Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Taluni scritti di architettura pratica

266991
Pietrocola, Nicola Maria 50 occorrenze
  • 1869
  • Stamperia del Fibreno
  • Napoli
  • arte
  • UNIFI
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Era di costumi severo senza ostentazione: credente ed osservatore di quella religione che conosceva e però apprezzava e venerava: estraneo alla politica, ma avverso a’ mestatori, de’quali sapeva scorgere i veri propositi, che per altro sfuggono ai soli gonzi: giusto e franco nel valutare il merito altrui: conciso e sobrio nel parlare, e tu nel suo stile e negli ornati delle sue fabbriche riscontri questo carattere a cui il lezioso, il barocco è affatto straniero. L’ultima sua opera ideata e compita nel Marzo 1865 fu la costruzione del campanile a vela che si volle sull’angolo sud-ovest della Chiesa dell’incoronata, atto a sostenere il dondolare di una campana di circa tre quintali e di due altre piccole. È tale il congegno delle catene e delle sbarre di ferro nascoste in mezzo a’ non massicci pilastri, che quel piccolo edifizio a tre facce ha la solidità di ogni altro campanile. Due lati son poggiati su muri, ed il terzo, dal quale è pendola la campana grande, abbandona l’angolo della Chiesa per quanto è grande il vano in cui la campana dondola. Si conserva il rozzo disegno ch’egli di sua mano delineò per norma di colui che soprantendeva all’opera, alla quale egli per la stagione rigida non potè assistere. Il calcolo degli urti e delle resistenze non farà giudicare il trovato del Pietrocola simile all’uovo di Cristoforo Colombo.

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Fin dall'Aprile 1849 egli aveva menato a moglie la Signora Marchesani Elisabetta di Filippantonio e Speranza Cancellieri, dalla quale ebbe unica prole che visse pochi mesi. Nelle sue diuturne infermità e nella cecità si ebbe indicibile sollievo e conforto nelle assidue amorose cure della consorte, che in lui non solo amava il marito, ma venerava l’uomo d’ingegno, di cui si studiava lenire la doppia sventura; poichè il Pietrocola non tanto della cecità era, ma rassegnatamente, dolente, quanto del non potere a sua posta studiare e scrivere.

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Monacelli Luigi, con iscrizione che qui si riporta a compimento di questo breve cenno biografico.

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Lettori, se siete novelli io arte, ho procurato istruirvi; se provetti, invitarvi ad imitarmi, scrivendo la vostra efemeride. Abbiamo l’obbligo di lasciar tutto, e coi pensieri una traccia di nostra esistenza, per adempire a quel precetto impostoci dal nostro divino Salvatore con quella parabola in cui si compiacque di chi moltiplicò i talenti. Avrei voluto corredare questa operetta delle analoghe figure; ma la cecità che mi dura da 12 anni me lo ha impedito: bisogna contentarsi di che si può. Non ho fatto pompa di scienze, che poco posseggo, per farmi intelligibile a tutti, e mostrare ancora che non vi è bisogno preciso di esse. Il Vasari parla di molti grandi ingegneri, ma non dice mai che sieno stati grandi matematici. Vitruvio al contrario vuole che l’architetto conosca l’astronomia; ma io non so in che possa a costui essere utile la cognizione dall’angolo di parallasse, e del teorema del grande Keplero che dimostra i pianeti descrivere aie eguali in tempi eguali: vuole dippiù che sappia di musica; ed io che durante la vita mi sono dilettato non ispregevolmente di violoncello, non ho potuto mai sapere o conoscere come la melodia di questo strumento possa accordarsi ai progetti e disegni di architettura. Base fondamentale dell’architetto è il disegno che è il suo speciale linguaggio: un corredo di scienze è sempre utile, ma non indispensabile a chi dalla natura sorte un genio inclinato all’arte. Stefenson non si avvalse certamente delle sue scienze esatte quando costruì per prova il primo modello del suo gran ponte tubolare, modello che fece cilindrico, e che un ingegno forse senza cultura gli avrebbe suggerito non potere di quella forma conferire all’uopo per la fermezza, siccome avvenne; onde ei si attenne alla forma rettangolare. Ho voluto riportar l’arte colla scienza alla sua origine cioè alle prime speculazioni degli uomini d’ingegno, quando le scienze non erano così avanzate. Io sono persuasissimo che Pitagora pria di arrivare alla sua dimostrazione del quadrato della ipotenusa eguale a quella dei due cateti, conosceva anticipatamente siffatta eguaglianza colla pratica misura; e così egualmente Archimede era intimamente persuaso innanzi tempo di quelle verità che poi dimostrò col metodo sintetico. Così questi grandi uomini ci avessero pur lasciato un elenco de’ pensieri che avevano senza averli dimostrati! Nè è meraviglia il mio assunto, perchè ai nostri tempi pur vediamo in medicina dopo tanti sistemi successi l’uno all’altro, anche oggi si ritorna al genio del gran padre Ippocrate; perchè finora non vi è chi lo sorpassi: a vincerlo deve aspettarsi ancora un ingegno novatore, come Rossini nella musica, con tra il quale credo non più gridino i maestri dell’antica scuola. In Oratoria Demostene che provava secondo natura, almeno con poca arte, vinse a sentimento di tutti il posteriore Cicerone che badava alla tornitura armoniosa de’ suoi periodi più che all’essenziale del discorso. Fin d’allora s’arringava con figure qualunque fossero: venne poi il Rètore che fece la nomenclatura di tali figure e ne stabili le regole buone soltanto ai pedanti. Cicerone e il Rètore badarono più al superficiale come Protogene, che adornò di monili e suppellettili, cioè di arte quella Venere che non seppe dipingere bellissima cioè semplice secondo natura, quale la fece Apelle. Durante il mio lungo esercizio di quaranta anni, a me non è capitato mai servirmi delle scienze sublimi per l’uso delle mie fabbriche; e credo a tutti succeda lo stesso. Tutta la sapienza dello Scaligero e la tenace memoria del Pico insieme, non faranno mai un ingegnere dell’uomo che non abbia genio. Tutti gli uomini grandi in scienze, lettere, arti in generale, e più in armi son dessi i veri uomini d’ingegno. Ciro prese Babilonia con l’aver deviate le acque dell’Eufrate: il Macedone esordi la sua carriera colmando il canale che separava Tiro dalla terra ferma, con tutti quei miracoli successivi che racconta il suo panegirista Quinto Curzio: Annibale sormontò le Alpi per calare improvvisamente a Roma: Cesare, quel gran condottiero di armate, fu grande ingegnere con que’ suoi facili ponti di legno sui fiumi; con quella grande muraglia in pochi mesi sull’Elvezia, ecc. Traiano lo fu con quel gigantesco ponte a fabbrica in quattro mesi sul Danubio per ire a debellare i Daci: Maometto II soggiogò Bizanzio coll’avere immessi notte tempo 200 navigli in quel porto per la via di terra: lo Czar di spirito pronto a corpo infermo vinse alla fine il rivale taurino Carlo XII, il quale tutto che invitto, mancava d’ingegno: ed in fine quel Pietro a ragione detto grande, stabili ed edificò quella nuova metropoli, ove non avendo a temere dei Boreali, pare abbia detto ai Meridionali qua non arriverete ad importunarmi e ben se lo seppe Napoleone I che volle tentarlo: quest’ultimo grande che imitò Annibale, Cesare e gli altri valentissimi capitani, in questa sua più grave e temeraria impresa pare avea scordata l’antica consueta difesa de' Nordici, di bruciare selve e città; e scordò pure, o non volle pensare che nel politico, come in tutto, v’è bisogno dell’equilibrio: ond’è che traditore del divino mandato di fare la felicità de’ popoli, che invece fe’ servire al suo smodato egoismo, venne confinato sullo scoglio di s. Elena. Adunque l’ingegno domina il mondo: ma come alla lunga durata delle fabbriche, così al dominio duraturo, ed in tutto è indispensabile l’equilibrio.

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Un pilone a fabbrica sulla base di quattro palmi in quadro; elevato a palmi 20, comincia ad oscillare alla minima spinta; ma se invece del pilone si alzerà una piramide quadrangolare allo medesime base ed altezza, la piramide non più oscillerà, perchè fatta a seconda della natura, in cui le montagne sono piramidali più o meno, come i fusti degli alberi sono conici. Havvi anche la fisica ragione della fermezza maggiore della piramide rispetto al pilone, ed è che la perpendicolare abbassata dal centro di gravità del pilone è più facile ad uscire dalla base di questo, che non è la perpendicolare simile della piramide. Ma la piramidalità delle montagne non è regolare da cima a fondo, poichè i fianchi di esse spianano sempre più come scendono alla base; e così irregolari sono i coni del fusto degli alberi, il quale va sempre più dilatandosi come avvicina alla terra: adunque imitar si deve questa base sempre maggiore o crescente come si scende al piano della campagna. Perciò le quattro facce della cennala piramide saranno incurvate nel seguente modo. Dal vertice della piramide si tiri una retta indefinita orizzontale, in un punto della quale stabiliscasi un centro col quale si descriva tal segmento di circolo, che cominciando da tal vertice vada a toccare nel mezzo un lato del quadrato base della piramide; e tal curva poi si faccia scendere sotterra ad indicare la faccia delle fondamenta della piramide istessa fino al pancone di terra soda in cui verrà stabilito il fondamento istesso. Così le facce della piramide saranno curvo-rientranti tanto dentro che fuori terra. E qui, a dimostrazione della fermezza maggiore della piramide a facce curve rispetto all’altra a facce piane, milita la stessa ragione fisica della perpendicolare, spiegata di sopra.

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Se a detta piramide manchi parte del fondamento più o meno ad un solo lato, ecco perduto l’equilibrio; e perciò la piramide presto o tardi perirà.

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Credo meglio così le facce di un campanile, che quelle del campanile di Strasburgo che sono a piano inclinato da cima a fondo; perchè quella monotonia della equabile restremazione in tutta l’altezza è ingrata all’occhio e riesce meno forte come ho dimostrato di sopra. Ma colle facce curve si guadagna ancora solidità maggiore; perchè è impossibile che i materiali componenti l’edifizio possano uscire dal loro sesto, mentre si vede spesso slogarsi i materiali delle cantonate, specialmente in tali edifizii che hanno le facce a piano inclinato senza curvità rientrante. La solidità della costruzione richiede che tutti i materiali debbono essere perpendicolari alla faccia visibile o esterna dell’edifizio; onde nasce il dubbio che i materiali adattati alla curva rientrante, formando un piano inclinato verso il centro del campanile per ogni lato di questo, non possano connettersi bene sulla linea diagonale ove vanno a congiungersi i quattro muri del campanile. Ad ovviare a siffatto inconveniente, potrà la faccia visibile essere informata secondo la curva dell’altezza, e così la muratura può trarsi tutta orizzontale con ottima commessura in giro a tutti quattro i muri. In generale le restremazioni sono indispensabili a tutte le facciate; e l’arte sta nel nasconderle con corsi di fasce e cornici.

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Il superbissimo ponte della Valle a Maddaloni, a tre ordini di arcate sovrapposte, ha tutti i piloni sfondati sul primo ordine di archi pel passaggio di una strada rotabile lungo ed in mezzo al ponte istesso. Quindi è che quei vani che hanno diviso ogni pilone in due, dovevano essere continuati in giù fino alla base della fondazione, lo che non è. Quindi manca l’equilibrio per quegli enormi massi di fabbrica che esistono, ed esister non dovrebbero sotto quei grandi vani che dànno adito alla strada. Più, se i contraforti che affiancano ogni pilone alle due teste, invece di avere le facce diritte come il campanile di Strasburgo, le avessero curvo-rientranti, come è detto di sopra, quella superbissima mole non avrebbe forse cominciato a patire.

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A tutte le facciate delle mie fabbriche diedi sempre il fondamento con la risega solo esternamente, ed internamente a piombo col muro fuori terra. Posteriormente economizzai la risega esterna, dando al fondamento una scarpa che va a finire a zero con la faccia esterna del muro di facciata; e il mio ragionamento fu il seguente. Le fondamenta si fanno quasi sempre di ciotoli, per cui i filari superiori di tal materiale nelle fondamenta risegate non incappano sotto il peso del muro fuori terra, e perciò restano inutili; ond’è che ho tolta la risega. Nell’un modo e nell’altro di dare sempre una base maggiore alle fondamenta solo all’esterno, mi son trovato sempre bene, perchè le mie fabbriche reggono tutte saldissimamente. Considerando la facciata di qualunque edilizio, io l'ho paragonata all’uomo che ha i piedi con le falangi solamente innanzi, perchè il suo movimento innanzi procede: ond’è che la natura lo ha provvisto di base più lunga innanzi ove egli può pericolare di cadere, più spesso almeno. Le facciate similmente hanno sempre gli urti dalla parte interna, e perciò solo all’esterno possono inclinarsi c cadere: ad esse quindi occorro quella risega o base maggiore solo all’esterno, non all’interno.

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La regia mole di Caserta ha nelle facciate la eccessiva spessezza di palmi 14: è vero che ella si eleva a palmi 142, altezza precisamente eguale al campanile di S. Maria in Vasto. Eppure tal campanile senza colmo piramidale, tuttochè soggetto all’ondulazione di grandi campane, ha la spessezza de’ suoi muri, di palmi 8 alla base, e di 5 in cima. Alla gran fabbrica del Sig. Rulli fuori Portanova in Vasto, di cui parleremo, alta palmi 40 di facciata costruita tutta di scogli e pietre arenarie, diedi la spessezza di palmi 2 1/2 al primo piano, e 2 1/4 al secondo. A facciata Palmieri in Vasto alta palmi 52, diedi la spessezza di palmi 3 al primo piano ed a’ mezzanini, e di palmi 2 1/2, al piano nobile superiore: e tutte queste mie fabbriche da 20 a 30 anni costruite, sono tutte saldissime avendovi sempre praticata esternamente la risega invisibile, perchè nascosta dai corsi degli ornati e delle decorazioni. Adunque alla Reggia di Caserta erano sufficientissimi 10 palmi di spessezza nelle facciate; oppure alla usata spessezza di palmi 14 si potevano cavar delle comodità secondo la mia maniera. Vero è che in tali fabbriche gigantesche è meglio abbondare in solidità, ma ne quid nimis in tutto: perchè ad un edificio di maggior mole, in proporzione, dovrebbe darsi maggiore grossezza di muri che permetterebbero poco passaggio alla luce. Nella proporzione istessa alla torre di Babel che elevar si doveva a quattro miglia, sarebbero competuti muracci della spessezza di molte centinaia di palmi, per la quale nessuna luce sarebbe passata, e l’interno sarebbe rimasto al buio. Veramente sarei curiosissimo di conoscere anche nella minima parte l’icnografia di quella stupenda mole di cui si è scoverto qualche avanzo, a quanto dicesi!

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Per esempio un tramezzo di lunghezza palmi 20 abbia alle due estremità un pieno di palmi 2, poi dall’un lato e dall’altro due vani di lunghezza palmi 4, quindi due altri pieni di lunghezza ognuno palmi 2; ne resterà nel mezzo o centro un altro vano di lunghezza palmi 4; tal vano di mezzo potrà essere anche di lunghezza palmi 6, riducendo a palmo uno ciascuno dei due pilastri laterali: ecco in questo modo distribuita la pressione da’ due pilastri medii che sono equidistanti dal serraglio dell’arco sottoposto. Sui detti tre vani si volteranno tre leggieri archetti dove impostar dee la volta del piano superiore; e così si continuerà per tutt’i piani superiori della casa, alzando sempre que’ pilastrini isolati; e su delli archetti non si adoprerà il riempimento indicate nelle facciate, ma vi resteranno tanti vani da servire per nascondigli e qualunque altro comodo. In tal modo il peso sull’arcata, oltre all’essere equilibrato sarà ridotto a terza o quarta parte; ond’è che l'arco non può spingere il muro di facciata. Il risparmio di materiale è molto considerevole, e si avranno molte comodità nell’interno delle case ad uso di stiponi o armadii, di scrittoi, librerie, comodi a sedere ecc.; il tutto chiuso dentro la spessezza de’ muri, lo che potrà bandire nelle camere l’ingombro di casse, comò ecc. Se tali pilastri invece che sugli archi, potranno poggiare a terra, essi allora saranno più fermi perchè il muro di facciata non avrà la minima spinta; ed in questo caso ch’essi poggino a terra, i medesimi potranno farsi tubolari col vano che vada a sfondare il tetto. E a tal tubo si lasceranno delle valvole ove occorrano affinchè entro tai tubi si possano riporre carni, pesci ed avanzi di tavola, le quali robe si conserveranno a lungo dalla corrente dell’aria dentro il tubo, il quale potrà servire ancora a rinfrescare nella state le camere superiori chiamandovi l’aria del pian terreno o del sotterraneo. Un avvertimento occorre soltanto nell’elevarsi detti pilastrini che debbono essere puntellati orizzontalmente fra loro stessi ad ogni tratto di altezza finchè essi non sieno caricati del peso del tetto, come, io feci nella gran fabbrica di sopra cennata del signor D. Giuseppe-Antonio Rulli lunga palmi 150, larga 56 ad uso di molti trappeti al pian terreno, e di grandi fondaci nel piano superiore fuori Portanova in Vasto; e così feci pure nell’altra di lui fabbrica che è la chiesa di S. Domenico sostenuta da picciole colonne. L’altro avvertimento ovvio è che tali pilastrini sieno di più larga base nel pian terreno, con lasciarvi una piccola risega onde impostarvi la volta di copertura al piano terreno. Una colonnetta simile in casa Conti-Ciccarone, con sul capitello due archetti, sorregge due piani superiori di questa palazzina; colonnetta che così puntellata, venivano tutti a vedere e ne presagivano la ruina; ma impostovi prima il carico e dopo due o tre mesi toltivi gli spadacchi, la ruina svanì.

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Sui pilastrini medii della cennata camera si costruiranno archetti leggieri di mattoni di cozzo con quel sesto che piacerà, i quali archetti saranno rinfiancati a fabbrica lino a livellarne la cima; e in tali rinfianchi si lasceranno dei fori per ficcarvi de’ travicelli ove appendere checchessia. La detta camera supponendosi affiancata da altre, detti archetti avranno rintuzzo dalle camere adiacenti. Fra delli archetti paralleli fra loro ed al muro di facciata si costruiranno tre quasi piattabande o volticine di pochissimo sesto ed ecco così formata la contignazione del piano superiore, con isfogo o aria molto maggiore del pian terreno, senza che il muro di facciata abbia la minima spinta. Così per la copertura della camera superiore si farà la volta a mezza botte che poggia sopra i fianchi, e non sulla facciata; ond’è che questa non avrà alcuna spinta dalle costruzioni interne, talchè queste resteranno ancora salde abbattuta che fosse la facciata. Per fare infine che detta volta superiore sia a cielo e non a botte, si costruiranno con l’istesso sesto della curva i due quadranti alle teste della botte istessa, l’uno verso il muro di facciata, e l’altro verso il muro opposto, ove si potrà portare anche dal principio la volta corrispondente; e così non resterebbe a farsi che la sola quarta parte di volta sul muro di facciata per fare che la volta comparisca al di sotto interamente a cielo.

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Resta a trattarsi delle volte nelle camere angolari della casa.

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Comunemente qui si praticavano volte a crociera poggiate sopra peducci tante volte di enorme spessezza, fino di cinque palmi in quadro; cosicchè ogni peduccio occupava un’area o sito di 25 palmi quadrati. Io concepii l’idea che questi peducci potessero sopprimersi, facendo soltanto alla cantonata saliente di essi un pilastrino di un palmo quadrato e così guadagnare 24 palmi quadrati di sito per ogni peduccio. Siffatta idea misi in pratica all’androne della casa di D. Francesco-Paolo Jecco; e quella entrata è la più bella di tutte le case di Vasto, costruendo sui quattro pilastrini quattro volticine a botte scema, con in mezzo una volta a vela. Così dunque nelle camere angolari delle case si potrà costruire un solo pilastrino lontano 5 ovvero 6 palmi dai due muri che formano la cantonata sporgente; e su tal pilastrino costruire prima due volticine a mezza botte scema verso i due muri di facciata, e sul rimanente quadrato interno poi costruirvi la vela; ed ecco che dalla prima volta che copre il pian terreno i muri della cantonata non avrebbero alcuna spinta. Circa le volte superiori poi delle camere a cantone io ho sempre usato di porre una catena di legno ai reni di esse; ma si potrebbe far meglio usare il ripiego di ridurre le volte istesse a forma ottagona, come praticai nella galleria del detto Sig. Rulli di lunghezza palmi 38, larghezza 28, ove il muro di facciata lungo palmi 38 ha l’esile spessezza di palmi due: sempre però ponendo la catena di legno ai reni della volta. Ed ecco dunque come si può conseguire che i muri di facciata anche nelle cantonate non abbiano spinta dalle costruzioni interne.

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L’artifizio è stato di sporgere man mano i mattoni fino a riunirsi su tutte le aperture; ed in fine si sono compagnati con mattoni a ventaglio tutt’i vani triangolari lasciati sulle porte dai mattoni sporli a poco a poco.

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Oltre a ciò, il pancone di terra su cui si fonda non è sempre della stessa resistenza al medesimo livello; ma conviene spesso profondare le fondamenta dove più e dove meno nella stessa facciata: a qual livello si adatterebbero allora detti archi rovesci? Io ho usato sempre dare ad ogni pilone o pilastro o colonna il suo fondamento particolare a piramide secondo la profondità della terra resistente, e mi sono trovato sempre bene. In detta Chiesa Rulli vi è un binalo ripetuto di colonne: ad ogni binato almeno avrei potuto fare un fondamento continuato; ma no, ad ogni colonna ho dato il suo fondamento separato, e la fabbrica non ha mostralo il minimo pelo.

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Luigi Suriani pria vecchio Controloro peritissimo della legge fondiaria, poi Consigliere d’intendenza ed in ultime Sotto-Intendente a Nicastro, uomo ben sensato ed istruito, e capacissimo delle faccende di Architettura, costruì pure un simile muro con muriccia di freno a terrapieno di una villetta innanzi al suo palazzotto in Lupara ove si era trasmesso; e tal muro saldamente regge da molti anni e reggerà a lungo ora che la fabbrica si è consolidata dal tempo.

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Posteriormente nel costruirsi un muraglione rettilineare dalla città onde rivestire e frenare l’altissimo picco sotto il Palazzo de’ signori Genova un altro Architetto volle imitarmi col farne la faccia esterna a scaglioni senza alcun bisogno, e contro al requisito della solidità che voleva quella faccia esterna a scarpa eguale da cima a fondo e senza quella dentatura: o imitatores, servum pecus!

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Detto muraglione a Felice di Lello io informai a 3 muri piegati ad angolo retto; il primo muro di petto o cateratta alle piovane, e gli altri due di ale laterali al primo, diversamente dall’antico muro preesistente di lunghezza palmi 90 rettilineare, abbattuto dallo scoscendimento allora successo sotto Porta S. Maria. Tale scoscendimento s’ingegnò di riparare prima un ingegnere con una palafitta che durò pochi mesi, e per la quale il Comune sprecò più centinaia di ducati. Posteriormente io riparai la frana con allacciare le acque di molti scoppii di sorgive che riunii in una fontana saldamente finora esistente a comodo de’ cittadini. — Nel costruire detto muraglione così piegato ad angoli retti; siccome i 3 muri dovevano avere una scarpa, e questa in opposte direzioni m’impediva la commessura de’ materiali alle piegature degli angoli; così usai il ripiego di portare le facce visibili de’ tre muri a gradoni, risecate di un quarto di palmo ad ogni 2 palmi di altezza: in tal modo i materiali de’tre muri furono adoprati orizzontalmente e per conseguenza ottenni la buona lega de’ materiali alle rivolte degli angoli.

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I muri medesimi potranno essere anche a secco co’ materiali messi tutti per coltello, perchè facciano un arco sdraiato. Se saranno a secco si eviterà la gittata di ciotoli a secco fra il muro ed il terrapieno, ma il meglio sarà di tai muri costruirne due palmi di altezza a fabbrica, e mezzo palmo a secco, affinchè in questa parte a secco possano filtrare i gemizii di acque piovane; e così alternando dalla base alla cresta.

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Alla cateratta sopradetta a Felice di Lello sottoposi una platea a fabbrica, ma posteriormente, al fosso di S. Sebastiano in Vasto, sotto una cateratta simile non feci alcuna costruzione di platea; ma invece, ad una certa distanza feci una catena a fabbrica, catena fra la quale e ’l muro di cateratta è rimasto un fosso di bacino alle acque cadenti: e così naturalmente le acque cadono sopra le altre del bacino; ed in tal modo la cosa è più naturale, senza bisogno di platea a fabbrica.

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Essi con forte scarpa alla faccia, ed a piombo ne’ fianchi, avranno perpendicolare la testa verso il terrapieno, ed appoggiati a dette teste, vi si costruiranno muri di un palmo di spessezza o poco più. Siffatti muricciattoli saranno ricurvi un poco colla convessità verso il terrapieno, ed appoggiati alle teste de’ contrafforti.

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Non posso approvare il sistema generalmente tenuto di spianare a fabbrica le cime delle 4 arcale sostenenti la cupola, ed ivi piantare il tamburo di essa. In tal modo il carico del tamburo verrà a gravitare sulle cime degli archi, i quali non hanno così alcuna pressione sui fianchi, e perciò le arcale patiscono. Nella calotta di S. Maria Maggiore di Vasto, la quale è la chiesa massima di questa città, io feci alzare 4 mura con vani soltanto sulle cime delle 4 arcate; ne’4 angoli della unione di essi muri feci sporgere in falso i mattoni internamente, cosicchè se ne è poi ottenuto il vano circolare interno iscritto nel quadrato. E così vorrei, trattandosi di cupole, che sorgesse da’ tetti circostanti un quadrato esternamente visibile, invece del tamburo tondo; e sopra di esso quadrato voltare la cupola con 2 o 3 scaglioni sbiecati o semi-tondi alla base, come nel Panteon di Roma. I 4 angoli esterni di tal muro quadrato si potrebbero tagliare a sbieco da sopra in giù, in modo che tal quadrato vada a ridursi un ottagono regolare alla base del primo scaglione. L’effetto credo ne sarebbe pur bello esternamente; ma ciò non monta, perchè tali 4 triangoli mistilinei di muro massiccio andrebbero a premere sui 4 piloni delle arcate massimamente e poco sopra gli archi; ond’è che si otterrebbe quella solidità che è il primo requisito di ogni fabbrica — Sulle cime degli archi nella cennata fabbrica di S. Maria lasciai un gran vano sopra il mezzo di ogni arco, per togliere così la pressione alle cime degli archi istessi; vano che poi al mio solito andai a riunire con mattoni sporti fin sotto i tetti circostanti; ond’è che tai vani non si vedono nè esternamente nè internamente. Ognun sa che il pieno della fabbrica sulle sommità degli archi dà il massimo peso, onde bisogna evitarlo come ho io sempre praticato con felice successo.

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Tal modo di tendere le catene non piacque a qualche Ingegnere, ma io lo credo migliore principalmente ad evitare i pani della vite e madrevite che vanno col tempo ad ossidarsi, e poi perchè non è migliore siffatto modo che tende la catena assai rigidamente fino a stenderla al perfetto rettilineo?

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Francesco Celenza in un fondo rustico da pochi anni acquistato, vi ha due pilastrate a fabbrica per portone d’ingresso. Uno di tai pilastri era strapiombato innanzi, e voleva ricostruirlo per avvicinarlo ancora di due palmi all’altro pilastro corrispondente da cui era troppo lontano. No gli dissi; e per mezzo del mio nipote Sig. Gregorio Pietrocola ingegnoso ebanista, gli rimisi a piombo il pilastro e glielo ravvicinai secondo il desiderio, facendolo correre intero con tutto il fondamento per mezzo di cunei di legno similmente alle due altre operazioni cennate. Perchè questo sistema non è buono?

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Per una novità piacevole poi, come credo, io formerei la cuba o faccia esterna della cupola simile ad un mezzo mellone o popone diviso per traverso, di quei che la natura dà con costole o fette divise alla loro faccia; vale a dire che i tratti ne’ quali la cupola esterna viene divisa da detti muri verticali, fossero delti tratti gonfiali esternamente, e la gonfiatura man mano andasse a cadere o rimettersi o piegarsi alla testa de’ muri verticali, che sarebbero a piano inclinato, testa che rimarrebbe più indietro e sulla quale andrebbero a riunirsi e strosciare tutte le piovane raccolte dai costoloni così gonfiati. Se i Turchi hanno inventate le loro cupole entasate o gonfiate come palloni fuori del piombo della loro base ond’è che essi le hanno costruite di legno, non potendosi a fabbrica; perchè non possiamo noi inventare una nuova forma di cupola, sempre a fabbrica, come la proposta a costoloni, onde uscire dall’ordinario? Le acque stroscianti sulle teste de’ muri traversi, non potrebbero inumidirne tutta la lunghezza fino a passare nella cupola interna; e potrebbero più facilmente riunirsi per dar loro lo scolo alla base della cupola.

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«Nicola-Maria Pietrocola di Vasto in Abruzzo Citra, nacque a’ 5 dicembre 1794 da Salvatore germano di Francesca Pietrocola, madre de’ fratelli Domenico e Gabriele Rossetti chiarissimi in Italia e fuori; e da Serafina germana di D. Niccolò Suriani Canonico Teologo del Regio Capitolo di Vasto, poi Vicario generale dell’Arcivescovo di Lanciano, in fine Arciprete di Vasto, riputalo tra i primi dotti della Provincia. Studiò filologia udendo D. Michele de Meis Canonico Tesoriere, scrittore ameno e forbito, Sacerdote di santissima vita. Fu istituito in filosofia dal nominato zio, pubblico cattedratico in Vasto, da cui apprese la Geometria, la Trigonometria, i teoremi di Archimede, le sezioni coniche e la proprietà di tutte le curve regolari col metodo sintetico, e studiò la Fisica di Poli con le annotazioni di Dandolo. Fin dalla sua prima età scarabuttava disegni di case, casine e ville con la penna comune e coll’inchiostro inchiostro del calamajo; e col solo ajuto dell’ingegnere pratico di Giuseppantonio Alberti Bolognese, che studiò da se, compratosi prima uno squadro agrimensorio e poi una Pretoriana, uscì in campagna a rilevare topografie di fondi rustici. Nato di povero ciabattino stentò la vita fra i bisogni, e col fare l’amanuense sul Giudicato regio e fino il copista agli Uscieri si accumulò un peculio col quale nel 1821 si trasferì in Napoli; d’onde, non soddisfatto, si trasmise in Roma, ove apprese l’Algebra nell’Archiginnasio romano dal Professore D. Giuseppe Settele, il quale nella pagella che si rilascia agli alunni, a’ 17 Giugno 1823 gli fece questo rescritto: Diligentissime interfuit meis Praelectionibus et Academiis, in iisque praeclarum ingenii specimen praebuit. Ma non contento della lungaggine delle pubbliche scuole, si avvalse dell’Astronomo Sig. Abate Ricbac che lo fece avanzare più celeremente nel calcolo. Frequentò l’Accademia di S. Luca per l’Architettura, e ne riscosse onorifico certificato a’ 10 agosto 1822 da’ Professori Signor Giulio Camporese ed altri; ma più si valse delle istruzioni private che raccolse dall’Architetto napolitano di straordinario genio D. Pietro Valente, che poi fu Direttore io Napoli a’ Reali Studi di belle arti, il quale a diversi Vastesi disse di avere il Pietrocola in due anni fatto in Roma ciò che gli altri giovani non avevano fatto in 10 anni. Apprese pure in 26 giorni dal nominato Sig. Valente quella Prospettiva che il pubblico professore Sig. Dilicati insegnava in due anni, e ne conserva tutti gli studii. Indefesso alla fatica, disegnò e misurò non poco delle fabbriche antiche e moderne colà. In fine da quell' augustissima Sede delle belle arti, ove per deficienza di mezzi non potè più a lungo trattenersi, si ridusse alla Patria alla fine di Settembre del 1823. Quivi diresse quasi tutte le fabbriche, e, fra le non nominate (intendi ne’ suoi scritti) la nuova Cappella del Sacramento a S. Pietro, il Teatro ed il nuovo Camposanto. Per consenso di molti Ingegneri specialmente del corpo di ponti e strade, gli si è dato il vanto di primo disegnatore di Architettura in Provincia, almeno a que’ tempi; e lo attestano molti disegni che ei rattiene finiti ad acquerello. Dietro esami conseguì dalla regia Università di Napoli tutti i gradi accademici in Architettura, ed infine la Laurea a Marzo 1832. Nel 1851 manifestateglisi le cateratte, questa malattia gli si trovò guaribile nel 56 e 58 in Napoli; ma egli compreso dal prepotente pensiere che l’operazione sbagliata potesse ridurlo al buio perfetto, ne fu sempre ritroso, ed ora forse si riduce a tentarla in questo Settembre 1863, non polendo soffrire l’opacità della vista sempre più crescente. » Fin qui l’autobiografia. Tornato in patria il Pietrocola disvelò tosto il suo ingegno nelle occasioni di fabbriche che presentavagli una Città non adusata allora alla spesa di pagar l’Architetto, nè al bello dell’arte, nè a desiderare nelle proprie case altro che una rozza e malintesa comodità. Quindi a lui non toccò che racconciare, rattoppare, modificare, rafforzare fabbricati, ne’ quali facevan contrasto alle sue idee e la disposizione delle preesistenti mura e la magrezza della borsa del padrone. Del che bene spesso lo si sentiva muover lamentanze quasi di sua infausta stella. Sembra che di pianta non costruì, cioè non incominciò che il patrio Camposanto, il quale, in fatto di architettura, mostra una disposizione di fabbriche, di arcate, di prospetti, che appagano l’occhio di chi v’entra; quantunque dal 1843, quando fu aperto alla tumulazione, fino ad oggi 1869 sia rimasto incompleto, anzi degradato nelle fabbriche dall’ingiuria del tempo. La cecità sopravvenutagli nel 1851, la gracilezza di salute, per la quale non sempre poteva rispondere alle esigenze dello edificatore, la intolleranza de' muratori ricalcitranti alle prescrizioni ed alle vedute dell'Architetto, le quali ad essi sembravano meticolose e di nessun rilievo, ed anche una certa austerità di modi in chi è cieco ed infermiccio, rilegarono quell'ingegno a solo meditare e speculare su ciò che sentiva raccontare o leggere di nuove fabbriche e di nuovi trovati. Chi ha potuto conoscere la maniera di sua vita, le sue abitudini rese alcuna volta singolari dalle continue infermità; chi riflette alla trista condizione del cieco inabilitato agli onesti guadagni d'una nobile professione, con in prospettiva una vecchiaja che potea esser lunga e penosa, può appena formarsi idea della opportunità delle sue economie, della sua preveggenza e del carattere che taluna volta potea sembrar troppo serio e quasi tendente al duro. Era l’uomo cui il corpo fu dato, più che ad ogni altro, a strazio della mente indagatrice, e del cuore non chiuso a’ sensi di gratitudine e di beneficenza. Di che il testamento fa fede. Oltre all’Architettura ed alle scienze affini in che era maestro, egli conosceva addentro il latino, mediocremente il greco. Versatissimo nel purgato italiano (che a’ suoi tempi era estraneo alle scuole), e nel francese, sonava con maestria il violoncello; si dilettava di poesia e di quant’altro fa l’uomo ornato e capace di accostarsi a qualunque altro uomo d'ingegno. Delle patrie antichità cultore, e delle passate glorie amante, all’unica sua prole avea imposto il nome Lucio Valerio, in memoria dell’antico poeta Istoniese Lucio Valerio Pudente.

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Sì sterminata cupola coll’altra interna poggiano insieme sulla base di un muro della spessezza di palmi 42 romani eguali a 33 napoletani ond’è che la cupola esterna potea benissimo farsi tubolare, e così alleggerirla.

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Circa l’ultima disposizione ministeriale del dilatarsi di metri 5 1/2, i ponti sui fiumi a comodo dei comuni io penso potersi risparmiare per ora una sì enorme spesa, surrogando a tale dilatamento una picciola costruzione di legno, la quale formi lateralmente al primitivo ponte della Ferrovia due anditi spenzolati in continuazione o dilatamento del ponte istesso fuori dei muri di parapetto nel modo seguente. Si stendano a traverso del ponte sotto le rotaie di ferro e sotto i parapetti laterali a fabbrica tanti correnti orizzontali di legno i quali sporgano dieci palmi fuori degli archi costituenti il ponte medesimo Su questi correnti così sporti si stendano dei tavoloni congegnati ad arte i quali formino i due anditi fuori i parapetti a fabbrica, ed ecco costituiti due andari sui quali trafficar possano pedoni, animali carichi, e vetture o carrozze. Sulle estremità o leste di detti correnti si costruirà un parapetto di legno per sicurezza dei viandanti; ed ecco così con pochissima spesa costruito un ponte doppio a comodo di tutti.

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Oppure i parapetti a fabbrica del ponte si alzino tanto che superiormente all’altezza dei vagoni possa costruirvisi un solaio di legno sopra cui possano transitare tutte vetture; ed alle due teste di tal solaio vi si costruiscano due rampe cordonate onde, senza impaccio dei vagoni, salire e discendere dal detto solaio; ed ecco in altro modo costruito il ponte a comodo universale pure con pochissima spesa. Nell’un modo o nell’altro de’ sopra espressi due ponti, ognun vede che la spesa potrà ridursi al più ad un quinto della spesa occorrente al dilatamento ordinato dei metri 5 1/2; cosicchè se tale dilatamento a fabbrica importerà p. e. ducati 30 mila, col ripiego proposto se ne risparmieranno 24 mila, la quale ultima somma impiegata ad utile sui banchi, si troverà doppia sicuramente quando occorrerà la ricostruzione del cennato ponte di legno.

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Per brevità si è tralasciato il dettaglio minuto della costruzione de’ succennati due ponti di legno; perchè il costruttore di essi certamente non mancherà d’ingegno per farli a sufficienza fermi, cioè che non oscillino punto, cosa ben facile a conseguirsi da ognuno.

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Ma se poi tale ministeriale disposizione del dilatamento del ponte emana dalla veduta di volervi stabilire in appresso il secondo binario delle rotaje di ferro, questo appresso o avvenire si crede molto lontano; e certamente è contro alla economia anticipare di 20 o 30 anni la forte spesa di trenta mila ducati, i quali, dopo lo stadio di tanto tempo potranno triplicarsi e forse quadruplicarsi: e quando vi fosser denari a spendere, perchè ammortizzarli fino a che non occorrerà il secondo binario?

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SUI PONTI DI FERRO SU PILONI A FABBRICA

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S’immagini un’arcata a fabbrica di mattoni di pieno centro sul diametro di 60 palmi, alla quale arcata si dia poco rinfianco di fabbrica cosicchè lo scarso rinfianco non regga alla spinta dell’arco; ond’è che questo crollerebbe. Per impedire tale ruina, nel mezzo della fabbrica dell’arco, ed ai reni di esso, a circa il terzo della sua altezza (il che nel nostro caso cadrebbe a 10 palmi) al di sopra della imposta dell’arco si metta in opera una potente catena di ferro che abbracci i reni dell’arco, esternamente ai quali vi saranno i due occhi delle testate della catena, entro i quali occhi vi saranno le due zeppe dell’istessa spranga. Tale catena insomma sarà messa in opera come quelle che ordinariamente si usano ai reni delle arcate nelle case private, per impedirne la spinta.

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Veramente le cennate arcate a fabbrica invece del ponte tubolare essendo sterminate, sembrano d’impossibile costruzione, ma invece di esse arcate, si potevano sporgere i materiali de’ piloni verso la lunghezza del ponte man mano finchè in cima si ricongiungevano a formare l’andito del ponte. E per fare che lo sporto de’ materiali reggesse saldamente, si potevano usare delle catene di ferro colle testate all’una ed all’altra estremità a frenare detti sporti finchè il cemento si assodasse dal tempo. Simile costruzione che sarebbe costata forse meno del ponte tubolare, avrebbe data un’opera eterna, quantunque irregolare; perchè non vi sarebbero comparse arcate regolari fra pilone c pilone, ma vani triangolari invece.

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I piedritti o spalle si fanno della spessezza di un metro a’ vani di larghezza metro uno e mezzo, e della spessezza di tre quarti di metro alla luce di un metro: spessezza enorme e simultaneamente scarsa; enorme per sì minute costruzioni, e scarsa perchè insufficiente al loro ufficio di sostenere grandi carichi di terrapieno. La sgretolata terra di gittata può considerarsi dal bel principio come un liquido che preme ai fianchi le due spalle del chiavicotto, le quali spesso muovonsi alla spinta della terra, la quale tende a ravvicinarle con restringerne la luce, fino a crollare, ond’è che tali spalle esser denno spadacciate pria di mettervi il carico di terrapieno. E perchè non arzigogolare una nuova forma, come sarebbe un arco che abbia del gotico e che muova dal piano della campagna senza bisogno de’ piedritti, arco cui basterebbe la metà del suddetto materiale, risparmiando così la metà della spesa e conseguendosi in tal modo una resistenza maggiore a qualunque carico soprastante? Ed in tal modo ancora si darebbe vano maggiore al corso delle acque.

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E non è solo il risparmio della spesa e la robustezza dell’opera di cui dee tenersi conto in questi nuovi progetti; ma vi è calcolata ancora la loro naturalezza, perchè vanno a seconda della natura che l’Artista investigatore deve imitare. Nei soliti ponticelli a spalle alzate si costringono le acque a passare in una gola troppo angusta, ond’è che le stesse accumulate in alla colonna, pria corrodono il fondo del ponticello, e poi allo sbocco formano una caduta la quale fa una mina al ponte istesso; lo che non può succedere sotto la nuova arcata che ha un diametro di metri 3 1/4 più grande del ponticello indicato; e perciò le acque stendendosi in letto maggiore, non possono accumularsi nè fare caduta allo sbocco del ponte; e neppure inondare le campagne sopra-corrente al ponte istesso. Questo fluire largo delle acque è più secondo natura, e per conseguenza da imitarsi. Adunque sotto ogni veduta deve adottarsi il nuovo sistema.

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SUL SESTO MIGLIORE DE’ PONTI A PIÙ ARCATE

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Perciò le arcate a segmento di circolo poggiale sui piedritti sono da evitarsi le une e gli altri. Così il mirabile grande arco segmento di ponte sulla Dora a Torino, sarebbe ancora più meraviglioso se continuasse entro terra i due rami della curva; perchè in tal modo lo si vedrebbe più vasto e maestoso, e quasi spenzolato sorgere dalle ripe del fiume, senza restringerne l'alveo; e vi sarebbe ancora economia di materiale, perchè quello adoprato in quelle enormi spalle sarebbe superfluo alla continuazione de’ due rami inferiori della curva.

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Tale inconveniente si evita col costruire la base di siffatto pilone con materiali non a cunei ma orizzontali in modo che le facce di tai piloni vadano a combaciare con le centine delle arcate, come si pratica in Vasto da 30 anni; e tale fabbrica di materiali orizzontali sarà alzata fino a che la spessezza dei tre palmi della prima mossa sarà cresciuta ai palmi cinque, dove sarà cominciato veramente l’arco a costruirsi con cunei tendenti al centro. Le teste poi di tali piloni avranno uno sperone o allungamento a scarpa il quale servirà di fendente o taglia-acque. Il fondamento in fine di tali piloni sarà a piramide, affinchè si vada molto a dilatare a dieci o quindici palmi sotto l’alveo del fiume sul pancone di terra resistente, senza bisogno di quelle platee generali che riurtano in su le acque contro le arcate. A siffatti amminicoli ed altri provvederà l’ingegno dell’Architetto esecutore cui non mancherà sagacità e ripiego.

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Il genio si manifesta sempre come lampo fuggente e schiva discendere a troppo minuti dettagli: Offendit poetas limae labor.

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Il ponte Elio-Adriano oggi Sant’Angelo in Roma ha grandi arcate nel mezzo, le quali vanno a terminare con quattro piccole arcate, due per ogni testa del ponte. Dal decorso di tanti secoli è avvenuto che le quattro piccole arcate descritte sono rimaste interrite o colmate dalle progressive alluvioni; e sono rimaste vane o aperte le grandi arcate di mezzo soltanto. Io qui trovo sapientissima la disposizione di quell’imperatore che ne diresse egli stesso l’opera da grande Architetto che era, per congiungere l’antico Campo Marzio al suo gran Mausoleo: sapientissima perchè in tal modo obbligò le correnti a decidersi al mezzo del ponte ove fece le arcate grandi. Così far si dovrebbe anche adesso, cioè che ogni ponte di arcate moltiplici dovrebbe avere alle sue teste picciole arcate e grandi nel mezzo, per fare che le acque si decidessero sempre al mezzo del ponte, e non mai potessero circondare una testa di esso, isolando il ponte, siccome spesso vediamo di presente. Così avverrebbe una bonifica di terreno a ridosso delle sponde del fiume, obbligando le acque a correre sempre nel mezzo del ponte. Se è vero che nel costruirsi le grandi opere, gli Architetti debbono sempre specchiarsi nelle simili già esistenti, perchè non imitarne questo bellissimo lasciatoci da tanti secoli approvato di quel sovrano Architetto?

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Andrea Monteferrante in Vasto, di piano molto sottoposto a quello della strada, manifestò molti scoppii di sorgive intorno ai muri di perimetro. Ad evitare tale inconveniente gli proposero la ricostruzione di quelle mura con una platea generale, tutte a fabbrica di calce con pozzolana, ciò che richiedea la spesa di molte centinaia di ducati, e l’opera non sarebbe riuscita sicuramente, perchè le nuove fabbriche non ppteano prendere una consistenza pria che le sorgive vi penetrassero. Io invece gli feci praticare un pozzo bibulo sino alla profondità di 50 palmi ove si trovò la rena sciolta. Riempito il pozzo di ciotoli a secco, le sorgive presero tutte quello scolo che regge da 20 anni, e così si provvide al bisogno colla minima spesa.

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Luigi Suriani che lo inculcò a tutti que’ naturali, e dappertutto le frane assodarono sempre.

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L’idraulico pressoio di Ravanas è bello ed ingegnosissimo; ma ha l’inconveniente di essere di eccessiva spesa, soggetto a rompersi ed a consumare assai presto le strambe. Oltre a ciò, la forza adopratavi dipende dai braccianti i quali non l’adoprano sempre egualmente. Quindi ne vengono delle offese a qualche proprietario per poca forza usatavi; mentre che il descritto pressoio sarebbe eguale per lutti, e la macchina secondo natura che agisce, lentamente sì, ma sempre; come non è nel pressoio idraulico. Questo panni come la palla del cannone che per la molta velocità fora il muro e non lo abbatte; perchè non dà tempo di comunicare il suo moto alla estensione della muraglia. L’idraulico pressoio è costoso, soggetto ad accomodi, e consuma prestissimo le strambe, oltre all’essere lesivo ai proprietarii, perchè non eguale per tutti.

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Da gran tempo io mi lambiccava il cervello di trovare che le acque cadessero a piombo da sulla tura de’ mulini e poi andassero a percuotere le palette senza perdere quella inclinazione necessaria a tale ufficio. Nella costruzione del nuovo mulino da me diretto in Lupara sotto l’amministrazione di quell’egregio Sindaco poi Sotto-Intendente signor D. Luigi Suriani, detti un sentore de’ canali ricurvi; ma siccome detti canali furono costruiti a fabbrica nella metà superiore, e di legno nella metà inferiore, stante la mia assenza, non fecero che i due pezzi di canale a fabbrica e di legno facessero una curva regolare, ma essi invece fecero una piegatura o angolo nella loro unione: ciò non ostante le macine corrono bene; e quel Comune colla spesa di 2 mila ducati, dal 1838 ha stabilita una rendita annuale di ducati cinquecento. Qui voglio avvertire ancora un inconveniente di tutti i mulini in cui le acque all’uscir dal canale formano una massa o colonna di altezza un palmo, larghezza una metà. Così si era fatto in Lupara dai mugnai caparbi delle loro opinioni; ma il lodato signor Suriani, siccome io gli aveva suggerito, fece allargare la bocca del canale così che le acque ne uscissero tutto al contrario, cioè di un palmo di larghezza, e mezzo palmo di altezza, ed i mugnai con loro sorpresa videro l’effetto più vantaggioso e migliore quasi il doppio della loro antica pratica.

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Non si può che disapprovare l’altro modo tenuto de’ mulini a botte o cisterna in cui si raccolgono prima le acque. Queste scaturendo da un cannello al fondo della cisterna, avranno una velocità secondo l’altezza della cisterna istessa, ma perderanno l'altra velocità che le acque acquistano cadendo a piombo sulla sommità del canale ricurvo superiormente aperto, da me proposto. Chi non mi credesse potrebbe farne un modello per un esperimento in piccolo, paragonando il momento o forza delle acque sul canale ricurvo con quelle della cisterna e di qualunque altro canale rettilineo a qualunque inclinata.

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I canali ricurvi avvicinano assai il muraglione della tura al fabbricato del mulino; e tal vicinanza, riunendo quasi i due fabbricati, mena pure a risparmio di muratura.

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Suppongansi due solidi parallelepipedi di egual volume e peso, e della gravità specifica dell’acqua; l’uno di base della lunghezza di palmi 20, larghezza 10, altezza 4, l’altro di palmi 40 per 20, altezza uno: questi due solidi saranno eguali, ognuno di palmi cubici 800, essi tuffati vi s’immergeranno egualmente colla superficie superiore al pelo di questa; intanto le cinque superficie del primo solido in contatto colle acque, saranno di palmi quadrati 440, e le cinque dell’altro solido saranno di palmi quadr. 920, adunque le superficie dei due solidi saranno come 440 a 920, ossia come 11 a 23, e perciò la resistenza a superarsi dal primo solido sarà anche minore della metà di quella a superarsi dall’altro; ed in conseguenza quando più si dilata la carena, tanto maggior resistenza hassi a superare. Di tutte le figure isoperimetre la più capace è il circolo, e la meno capace è quella che più da questo si allontana. La barca comune, a un di presso, è un semicilintro con le basi tondeggiate o allungate, che fanno la poppa e la prua; vale a dire che è della forma la più capace, e la di minor contatto colle acque; in conseguenza ha resistenza minore a superare, e qualunque nuova forma le si voglia dare, non conferisce a minorare la resistenza; e perciò la velocità sarà minore. Tutto questo anche prescindendo che la barca la quale più affonda, meglio regge agli ondeggiamenti del mare. Potrà dirsi che quell’affondare di più anche trovi resistenza maggiore; ma esso è largamente compensato dal contatto minore, d’onde viene tutta la resistenza, specialmente nel superare l’adesione delle acque al fondo del naviglio.

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Quanto più un naviglio pesca a fondo, e il suo carico o peso possa concentrarsi nel mezzo della carena, tanto più saldamente egli regge ai marosi. Su questa considerzione, a meglio resistere in una bufera o tempesta di mare parrebbe conducente sospendere un gravissimo peso nel mezzo e sotto la chiglia del bastimento; e questo potrebbe farsi nel seguente modo. Con una catena di ferro potrebbe fasciarsi la nave a traverso nel mezzo del suo corpo, e ad essa catena sospendere nell’indicato punto sotto la chiglia uno o due grandi massi di piombo sospesi a catena di ferro, il di cui anello superiore sarebbe infilzato nella catena sopraddetta di fasciatura, da cui penderebbe nel punto sotto la chiglia. A far questo, allorchè la tempesta si avvicina, ci vuol ben poco. Per circondare il bastimento della catena suddetta, questa si gitterebbe da poppa o da prua, e tenendone le due estremità da sul bordo del legno, si porterebbe nel mezzo di questo: quivi s’infilzerebbero in essa gli uno due o tre anelli de’ pesi i quali spinti già, anderebbero gli anelli a fermarsi nel punto di mezzo della curva descritta della catena, per essere questo punto di mezzo il più basso o inferiore. Ovvero se si dubitasse che gli anelli potessero scorrer giù fino sotto la chiglia, in questo caso potrebbe farsi così: alla catena di fasciatura potrebbero nel mezzo essere inserite fissamente le due o tre catene de’ pesi d’una sufficiente lunghezza, alle quali ultime catene sarebbero sospesi i pesi. Invece di gettare la catena da poppa o da prua per portarla in mezzo al bastimento, come sopra, si farebbe lo stesso più agevolmente con una corda, la quale portata nel mezzo, si legherebbe una estremità di essa alla catena di fascia; e così si passerebbe questa catena da una banda all’altra del bastimento, e la si fermerebbe come occorre: fermata la catena, si spingerebbero in giù i pesi i quali resterebbero al loro punto sospesi precisamente. Tali pesi oltre al tenere il naviglio più drillo alle percosse dei flutti, ritarderebbero ancora il moto di esso che è troppo veloce nelle tempeste; e la catena di fasciatura condurrebbe ancora a tenere più stretto e resistente il corpo del bastimento. Essa catena di fascia potrebbe essere rivestita di stracci, affinchè non rodesse il legno; ma pria di gittare i pesi dovrebb’essere benissimo stretta per impedire lo stropiccìo ed il logorìo de’ fianchi del bastimento. Piaccia a Dio che queste idee possano riuscire utili ai naviganti, e l’ultima di talismano ai navigli.

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