Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Poesie - La morte di Tantalo

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Corazzini, Sergio 1 occorrenze

Il mio cuore è una rossa macchia di sangue dove io bagno senza possa la penna, a dolci prove eternamente mossa. E la penna si muove e la carta s'arrossa sempre a passioni nove. Giorno verrà: lo so che questo sangue ardente a un tratto mancherà, che la mia penna avrà uno schianto stridente... ... e allora morirò.

La Bufera ed altro

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Montale, Eugenio 1 occorrenze

Qui vennero un giorno a giocare due sorelle, due bianche farfalle, nelle prime ore del pomeriggio. Verso levante la vista era (è ancora) libera e le umide rocce del Corone maturano sempre l' uva forte per lo «sciacchetrà ». E` curioso pensare che ognuno di noi ha un paese come questo, e sia pur diversissimo, che dovrà restare il suo paesaggio, immutabile; è curioso che l' ordine fisico sia così lento a filtrare in noi e poi così impossibile a scancellarsi. Ma quanto al resto? A conti fatti, chiedersi il come e il perché della partita interrotta è come chiederselo della nubecola di vapore che esce dal cargo arrembato, laggiù sulla linea della Palmaria. Fra poco s' accenderanno nel golfo le prime lampare. Intorno, a distesa d' occhio, l' iniquità degli oggetti persiste intangibile. La grotta incrostata di conchiglie dev' essere rimasta la stessa nel giardino delle piante grasse, sotto il tennis; ma il parente maniaco non verrà più a fotografare al lampo di magnesio il fiore unico, irripetibile, sorto su un cacto spinoso e destinato a una vita di pochi istanti. Anche le ville dei sudamericani sembrano chiuse. Non sempre ci furono eredi pronti a dilapidare la lussuosa paccottiglia messa insieme a suon di pesos o di milreis. O forse la sarabanda dei nuovi giunti segna il passo in altre contrade: qui siamo perfettamente defilati, fuori tiro. Si direbbe che la vita non possa accendervisi che a lampi e si pasca solo di quanto s' accumula inerte e va in cancrena in queste zone abbandonate. «Del salón en el àngulo oscuro - silenciosa y cubierta de polvo - veìase el arpa ...» »{ Eh sì, il museo sarebbe impressionante se si potesse scoperchiare l' ex7paradiso del Liberty. Sul conchiglione7terrazzo sostenuto da un Nettuno gigante, ora scrostato, nessuno apparve più dopo la sconfitta elettorale e il decesso del Leone del Callao; ma là, sull' esorbitante bovindo affrescato di peri meli e serpenti da paradiso terrestre, pensò invano la signora Paquita buonanima di produrre la sua serena vecchiaia confortata di truffatissimi agi e del sorriso della posterità. Vennero un giorno i mariti delle figlie, i generi brazileiri e gettata la maschera fecero man bassa su quel ben di Dio. Della duen¹a e degli altri non si seppe più nulla. Uno dei discendenti rispuntò poi fuori in una delle ultime guerre e fece miracoli. Ma allora si era giunti sì e no ai tempi dell' inno tripolino. Questi oggetti, queste case, erano ancora nel circolo vitale, fin ch' esso durò. Pochi sentirono dapprima che il freddo stava per giungere; e tra questi forse mio padre, che anche nel più caldo giorno d' agosto, finita la cena all' aperto, piena di falene e d' altri insetti, dopo essersi buttato sulle spalle uno scialle di lana, ripetendo sempre in francese, chissà perché, « «il fait bien froid, bien froid » », si ritirava subito in camera per finir di fumarsi a letto il suo Cavour da sette centesimi.

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UNA PARTITA A SCACCHI - Leggenda drammatica in un atto

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Giacosa, Giuseppe 10 occorrenze

(a Renato

(a Fombrone)

(a Fernando

(a bassa voce

(a Renato

(a Iolanda, indicando Fombrone

(a bassa voce

(a Renato

(quasi parlando a sé stesso

(abbracciando suo padre e porgendo una mano a Fernando

POESIE

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MICHELSTAEDTER, Carlo 6 occorrenze

Le cose ch'io vidi nel fondo del mare, i baratri oscuri, le luci lontane e grovigli d'alghe e creature strane, Senia, a te sola lo voglio narrare. Ché a brevi fiate nel tempo passato nel fondo del mare mi sono tuffato. A dare or la patria all'esule sirena, la patria a me stesso e all'uomo abbattuto svelare la via del suo regno perduto, mi voglio tuffare con più forte lena, che ogni uom manifeste le tenebre arcane conosca e vicine le cose lontane. Ma quel che già vidi nel fondo del mare, i baratri oscuri, le luci lontane e grovigli d'alghe e creature strane, Senia, a te sola lo voglio narrare.

Se camminando vado solitario per campagne deserte e abbandonate se parlo con gli amici, di risate ebbri, e di vita, se studio, o sogno, se lavoro o rido o se uno slancio d'arte mi trasporta se miro la natura ora risorta a vita nuova, Te sola, del mio cor dominatrice te sola penso, a te freme ogni fibra a te il pensiero unicamente vibra a te adorata. A te mi spinge con crescente furia una forza che pria non m'era nota, senza di te la vita mi par vuota triste ed oscura. Ogni energia latente in me si sveglia all'appello possente dell'amore, vorrei che tu vedessi entro al mio cuore la fiamma ardente. Vorrei levarmi verso l'infinito etere e a lui gridar la mia passione, vorrei comunicar la ribellione all'universo. Vorrei che la natura palpitasse del palpito che l'animo mi scuote ... vorrei che nelle tue pupille immote splendesse amore. - Ma dimmi, perché sfuggi tu il mio sguardo fanciulla? O tu non lo comprendi ancora il fuoco che possente mi divora? ... e tu l'accendi ... Non trovo pace che se a te vicino: io ti vorrei seguir per ogni dove e bever l'aria che da te si muove né mai lasciarti. - 31 marzo 1905 * * * Poiché il dolore l'animo m'infranse per me non ebbe più la vita un fiore ... e pure inconscio iva cercando amore l'animo offeso. Ahi ti vidi e a te il pensier rivolsi a te che pura sei siccome un giglio ... ... Le lacrime mi sgorgano dal ciglio invirilmente. Oh mia fanciulla, oh tu non hai compreso di quanto amore io t'ami. Ed un dolore nuovo, più intenso mi attanaglia il cuore che tu feristi. Se m'ami Elsa a che mi fai soffrire? Tu della vita mia unico raggio tu che sola m'infondi quel coraggio che mi fa vivo! Lo sguardo mio non t'ha saputo dire non t'han saputo dir le mie parole quello che dice all'universo il sole, amore! amore!? 3 aprile 1905

Goccia, goccia lieve chiara va sicura al suo destin scende e spera, e vanno a gara altre gocce senza fin. Giù l'attende terra molle dove all'altre unita va a formar le pozze putride per i campi e le città. Nella pozza riflettete gocce unite in società grigio in grigio terra e cielo per i campi e le città. Ma la noia il disinganno fa le gocce sollevar ed il bene che non sanno van col vento a ricercar. Dalle pozze dalle valli sale il velo e in alto va, non ha forma né colore l'affannosa umidità. Nella nebbia la natura si distende accidiosa, scende e sale senza posa pioggia e nebbia fastidiosa. Vigilia di Natale 1909

E i parenti - che allor nel neonato, nella creatura fragile impotente, della speranza lor videro il frutto, e con pavido amore a lui porgendo quanto la vita dona a chi la chiede del suo pianto si fecer velo agli occhi, confidando che vesti e nutrimento gli potessero far viver la vita, - anno per anno poi rinnovellando la speranza lontana ed il dolore si fanno velo ancora agli occhi stanchi, grazie porgendo a lui dell'esser nato, perch'ei sia grato a lor della sua vita, perché il muto dolore sia obliato e la promessa vana ogni presente. Ma l'augurio che ciò ch'ei mai non ebbe pur un istante promette in lunghi anni luminosi dia la sua luce presa dal futuro al giorno natalizio, e l'illusione moltiplicando gli finga la fame esser un bene e vita sufficiente la diuturna morte. E baci e doni e la mensa imbandita, dolci parole in copia e dolci cose, liete promesse e guardi fiduciosi faccian chiara la stanza famigliare facciano schermo alla notte paurosa ... Paula, non ti so dir dolci parole, cose non so che possan esser care, poiché il muto dolore a me ha parlato e m'ha narrato quello che ogni cuore soffre e non sa - che a sé non lo confessa. Ed oltre il vetro della chiara stanza che le consuete imagini riflette vedo l'oscurità pur minacciosa - e sostare non posso nel deserto. Lasciami andare, Paula, nella notte a crearmi la luce da me stesso, lasciami andar oltre il deserto, al mare perch'io ti porti il dono luminoso ... molto più che non credi mi sei cara. 2 agosto 1910 Onda per onda batte sullo scoglio - passan le vele bianche all'orizzonte; monta rimonta, or dolce or tempestosa l'agitata marea senza riposo. Ma onda e sole e vento e vele e scogli, questa è la terra, quello l'orizzonte del mar lontano, il mar senza confini. Non è il libero mare senza sponde, il mare dove l'onda non arriva, il mare che da sé genera il vento, manda la luce e in seno la riprende, il mar che di sua vita mille vite suscita e cresce in una sola vita. Ahi, non c'è mare cui presso o lontano varia sponda non gravi, e vario vento non tolga dalla solitaria pace, mare non è che non sia un dei mari. Anche il mare è un deserto senza vita, arido triste fermo affaticato. Ed il giro dei giorni e delle lune, il variar dei venti e delle coste, il vario giogo sì lo lega e preme - il mar che non è mare s'anche è mare. Ritrova il vento l'onda affaticata, e la mia chiglia solca il vecchio solco. E se fra il vento e il mare la mia mano regge il timone e dirizza la vela, non è più la mia mano che la mano di quel vento e quell'onda che non posa ... Ché senza posa come batte l'onda ché senza posa come vola il nembo, sì la travaglia l'anima solitaria a varcar nuove onde, e senza fine nuovi confini sotto nuove stelle fingere all'occhio fisso all'orizzonte, dove per tramontar pur sorga il sole. Al mio sole, al mio mar per queste strade della terra o del mar mi volgo invano, vana è la pena e vana la speranza, tutta è la vita arida e deserta, finché in un punto si raccolga in porto, di sé stessa in un punto faccia fiamma. Pirano, agosto 1910 Ognuno vede quanto l'altro falla quando crede passar filo per cruna, pur spera ognuno d'infilar sua cruna, né perché più s'avveda dell'inganno meno ritenta ancora la fortuna. Che tale è la sua sorte: col suo filo sperar vita tramare e con la speme giungere alla morte. Non è la patria il comodo giaciglio per la cura e la noia e la stanchezza; ma nel suo petto, ma pel suo periglio chi ne voglia parlar deve crearla. - è il piacere un dio pudico, fugge da chi l'invocò; ai piaceri egli è nemico, fugge da chi lo cercò. Egli ama quei che non lo invoca, egli ama quei che non lo sa; e dona la sua luce fioca a chi per altra luce va. - Chi lo cerca non lo trova, chi lo trova non lo sa; il suo nome mette a prova questa fiacca umanità. - è il piacere l'Iddio pudico ch'ama quello che non lo sa: se lo cerchi se' già mendico, t'ha già vinto l'oscurità. - Per ora a bordo non è lavorare che inerte pende la vela e il vento tace sul mare e il mar è a specchio del cielo Per ora - a bordo non è lavorare A sera il sole calerà nel mare che senza nubi è il cielo e giù ai confini del mare l'orizzonte è senza velo A sera - il sole calerà nel mare Oggi sul ponte dolce riposare che senza moto la nave riposa il riposo del mare e non si può camminare Oggi sul ponte dolce riposare Sola sul dorso del mare nel mezzo del cerchio lontano sta sotto il ciel meridiano la nave a galleggiare

PETRARCA, Triumphus Temporis Il brivido invernale e il dubbio cielo e i nembi oscuri che al novello amore han fatto schermo della terra antica dispersi a un tratto, al sol ride la terra che d'erbe e fiori ancor s'è ricoperta - se pur il ciel di nubi ancora svarii, onde occhieggian le stelle nelle notti, e nere fra il lor vario scintillare traggan le lunghe dita pel sereno che al piano oscuro ed ai profili neri degli alberi dei monti si congiungono. Ma nel cielo e nel piano, ma nell'aria, ma nello sguardo della tua compagna e nel pallido viso, ma nel tuo corpo, ma per la tua bocca canta ciò che non sai: la primavera. Così mi tragge a me stesso diverso e amor m'induce e desiderio, ancora ch'io non sappia per che, pur fiduciosi. Ché pur in me natura si nasconde insidiosa e ignaro me sospinge. Ahi, che mi vale, se pur fugge l'ora e mi toglie da me sì ch'io non possa saziar la mia fame ora qui tutta? Ma solo e miserabile mi struggo lontano e solo, anco s'a te vicino parlo ed ascolto, o mia sola compagna. Mentre di tra le dita delle nubi a che occhieggian le stelle nel sereno? Già trapassa la notte e nuove fiamme leverà il sole ch'ei rispenga tosto: passano i giorni e già sarà qui '1 verno e il sol sorgendo pallido e incurante farà fiorire il fango per le strade. A che occhieggian le stelle nel sereno? Qui bulica la terra e qui si muore, cantano i galli e stridon le civette. O gioia del novello nascimento, o nuovo amore e antico! O vita, chi ti vive e chi ti gode che per te nasce e vive ed ama e muore? Ma ogni cosa sospingi senza posa che la tua fame tiene, e che nel vario desiderar continua si trasmuta. Di sé ignara e del mondo desiosa si volge a questo e a quello che nemico le amica il vicendevole disio, nemica a quelli pur quando li ami e ancora a sé per più voler nemica. Così nel giorno grigio si continua ogni cosa che nasce moritura, che in vari aspetti pur la vita tiene - ed il tempo travolge - e mentre viva vivendo muor la diuturna morte. Ed ancor io così perennemente e vivo e mi tramuto e mi dissolvo e mentre assisto al mio dissolvimento ad ogni istante soffro la mia morte. E così attendo la mia primavera una ed intera ed una gioia e un sole. Voglio e non posso e spero senza fede. Ahi, non c'è sole a romper questa nebbia, ma senza fine e senza mutamento sta in ogni tempo intero ed infinito l'indifferente tramutar del tutto. Pur tu permani, o morte, e tu m'attendi o sano o tristo, ferma ed immutata, morte benevolo porto sicuro. Che ai vivi morti quando pur sia vano quanto la vita il pallido tuo aspetto e se morir non sia che continuar la nebbia maledetta e l'affanno agli schiavi della vita - - purché alla mia pupilla questa luce che pur guarda la tenebra si spenga e più non sappia questo ch'ora soffro vano tormento senza via né speme, tu mi sei cara mille volte, o morte, che il sonno verserai senza risveglio su quest'occhio che sa di non vedere, sì che l'oscurità per me sia spenta. Notte 16-17 aprile 1910

Cade la pioggia triste senza posa a stilla a stilla e si dissolve. Trema la luce d'ogni cosa. Ed ogni cosa sembra che debba nell'ombra densa dileguare e quasi nebbia bianchiccia perdersi e morire mentre filtri voluttuosamente oltre i diafani fili di pioggia come lame d'acciaio vibranti. Così l'anima mia si discolora e si dissolve indefinitamente che fra le tenui spire l'universo volle abbracciare. Ahi! che svanita come nebbia bianca nell'ombra folta della notte eterna è la natura e l'anima smarrita palpita e soffre orribilmente sola sola e cerca l'oblio.

Penombre

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Praga, Emilio 16 occorrenze

Corna a ponente, luna crescente! Fuori lucertole e moscherini, bruchi, larvuccie e farfallucce, lumache e rane fuor dalle tane: il segno è certo, tutti all'aperto! Presto, rotonda - e rubiconda nella bonaccia, la bella faccia risplenderà. Corna a ponente, luna crescente! Betulla e salice, olmo ed ulivo, querciol, cipresso, il tempo è adesso di dondolare e di cantare: il segno è certo, fuori al concerto! Cadenze e inchini - e dei più fini al dolce viso che in paradiso tondeggierà! Corna a ponente, luna crescente! Oh come è limpida la collinetta, e l'aria pura sulla pianura ; oh senti i cori nei sicomori, giù per le chine che cavatine! Di re venuta - no, non saluta musica tale! Ve'! l'immortale comparsa è già! Corna a ponente, luna crescente! E anch'io, crisalide forse di un astro, da un sassolino a te m'inchino: luna cornuta che mostri muta l'anel reciso nel paradiso, di cui lo sposo - già frettoloso per consolarti, giunge a portarti l'altra metà. Corna a ponente, luna crescente! Addio, mia vergine, felici amplessi! Io vado a letto, ché, a parlar schietto, l'infreddatura mi fa paura! Ma il raggio blando di quando in quando alla finestra - tu mi balestra: mi udrai sognare e ricantare la tua beltà! Corna a ponente, luna crescente!

Elemosina a lei, la poverella che un dì fu bionda, giovinetta e bella. Fulgida, allor, le garrule barriere correvi in caccia di pupille nere, questuando il sorriso e la carezza benedicendo i cenci e l'allegrezza... E forse ancora qualche vecchio amico, dalla febbre e l'età fatto pudico, ti getta il soldo fra le vecchie coscie, ed entra in chiesa, e non ti riconosce! Elemosina a lei che, a mane e a sera, vaga in sogni di fame e di preghiera. Come gli affreschi rosi e scolorati, come i fior che i devoti han condannati a intisichir di noia e di fetore fra le candele dell'altar maggiore; come tutto che langue, o manca o fugge, tutto che il tempo invola, e l'uom distrugge, o vecchia cieca tu sei sacra e buona, e ben giri quaggiù la tua corona. Elemosina a lei che a mane e a sera vaga in sogni di fame e di preghiera. Chi, contemplando i mistici destini, ama gli astri del ciel nei fiorellini; chi sente, al mar dei secoli curvato, l'avvenir ricongiungersi al passato; chi abbandona, oltre il mondo, il crocefisso, non entra in chiesa, ma ti guarda fisso, e l'ignoto Signor nel tuo lo vede occhio pieno di morte, e pien di fede. Elemosina a lei, la poverella che un dì fu bionda, giovinetta e bella.

Suonano a esequie, un feretro s'avvia, un prete è in allegria. O mio canestro di olezzanti fiori, tavolozza di forme e di colori, o stelle che dal ciel mi sogguardate collo splendor delle tremanti occhiate, ditelo voi, vergini cose, è vero, ch'io tutto finirò nel cimitero? Suonano a esequie, un feretro s'avvìa, un prete è in allegria. Voi che vivete, o fior, nell'ozio blando, l'aria che in mezzo a voi vien spigolando non vi racconta mai se battan l'ali dopo l'ultimo giorno alme immortali? Stelle, quando la morte un'alma miete nulla salir per l'etere vedete? Suonano a esequie, un feretro s'avvia, un prete è in allegria. Stelle, mai non vedeste a notte oscura spirti in fiamma esalar la mia pianura ? Gelsomini, se il suol che vi ha concetto nel fango si educò di un cataletto, nulla udiste venir lungo lo stelo, verso i petali schiusi, e verso il cielo? O fior, centuplicatemi l'olezzo... ch'io non senta il mio lezzo! Stelle, scendete nell'anima mia di me stesso a ingannar la tenebria! Rinnegate il Signore, o fiori, o stelle, che vi fe' così puri e così belle, mi creò sì superbo, e buono, e lieto, e intascò sogghignando il suo segreto!

Sciagura a te, sciagura a te, vegliardo che non amasti mai, e a me t'affacci, aruspice infingardo, gridando : - Guai! - Quando rugge la pugna, e si agonizza sul campo di battaglia: quando pei valli dell'orrenda lizza la morte raglia, chi nei sentieri ove palla non giunge sta in guardia dei giumenti, giumento è anch'esso se desìo lo punge di far commenti! E lo danni alle forche il capitano, se, a pergamo salito, contro i fratelli che mordono il piano appunta il dito. Ritorna all'ombra del tuo pergolato, ritorna alla tua chiesa, e, là, mostra, spauracchio all'uom curvato la croce appesa: me libero, me forte e me guerriero crebbe il genio materno, e i passaporti sdegno, ospite altiero, del padre eterno!

Piangono come vedove le biade, e l'elegìa, battendo stelo a stelo, addormenta le selve e i nidi invade, i nidi pieni di piume e di gelo. Che narrano le goccie ai bruchi erranti? Alle bucce che dice il vento fioco? Oh nelle tombe scheletri grondanti, oh beltà, robustezze, a poco a poco scioglientisi coll'acqua, e vegetanti!... E la gente sonnecchia intorno al foco.

Per l'ampia volta querula, nel coro intarsiato, l'orme di cinque secoli un giorno ha cancellato; or tutto è liscio e candido, e, a quei toni abbaglianti, ammiccan gli occhi i santi e parlano fra lor. - Ahimè! - sussurra il martire che da una nicchia brilla: - uno spruzzo acidissimo mi entrò nella pupilla! - - Che freddo! - esclama un vescovo al muro appiccicato; - É il giorno del bucato! - risponde un confessor. - Ehi, San Tommaso! - brontola dalla base San Luca: - son ritornati i barbari? Povera Italia eunuca! A chi scrisse la bibbia guastar l'appartamento... o artisti del trecento piangetene con me! - Perchè vi fate, o fossili, scimmie di Geremia? è vero, adesso il tempio sembra una trattoria; ma eguali ognor non furono i preti ai tempi andati? Che a profanar sian nati strano per noi non è. O Santi, quando cantano le litanie pagate, o Santi, vendicatevi, e adosso a lor cascate: giù colle vostre clamidi, giù cogli scettri d'oro, gridando in mezzo al coro: Filiste, Iddio lo vuol! E tu, tu cogli il parroco, calvo domenicano, solo sulla tua mensola con Gesù Cristo in mano; forse il beato Angelico fu un tuo vicin di cella, forse la tua facella lambendo a notte il suol, di sotto all'uscio immobile filtrando un po' d'argento, ne illuminò le tavole piene di firmamento; forse il tuo canto fievole sui sonni suoi volava, e il vecchierel sognava madonne in campo d'or. E nel devoto secolo vivere ancor credevi; qui, venerata effigie, antiche aure bevevi; qui de' tuoi vecchi monaci, sulla muraglia bruna, col raggio della luna leggevi i nomi ancor. Care beltà del tempio!.. Sfumando in lontananza, si univan tinte e linee, quasi fanciulle in danza; in fondo in fondo aprivasi un arco a sesto acuto, e, come un detto arguto, traea le menti a sè. E vi parean riflettere le pallide figure pinte da ignoti artefici tra i fregi e le sculture; dell'arte primogenite vive di un soffio appena, ma colla faccia piena d'inenarrabil fè. Erano i buoni e memori testimoni dei morti; occhi celesti, estatici in cima a eccelsi porti, avean veduti i secoli, travolti a cavalloni, cadere in ginocchioni, pentirsi, e dileguar. Te non vedran, mio secolo, te che empiamente pio fai spose allo sbadiglio le insulse preci a Dio; te senza l'ire intrepide dei saggi iconaclasti, senza un amor che basti a darti un altro altar! Ma il non lontano postero ripercorrendo il sito da tuoi pittori ipocriti già di bugie vestito, ripenserà la gloria dei poveri defunti, e i bei profili smunti a liberar verrà. E l'armonia degli organi, e il fumo degli incensi non alzerà quel libero sotto i sereni immensi; del bello eterno apostolo, prete della natura, egli la fede impura tinta di bianco avrà!

E maledissi gli angeli per me, per tutti gli infelici, a cui avvelenò la giovinetta vita il contemplarli, e la manìa precoce delle parole dette a bassa voce. E in mezzo ai santi, candido di fedi e di speranze il giglio fui; foglia a foglia mi han l'anima spartita... Ma una perla trovâr fra le mie spoglie, quella è la perla che nessun mi toglie. Perla ove splende un'iride celeste: un sorriso di donna amante e bella, il crin di un bimbo, e le pupille meste della mia madre, e della mia sorella.

in un dente che somiglia a una torre rovinata, ho una danza forsennata di stranissimi dolor. Queste spiagge solitarie ti rammenti, o giovinetto, quando, in mezzo a donne care, in quel dì del primo affetto, le venimmo a visitare? Qui la pioggia allor ne colse, e al villagio ci travolse colla nostra ilarità. E le madri rampognarono i ragazzi scapestrati!... Ma a un bel fuoco i piccioletti piedi e gli abiti asciugati, in attesa dei confetti ci ponemmo a desinare; era il giorno del compare, un bel giorno in verità! Dio! d'argento son le nuvole... Io non l'ho sul mio pennello; come brilla la campagna, come è buio il mio cervello! Questo dente che si lagna il mio fango mi rammenta, par che gridi: - T'addormenta, verme putrido d'amor!- Nelle eterne solitudini ride il sole come un pazzo, e le fervide risate son di raggi immense ondate: per le selve e i precipizi, lungo i solchi e nelle ville, tutto è fremiti e scintille, tutto è palpiti e splendor.

Dite, amici, giochiamo a cruscherella?... Nasconderemo ognun la nostra bella, e, ad una ad una, le pescheremo per cercar fortuna. Pietà per l'uom che pescherà la mia!... É una scarna che chiamano poesia; la è bella, e buona, ma la vi schianta senza dir: perdona. Vino d'Italia, itale donne, e cielo tutto bufere, tutto nebbia e gelo! Pure è italiano... dunque gridiam che è di un azzurro strano! Affediddio!...battiamoci a quartine, o nella botte entriamo a teste chine, o diam di fiato a qualche tromba che assordi il creato! Andatemi a cercare un coadiutore; lo vorrei nominar mio confessore per due minuti: ho due peccati che non san star muti. Uno è il desìo di avvinazzare un prete, tanto, da fargli dir che le comete son ostie accese, e che il mangiare a messa è un crimenlese! L'altro la sete stupida del bello, l'invidia per la nuvola e l'augello, mentre gli amici qui, fra i bicchieri, se ne stan felici! Miserere di me che me ne pento, miserere nel fulgido momento che non so nulla, che ho intero il genio di un bambino in culla. Giù, giù, giù vino, giù sonno ed oblìo! E al primo albor su questo cranio mio, fanciulla, incidi : " Fu un poeta - viator, t'arresta e ridi ".

Quel tuo vergine volto dimmi a chi ride adesso? Sul tuo recente tumulo poc'anzi ancor sostai; inutilmente i pallidi giacinti interrogai... Seppellivano un vecchio, o bimbo, a te vicino: un grido del becchino mi rapì le visioni. Perchè nascesti ?...dissero alla povera madre che a sè chiamato avevati dei cherubini il padre; ma le materne lagrime non prevedeva Iddio? Oh lo spietato oblìo che domina nel cielo! Nel cielo ?...Arpìa, silenzio! Ci può la madre udire: la fede ell'ha, diciamole che lo vedrà redire pura animuccia, silfide color di paradiso, a baciarla sul viso, a baciarla sul core!... Oh gli orrendi spettacoli del nostro cimitero! Un muricciuolo squallido, un campo grasso e nero, ed una danza assidua di tibie innominate, e smorfie, e ghigni, e occhiate di teschi al sol risorti!... Le croci, pinte ad olio, o sculte in marmo e in oro, son là, delle famiglie miserrimo decoro, alla neve, alla pioggia, meste, tarlate, mute... dell'eterna salute ove, ove trovi un segno? Bambino, l'ineffabile tuo visino d'amore giace fra questi ruderi, circondato d'orrore ; e forse il vecchio scheletro che ieri han seppellito già rotolò stecchito sul tuo piccolo capo. Deh, quel giorno che, fracida la tua crocetta nera, si smarriran cercandoti il pianto e la preghiera, bimbo, se tu se' un angelo scendi alla madre accanto e lo spirito affranto come una spiga invola.

Stamane io avea gridato al mio cervello: si chiudano le porte a chiavistello, il padrone è ammalato e doloroso; si chiuda la baracca,e vi si scriva: Oggi riposo! E avrei voluto aver sul mio scrittoio qualche ranocchio fetido e squarquoio per contemplarlo, e stabilir confronti, e saper come la natura imprima gli ultimi affronti. E con esso un volume avrei voluto, un volume di qualche autor chiercuto, per accertarmi colla musa mia che a qualche cosa può servire ancora la poesia. L'uno gracchiando alla melma natìa, l'altro ai santi e alla vergine Maria, potean soli ridarmi un'ora lieta; tanta vergogna mi mordeva il core d 'esser poeta. Uscii - piovendo gocciole sottili, le cime nascondea dei campanili il nebbione, e la cupola del duomo, senza il manico d'or, parea la canna di un pover'uomo. Mi zoppicava accanto un vecchierello tutto avvolto in un lurido mantello; era canuto, giallo e macilento... Lo urtai: la stoffa che lo mascherava si aperse al vento, e, come un filo che trovò la cruna, un raggio uscì dalla sua falda bruna; io gridai come un pazzo: - É lui ch'io scerno, non v'è più dubbio, l'ho trovato, è lui, É il padre Eterno! Ah paradiso, purgatorio, inferno, alba, sera, meriggio, estate e inverno! No, non mi sfuggi, despota adorato; non mi sfuggi, e arrossir devi, e pentirti del tuo Creato! - Sorrise il vegliardo di un grande sorriso, e parve, se squarcia le nuvole il sol, l'arcana dolcezza del raggio improvviso che balza e si adagia sull'umido suol. Poi disse: - Poeta dall'occhio sdegnoso, allenta la foga dell'agile piè; e a qualche vicino cantuccio nascoso, se vuoi ch'io ti ascolti, cammina con me - Passava un canonico; sentendo il compagno celeste di rabbia repente tremar, gli dissi all'orecchio : - Cacciamolo a bagno ? Qui presso è un canale... tu stammi a guardar - E già mi avventavo... Ma il nume rispose - Un solo fra tanti, fra tutti. . . a che pro ? Pei versi e l'oceano, pel turbo e le rose, poeta, il castigo dal ciel tuonerò!". Giungemmo a un boschetto; qui il vecchio s'assise, tergendo affannato la polve e il sudor; mi stese la mano, di nuovo sorrise, e : - Sfoga - mi disse - l'immenso furor! - Ma quel sorriso mi avea fatto muto, e stava lì, sospeso, a bocca aperta come quando si aspetta uno starnuto. E a poco a poco mi sentìa nell'anima la leggerezza d'un ch'esce di guerra; la meraviglia che invade al punto di lasciar la terra l'areonauta. - Padre, padre...del mio fato mi accerta!... Ho qui sul cranio come un serto acuto...". Egli die' un guizzo e dileguò per l'erta. Orribilmente del letto la coltrice mi pesa, e intorno bisbigliando vanno voci domestiche : - Bevine un po', ti calmerà l'affanno, è lauro cèraso -

CANTICO DEI CANTICI Caniico dei Cantici. uando il mesto tramonto empie di lunghe striscie d'oro il cielo e la campagna di confusi suoni; quando la danza del leggiadro stelo, sommessamente, dice di aprirsi al fiorellin notturno, e la lucciola sente, al burrichìo dell'invido insettume, che la notte fedel le accese il lume; quando buccie e bulbilli, intemerato popolo di ebrei, stan la manna a aspettar della rugiada, sotto le branche degli scarabei, sbadigliando; quando gracchian le rane i paludosi epitalami, e quando sembra, se volto in su l'irta mascella, la punta del mio sigaro una stella; quando gli archi lombardi del monastero, con un'aria pia, par che guatin l'azzurro, occhiaie smorte, e della luna la fisonomia; quando alle soglie, che il voto sigillò come una bara, del sagrestan la moglie più non viene, cantando, a porre al sole delle bambine sue le camiciuole; io, reprobo poeta di messale sdegnoso e d'ostensorio, vagando nelle flebili campagne, passo talor vicino al parlatorio della clausura : - Salve, se vieni in nome del Signore! - dice una pietra oscura, e lambe un lumicin, dietro la grata, quella gran croce che vi sta piantata. Una croce di legno con un pallido, magro e lungo Cristo pinto ad olio da un monaco spagnuolo di cui l'ossame nel mortorio ho visto: il Redentore pianger di venti secoli ti sembra la stanchezza e il dolore, e insanguinar sul fianco macilento le ragnatele che vi scuote il vento. Ed io siedo a un gradino ove devoti innumeri han pregato, ove ginocchia che or son fango o fiori una traccia comune hanno lasciato; siedo, e veggo sfilarmi davanti ad uno ad uno i pellegrini che sembrano additarmi fra loro, e dirsi: oh vedi un giovinetto che guarda il Cristo, e non si batte il petto! Poi ripigliano il volo colle rigide braccia al cielo alzate, e i teschi aguzzi che nell'aria scura fingono un bosco di piante sfrondate; essi volano via, ma, dai profondi tumuli del chiostro, cui più nessun non spia, escono, forse a bever raggi e venti, le melodìe dei postumi lamenti. A bever venti e raggi, o ad inseguir nel nebuloso corso quei fantasmi nemici al giovinetto perché non piega a un monastero il dorso; inseguirli, e cantare: - Quando voi venivate a quel gradino, in ginocchio, a pregare pei vostri figli e per le vostre spose, noi morivam dietro le grate esose. Oh frescura notturna! A respirarla uscitene, fanciulle. Le morte son sepolte, e uscir non ponno; per le alcove nasceste e per le culle, giovinettine uscite, chè lo Sposo del ciel non giunge mai!... Le son fiabe ordite dalle badesse, perché mai nessuna si rompa il capo alla muraglia bruna! - Così parla il silenzio al mio pensiero. E colle scarne mani scuoto la sbarra, e invoco il Cristo, e vedo ch'egli si allunga in torcimenti immani sul legno che l'abbranca, e sbuffa, e geme, per toccar la terra... Ma l'orizzonte imbianca, e mi caccia pel gelido cammino la campana che suona a mattutino.

Staman nel bosco stavo tutto solo i gorgheggi a tradur di un usignuolo, quando un falco calò sul picciol nido e ripartì con un superbo grido: la voce armoniosa più non udii fra i tremuli arboscelli, e la selva restò muta e pietosa su un nido di orfanelli. Quand'ecco di fanciulli una brigata che arriva saltellando, all'impensata, brucando i rami della via romita, pestando l'erba dove è più fiorita... - Di che paese siete? Dove andate così tutto uccidendo? ". Il più fiero rispose: " Eh, no, vedete, vivi, vivi li prendo! guardi - E tirò di sotto a un cencio nero tre colombi, due tordi e un capinero. - Non siam che a mezzo aprile, e sente, sente quanti nidi ? la selva par vivente ; ne abbiam per tutto giugno di correre la valle e le pendici! ". E lietamente si stringeva in pugno i poveri infelici. Pugno di rosa, e belli occhi lucenti, e chiome d'oro, e labbra sorridenti, pugno di paggio uscito a coglier gigli di una regina per i biondi figli!... Il falco sghignazzava nell'azzurro del ciel come buffone, e il mesto animo mio gli perdonava la fame e l'uccisione.

La sua canizie a questi ricci accanto, questi tuoi ricci d'or, o bambinello mio vispo e sereno, se la bisnonna tua vivesse ancor! Sta' cheto e attento, o pallido bambino, e mi contempli fiso il tuo visino, ti voglio innamorar: la sua tomba alla tua culla sospira, povera tomba, andiamola a trovar. Vi riposa la buona vecchierella che mi seguiva, silenziosa e bella, nei sogni a veleggiar, coi freschi venti che l'infanzia spira, spiaggie d'oro e di perle a imaginar. E in lontananza sul vago oceàno del mio viaggio tortuoso e strano, più che le perle e l'or, forse già quella santa indovinava, o bambinello, il tuo futuro albor! E non nato ti amò, povera donna, e pensò di attaccarti alla sua gonna, come si attacca un fior, e della sua celeste anima d'ava farne rugiada benedetta ancor! Ella è discesa nella fredda terra, e dal buio fatal che la rinserra non sorgerà mai più: prole di ignoti profanò la casa che fu sua casa, e nostro tempio fu. Ma non tutto esulò nel cataletto l'idolo mio; non vi inchiodar l'affetto dei bimbi, e la virtù! E la ricchezza, dalla creta evasa, che renderemo all'anima lassù! La ereditai per te, mio bambinello, per farti buono, fortunato, e bello di angelica beltà quella che vive dove l'uom non rode, e l'ugna d'Eva a graffiar non va. Senti: io morrò di versi e di etisìa, e quel giorno tu pur saprai che sia un amor che sen va : bardo futuro, a lei mi sposi un'ode, e nell'azzurro Iddio mi accoglierà.

Un dì due chèrubi in un essere sol vestir la creta; quel dì fra gli uomini giunse a esultare e a piangere il poeta. Uno era lamia conscia dei mali che l'Adamo indura; e l'altro silfide educata ai pudor della natura. Son mille secoli che i due chèrubi insiem corron la terra, fra rose e triboli, in amistà perenne e eterna guerra. Son mille secoli che si innalzan le braccia al Nume ignoto, né mai si svincola l'amor del cielo dall'amor del loto.

Ed ella a lui: - Fuggiam da queste bolge alla nostra pendice; sotto il verde e l'azzurro il tempo volge lento e felice. Avrai l'aperto della tua pianura, benedetta da Dio; avrai le rime e i fior della natura, e l'amor mio. Io so trovarli i mesti sentieruoli pieni di caprifoglio, e in un bosco ben noto agli usignuoli condur ti voglio. Ti innonderò di mammole il lettuccio ai dì di primavera; e leverò, se vuoi, dal suo cantuccio la croce nera. Quella che, mi sovvien, spesso hai guardato come si guarda un morto, non già coll'occhio di chi pensi al fato di un Dio risorto! Povera croce!... e ne torrò, se vuoi, i lunghi affetti e i voti, appesi insieme un di da tutti noi, bimbi devoti! E verrò teco, in mezzo alla campagna, a semplice orazione; sull'ara ove sacrifica e si lagna la creazione. Crederò, se tu credi, a questo Iddio senz'occhi e senza trono; se ti piace e ti serba al tetto mio, anch'esso è buono! Ma lascia al fango e all'odio il mondo triste e gli uomini perversi; e se sospiri ancor sante conquiste di santi versi, deh, ripulisci all'amore il gioiello della tua dolce vita, deh, mesci il genio del poeta a quello dell'eremita! -

TAVOLOZZA

679470
Praga, Emilio 10 occorrenze

La mia ganza, una bimba assai devota, e credo, a molti parroci ben nota, venne a narrarmi, tutta addolorata, l'ira del prete che l'ha confessata; - Eh via - le dissi - vien, vieni a cenare, io stesso poi ti voglio confessare, e se vedrò che mi vuoi bene assai, assoluzione e baci in copia avrai; ché Dio promise, in questo oh grande e buono! a chi avrà molto amato, il suo perdono! -

- A messa mi volete alle sett'ore? No, guardate lassù che amena vetta! Domani io sarò là sul primo albore, a cogliere per voi timo e violetta. E se non mi vedete alla chiesetta, non paventate l'ira del Signore: non è incenso o latin che lo diletta, ma il profumo, ma l'estasi del core! E il mio cor, che quaggiù pensa a voi sola, se lo porto sui monti a respirare, miracolo! adorando al ciel se 'n vola, e del bello commosso alla parola che susurrano intorno i campi e il mare, egli diventa il mio unico altare!

Come fra nebbia nei boschi caduta, io dell'età vissuta, rammento i giorni sacri al primo amore; quelli in cui sbuccia il core come dai chiusi petali al mattino un puro gelsomino; quando, coll'alba, discendean, sull'ali dei sogni, a' miei guanciali, palpiti strani e idoleggiate torme di seducenti forme! Nella memoria mi riposa ancora la vita di quell'ora, e veggo omeri bianchi e bianchi denti, e labbra sorridenti, e occhi mesti e pupille accese e nere passar davanti a schiere, lasso! e non una ne sortì, gentile tesor primaverile, a offrirmi i baci, a offrirmi il santo affetto sognato al loro aspetto ... ? Eran tutte fanciulle innebriate di danze avvicendate, eran fanciulle che leggean romanzi di fantasimi e ganzi, eran fanciulle che poneansi al crine fra i vezzi, fra le trine e gemme e perle e corone immortali di fiori artificiali ... ed io già in petto avea l'onda dei versi, e gli occhi al ciel conversi, e già pensoso mi smarrivo a sera, tra i fior della riviera, ascoltando il sospir che mollemente muove dal sol morente!

- O del mio mesto april rondine cara, vieni a volar nella stanzetta mia, quando l'arte, di amplessi ahi! troppo avara, del disinganno vittima mi oblia! Vieni e vedrai, specchio di un tuo sorriso, la tavolozza mia tutta splendore, e sentirai, commosse al dolce viso, le fosche tele sussurrar d'amore ... - Ma, ahi lasso! la gentil mia rondinella, è una debole, trepida fanciulla, che, sebben come un angelo sia bella, fu senz'ali posata entro la culla; e quando esce di casa a far mazzetti della viola sui margini odorosa, e a sospirar nei placidi boschetti il dì che intrecci ghirlanda di sposa: non vola, no, libera in mezzo al cielo, ma preme il suolo, e a colmo di sventura, la madre ha accanto che le abbassa il velo, e la dilunga ognor dalle mie mura.

Scendea dalla montagna in sottanetta bianca, cantando a tutta gola una gaia parola, e ripetendola in ritornelli scuciti e belli. Era una canzonetta che parlava d'amore, chiesto e richiesto ai petali d'un fiore: e un fior pareva anch'ella l'allegra cantatrice : robusti quindic'anni sfidatori d'affanni, treccie nerissime, e occhietti fini, ed assassini! Ma sparve dietro un tremulo bosco di antichi olivi, e la cadenza dei suoni giulivi anch'essa, a poco a poco, fra i rami si perdette ... Oh dolce cherubino risali il tuo cammino, oh torna, e sèguita la canzonetta, o forosetta! Ma là, sul lido candido, ahi! forse, o bricconcella, ti aspetta nella nota navicella ansioso un giovinetto; e tu corri a portargli due begli occhi d'amore ... begli occhi, e buon umore; oh a lui propizia sia l'onda amara, se gli sei cara! Ma, se pur sogna i placidi beni di quiete porte, ch'io vo' cangiar la mia colla sua sorte digli, fanciulla bella; egli sarà pittore, ed io sarò nocchiero, ma ti amerò davvero, e sull'oceano ci culleremo, con vela e remo! Noli, aprile 1858.

Pensate a un uom, prigione alla locanda, con una pioggia che a torrenti cade! Se costui Cristo al diavolo non manda É paura d'entrambi che lo invade. Uscir? ... di fango sono un mar le strade, e le mie scarpe han l'aria miseranda; che cesserà, l'oste mi persuade, e ch'io pazienti ancor mi raccomanda. Si comincia a educare il gatto o il cane con cento schiaffi, ed un soldo di pane, poi si contano travi e casseruole, poi sospinta la serva alle carole, e affumicate dei sorci le tane, sbadigliando si scrive un inno al sole!

Qual desio vi commove il petto ardente, quale amor, nella bruna aura tranquilla, vi consiglia a oscillar sì dolcemente? Forse è ver che di voi guida cìascuna, quaggiù nel mondo vedovo, un'anima alla meta in compagnia? A noi l'antica età divinatrice questa speranza del poeta invia. Se fallace non è, deh stella amica del mio pensoso spirito, che fai lassù, dacché lasciai la culla? Brilla, brilla infedele, e cerca intorno una fiammella di gentil fanciulla! E poi con lacci che ti presti il cielo, a te per sempre annodala; sciogli le nubi dalle sue sembianze, guidala mollemente ove, al sereno, le stelle dei felici intreccian danze. Ma neghittosa se tu resti ancora nella tua danza eterea, oh a te, dall'alto, cui di notte agogno, una ultrice tempesta urli sul viso e spenga col tuo raggio ogni mio sogno!

Una mesta mi additarono giovinetta a brun vestita, e mi dissero: - É la Rita che ha perduto il genitor! - Pochi mesi sorvolarono, la rividi in una festa: avea candida la vesta e danzava in mezzo ai fior! Vidi al corso un cocchio splendido: son gli eredi di un marchese, che di qui, non corse un mese, dentro il feretro passò! Una sposa mi mostrarono più di ogni altra seducente, e allo sposo sorridente qual chi molto e a lungo amò ... Così bella, così giovane, chiusi gli occhi a un altro avea: or le fila ritessea dell'amor che sepellì! Sì, fra i canti dell'esequie, scorron lagrime dirotte, ma, asciugate in una notte, son sorrisi al nuovo dì! Sù, coraggio, o musa pallida, vieni meco al cimitero; ve' di croci il campo è nero, e siam soli in mezzo a lor! Ma non val sospiro o lagrima quest'oblio dei visitanti: siamo tutti commedianti, commediante è il tuo cantor! Spesso i giorni dei superstiti son da un feretro abbelliti, dei nepoti agli appetiti desco è spesso un freddo avel; se qui pria giunge la figlia presto il padre si consola, che davanti a un'altra stola potrà dare un altro anel; più il riccone invecchia e al parroco sospirar fa i bruni arredi, più la rabbia degli eredi gli conforta i vecchi dì. Se ... ma tremi o musa? debole, tanto inver non ti credeva ; che? tu pur se' figlia d'Eva, e tu lagrimi così? Oh all'inferno e pianti e tumuli! Ritorniamo a porta Renza, là è l'altar dell'apparenza tutto è festa, e buon umor! E stassera, o mesta vergine, noi stassera, danzeremo, e nel vino affogheremo le mie ciancie e il tuo dolor!

La tua sembianza suscita faville ancor d'amore, la tua potenza magica tutta spenta non è: se vengo a farti visita sogno la notte a te! - - O fiero soldato che impugni la spada, è orgoglio sprecato, nessuno a te bada: a cento ti passano davanti i codardi, e impavidi affrontano l'orror de' tuoi sguardi! E un dì quel brando in fuga forse ponea le armate ... dimmi quanti morirono sotto le tue pedate? Ringraziane il pittore! Se più non fugge il pubblico compreso di terrore, la tua sembianza suscita un desiderio in me: vorrei veder sul Mincio la rotta intorno a te. - - O pingue matrona, che appoggi alla sponda ; dell'ampia poltrona la faccia rotonda, per certo fiorivano i pranzi al tuo tetto; oh dimmi lo stomaco ti fece difetto? Odor di tue cucine dopo le pingui caccie! ... Dimmi, quanti rnorirono sotto le tue focaccie? Ringraziane il pittore! La tua sembianza suscita il chilo e il buon umore; la tua potenza magica tutta spenta non è; se l'appetito langue vengo fidente a te! - - Ma tu cardinale dal viso paffuto, dall'occhio bestiale, tu pur se' vissuto? Sù dimmi, al tuo secolo fiorìa la bottega? Con quanti carnefici stringesti tu lega? Temevano gli armenti levar su voi le faccie? Dimmi, quanti morirono sotto le tue minaccie? Maledici al pittore! la tua sembianza suscita e lo schifo, e l'orrore! Se in petto avessi un pallido baglior della tua fé, si spegnerebbe, o lurida figura, innanzi a te! - Gennaio 1862.

Son tanti i tipi, son tanti i colori, che di farli inoltrar mi venne in testa; ma una donna fra lor, cinta di fiori, mi dissuase, e la ragione è questa: mi disse il nome dei compagni suoi: scusatemi, dei vizii è la brigata, che per danzar dimenticaste a casa; e è la virtù di gigli incoronata, quella che entrar non volle, persuasa di trovar pochi amici in mezzo a voi.

Trasparenze

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Praga, Emilio 6 occorrenze

A LUIGI CHIALIVA

Piangono come vedove le biade, e l'elegìa, battendo stelo a stelo, addormenta le selve e i nidi invade, i nidi pieni di piume e di gelo. Che narrano le goccie ai bruchi erranti? Alle buccie che dice il vento fioco? Oh nelle tombe scheletri grondanti, oh beltà, robustezze, a poco a poco scioglientisi coll'acqua, e vegetanti!... E la gente sonnecchia intorno al foco.

E sotto a tanto azzurro e a tanto verde (Dio! come i canti miei rammento mesto!) guardo alla vita grama che si perde, agli altri e a me molesto! Veggo tutto attraverso a un velo bruno, e scote appena la mia mente lassa la forosetta dall'anche di Giuno che mi sorride e passa. La sua lieta canzon va via con lei, e un lamento ne fan le lontananze... Quante, oh! quante così gioie io perdei di sogni e di speranze! Unico, Arrigo, a me resti conforto un cor d'amico, una pietosa fronte che mi sorrida!... e crederò che morto non m'ebbe ancor Caronte! Te già non colse la terribil fronda che uccide il canto, il riso e le carole: e splende ancor sulla tua testa bionda un bel raggio di sole. E mentre io cerco a quest’etica Musa che mi apparve matrona ed era ganza, che il poema promise, ed or ricusa perfino una romanza, alcun nobile accento, un'armonia che rimi a quelle che ti piacquer tanto; mentre mi sdraio nell'inedia mia senz'ira e senza pianto; tu vivi e pensi e lotti e ardisci e speri, e, gagliardo, rammenti altri gagliardi che non dissero al Dio : " Mancasti ieri, quest'oggi è troppo tardi! ". Oh! te lo invoco, o fratello, o poeta, onnipotente te lo invoco il Dio! Ché ai dì felici, per guidarti a mèta ben ti avrei dato il mio! Mi è fuggito e a te giunge. - Io, da lontano, nella crescente mia ombra perduto, quando, plaudendo, ti diran sovrano del tuo duplice liuto, esulterò come un eletto, e ai lieti dì ripensando della nostra speme, griderò: benedetti i due poeti, s'anco non giunti insieme! Cereda, ottobre 1871.

A ENRICO JUNK Della città, madre di inganni e toschi, sei stanco, amico, e aneli ai verdi boschi e a un po'di acqua corrente; a un po' di acqua corrente in cui si specchia la ricciuta fanciulla oppur al vecchia che ti guarda ridente. Aneli alla mestizia solitaria per cui l'arte respiri insiem coll'aria, coll'aria imbalsamata! Vuoi della vita frivola l'oblio, e da lontan già senti il brulichio di una allegra borgata! Di una borgata allegra e faccendiera dove si ciarla da mattina asera di centomila cose; dove a ogni angol di muro il sol rischiara e ombreggia qualche immaginetta cara: o bimbi, o cenci, o rose. Dove il paffuto ostier ti accoglie umano, e la cuoca stringendoti la mano, par che un bacio ti scocchi. Dove ti sveglia all'alba il bue che mugge e la giovenca che il figlio sugge contempla coi grandi occhi. Ti sveglia e allor per l'umido sentiero ti affacci all'alma nudità del vero, di cui siam casti amanti. Penna e pennello, un dio v'agita allora!... su, facciam le valige, Enrico, è l'ora di diventare erranti. Aprile 1875

A CLETTO ARRIGHI Addio, bosco di frassini ombrosi, ondeggianti campagne di biade! del villaggio tranquille contrade dove giuocano i bimbi al mattin. Addio, pace de' campi pensosi, solitarie abitudini, addio; l'operaio sul verde pendìo già distende il ferrato cammin. Passerà nell'antico convento, sulle fosse dei monaci estinti; se all'inferno non giacciono avvinti lo sa Iddio che stupor li corrà! Dove il cantico, inutile, lento, si perdea per la pinta navata, volerà, dal suo genio portata, via, fischiando, la scettica età. Che terrori nel nido latente degli ignari augelletti quel giorno! Da tugurio a capanna d'intorno che susurro, che ciancie, quel dì! Che dirà questa povera gente, cui repente - il miracolo appare ? Vecchierelli, aspettate a spirare quando giunta la strada sia qui. Che diran gli infelici cui preme la tremenda miseria del pane? E cui nulla concede il dimane, nella vita, che affanni e sudor? Quando accanto all'aratro, che geme lentamente nei solchi girando, scorrerà, quasi ai pigri insultando, l'uragano del nostro vapor? Ahi l'aratro, il congegno diletto, che diventa al confronto fatale? Veh! Coll'oro si fabbrican l'ale! Veh, se i ricchi le sanno pensar! E, tornando al miserrimo tetto, scorderan per quel dì la canzone, e nei sogni la strana visione tornerà nuovi enigmi a fischiar. Ma le vispe fanciulle dei campi, che cullato ancor bimbi non hanno, e ancor tutti gli stenti non sanno che si sposano ai cenci quaggiù; ma i garzoni che guardano i lampi quando tuona, con ciglia inarcate, ma le donne, filando invecchiate, cinto il cuore di arcigne virtù, che clamori faran sulla via, quando giunge il convoglio solenne; chi dirà di vedervi le penne, chi Satàna a tirarlo con sé; e del fumo, che lento si svia mentre lungi già il treno è trascorso, seguiran quasi estatici il corso brontolando : " No, fumo non è! ". Ma i più furbi bisbigliano invece " Sì, che è fumo, e ai vigneti fatale: la campagna di un soffio letale può colpir tutta vasta quant'è. Ah il Signor queste cose non fece; no, per me, non ci vado in vapore. Chi compar! L'asinello è migliore; questo almeno il Signor ce lo die' ". Razza mesta, alle celie bersaglio della plebe, cui sopra tu stai, sul mio volto quel dì non vedrai insolente il sorriso spuntar. Ma deposto il mio caro bagaglio io verrò ne' tuoi crocchi festivi, non più in traccia di baci furtivi, ma coi maschi da senno a parlar. E dirò: " Questo fischio fugace gira il mondo e affratella le genti, rispondetegli intorno plaudenti, cospergete il gran carro di fior. Esso è l'arca novella di pace, che i futuri destini rinserra, non più stragi di popoli in guerra, non più schiavi di avaro lavor! Voleran da villaggio a cittade nuovi patti: cultore e artigiano stesa ai ricchi la nòbile mano insiem l'almo edificio alzeran. E tesoro di nuove rugiade l'umil scienza anche ai cenci concessa, vi dirà, benché in veste dimessa, sante cose, che i preti non san. Vi dirà che gli è sacro al paese il sudore dei volti onorati, come sacro è il valor dei soldati, come sacra è la mente del Re. Che non siete più mandre indifese, voi famiglie dei solchi dìlette, ma dal vostro vessillo protette, ma da legge che ingiusta non è. * * * O Musa mia, perdonami se ti ho costretta a far da moralista! Ma sai quanto mi strazii dei miseri la vista! E poiché sì cattolico e stecchito promette poco il parroco del sito, Musa, a quel primo fischio bravi sarem, se andremo in compagnia nella turba dei poveri, sparsi lungo la via, a seminar qualche parola onesta: la mission sacrosanta, o Musa, è questa! Ma poi pagato l'obolo, chi niegherà, mia cara, al tuo pittore di spiegar l'ali a sciogliere l'inno del suo dolore? Deh guarda che monotona pianura! Ve' in che forma han conciata la natura! Il mio convento gotico sparve, e die' passo a un muricciuola bianco che dritto e ugual due miglia va della selva al fianco. Un ridotto di terra alzò la fronte, e questo è il nostro fulgido orizzonte. Dimmi, in che selve vergini anderemo a studiar, Musa, dal vero? Di pali il mondo copresi che pare un cimitero; si abbatton torri e quercie e campanili, il cielo è tutto un rabesco di fili, costumi e tipi perdonsi, presto la moda viaggierà in vapore; ammireranno i ciondoli villico e pescatore. Musa! E noi pingerem carta bollata e canterem... la fisica applicata!

E una lepida quercia a una rugosa sua vicina dicea: " Monna Ghiandosa, rammentate il seicento? Fu in maggio, se non erro, di quell'annata, la maggior tempesta. Un mio ganzo, un bel cerro, asfissiato morì nel turbinio, e noi, bontà di Dio! siam vive e sane, e brille toccheremo il duemille! ". E che pensava il fiorellin divelto udendo il cicalìo della vegliarda? Egli, che all'alba ancor non era nato, morir canuto a sera avea sperato... nel fango invece a mezzodì giacea, e dolorando l'anima rendea. * * * Marzo è nipote di Vulcano e d'Eolo sopra l'onde sbuffanti e sui metalli. Oh! ben vengano i venti a narrarci di cime e di convalli misterïosi accenti! Parlateci, o loquaci aure azzurrine, zeffiri palpitanti! Date novella a chi spera, a chi lagrima, ai delusi, agli amanti! Che il vecchio senta, sfiorandogli il crine, la primavera in voi! Che il giovin senta nei novelli effiuvii più baldi i nervi suoi. Marzo che spargi le siepi di candidi spruzzi e di macchie vermiglie i giardini, col mandorlo e il sambuco; marzo che chiami da' suoi bui cammini il redivivo bruco; bel forier dell'aprile!... oh! invia nei cori le verdi illusïoni! Fa' sbucciar, come dal sambuco e il mandorlo, fa' sbucciar le canzoni. E sian canzoni d'avvenir! gli amori! gli odii, i dolor!... ma nuove! Sian della neve al par, che dalle vecchie tettoie si dismuove! Marzo è la Gioia in culla. È il soavissimo primo vagito dell'atteso bimbo! È un vero e una parvenza: è la tua bella di cui scorgi il nimbo e attendi la presenza! Giovinettina dai begli occhi fisi, pallidi adolescenti, andate, andate a cogliere le mammole, e ad ascoltare i venti! Io, povero poeta ai vostri visi unir non posso il mio!... Cercar non posso al mondo che risuscita nulla, fuorché l'oblio! Marzo 1875