominato Bigino, per cinque notti consecutive fece delle ascensioni fuori di torno, a fanali spenti. Eh! di là! Numero quattordici! conducetemi tosto il Bigino! Egli è disceso stamattina prima dell'albeggiare; non è improbabile che la sua gondola abbia portato abbasso uno di quei gabbamondo ... E noi lo conosceremo ... perdio! E s'io riesco a pigliar in mano un filo della matassa ... giuro districarla in pochi giorni ... e vi prometto che quella galera di birboni non farà, quindi innanzi, un lungo viaggio! ... Il Torresani accennò col dito a diversi subalterni, i quali immediatamente gli si fecero appresso, per ricevere alcuni ordini segreti. Poco dopo, entrò nella sala il Bigino, conduttore di gondole.

calò a terra presso la porta.

A quell'epoca - parlo del 1977 - l'Unione Europea

Snodò le mani dalla fronte, prese un gran foglio di carta, e in mezzo a quello disegnò con la penna la figura cabalistica del suo concetto: A B R A K A D A B R A A B R A K A D A B R A B R A K A D A B A B R A K A D A A B R A K A D A B R A K A A B R A K A B R A A B R A B A La mente del signore non era punto affaticata dal cozzo di tante idee, di tante ipotesi mal definite e peggio coordinate. Quella rassegna aveva portato il suo frutto. Gli aveva suggerito il modo più ovvio per esprimersi. Egli non cercava di meglio. Vegliò tutta la notte sull'Abrakadabra. Quando il medico e i domestici entrarono, al mattino, nella sala, trovarono il signore seduto al tavolo, cogli occhi fissi alla figura cabalistica, intorno alla quale avea disegnato un laberinto di lineette e di segni misteriosi, un intreccio di circoli e di triangoli bizzarramente collegati; e in quello sfondo egiziano, inverosimili accoppiamenti d'uomini e di belve, di alberi e di case, una nuova generazione di animali e di vegetali sospesi o inchiodati alla periferia di un mondo impossibile. Il medico, che era entrato in punta di piedi, si pose dietro le spalle del signore, e contemplava quegli sgorbi con espressione di pietà. - Non sarebbe tempo di prendere un po' di riposo? - disse il medico a mezza voce, come temesse di produrre una scossa troppo violenta sui nervi dell'amico. Il signore, colpito da quella voce, tracciò rapidamente sul margine superiore del foglio alcune lineette ondeggiate, e volgendosi al medico col sorriso più sereno: «Grazie del buon suggerimento, gli disse! ora che il lavoro è compiuto, posso mettermi a letto col cuore tranquillo. Da dieci mesi non ho mai gustato il bisogno del sonno come in questo momento». Il medico, come era usato di fare ogni mattina, portò la mano al polso del signore, e parve molto sorpreso di trovarlo in piena calma. - Sono guarito! - disse il signore levandosi in piedi - l'Abrakadabra è spiegato ... Esso è qui ... su questo foglio, e quando mi piaccia, io potrò leggerlo all'universo e farlo comprendere a tutti. - Che! ... queste linee? ... questi geroglifici? ... - Sono la storia dell'avvenire, sono la soluzione del grande problema mondiale - disse il signore coll'accento della convinzione più serena. - A rivederci ... domani ... volevo dire ... stassera ... ! ... fa di invitare tutti i nostri conoscenti ... Che tutti prendano parte alla festa! ... Io sono guarito! ... perfettamente guarito! Il signore piegò il foglio, se lo pose in tasca, ed uscì per avviarsi alla sua camera da letto. Il medico e i due domestici stettero parecchi minuti a guardarsi in faccia; né potevano riaversi dalla sorpresa. - Ch'egli sia guarito davvero? - pensò il medico. - Tanto meglio! Io avrò guadagnato della celebrità a buon mercato ... e in pochi anni potrò avere il mio posto alla direzione della Senavra! ... Così va il mondo, e bisogna lasciarlo andare così per il meglio di tutti! Il nostro medico aveva assorbito il sistema filosofico dell'Abrakadabra senz'avvedersene. Per tutta la giornata il signore fu invisibile. I domestici, inquieti, più volte avevano spiato all'uscio della sua camera da letto - nessun rumore, nessun movimento. Il medico, verso tre ore, entrò nella camera. Il signore dormiva profondamente. Gli ordini erano stati eseguiti. Fu preparato un copioso desinare. Il sindaco, il farmacista, il curato, il marescalco, il barbiere ed altri notabili del paese furono invitati. Nessuno mancò all'appello. A sei ore tutti si trovavano nella sala. Il signore entrò festevolmente, strinse la mano di tutti, e accennò ai commensali di sedere. Inesplicabile cangiamento! ... La fisonomia del signore non era più quella del giorno precedente. Pareva ringiovanito. Un raggio di benessere, di felicità, brillava nel suo sguardo, nella candidezza vivace della sua fronte. La callotta turchesca era scomparsa, e i capelli abbondanti e crespi si espandevano intorno alle tempia d'alabastro, scolpite di intelligenza e di bontà. L'abbigliamento era semplice nella sua eleganza. Il soprabito, aperto sul petto, metteva in evidenza il candore irreprovevole dei lini leggermente ombreggiati da una barba tizianesca. Al principiare del pranzo, nessuno parlava. Lo stupore imponeva alle lingue. Ma il signore, con una disinvoltura, con una spigliatezza ammirabile, aperse la conversazione e ridonò la loquela ai commensali. Parlava di tutto. Sfiorava gli argomenti più serii con una leggerezza che toccava l'affettazione. Il curato non poteva darsi pace in udirlo celiare sul tema delle scomuniche e sulle strategie bellicose di monsignore De-Merode. Il farmacista più volte dovette fremere nel vedere il suo Garibaldi degradato al confronto di Cavour, e la reggia di Torino ritenuta più modesta della reggia di Caprera. Il sindaco, che credeva passarsela netta dagli attacchi, sull'ultimo dovette trasalire per una terribile sentenza: i moderati, per trovarsi nel centro dei due partiti estremi, non hanno altro vantaggio che di essere più prossimi alla ghigliottina di questi ed alla forca di quelli. Il signore si divertiva a tormentare i suoi commensali politici con una sequela di proposte contradittorie, di domande equivoche, di sarcasmi, di sofismi provocanti. Egli sorrideva trionfalmente del loro imbarazzo, e tratto tratto lanciava una ironica occhiata al marescalco ed al barbiere, i quali, senza comprendere, aderivano a tutto. - «Essi mangiano e approvano - pensava egli - ecco la maggioranza, il coro di tutti i drammi sociali, il fondo massiccio di tutte le storie». In sul finire del pranzo, per un gusto di rappresaglia naturalissimo a chi si sente umiliato da una eloquenza intrattabile, il curato fece una sortita veramente pretesca, dove il malumore e la stizza spiccavano in tutta buona fede. «A dire il vero ... signor mio - e voi non vi meraviglierete, nè v'offenderete d'una cosa cotanto naturale - c'erano molti in paese ... e anch'io fra questi - vi parlo schiettamente - c'erano molti, che a giudicarvi dalle apparenze esteriori e sopratutto dalla vostra taciturnità ... vi credevano ... - Pazzo ... non è vero? ... - Io non avrei osato dir tanto - proseguì il curato - ma, poiché la signoria vostra ha voluto buttarla fuori netta e schietta - credo inutile temperare l'espressione con dei sinonimi, che presso a poco si equivarrebbero ... - A meraviglia! ... La verità, bisogna aver il coraggio di dirla per intero ... Io fui pazzo - ed il mio ottimo medico potrebbe attestarlo meglio di chicchessia - io fui pazzo pel corso di oltre dieci mesi; e la mia guarigione non data che da poche ore. Io mi era smarrito in un immenso laberinto di idee; io mi esauriva in uno sforzo del pari tormentoso che impotente per trovare ad esse una formola precisa ed evidente all'altrui intelligenza. Io cercava questa formola nelle vostre polemiche, nelle vostre interminabili discussioni. Era il mio torto. Seguendo questo sistema, io non faceva che alimentare la mia pazzia coi riflessi della vostra. Ah! perchè io ricuperassi la mia ragione, perchè io potessi rassicurare la mia coscienza e il mio intelletto, era necessario che l'Abrakadabra si convertisse in un'avvenimento storico - e che io - sull'appoggio di questo avvenimento - potessi dirvi: i pazzi siete voi! - Ma in nome di Dio! - sorse a dire il curato - ci spiegherete voi alla fine cosa sia questo vostro Abrakadabra? ... - L'Abrakadabra - rispose il signore - è la storia perenne del movimento umano riflessa in un'epoca sconosciuta all'universale, in un'epoca avvenire. - Ah! sarei ben curioso di sapere in qual libro voi l'abbiate trovata codesta istoria dell'avvenire! Deve essere un libro raro e preziossimo ... ed io mi terrei ben felice che qualcuno me lo prestasse ... tanto da sbizzarrirmi una mezz'ora nei mondi sconosciuti! - Il libro non è raro, signor curato, ma non cessa di essere prezioso. La natura lo ha impresso nella mente di tutti; sebbene noi abbiamo il torto di leggerlo a rovescio. L'istoria del passato e del presente sono una conseguenza logica dell'istinto umano, che non può mutarsi. Studiate in voi stessi le leggi di questo istinto, e avrete la istoria dell'avvenire. - E voi ... credete ... di conoscere questa storia ... ? - Tanto che, se voi non sapeste leggerla nel vostro libro, potrei prestarvi il mio, perfettamente trascritto e corredato di commenti. Il signore parlava con una calma, con una convinzione, che eccitava all'ultimo grado la curiosità de' suoi uditori. Il curato era perplesso. Non ardiva manifestare il suo desiderio ... Temeva per sè, per la fede degli altri ... Un segreto presentimento lo avvertiva che la storia del signore doveva portare un terribile crollo al sistema del non possumus e ad altre teorie venerande. La curiosità del sindaco non era scevra di terrore. La ghigliottina o la forca si affacciavano alla sua imaginazione come un terribile dilemma ... La mano ignota dell'avvenire lo stringeva alla gola come un capestro ... Il farmacista era più fidente. Un uomo di idee tanto avanzate credeva di non aver nulla a temere dal progresso. Nella storia dell'avvenire egli si vedeva riservata la parte più brillante. Il signore attraverso alle esitanze ed ai terrori, indovinò il desiderio della sua piccola assemblea. Si levò di tasca il foglio cabalistico che noi conosciamo, lo spiegò sulla tavola, e si fece a narrare la sua istoria. E poichè la storia dell'Abrakadabra vuol essere molto lunga, e, osiamo sperarlo, molto interessante, noi la riporteremo tutta di seguito senza avvertire le pause, le objezioni, le piccole controversie suscitate dai fatti, e quegli accidenti di tempo e di luogo che non hanno da fare coll'azione. Il signore narrò la sua istoria in diverse riprese. La sua fisonomia mutava espressione a seconda degli avvenimenti, o piuttosto a seconda delle momentanee disposizioni dell'animo. A volte grave e severo, a volte scherzoso e beffardo. I suoi entusiasmi erano brevi, intermittenti - si ammorzavano d'improvviso come se un lampo di incredulità gli attraversasse la mente. Rideva nel dipingere una scena di desolazione - declamava tragicamente una inezia. Quando i suoi ascoltatori parevano profondamente impressionati, egli si affrettava a distrarli con una digressione faceta, con un episodio puerile. Non sempre riusciva all'intento. Col procedere della narrazione, collo svilupparsi degli avvenimenti, egli prendeva pe' suoi personaggi immaginarii, un reale interesse. Finiva coll'amarli - e da ultimo, come il Dio della Genesi, si pentiva di averli creati. Comprendete voi quest'uomo singolare? ... Lo vedete? ... Ascoltate la sua istoria come egli ve la narra - meditando e ridendo.

LA DANZA DEGLI GNOMI E ALTRE FIABE

676914
Gozzano, Guido 1 occorrenze

E alzatosi furibondo cominciò a malmenare, a percuotere le figlie, a spingerle, a inseguirle attraverso le sale, i giardini, i cortili, fino al porcile dove le rinchiuse. Dal porcile trasse, invece, le tre scrofe corpulente e prese ad abbracciarle, chiamandole coi nomi delle figlie; poi le condusse a palazzo, le fece salire a mensa, sui seggi delle tre Principesse: - Chiaretta, Doralice, Lionella, povere figlie mie, chi vi fece l'onta di chiudervi là dentro? E le baciava amorosamente. Tutta la Corte, seduta a mensa, rideva. Il Re aggrottò le ciglia. - Perché si ride? Allora un cavaliere si alzò: - Maestà, perdonate, ma quelle sono tre scrofe! Il Re, furibondo, lo fece immediatamente tradurre in prigione, nei sotterranei delle torri. E riprese a baciare le tre bestie che grugnivano. La Corte rideva. - Perché si ride? Un secondo cavaliere si alzò: - Maestà, perdonate; ma, in nome di Dio, quelle non sono le tre reginette, sono tre scrofe. Il Re lo fece decapitare all'istante, per lesa Maestà. E la Corte non rise più. Le tre bestie furono vestite con abiti regali, adorne di gioielli, servite da cento cameriste. Il re le voleva vicine sempre, le accompagnava a passeggio, a mensa, a Corte, alle danze, ai ricevimenti. E ovunque le tre scrofe passavano, dame e cavalieri facevano ala, piegandosi fin in terra, inchinandole e ossequiandole come Principesse del sangue. Ma tutti soffocavano le risa, mormorando: - Passa il Re ammattito, passa il Re Porcaro!...

Lilit

682074
Levi, Primo 1 occorrenze

Discese al paese, andò a casa a salutare il padre: lo voleva anche rassicurare, i tedeschi oramai non si facevano più vedere, solo qualche retroguardia sull' altipiano e sul Grappa, in valle quasi più nessuno, e anche quei pochi che erano rimasti avevano perso la superbia; più che di fare la guerra avevano voglia di tornare a casa. Correva voce che a Padova e a Vicenza fossero già arrivati gli americani. Posò la pistola nel cassetto della credenza, tanto per andare all' osteria non gli serviva di sicuro. Era un pezzo che non andava all' osteria con calma: perché entrare, tirare giù un bicchiere e scappare via è come neanche andarci. Si fermò un' oretta a cambiare parola con i soliti clienti, quelli che non mancano mai: come in tempo di pace. Quando uscì era buio, il buio spesso dell' oscuramento nelle notti senza luna. Non era ubriaco, solo un po' allegro, anzi solo di buon umore, non tanto per il vino quanto per il pensiero che fra tre o quattro notti avrebbe potuto tornare a dormire nel suo letto anche lui: Ettore, il suo fratello più piccolo, nel suo letto ci stava già, per la prima volta dopo più di un anno; se tardava ancora a rientrare finiva che lo trovava addormentato. Come fu arrivato sulla piazza sentì un passo e si fermò. Sante aveva l' orecchio fino del contrabbandiere e del bracconiere, e si accorse che non era un passo di paesani: era pesante e duro, un passo di gambe stivalate, e infatti la voce che disse "Alt, chi va là" era una voce tedesca. Sante pensò alla pistola e si chiamò testa di legno per averla lasciata a casa; in quel buio, e conoscendo tutti i cantoni del paese, lui un tedesco solo se lo sarebbe potuto lavorare. Ad ogni modo si fermò, e fece bene, perché un momento dopo ne sortì fuori un altro, e alla luce delle stelle si intravvedeva che tutti e due avevano il parabello a tracolla. Gli chiesero chi era, se era del paese, e Sante rispose con delle fandonie preparate da un pezzo. Poi gli chiesero se c' erano partigiani in giro, e Sante, che appunto aveva l' orecchio fino, capì dal tono della voce che quella domanda non voleva dire "se ci sono ci pensiamo noi", ma "se ci sono, silenzio e gambe"; gli rispose che c' erano sì, tanti, armati fino ai denti, con delle mitraglie da spaccare tutto. I tedeschi si parlarono fra loro, e poi uno disse che loro avevano fame; Sante gli disse che gli venissero dietro, a casa sua: non gran che, ma un po' di pane e formaggio glielo avrebbe trovato. La casa era a venti minuti dal paese, su per una mulattiera a giravolte; Sante andava avanti, fermandosi ogni tanto per aspettare i due. Avevano il fiato corto e si fermavano sovente: non dovevano essere tanto giovani, si sentiva anche dalla voce. Forse erano della territoriale, e questo, dato il progetto che Sante stava rimescolando nella sua testa, era una bella cosa, meglio non avere a che fare con gente troppo svelta. Per strada Sante cercò in tutte le maniere di tranquillizzarli: che lui aveva paura di tutti quanti, dei tedeschi, dei partigiani e dei fascisti, che aveva famiglia, che era invalido da un braccio, che lavorava in fabbrica e che era in licenza per malattia, sì, era convalescente, ancora un po' indebolito. I tedeschi capivano l' italiano abbastanza bene, e anche loro vennero fuori a lamentarsi, uno aveva l' asma ma lo avevano fatto abile lo stesso, e l' altro era stato ferito nei Balcani e allora lo avevano sbattuto in Italia, come se fosse un ospedale, e invece .... In casa era tutto spento: dormivano tutti, e per il momento era meglio non svegliarli. Sante, a bassa voce, invitò i tedeschi a sedersi, a mettersi comodi, a togliersi lo zaino: per togliersi lo zaino avrebbero dovuto per forza sfilarsi anche il parabello. Vide con soddisfazione che i due (tanto furbi proprio non dovevano essere) avevano appoggiato le armi a terra sotto alla panchina, e non avevano tolto la sicura. Trovò del pane, del formaggio e del latte, si sedette di fronte a loro e mangiò qualcosa anche lui: per non metterli in sospetto, per le convenienze, e anche perché aveva fame. Lui continuava a parlare sommesso, ma i tedeschi non capivano che quello era un invito a fare altrettanto, e rispondevano a voce alta, come fanno quelli che parlano con un foresto come con un sordo. Cosa sarebbe successo se Ettore e il padre si svegliavano? Sante sentì tramestare nella camera di sopra e decise che era meglio mettersi al lavoro. Si voltò, aprì il cassetto della credenza, ne prese la pistola e una bandierina tricolore, e mostrò la bandierina ai tedeschi tenendo la pistola nascosta dietro. Gli contò due o tre fiabe a proposito della bandiera: i due non capivano bene e guardavano come due buoi. A un tratto, lasciò cadere la bandiera e gli fece levare le mani, e subito tirò via i due parabelli e li portò al sicuro nell' angolo del focolare. Proprio in quel momento si udì scricchiolare la scala di legno; entrò prima Ettore stropicciandosi gli occhi, e poi il padre alto e secco, in camicia da notte, coi baffi scompigliati. Sante, senza voltarsi e tutto tranquillo, gli disse che aveva fatto due prigionieri, e che non avessero paura perché li aveva già disarmati; a Ettore disse che portasse un po' più lontano i due zaini e gli desse un' occhiata dentro; e ai due, che a vedere il padre si erano alzati in piedi e messi sull' attenti, ma sempre con le mani levate, disse che ormai era finita, che avevano solo da non attentarsi a fare delle sciocchezze, ma che se volevano finire il pane e formaggio facessero pure, a quel punto potevano anche abbassare le mani. Ettore si mise a frugare, ma intanto guardava gli stivali dei tedeschi come un bambino guarderebbe lo zucchero filato. In fondo a uno degli zaini, in mezzo alla biancheria pulita e sporca, Ettore trovò una bella scatola di compassi. Sante l' aprì e riconobbe che erano di marca italiana: che Ettore se li tenesse pure, a scuola gli sarebbero venuti buoni, fra qualche mese si sarebbero pure riaperte le scuole, ma il padre si fece avanti scalzo in mezzo alla cucina e disse che niente affatto. Sante cercò timidamente di insistere: che era roba rubata lì in paese, lui forse sapeva perfino quando e a chi, e del resto che altro avevano fatto i tedeschi se non rubare, all' ingrosso e al dettaglio, tutto, le bestie, il grano, il tabacco, perfino la legna del bosco: Ma il padre non volle sentire ragione: _ Gli altri possono fare quello che vogliono, ma qui siamo a casa mia e voi non toccate niente: se gli altri sono ladri, noi siamo gente per bene. Hanno mangiato sotto questo tetto: sono nostri ospiti, anche se sono prigionieri; io ho fatto la grande guerra, e come si trattano i prigionieri lo so meglio di voi. Gli prendete i parabelli, gli rendete gli zaini e li portate al vostro comando; ma prima gli date ancora un po' di pane e quel salame che c' è sotto il camino, perché la strada è lunga. I tedeschi non avevano capito e tremavano. Sante, sempre tenendoli sotto tiro, disse al padre che andava bene, che stesse tranquillo, e che lui ed Ettore potevano tornare a letto; ma che prima Ettore facesse un salto a cercare Angelo. Ettore aveva solo diciassette anni, e per un servizio come quello era meglio avere un compagno più pratico. Il comando era a due ore di cammino e durante il percorso Sante ebbe tempo di pentirsi della sua scelta: Angelo era un tipo spiccio, e Sante dovette sudare quattro camicie per tenerlo buono. Altre quattro camicie, o forse di più, le dovette poi sudare al comando stesso, perché tutti quanti, a partire dal comandante, avevano parecchi conti in sospeso coi tedeschi, e una gran voglia di chiuderli subito. Insomma Sante dovette fare questione, e fortuna che al comando lo rispettavano, e avevano magari anche un poco di paura di lui per via di certe sue imprese solitarie sull' altipiano; e forse in buona misura la loro pelle se la guadagnarono i due tedeschi stessi, perché durante tutte le trattative se n' erano stati piantati sull' attenti, con una tale aria da poveri cani che non sembravano neppure tedeschi. In definitiva si misero d' accordo di fargli spaccare legna per qualche giorno, senza fargli del male, finché non fosse possibile consegnarli agli alleati. Sante se ne tornò a casa soddisfatto: non è che li considerasse suoi amici, ma prima cosa non gli sembrava una faccenda pulita sparare a gente con le mani alzate, anche se loro lo avevano fatto, perdinci se l' avevano fatto! E seconda cosa, li aveva presi lui, da solo, erano selvaggina sua, roba sua, e non era giusto che fossero degli altri a decidere il loro destino. Otto giorni dopo la guerra era finita, e Sante, Ettore, e diversi altri paesani stavano tutti nudi a nuotare in una pozza del Brenta, quando videro passare sulla strada un drappello di partigiani che scortavano verso Asiago cinque o sei prigionieri. Uno era un fascista, aveva le manette e la faccia gonfia e livida; dietro a lui c' erano i due tedeschi, a mani sciolte e con l' aria di star bene. Sante saltò a riva nudo com' era, e i tedeschi lo riconobbero, lo salutarono e lo ringraziarono. Sante tornò a tuffarsi nell' acqua limpida e gelata, e si sentì contento di avere finito la sua guerra in quel modo.

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IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

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Bertelli, Luigi - Vamba 6 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Virginia ha brontolato anche oggi perché sono stato tutto il giorno a pescare; ma il peggio è che, avendo il vestito buono, ho fatto un bello strappo ai calzoni e una macchia di sugna alla giacchettina. Tornando a casa, verso le cinque, son salito su dall'usciolino di cucina, per cambiarmi il vestito. A pranzo mia sorella mi ha detto: - Giannino, anche oggi è venuto il maestro a fare il rapporto della tua assenza; se seguiti così, lo dirò certamente al babbo... quando torna. - Domani andrò a scuola. - Meno male. E hai portato a casa un altro serpente? - Ho risposto di no, che uno bastava. Mi preme la bicicletta e non voglio comprometterla per simili sciocchezze.

Ero con Carluccio a giocare a palla in quella stanza, con l'uscio chiuso, perché Virginia non sentisse, quando la palla, che avevo legata alle calosce di mia sorella, per vedere se rimbalzava di più, andava a colpire lo specchio sul cassettone, che, com'è naturale, si ruppe in mille pezzi, rovesciando sul tappeto nuovo una bottiglia d'acqua di Colonia. Allora pensammo di andare a giocare in giardino; ma ecco che dopo pochi minuti comincia a pioviscolare. Fummo costretti a rifugiarci in soffitta e rovistare tutte quelle antichità. Quando più tardi andai a pranzo, mi misi addosso una vecchia zimarra del nonno, che avevo trovato appunto in soffitta; e non so dire le risate che fecero Virginia e Caterina nel vedermi così travestito. Avrò la bicicletta? Mi pare di essere stato abbastanza buono.

Io domando se anche ai tempi dell'inquisizione s'è mai pensato a infliggere un si terribile supplizio a un povero innocente. Ma tutto ha un limite, e io comincio a ribellarmi a questa indegna persecuzione. Un'ora fa sono entrato in cucina nel momento in cui Caterina non c'era e ho messo una manciata di sale nella cazzeruola dove era a cuocere lo stufato. Il bello è che oggi c'è a pranzo anche l'avvocato Maralli! Meglio così: io in camera mia mangerò la mia nona minestra di capellini, ma loro non potranno mangiare il loro stufato! * * * Oggi, dopo aver trangugiato la minestra non ho saputo resistere alla curiosità di vedere che effetto faceva lo stufato con tutto quel sale, e sceso al pianterreno sono andato a far capolino all'uscio della stanza da desinare. È stato bene, perché così ho potuto ascoltare una parte di conversazione che m'interessava da vicino. - Dunque, - ha detto la mamma - domani l'altro bisognerà alzarsi alle cinque! - Sicuro, - ha risposto il babbo perché la carrozza sarà qui alle sei precise, e per andar lassù ci vogliono almeno un paio d'ore. La funzione durerà una mezz'oretta, e così prima dell'undici saremo di ritorno... - Io alle sei precise sarò qui, - ha detto il Maralli. E voleva dir di più, ma in quel momento ha messo in bocca un pezzo di stufato e s'è messo a tossire e a sbuffare come se avesse ingoiato un mulino a vento. Tutti si son messi a dire: - Che è? Che cos'è stato? - Ah!... Assaggiatelo!... - ha risposto l'avvocato. L'hanno assaggiato, e allora è stato un coro generale di tosse e starnuti e tutti hanno incominciato a urlare: - Caterina! Caterina! - Io non ne potevo più dal ridere, e sono scappato in camera mia. Vorrei sapere dove anderanno tutti domani l'altro alle sei di mattina, in carrozza... Credono di farla a me, ma io starò all'erta!

Quella mattina, dunque, appena Cecchino Bellucci venne a sedermi accanto in scuola, lo trattai di vigliacco perché era scappato in automobile per paura della lezione che gli avevo promesso. Lui allora mi spiegò che in questi giorni essendo i suoi genitori a Napoli per la malattia di suo nonno, che sarebbe il babbo della sua mamma, era stato accolto in casa del suo zio Gaspero il quale lo mandava a prendere a scuola tutti i giorni con l'automobile per lo scioffèr, e che perciò non poteva trovarsi a solo a solo con me, almeno per un certo tempo. Dietro queste spiegazioni mi calmai, e ci mettemmo a discorrere dell'automobile che è una cosa che mi interessa assai; e il Bellucci mi spiegò tutto il meccanismo, dicendomi che lui lo conosce benissimo e ci sa andare anche solo e ci è andato più d'una volta, perché basta saper girare il manubrio e stare attenti alle voltate, anche un ragazzo lo sa manovrare. Io veramente ci credevo poco, perché mi pareva impossibile che lasciassero l'automobile nelle mani a un ragazzetto come Cecchino Bellucci. E siccome glielo dissi, lui per punto d'impegno mi propose una scommessa. - Senti, - mi disse - lo scioffèr oggi deve fermarsi alla Banca d'Italia per sbrigare una commissione che gli ha dato lo zio Gaspero, e io rimarrò solo sull'automobile. Tu cerca il modo di uscir prima dalla scuola, e fatti trovare sul portone della Banca; mentre lo scioffèr si tratterrà dentro tu monterai sull'automobile e io ti farò fare un giretto intorno alla piazza, e così vedrai se son capace o no. Va bene? - Benone! - E si scommise dieci pennini nuovi e un lapis rosso e turchino. Detto fatto, una mezz'oretta prima dell'uscita cominciai a dimenarmi sulla panca, finché il professor Muscolo i disse: - Tutti fermi! Che cos'ha lo Stoppani che si divincola come un serpente? Tutti zitti! - Mi dòle il corpo, - risposi. - Non ne posso più... - Allora vada a casa... tanto c'è poco all'uscita. - E io, come s'era stabilito con Cecchino, uscii e andai difilato alla Banca d'Italia, dove aspettai fuori del portone. Poco dopo eccoti l'automobile del Bellucci. Lo scioffèr discese, e quando fu entrato nella Banca, a un cenno di Cecchino, montai su e mi misi a sedere accanto a lui. - Ora vedrai se so mandarla anche da me, - mi disse. - Tieni intanto la tromba, e suona... - Sì chinò dicendo: - Vedi? Per andare, basta girar questo... - E girò il manubrio. L'automobile fece: putupum! due o tre volte, e via di gran carriera. Io lì per lì mi divertii molto e mi misi a sonar la tromba a tutt'andare ed era un ridere a veder tutta la gente sgambettar di qua e di là per scansarsi, guardandoci spaventata. Ma fu un attimo; capii subito che Cecchino non sapeva regolar l'automobile in nessuna maniera, né frenarla, né fermarla. - Suona, suona! - mi diceva, come se il sonare la tromba potesse influire sul meccanismo. Si usci dalla città come una palla di schioppo, e via per la campagna con una velocità vertiginosa, tanto che non si respirava. Cecchino a un tratto lasciò il manubrio e si abbandonò sul sedile, bianco come un cencio lavato. Dio mio, che momento! Solamente a ripensarci, mi sento rizzare i capelli sulla testa. Fortunatamente la strada era larga e diritta, e io vedevo come in sogno sfuggirmi dinanzi agli occhi la campagna intorno. Di questa visione mi è rimasta un'impressione così viva, che posso qui riprodurla come in una istantanea. Ricordo benissimo che un contadino che badava ai buoi, vedendoci passare come una saetta, urlò con una voce formidabile che arrivò a coprire il rumore dell'automobile: - L'osso del collo!... - Il mal augurio si avverò anche troppo presto, e se non ci si ruppe proprio l'osso del collo, andaron rotte altre ossa non meno utili. Io ricordo appena che a un certo punto vidi dinanzi a me sorgere a un tratto dalla terra come un grande fantasma bianco che si riversasse sull'automobile... e poi più nulla. Dopo ho saputo che a una svoltata della strada eravamo andati contro una casa, che la violenza dell'urto era stata tale, che io e Cecchino avevamo fatto un volo per aria di una trentina di metri e che nella disgrazia avevamo avuto la fortuna di cascare dentro una macchia che ci servì come di una molla, attutendo il colpo della caduta, in modo che non fu - come poteva essere - mortale. Dice che dopo mezz'ora del disastro arrivò lo scioffèr del Bellucci con un'altra automobile, che era corso a prendere a nolo appena si era accorto della nostra fuga, e ci trasportò tutti e due all'ospedale dove a Cecchino ingessarono la gamba destra e a me il braccio sinistro. Io non mi potevo muovere, e dovettero accompagnarmi a casa in lettiga. Certo è stato un brutto azzardo, e i miei poveri genitori e Ada hanno provato un gran dispiacere; ma però è stata anche una bella soddisfazione per me il raccontare a tutti quelli che son venuti a farmi visita questa mia avventura: descrivendo la nostra corsa vertiginosa che faceva ripetere a ciascuno: - È stata una vera e propria corsa alla morte, come quella di Parigi! E oltre a questo, ho la soddisfazione di aver vinto a quello sballone di Cecchino Bellucci dieci pennini nuovi e un lapis rosso e turchino che, appena saremo guariti, mi dovrà dare, se non vuole che gli dia quella famosa lezione che deve avere per i suoi bum contro mio cognato!

Ieri sono stato a girare col cavalier Metello che è un signore amico dì Collalto, molto istruito e che sa la storia d'ogni monumento dall'a alla zeta. Mi ha portato a vedere il Colosseo che anticamente era un anfiteatro dove facevano i combattimenti degli schiavi con le bestie feroci, e le matrone si divertivano a veder mangiare i cristiani vivi. Com'è bella Roma per uno che abbia passione per la storia! E che grande varietà di paste al caffè Aragno, dove sono stato iersera con mia sorella! Stamani andiamo con lei a fare una passeggiata a Ponte Molle. * * * Torno ora da Ponte Molle, dove sono stato in tranvai con Luisa. Le ho domandato perché si chiama Ponte Molle, ma lei non lo sapeva, e allora ci siamo rivolti a un uomo di lì il quale ha detto: - Si chiama Ponte Molle perché è sul Tevere che è sempre molle, ossia bagnato a questo modo, e non è come tanti altri fiumi che appena vien l'estate si asciugano subito. - Quando ho detto questa cosa al cavalier Metello, che è venuto poco fa per fissar la passeggiata di domani, si è messo a ridere a crepapelle, e poi, ritornato serio, ha detto: - Questo ponte si chiamava anticamente Molvius e anche Mulvius e v'è pure chi lo chiamava Milvius, a il nome che ha ora è forse una corruzione dell'antica denominazione Molvius, nome che deriva probabilmente dal colle che gli sovrasta di faccia, sebbene molti si ostinino nella denominazione Milvius, facendola derivare da Aemilius ossia da Emilio Scauro che si crede sia stato il costruttore del ponte, mentre d'altra parte è provato che lo stesso ponte esisteva un secolo prima che nascesse Emilio Scauro, tanto è vero che Tito Livio dichiara che quando il popolo di Roma andò incontro ai messi che portavano la notizia della vittoria contro Asdrubale, traversarono proprio quel ponte... - Il cavalier Metello è molto istruito, e certo pochi posson vantarsi di sapere la storia romana come la sa lui; ma in quanto a me, dico la verità, mi persuadeva più la spiegazione che mi ha dato stamani quell'uomo che tutti i Milvius, Molvius i Mulvius del cavalier Metello.

A casa non ci siamo che io, Virginia e Caterina. I miei genitori con Ada sono andati a passare una settimana da Luisa. La mamma è partita, dicendo che questo viaggio non le farà pro; che si struggerà tutto il tempo che starà fuori, per la paura che io ne faccia delle solite. ma io le ho raccomandato di non stare in pensiero, promettendole che sarò buono, che anderò tutti i giorni a scuola, che ritornerò a casa appena finite le lezioni, e obbedirò a mia sorella; insomma sarò un ragazzo modello. Voglio invocare tutti i santi del Paradiso che mi aiutino a cacciare le cattive tentazioni. Caterina dice che tutto sta a cominciare; che non è poi una cosa tanto difficile esser buoni per una settimana sola: basta volere. Non so come fa a sapere queste cose, lei che non è stata mai un ragazzo. Ma è certo che per aver finalmente una bicicletta, credo che potrò fare a meno di gettare i sassi dietro i cani per la strada, e salar la scuola. Non c'è che dire, quest'altra settimana potrò girare su e giù per il paese tutto trionfante su una bella Raleigh! E la mia buona condotta sarà portata per esempio agli altri ragazzi... Mi sembra di sognare!

MILANO IN PERCORSA IN OMNIBUS COMPILATA DA GAETANO BRIGOLA ED ILLUSTRATA DA NOTIZIE STORICHE ED ARTISTICHE DA FELICE VENOSTA

683192
Brigola, Gaetano 1 occorrenze
  • 1871
  • Editore Librajo -PRESSO GAETANO BRIGOLA
  • prosa letteraria
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Questa porta era dedicata a Venere, forse per l'amenità e piacevolezza del luogo. Era già chiamata Vercellina, perchè da essa si va direttamente a Vercelli; indi Magenta in memoria della battaglia combattuta in quel borgo il 4 giugno 1859, che portò la libertà a Milano. _ Dalla porta stessa entrò nel 1805 Napoleone I, che veniva a Milano a cingere la celebre corona ferrea. Nella casa al numero 9, nel Corso Magenta, nacque nel 1598 il matematico Bonaventura Cavalieri; in quella al numero 66 visse, e morì nel 1851, Francesco Cherubini, e al numero 67 Giovanni Gherardini. Lapidi apposite sulle facciate di queste case ricordano tali fatti.

Il maleficio occulto

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Zuccoli, Luciano 1 occorrenze

A Domenico Oliva questo lavoro è fraternamente dedicato L.Z. L.Z.Dopo Roberta, romanzo pubblicato nel 1897 a Milano ed oggi esaurito, io mi son taciuto circa quattr'anni, quando appunto lo sforzo ostinato del lavoro e la tranquilla costanza eran per darmi qualche ricompensa. Chiamato da Firenze a Modena per fondare e dirigere un giornale politico quotidiano, vi rimasi dal 1898 al 1900, non senza peripezie, che quei di Modena conoscon bene ed ancor oggi rammentano. Solo a Roma, nell'autunno del 1900 potei riprendere e condurre a termine il presente lavoro e pubblicarlo dapprima in appendice della Tribuna, dal 18 Agosto al 10 Settembre 1901. So che, ritornando alla letteratura, ho fatto male. Un autore che tace, è uno scrigno chiuso, e nulla vieta, anzi tutto concorre a far credere che i più inestimabili tesori vi sian gelosamente custoditi. Un autore che pubblica, è uno scrigno aperto: e vi si avventan tutti gli sguardi, e tutte le aspettazioni rimangon deluse. So, dunque, d'aver fatto male riprendendo la serie dei miei lavori letterarii, e la critica giungerà presto a confortare questa mia spontanea e sincera dichiarazione. Roberta aveva lasciato uno strascico di discussioni e di speranze, le quali avrebbero potuto essere guanciale sufficiente ai miei sonni quieti: forse, ripubblicandola e ritoccandola a mano a mano che se ne esaurivan le edizioni, mi sarebbe stato comodo e facile acquistarmi con quello e cogli altri romanzi che lo precedettero, una fama discreta di autore sdegnoso e superbo, capace e nolente. Ma perché? A dispetto dei molti disinganni dei quali l'Arte e l'Italia son larghe dispensiere, m'è rimasto il "vizio" di scrivere, e poiché non sempre l'articolo pel giornale e la novella giovano a estrinsecare interamente un pensiero, ho lavorato con fiducia, forse con l'incoscienza di tutti gli artisti, a questo romanzo, e temo che presto mi metterò a un altro. Nè so, veramente, ciò che io ne attenda, se non forse una nuova conferma dell'adagio che comunque sia un libro e qualunque il merito dell'autore, si troveranno sempre nel mondo dieci persone per lodarlo e dieci per condannarlo, tutti in buona fede. L. Z.