Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbasso

Numero di risultati: 174 in 4 pagine

  • Pagina 3 di 4

Vietato ai minori

656745
Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

Oppure abbasso la guerra viva la guerriglia. Già, i politici, questa nuova specie. Hanno combattuto alle università, disselciato strade, usato catene, tubi di ferro, bottiglie molotov, le battaglie ideologiche. Questi non sono gl’infelici figli dei fiori, i disperati della droga, i delinquenti comuni, i fuorilegge passivi. Qui dentro, in definitiva, e per assurdo, forse i migliori, quelli ancora vivi, che non si lasciano solamente esistere. Qualche cosa si è smosso. Ed è terribile pensare che il rifiuto ma soprattutto la violenza facciano cambiare qualche cosa. La violenza. Come le doglie che via via sforzano e la risolutiva che spinge col sangue alla nascita. Da dove vengo? Prendono l’iniziativa, interrogano loro. Dove abito io e dove abitava l’interrogante. A Piazza Navona. Ride. Certe volte a Santa Maria in Trastevere. Dopo lo rimanderanno a casa. (Se ci resterà.) Mi rivolgo all’educatore: Posso fare qualche domanda? Anche lui sottovoce: Meglio no. Ai ragazzi: Andate a mangiare. Ne restano. E un piccolo napoletano dagli occhioni patetici me lo dice: Tentato omicidio. Può essere stata una rissa fra ragazzi o un fatto grave, scontri con la polizia. Non mi riesce, come essi apertamente, di disobbedire all’educatore. Sfugge la domanda stupida: che desiderano. Sono venuta a mani vuote. Sigarette, m’era balenato. Ignoro se sia permesso fumare lecitamente, di nascosto s’è sempre fatto, un tempo perfino foglia secca con carta di giornale, capaci oggi di procurarsi l’"erba". Ma che domanda stupida: desiderano la libertà e basta. Il napoletanino patetico: 'O mare. E gli altri scanzonati: Ci saluti Roma.

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CHI VUOL FIABE, CHI VUOLE?

660466
Capuana, Luigi 1 occorrenze

Racconti 1

662654
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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CENERE

663036
Deledda, Grazia 1 occorrenze

ARABELLA

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De Marchi, Emilio 4 occorrenze

C'erano abbasso molti altri parenti interessati a far nascere scandali, che aizzavano l'ortolana a gridare più forte, che suggerivano le parole delle litanie. La donna, coi pugni appoggiati alle anche, il viso in una fiamma, l'occhio grosso e lucente, tirava un mezzo fiato, commentava alla gente, che prese subito a radunarsi, chi era il Maccagnaccio ladro, che cosa aveva fatto, che cosa aveva rubato: poi subito tornava da capo: "Gattone, Battista Scorlino, Boggia della povera gente!" Ferruccio sentivasi venir male, gli tremavano le gambe. A questi insulti, che salivano dalla pubblica strada, il signor Maccagno non seppe più star fermo. Saltò in piedi, venne a dare un'occhiata breve e tagliente attraverso i vetri polverosi, stringendo ancora il tagliacarte di bronzo come un coltello, masticò senza inghiottirle delle parole amare e avvelenate, trovando nell'irritazione dell'oltraggio la forza che non gli veniva data dalla buona coscienza. Nel livore dell'odio e della reazione selvaggia, l'egoismo, ingannando se stesso, confondeva il legittimo diritto della difesa col diritto del più forte, che non è sempre il migliore, come pare al lupo della favola. L'uomo arido e sprezzante ritrovava nella necessità della battaglia quasi un senso di orgoglio, che si accompagna sempre al valore, qualunque sia la causa per la quale si combatte. E come si sa, l'orgoglio si confonde spesso coll'onorabilità e aiuta con questa a confondere le idee, o almeno quelle che non desiderano troppo d'essere chiarite. Erano nell'affarista quasi due creature in cozzo tra loro. L'una, la primitiva, capace di idee buone e generose; e una seconda, quella del mestiere, che non intendeva che una ragione sola, l'interesse. Queste due nature s'erano fatte quasi due abitazioni nella sua coscienza, e come due vicine in discordia, cercavano sempre di non incontrarsi e di non farsi vedere insieme; si può dire che invecchiassero nella stessa casa, quasi senza conoscersi, odiandosi, respingendosi a vicenda, in una paurosa attesa, quale di loro due sarebbe morta prima, e quale sarebbe rimasta padrona assoluta della casa. "Grida, squàrciati, strega!" brontolò, pensando che tutti i cenci di quei pidocchiosi miserabili non avrebbero mai potuto mettere insieme il piccolo cencio di carta che le fiamme del caminetto avevano divorato insieme alla malizia dei preti e degli avvocati. "Sgòlati, crepa! Una carta abbruciata non c'è Dio che la risusciti." Da questa parte potevano assalirlo in cinquecento, ma la prova che la vecchia avesse fatta una carta non l'aveva che lui, e nemmeno lui era più in grado di presentarla. Le ingiurie e le insolenze pubbliche non facevano che dargli qualche ragione di più, se non si vuol dire che le sue ragioni cominciassero da queste. Un cagnolino debole ha bisogno d'essere aizzato per risolversi a mordere. Bene! le ingiurie e le insolenze aiutavano a farlo comparire vittima perseguitata. Si aggiunga che un torto fin che dorme (e in fondo sentiva d'aver torto in questa guerra) è come un lupo addormentato che si lascia ammazzare stupidamente a colpi di bastone. Queste punture obbligavano la bestia a dormire con un occhio aperto e a mandare di tanto in tanto un sordo ruggito d'avvertimento ai ragazzacci e ai villani della contrada. "Piglierò le mie note, stupida creatura." Tornò al tavolino, e tolto un foglio di carta, notò il giorno e l'ora, come se pigliasse gli appunti per un processo verbale. "Tognino, ladro di testamenti" urlò la donna. "Benissimo" e scrisse anche queste parole sulla carta. "Assassino della povera gente!" "Brava, dinne un'altra, brutta cagna." "Schifoso!" "C'è abbastanza per cacciarti in galera. Aspetta." Si mosse ancora dal suo posto e buttata nella viuzza un'altra rapida occhiata, notò molta gente sulle botteghe, riconobbe l'albergatore, il tabaccaio, il lattivendolo, qualche altro, dei quali volle scrivere i nomi nel verbale, per chiamarli tutti come testimoni d'accusa nel terribile processo d'ingiuria, oltraggio e diffamazione ch'egli avrebbe domani intentato all'ortolana e a' suoi compari. Oh se li avrebbe fatti ballare! "Ferruccio!" chiamò a mezza voce, aprendo un poco l'uscio verso la scala. Il giovinetto, colle convulsioni nelle gambe, era disceso in corte e andava cercando cogli occhi qualche sorvegliante o una guardia di questura che facesse smettere la spiritata. Non pareva più Milano. La strada in poco tempo fu piena di curiosi e di sfaccendati e anche di gente che aveva qualche cosa di meglio da fare, ma che il caso nuovo e stuzzicante teneva lì, fermi a guardare e a pestar la premura coi piedi. Chi rideva, chi canzonava, chi eccitava la donna, credendola ubriaca, a dirne sempre delle più grosse. Intorno a lei si parlava (come si può parlare tra gente male informata) della vecchia Ratta, che aveva lasciato un milione: del canonico Pianelli che aveva, d'accordo col Maccagno, rubato il testamento e s'eran diviso mezzo milione ciascuno: dell'avvocato Baruffa, il quale aveva le prove in mano che la vecchia era stata avvelenata: e altre siffatte fanfaluche, che parevan vere a chi le diceva, in proporzione del gusto che ci pigliava a dirle. E siccome questo gusto è sempre un po' meno di quello che prova chi le ripete, in poco tempo la storia del testamento e del veleno si sparpagliò in tutto il quartiere, e a furia d'esser data per vera, divenne verosimile. Chi rideva come alla commedia, chi, più interessato e quindi meno ragionevole, parlava d'impiccare, di bastonare, di cavare il denaro dalle budella. E come di fuori, così nel vano del cortile sporgevano teste di donne, berretti di cuochi e di lavoranti, correvano voci da muro a muro, da scala a scala, mentre dai retrobottega uscivano i commessi e i facchini di studio a domandare, a sentire, a vedere, a mettere il naso. Ferruccio, impaurito dal crescente bisbiglio, vistosi quasi preso di mira dai curiosi, chiamato dalla voce dell'Augusta che strepitava in cima alle scale, risalì le quattro scalette a corsa, e stava per entrare nell'ammezzato, quando nell'arco della porta risonò un grido acutissimo, un grido terribile di donna spaventata o ferita, un grido che fece balzare Tognino Maccagno dalla scranna, e suscitò un immenso susurro di voci adirate e scandalizzate. Tognino Maccagno, stringendo sempre quel tagliacarte acuto e lucente come un coltello, uscì, afferrò Ferruccio che vacillava sul pianerottolo, se lo tirò dietro per un braccio, scese a precipizio, passando, urtando, tra la gente, livido in faccia, e arrivò nel momento appunto che Arabella stramazzava mezza morta ai piedi della scala. Tornava dall'aver fatto una visita a Maria Arundelli che abitava verso le parti di Porta Genova. Giunta in via Torino, invece d'entrare in casa per la porta principale, svoltò ancora nella viuzza, per ripetere e per aggiungere una nuova raccomandazione a Ferruccio in favore della povera Stella, e per incaricarlo di qualche sussidio. Svoltato appena l'angolo, era stata ravvisata dall'Angiolina, che a vederla, fu presa da una nuova idea. Lasciato il posto, dove sbraitava all'aria, l'ortolana andò incontro alla moglie di Lorenzo Maccagno, che veniva rallentando il passo, coll'animo sospeso allo spettacolo della folla insolita che ingombrava la strada, le piombò subitamente addosso come un'aquila che ghermisce una tortora, e presala per un lembo del vestito cominciò a chiamarla ladra, moglie di ladri, nuora di ladri, manutengola... Arabella, còlta all'improvviso, trasalì, stentò a capire, e per l'istinto prese a correre verso la porta. E l'altra dietro: "Mettilo giù quel cappellino, smorfiosa, figlia di ladri..." Arabella vide come una gran fiamma rossa, un fuoco agli occhi, affrettò di nuovo il passo, mentre sentiva il sangue precipitare. E l'altra sempre dietro, a incalzarla, a tormentarla fin sotto la porta, dove allungò la mano al collo della giovine, che inorridita gettò un grido, quel terribile grido, si rivoltò, vacillò, si resse colle mani al muro, poi vide scendere il buio, sentì la morte venire... e cadde sugli ultimi scalini. Molti uomini, disgustati a quella scena, presa in mezzo l'ortolana, la cacciarono via, bistrattandola e battendola. Essa corse e sparì come una grossa talpa, tirandosi dietro un nugolo di ragazzi. "È niente. State lontano, non toccatela... È niente, Arabella. Un po' d'acqua. È meglio portarla di sopra. Fate stare indietro la gente, per bacco! Arabella, è nulla, mi creda; è uno sbaglio. Pigliala, Ferruccio, che la portiamo su." Era il signor Tognino Maccagno che parlava così, che ordinava, che teneva lontano la gente, sorreggendo il corpo della giovane svenuta, trascinandola con uno sforzo verso la scala, mentre Ferruccio, cogli occhi velati da un fiume di lagrime, la prendeva fasciandole modestamente i piedi nel vestito, e aiutava a portarla su per le quattro scalette fino all'ammezzato. Pareva che portassero una morta. Aquilino si collocò ai piedi della scala e col tono irritato di chi non ama le vigliaccherie, persuase i parenti a non far scene, ch'era una vergogna. Pigliarsela colle donne è più che una vigliaccheria, è una sporchezza. Il veterano, fremendo, cominciò egli stesso colle mani e col fazzoletto rosso di cotone a mandar via la ragazzaglia, che si caccia dappertutto come le mosche. Quando fu tutto finito, arrivarono le guardie. Arabella, posta a sedere sopra la poltroncina di pelle, cominciò leggermente a sospirare. Il suocero le sorresse colle mani la testa cadente, premendosela sul petto, mentre due o tre buone donne accorrevano con dell'acqua, con dell'aceto, con del rum. Essa riaprì gli occhi, li girò mollemente intorno con aria trasognata, sospirò, si ricordò, strinse la mano del parente per ringraziarlo, e dopo aver mormorato delle parole chiuse, uscì a dire: "Non c'è più quella donna?" "Nossignora, non c'è più" disse in fretta Ferruccio, che tremava sempre come una foglia. "Non c'è più nessuno. È stato un equivoco... Ha creduto che fosse chi sa chi... Come si sente? vuol andare di sopra, Arabella?" Il vecchio Maccagno parlava con una voce così alterata, che egli stentò a riconoscerla per sua. "Se queste buone vicine mi accompagnano..." Entrano l'Augusta e la Gioconda, che si strinsero amorosamente intorno alla padroncina. Arabella si sforzò di alzarsi, ma non poté reggersi. Sentiva la testa in fiamme e la vita fuggire. Le due donne presero la poltrona e la sollevarono così, mentre Ferruccio correva innanzi a spalancar gli usci. Il giovine gemeva senz'avvedersene, come quando si soffre in sogno. Fu portata su e messa subito a letto. Una delle vicine, la moglie del mercante, capì che bisognava il dottore e ne avvertì subito il signor Tognino. "Perché, perché?" domandò il vecchio sbarrando gli occhi. "Ho paura che perdiamo le belle speranze." Tognin Maccagno si portò i pugni stretti e angolosi alla bocca; ma non volendo mostrarsi avvilito, voltò le spalle e uscì. In anticamera trovò Ferruccio, fermo in mezzo, come un mobile dimenticato. "Hai visto Lorenzo?" Il ragazzo disse di no colla testa. "Sai dove sta il dottor Taruzzi?" "Sì, lo so." "Va a chiamarlo." Il giovane s'avviava già per uscire, quando il principale lo richiamò di nuovo: "Se vedi Lorenzo, non dirgli nulla com'è stato. Chiama il dottore e poi to'... son dieci lire..." Tognin Maccagno trasse con mano tremante il portamonete e dette il denaro. "Vai a Porta Romana, pigli il tram di Lodi, e se non c'è, pigli una carrozza e avverti la sua mamma, sai? alle Cascine..." "Sì, sì" disse il ragazzo, non accorgendosi che per la prima volta il principale gli dava del tu. E tornò a discendere le scale correndo. "Il soggetto è per natura delicato," osservò il dottor Taruzzi sul pianerottolo, dopo aver visitata la malata, "però, dopo l'accidente, il fenomeno è regolare e non presenta pericolo. C'è bisogno di un'assoluta quiete per una ventina di giorni e raccomando una continua vigilanza. Poi farebbe bene l'aria di campagna. Del resto, gli sposi son giovani e non sono i figliuoli che mancano a questo mondo. In quanto al nonno, caro signor Tognino, abbia pazienza anche lui per questa volta."

Il cappello del prete

663103
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 5 occorrenze

soggiunse il Quintina, compiendo un giro della stanza con le mani nelle tasche dei calzoni, ch'egli tirava sui fianchi, mandando fuori abbasso due scarpette da signorina. "Non siamo venuti per sporcar d'inchiostro la coscienza di nessuno; che bell'originale!" Demetrio gettò sul pettegolo un'occhiata di ghiaccio, mosse due dita in aria come se stesse per dire qualche cosa e tornò ad infilare la chiavetta nel buco. "Non si tratta di una grande somma!" provò a dire l'archivista, un giovanotto piccolo, smorto, con poche setole di barba e con due occhiali fini e lucenti sugli occhi. "Se non puoi pagare adesso, metti almeno la firma, tanto che si possa dire che ci siamo tutti ... " suggerí con benevolenza il buon Bianconi, che nella sua bonarietà soffriva di vedere un amico cosí fuori di strada. "Non è per non pagare ... Che diavolo! io sono ricco ... Guarda, Bianconi. Ho appena riscossa la mesata ... la vedi qui?" E Demetrio stese la mano irritata da un fremito mal compresso d'ira, con dentro le sue centoventidue lire e centesimi, gualcite come un pezzo di fodera. "Sappiamo che ella è ricco ... " cantarellò il gobbetto, facendo sonare le dita nell'aria. "Sí ... caro il mio signor ... " Demetrio finí la frase con un'altra occhiata lunga e insolente. Poi si mosse d'un tratto come se lo assalisse un'idea luminosa: "A lei, che ride e che canta, guardi: posso regalarle al signor cavaliere ... ." "commendatore, commendatore ... " corresse burlescamente l'altro. "Posso regalare al signor commendatore cento lire ... guardi!" e con un colpo di mano andò a mettere il biglietto da cento sulla scrivania del suo superiore. "Ed anche qualche cosa ancora gli posso regalare" soggiunse, cavando di tasca un involtino, ripiegato in una carta e legato con un nastrino rosso, che collocò sul biglietto. "Ma su quella lista il mio nome non lo metto: e mo' è con ... contento, sor ... " e in luogo del nome sostituí una smorfia della faccia, che gli fece raggrinzare tutta la pelle del naso. "Con ... contentissimo ... " strillò il gobbetto, agitando le gambe. Demetrio aveva preso con sé il famoso braccialetto coll'intenzione di consegnarlo al portinaio della casa dei bagni in via Velasca, come aveva consigliato Beatrice, e come se il regaluccio lo rimandasse lei, senz'altro, senza rinvangare il passato e far scene e scandali, di cui oggi si sentiva ancora meno il bisogno. Ma fuorviato dai discorsi, stuzzicato dall'ironia punzecchiante del Quintina e dalle insistenze banali del Bianconi, piú per un capriccio di resistenza che non per un partito preso, fu tratto a commettere uno sproposito, che forse non era nel suo programma e nemmeno secondo i dettami di quell'arte di saper vivere ch'egli voleva adottare per sistema. "So bene che al signor Pianelli non mancano i fondi" seguitò a dire il Quintina, socchiudendo con malizia gli occhi e mettendo fuori la voce in una cantilena canzonatoria. "Lei è un uomo spiritoso," rispose Demetrio con un senso di schifo "ma io potrei dimostrarle che pensa e che dice delle cose stupide." "Ma che storie? ma che vuol dimostrare? ma mi faccia il santo piacere di non fare il matto." "Se non firmo, è perché ho le mie ragioni." "Ma se le tenga ... ." "E le mie ragioni, caro il mio caro signor spiritoso, son pronto anche a stamparle." "E lei le stampi ... " rimbeccava senza perder fiato l'ometto piccino, che saltava come un uccello in una gabbia. "E il mio pane è guadagnato colle mani pulite, sa ... " e mostrava i due palmi "pulite piú delle sue, che se le lava tutte le mattine col sapone inglese." "Adesso sei fuori di te, Pianelli" s'arrischiò a dire il Bianconi, agitando con una certa furia le mani, mentre il Caravaggio, preso in mezzo, moveva la testa ora a destra ora a sinistra, come un gatto che guarda un pendolo, o anche un uomo che non capisce niente. "Lasciatelo cantare, è matto; gli è andata la rugiada alla testa. Starei fresco, se volessi perdere il mio tempo con un professore di lingua ... ." Demetrio sentí la punta della freccia a fior di pelle, si contrasse come un legno nel fuoco, e dopo un gran garbuglio di consonanti, da cui la sua lingua ingrossata dall'ira stentò a districarsi, disegnò col pollice una certa curva, come se abbozzasse un gobbetto nell'aria, e mormorò: "Io non ho certe fortune ... ." L'altro divenne livido, i suoi occhi si velarono e si rimpiccolirono, la bocca umida di saliva si atteggiò a un sorriso mordace, in cui l'ometto maligno cercò di nascondere, come dentro a una maschera, il cupo risentimento dell'animo offeso.Da quella smorfia lunga e indurita tra le pieghe della pelle uscí una voce piú falsa del solito, che doveva sembrar nuova anche al suo padrone: "Senta, sor Pianelli, i miei non si sono ancora appiccati ai travicelli dei solai, e io, firmando qui le mie sette lire, non ho paura di far mangiare a un benefattore i suoi denari." "Ah! aspetta ... brutto assassino ... ." Demetrio stese la mano, afferrò un grosso calamaio di peltro e fece l'atto di buttarlo in viso al mostro maldicente; ma il Bianconi gli fermò con una mano il braccio, ponendogli l'altra sullo stomaco, intanto che il Quintina rideva sugli acuti d'un riso fatuo e insolente, facendo il verso d'una gallina che canta. In quella entrò il commendator Balzalotti e tutti ammutolirono, restando ciascuno al suo posto, fermo nella sua posizione, come le statue di terra cotta che si ammirano al sacro Monte di Varese. "Che cosa c'è?" chiese il commendatore Filippo Balzalotti colla sua voce flemmatica di buon padre di famiglia, arrestandosi un poco sulla soglia, lindo nel suo abito nero, col panciotto bianco di piqué , lucido, pulito come uno sposino, con una espressione di bontà e di indulgenza sparsa come una spalmata di vernice sulla superficie della sua faccia di canonico. "Politica, della brutta politica, commendatore" si affrettò a dire il Quintina, che non era uomo da perdere troppo facilmente le staffe. Il Bianconi, a cui tremavano le polpe delle gambe, per aiutare a porre un cerotto si fece un coraggio da leone e disse: "Come impiegato anziano ho l'onore, commendatore, di far parte di un comitato d'onore incaricato d'invitarla a un modesto banchetto in onore della ... del ... ." "Della ben meritata onorificenza di cui sua Eccellenza il Ministroi volle onorare la signoria vostra" continuò l'archivista tutto d'un fiato, come se sonasse una trombetta. "Oh! oh!" esclamò tutto confuso il commendatore, "che cosa vien loro in mente? un banchetto a me? non sono un ministroi." "A questo penseremo in seguito" fu pronto a dire il Quintina, a cui stava bene la lingua in bocca. "Intanto è un vivo bisogno del nostro cuore di manifestarle la compiacenza della quale siamo compresi tutti quanti per una delle poche distinzioni, che si possono dire veramente meritate." "Questo sí, è vero, proprio ... " aggiunsero gli altri due. Demetrio, dopo aver soffiato nella chiavetta per liberarla dai fondi di carta, era tornato a rosicchiare intorno alla serratura, curvo, quasi nascosto dietro la scrivania. Il commendatore che lo aveva adocchiato subito, capí ch'egli non faceva parte della commissione. "Loro hanno una grande bontà e una grande indulgenza per me. Ammettiamo dunque che il ministroi abbia voluto ricompensare non i meriti reali, ma la buona volontà e la devozione a quelle idee liberali di ordine e di progresso, che hanno sempre informata la mia vita." "Benissimo ... " esclamarono con tre voci diverse i tre ambasciatori. Tenne dietro una battuta d'aspetto, durante la quale Demetrio, innocentemente, soffiò nella chiavetta, traendone quasi un piccolo fischio; e tornò a rosicchiare come un topo che fa il buco per passare. "Li prego dunque di farsi interpreti presso i loro egregi colleghi dei sentimenti della mia gratitudine, e dicano pure che, poiché gli anni mi dànno questo diritto, preferirò sempre essere il loro padre piuttosto che il loro superiore." "Questi sentimenti onorano l'illustre uomo piú di qualunque commenda" concluse di nuovo il Quintina. "Dunque se non le dispiace, commendatore, sabato alle sei avremo l'onore di venire a prenderla colla carrozza a casa sua." "Non si disturbino: se mi dicono il luogo della riunione ... ." "Non permetteremo mai." "Bene, come vogliono. Cercherò di fare onore alla bella compagnia e al cuoco." Risero tutti e quattro piú forte del bisogno, quasi per fare il coro finale, mentre il bravo uomo stringeva la mano all'uno, all'altro e all'altro. Demetrio, mentre gli altri se ne andavano, riuscí con un energico ma…ledet…tissimo! ad aprire il cassetto indurito dove aveva chiuse le sue manichette, la fodera del cappello, un boccaletto di vetro, un bicchiere, qualche altra cosuccia sua, e sí preparò a far fagotto. Il commendatore finse di non accorgersi di lui. Dal contegno del Pianelli non poteva capire s'egli era informato o no della delicata faccenda e non osava rompere il silenzio per non guastar l'aria. Demetrio, dal canto suo, era quasi sul pentirsi d'essersi lasciato trasportare un po' troppo; ma non poteva piú far sparire il biglietto e l'involtino senza dare nell'occhio o senza provocare una questione, che adesso gli era diventata indifferente. E intanto questi due uomini, fingendo di non accorgersi l'uno dell'altro, stavano lí sospesi, come ai due estremi di un'altalena in bilico, dove uno non può cadere, se non fa cadere anche l'altro, e nessuno dei due può andarsene finché la trave resta in bilico. È da queste posizioni incomode, piú che da istinti malvagi, che gli uomini sono tratti qualche volta a farsi del male. Il commendatore, attaccato il cilindro al chiodo, stava tirando la punta ai guanti, mentre dava, in piedi, una prima occhiata superficiale alle soprascritte delle lettere e al fascio degli affari. L'occhio andò naturalmente a cadere anche sul biglietto da cento e sull'involtino. Non capí a tutta prima, prese in mano il misterioso peso, stracciò coll'unghia un lembo della carta, vide un che di lucido, ruppe ancora di piú l'involucro, capí, arrossí come una ragazza còlta dalla mamma con un libro disonesto in mano, infuriò dentro di sé, un tremito nervoso lo prese, smosse, per far qualche cosa, della carta, mentre una parola furibonda, attraversando tutta quella fiammata di vergogna e di sdegno, gli venne due volte sulla punta della lingua: "Tanghero!" avrebbe voluto gridare contro quell'imbecille gaglioffo, che pretendeva di dargli una lezione in ufficio. Ma la bella dentiera di Winderling non lasciò uscire che un suono smorzato come l'onda morta di un tamburo. Demetrio, collocato il cassetto in terra, andava voltando e rivoltando le robe sue, come se facesse un'insalata di stracci. Sentiva quasi al disopra della testa passare lo sdegno di una cosí grande dignità ferita proprio nella sua poltrona, e, per quanto rassegnato a prendere le cose come il ciel le manda, non era ancora cosí maestro nell'arte del saper vivere, perché un resto dell'antica soggezione non gli facesse fastidio e balenío agli occhi. Quando gli parve di aver finito, raccolto il suo fagottello, si avviò, come se non ci fosse nessuno nella stanza, verso la porta d'uscita, diretto al suo nuovo ufficio. Il commendatore, in piedi, dietro la scrivania, lo lasciò andare un poco, incerto anche lui di fingere di non esserci e quindi bevere il fiasco nella sua paglia, o se non era il caso invece di toccare il tempo a questo tanghero dalle orecchie rosicchiate, che si permetteva di dargli una lezione in ufficio. Tra i due estremi scelse un terzo termine, secondo la vecchia tattica dell'uomo oculato; cioè, quando vide che l'altro stava per uscire: "Neh, Pianelli" disse con una voce d'uomo sostenuto sí, ma non in furia, "senta una parola." Demetrio si voltò e venne con tre passi lenti, in preda anch’esso a un tremito convulso, verso la scrivania del suo superiore, e interrogò con una faccia di uomo che ha il sole negli occhi. "È lei che mi ha raccomandato un ragazzo per l'orfanotrofio?" "Difatti, una volta ... " balbettò. "È figlio di un suo fratello, eh?" Demetrio disse di sí col capo, e inghiotti una goccia di saliva. "La ringrazio tanto: mi ha fatto fare una bella figura nel Consiglio. Di che male è morto il padre di questo ragazzo?" Demetrio, come se gli saltasse in corpo un razzo, fece un altro passo, quasi un salto, collocò la roba su una sedia e domandò: "Perché?" "Dimando a lei di che male è morto il padre di questo ragazzo, perché doveva informarmi: era dover suo, e non permettere che una persona rispettabile andasse a raccomandare a persone rispettabili il figlio di uno che si è impiccato per debiti. Che cosa crede? che gli orfanotrofi siano fatti pei figli dei ladri e dei falsari?" Demetrio, non piú cosí ingenuo come una volta, capí benissimo che il signor commendatore esagerava di proposito un fatto inconcludente per darsi della forza, per nascondersi in una nuvola temporalesca di sdegno, per vendicarsi insomma del vivo, picchiando sopra un morto. Volle giustificarsi, però senza andare in furia, e disse: "Scusi, lei sapeva benissimo, anzi meglio e prima di me com'erano andate queste cose, e, se si ricorda, mi ha dato in questo preciso posto anche dei preziosi consigli. Se c'è qualcuno che deve lamentarsi, scusi, cavaliere, dovrei essere io, nel caso, perché ... , perché ... chi ha fatta la piú brutta figura in questa faccenda, chi è stato il piú minchione sono io ... ." "Che mi sta a contare ... " interruppe con un brusco movimento delle mani il commendatore. "No, scusi, lei si lamenta che le ho mancato di riguardo" tornò a dire Demetrio sospinto a poco a poco da una fiumana di cattivi umori, che non sentivano piú la forza degli argini "e io mi permetto di chiedere a lei e al suo buon amico di Novara chi si è fatto piú giuoco della semplicità, della debolezza ... e dei bisogni di una povera gente che, appunto perché povera e debole, poteva meritare del ... della compassione." Sospinto, trascinato, travolto dalla reazione della sua virtú, Demetrio trovò d'aver dette piú parole che non avesse in mente di dire, ma le pronunciò senza declamazione, quasi sottovoce, con un tono e un gesto che conservavano ancora, alla lontana, un'apparenza di rispetto. "Guardi come parla ... " comandò con un alto sussiego il commendatore, e indicando la porta col dito, aggiunse: "Mi vada fuori dei piedi." "Andavo bene: è lei che mi ha chiamato indietro per il gusto d'insultare un povero orfanello. Siccome non ha potuto oltraggiare l'onore di una donna onesta, crede di vendicarsene ... ." Demetrio alzò le mani colle dieci dita aperte. "Esca, dico ... " l'altro gridò, quanto è permesso di gridare a un superiore, facendosi smorto e agitandosi tutto nel piccolo spazio tra il muro e la scrivania. Demetrio, sempre sospinto da una violenza che non sapeva piú imbrigliare, fatto un altro passo avanti, seguitò: "Crede di vendicarsene col gettare l'infamia sul capo de' suoi figliuoli." "Per Dio ... " tornò a dire il commendatore, agitando le carte con un moto convulso: ma non voleva d’altra parte col gridar troppo esagerare lo scandalo, far correre gente, compromettersi in faccia ai subalterni. "Faccia il piacere" tornò a dire con un tono piú dimesso, "se ha delle ragioni, non è questo il luogo." "L'offesa ch'ella ha fatto a quella donna è cosí vile ... " soggiunse Demetrio appuntandogli in faccia un dito. "Di che cosa mi parla?" interruppe il commendatore agitando sotto il naso del Pianelli il foglio della Perseveranza , stropicciato come un fazzoletto, quasi avesse voluto pulir l'aria e far scomparire quelle brutte parole. "Che provocazione è questa? esca, le torno a dire. Che mi viene a contare a me, di quella sua pettegola?" Demetrio lasciò cadere una mano con un colpetto secco sulla spalla del commendatore e gli disse: "Badi a non offenderla di piú, per il suo bene ... ." "Che, che, che ... è una minaccia?" balbettò il commendatore, facendo gli occhi grossi e spauriti, tirandosi piú che poté sul muro. "Badi," e il Pianelli lo fissò coll'occhio cattivo "io non ho mai date lezioni sull'arte di saper vivere, ma posso insegnare a lei e a qualcuno piú bravo di lei come si rispetta una povera donna." "Ehi, di là ... , Bianconi; bravo, venga qui." Il Bianconi, che stava dietro l'uscio ad ascoltare con un gran dolore ai ginocchi, quando capí che il Pianelli perdeva la testa del tutto, entrò, lo prese sotto il braccio, lo tirò indietro: "Andiamo, non dir piú asinerie ... Tu ti senti male ... ." "C'è della gente che dice che io faccio dei guadagni, che ho dei segreti protettori" gridò con una voce falsa e lacerata il Pianelli, che non era piú in grado di misurare la portata e l'estensione delle parole. "Questi sono i miei guadagni. Ma dovessi anche mangiare i chiodi delle scarpe, avrò sempre il diritto di insegnare a lei, e a chiunque piú bravo di lei, il rispetto che si deve a una donna onesta." "Lo meni fuori a respirare dell'aria, Bianconi. È matto; ha bevuto." "Taci dunque ... finiscila" predicava il Bianconi. "A lei e a chiunque piú bravo di lei" tornò a ripetere il povero diavolo dalla soglia dell'uscio, attirando l'attenzione dei portieri e degli impiegati piú vicini. Non era Demetrio Pianelli che strillava, ma qualche cosa o qualcheduno dentro di lui, che aveva bisogno di uscire come il diavolo dal corpo di un ossesso. Era l'uomo morto, che risuscitava colla corona di spine di tutti i patimenti, di tutti gli stranguglioni inghiottiti, di tutte le amarezze, di tutte le vergogne, di tutti i tedî sofferti in una lotta superiore alle sue forze cogli uomini, colle donne, coi vivi, coi morti, e (piú terribile di tutto) con sé stesso. L'uomo morto usciva, come evocato ancora una volta dal nome di quella donna che altri osava insultare in sua presenza: usciva da un apparente letargo di cinismo a protestare, e a vendicarsi un momento per ricadere forse per sempre nel buio della sua fossa, che non si sarebbe schiusa mai piú. Se ne accorse egli stesso quando, tirato dal Bianconi, attraversò l'anticamera in mezzo a un gruppo di persone, che lo guardavano con curiosità e che gli parvero ombre. Si fermò un momento sulla scala, si svegliò, sto per dire, dal suo sogno, e cominciò soltanto allora a capire quello che il povero Bianconi andava ripetendo: "Che ti salta in mente? sei matto? la ti gira? che diavoleria ... A un capo d’ufficio, a chi ti dà il pane ... E che te ne importa a te delle donne? lasciale nel loro brodo le donne ... Hai torto, hai fatto male: già, si vede che non sei guarito: dovevi stare a letto ancora qualche giorno ... Va a casa, Pianelli, lascia passare la scalmana, rifletti: cercherò di fare le tue scuse, dirò che sei malato, che è stato un equivoco, che hai creduto una cosa e invece era un'altra. Anzi dovresti scrivere subito una bella lettera al cavaliere, voglio dire al commendatore ... ." Mentre il buon Bianconi cercava di salvare un amico dal precipizio, il commendatore, vedendo che la cosa minacciava di propalarsi nei corridoi e negli uffici (dove c'è sempre il bell'umore che ha gusto di ridere alle spalle dei superiori) si rivolse ad alcuni impiegati accorsi a vedere, e ridendo come meglio poteva al disopra della sua rabbia e della sua paura, disse loro: "È niente, grazie, vadano pure. Ha creduto che gli si volesse fare un torto, perché ho chiamato il Bianconi al suo posto: è un originale, un misantropo, ha la mania della persecuzione. Che asino! Aveva anche bevuto. Scusi, Caravaggio, apra un poco la finestra. C'è un puzzo d'acquavite, non sentono? Tu, Caramella, portami una tazza d'acqua. E io piú asino di lui a dargli ascolto. Se gli passa coll'aria fresca, bene, se no ... se no…" "Mi sono accorto anch'io poco fa che non era compos sui " disse il Quintina che in questa commedia godeva piú che a teatro. Amico della Pardi, aveva saputo da lei come e qualmente il cavalier Balzalotti non rifiutasse i suoi consigli e i suoi benefici alla bella cognata del brutto cognato, come Beatrice andasse a trovarlo in casa all'ora della dottrina cristiana e come per questa via il Pianelli avesse avuta una promozione nell'organico ... Il piccolo gaudente andava ora a fantasticare quel che poteva essere accaduto nel retroscena, per far nascere in pieno ufficio uno scandalo di quella sorta; non vedeva chiaro, ma intanto godeva in prevenzione dell'affanno con cui il vecchio gattone cercava di coprire le sue, diremo cosí, tenere fragilità. "Altro che compos sui !" esclamò il commendatore "non poteva quasi stare in piedi. Se torna, non lo si lasci entrare: non ne voglio di ubbriachi in ufficio. Farò un buon rapporto ... Tornino al lavoro: grazie, vadano pure… Chi sa che anche questo non aiuti ad aguzzare l'appetito per sabato ... " "Eh! eh! eh!" rise col suo verso di gallina il furbo gobbetto, che, uscito di lí, fece un giro per gli uffici a contare l'allegra storiella. Ricordò i sorbetti che il cavalier Balzalotti soleva pagare alla bella pigotta le sere di carnevale, tra una polka e l'altra, mentre Cesarino Pianelli si divertiva a falsificare i conti di cassa. Ma il piú comico era l'amico di Novara, questo misterioso personaggio, che doveva confortare di biscottini la solitudine della povera vedovella ... mentre l'orso della Bassa sarebbe stato fuori a far la guardia ... , eh! eh! — Erano discorsi a spizzico, a scatti, con molti vuoti in mezzo, dentro i quali la fantasia di ciascuno poteva introdurre tanto un granello di pepe, come uno spicchio d'aglio, discorsi che il gobbetto metteva in rilievo nell'aria con tutti i segni cabalistici della sua mano nervosa e rachitica, rannicchiandosi nello scrigno, stirando le gambe nei calzoni, grattandosi la barbetta sul collo, mandando dal ventre rotondo e grasso un nitrito di cavallo ... he! he! — che andava a finire in un cocodé di gallina che fa l'uovo. Il giorno dopo, un venerdí, un telegramma del Ministero sospendeva il signor Demetrio Pianelli dall'impiego fino a nuovo ordine. Al telegramma doveva seguire una lettera ministeriale. Ed il giorno dopo, il sabato, ebbe luogo al Giardino d'Italia il pranzo che gli impiegati offrivano al commendatore.

"C'è abbasso un signore che desidera parlare a lei, sora Beatrice." "Un signore? non vi ha detto il suo nome?" "No, o forse non ho capito." "Non lo conoscete?" "Non mi è faccia nuova: pare un po' esaltato. Gli deve essere accaduta una disgrazia…" "Ditegli che veniamo subito abbasso ... " soggiunse Beatrice con un tremito nella voce. S'era ridotta quasi ad aver paura dell'aria e andò a immaginare che fosse qualche altra disgrazia. Quand'ebbero finito di vestirsi, madre e figlia discesero quelle benedette scale, forse per l'ultima volta. Arabella pareva una candela. Sotto il portico, a’ piedi dei gradini, passeggiava un signore grasso, che, al veder la signora Pianelli, le andò incontro colla furia d'un uomo disperato. Beatrice riconobbe in lui il signor Melchisedecco Pardi, il marito della bella Palmira, e capí dalla sua faccia smorta e stravolta che aveva poco dormito anche lui. Anche lui, come Demetrio Pianelli, come Paolino delle Cascine, era un'anima in pena per grazia di una donna, perché questi benedetti uomini, grandi e grossi, che sembrano a vederli i padroni del mondo, basta toccarli con un dito sul cuore e si smontano come le macchinette. I coniugi Pardi stavano una mattina facendo colazione, quando la donna di servizio consegnò alla signora una lettera arrivata allora allora dalla posta. Le lettere, lo ricordiamo, da qualche tempo in qua erano diventate gli spauracchi del signor Melchisedecco, il quale, sebbene, dopo la scena che abbiamo visto, non avesse piú motivo di lagnarsi di sua moglie, pure non poté nascondere un certo cipiglio, intanto che Palmira dava un'occhiata alla soprascritta. Ma questa volta fu un cipiglio inutile. Palmira, spinta la lettera verso di lui, cosí come era arrivata in tavola, gli disse: "Leggi tu." Secco, un po' mortificato d'essersi lasciato cogliere in diffidenza e in gelosia, crollò il testone, alzò le spalle e mormorò, mentre ripuliva il piatto con una mollica di pane: "Che bisogno?" "No, leggi. Dici sempre che io sono la donna dei misteri ... ." "Che cosa ho detto?" "Non è necessario parlare. Apri, guarda dunque." "Se è per capriccio tuo ... ." Il buon Pardone confuso e quasi commosso per questo straordinario attestato di confidenza, aprí la lettera, che veniva da Milano, mentre cogli occhi buoni carezzava quella sua cara traditora. "È la signora Pianelli che ti scrive" disse, dopo aver scorsa superficialmente la lettera. "Oh!" fece Palmira senza alzare gli occhi dal piatto con un tono di freddezza glaciale. "Che cosa vuole la signora delle Cascine?" "T'invita al suo matrimonio per giovedí mattina." "Che onore!" declamò Palmira, corrugando la fronte in uno sforzo come di concentrazione, che ella procurò di nascondere con un altro sforzo dei muscoli, mentre cercava di schiacciare nei palmi una noce contro un'altra. "Se accetti, dice che manderà la carrozza a prenderti mercoledí sera, perché tu possa assistere alle presentazioni e a un piccolo trattenimento ... ." "Anche la carrozza! vuol proprio farmi morire d'invidia! Conosci tu il suo Paolino?" "Non ho questo bene." "Una pertica con in cima un gran pomo d'Adamo." Palmira rise ella per la prima d'una ilarità sfrenata ed eccessiva, sforzandosi di coprire un altro movimento del cuore e seguitò: "Per sposare di questi lampioni non vale la spesa di andare fuori del dazio. Di lampioni è pieno Milano." Secco rise lui di gusto questa volta alla pittura del sor Paolino, e in cuor suo si consolò d'essere qualche cosa di piú d'un lampione. Lo spirito mordace e pittoresco di Palmira aveva sempre avuto il merito di piacere al buon fabbricante di nastri, sorto anche lui dal popolo, a cui piacciono i paragoni semplici e coloriti. Confrontando in mente la bella e pacifica signora Pianelli, che egli aveva conosciuto a Cernobbio e alle feste del Circolo Monsù Travet , nella sua beata e pacifica compostezza, colla sua faccia rotonda di bambocciona, a quest'altra donnina magra e spiritosa, che rosicchiava davanti a lui un amaretto con una delicata nervosità, il buon Pardone non poté a meno di fare anche lui il suo paragone. "Non basta" pensò "che una donna sia bella e prosperosa come una gallina. La bellezza va e viene e, in quanto a peso, vale di piú un cannone. Ciò che dà vita e illuminazione a una donna è lo spirito. Una donna senza spirito" seguitò nella sua pigra fantasia di buon ambrosiano, "è come un caffè buono, ma freddo." Secco non sarebbe stato capace di mettere in carta queste idee, ma le espresse cogli occhi, con cui avvolse teneramente la sua cara traditora, soffiando il ridere dalle ganasce gonfie, mentre ripensava al paragone della pertica con in cima un pomo d'Adamo. "Che ne dici, dunque? debbo accettare?" "Direi di sí. Se t'invita è segno che ha gusto d'avere anche te." "Non ne ho nessuna voglia" soggiunse Palmira, continuando a schiacciar noci, senza far altro che tormentare la pelle delicata delle sue manine da contessa. Ma forse aveva bisogno di quel tormento fisico per schiacciarvi dentro un pensiero piú duro e piú aspro. "Se non c'è motivo, non bisogna mai disgustare la gente" raccomandò il buon negoziante, rompendo con un colpo solo delle sue mani grassoccie e forti due belle noci, che mise in venti frantumi sul piatto di Palmira. "Non ho nemmeno un vestito adatto" seguitò a dire Palmira, come se si compiacesse di porre degli ostacoli ai propri passi. "Per questo siamo in un Milano ... ." In questi discorsi la colazione finí. Secco si alzò, accese una grossa pipa di ciliegio e andò in fabbrica, in mezzo al movimento de' suoi duecento telai, che mandavano un chiasso di cento pettegole. Quando l'uscio fu chiuso sull'onda sonora che entrò a invadere il salotto, Palmira afferrò con furia la lettera rimasta aperta sulla tavola, la scorse in furia con uno sguardo freddo e lucente, mordendosi le labbra sottili, avvicinò le prime e le ultime parole di ogni riga, traendone un senso che era sfuggito al suo segretario; si contorse quasi su se stessa come una foglia secca, e mormorò qualche cosa, che andò a morire negli abissi imperscrutabili della sua coscienza di donna vana e capricciosa. Si alzò, accese una sigaretta e, tolto dal caminetto un giornale di mode, andò a rannicchiarsi in una poltroncina posta sotto la finestra che dà sul Naviglio, cogli occhi apparentemente fissi alle belle signore del figurino, ma in realtà perduti in una contemplazione lontana molto piú bella e affascinante. Dalla fabbrica arrivava ancora fino a lei, per quanto smorzato, il continuo tric-trac, che assordava, intontiva le orecchie e l'anima, e sul quale tesseva anch'essa le sue giornate tutte d'un colore, trascinandosi dietro la vita lunga ed uguale come un nastro ordinario, senza una emozione, tediata, piena, gonfia della sua stessa fortuna di agiata borghese, sempre in lotta o colla tenera bontà di suo marito, o colle tentazioni de' suoi pensieri. Era piú felice forse quando lavorava di là, in fabbrica, e che poteva almeno sfogare l'umore, tirando uno zoccolo nella schiena a qualcuno. Per quanto non invidiasse né il temperamento, né il "lasciatemi stare" di Beatrice, per quanto non credesse alle sue massime di donna pacifica, doveva però confessare, con un piccolo risentimento d'invidia, che quella bambocciona era piú fortunata di lei. Anche un Paolino qualunque, che abbia cavalli, carrozza, una stalla piena, tre o quattro cascine popolate di oche e di galline, è qualche cosa di piú allegro e di piú vario che il passare la vita in una vecchia e quasi lurida casa del Terraggio, colla prospettiva del Naviglio melmoso, che manda su ogni sorta di malanni, nel perpetuo stordimento di una fabbrica che fila nastri e noia, noia e nastri. Quel che rispondesse a Beatrice non si sa: sembra però che vincessero la tentazione, il capriccio e la curiosità, perché il mercoledí, un'ora prima di sera, una carrozza di tipo campagnuolo, a due cavalli, si arrestò davanti alla fabbrica del signor Melchisedecco Pardi. Palmira partí sola alla volta delle Cascine. Secco arrivò appena a tempo per sporgere il capo dalla finestra dello studio e a gridare: "I miei complimenti; portami i confetti." La sera andò a far la solita partita a tresette ai Tre Scanni ed ebbe un monte di carte belle. In una mano sola accusò undici punti, e due volte di seguito i tre assi. "Caro lei, lo faccio arrestare" saltò su a dire il signor delegato Broglio, della vicina Sezione di Sicurezza, che non mancava mai al solito tavolino. "Questo si chiama rubare e non vincere. Faccio presto, sa: ho le mie guardie in via Lanzone e lo butto in cella a passare la notte." "Allora sí, povera signora Palmira ... " disse il compagno che vinceva col fortunato mortale. Secco rideva, soffiando la contentezza dalle gote gonfie, e picchiando con tremendi colpi le carte sul tappeto verde. "Fortunato nel giuoco, sfortunato in amore." "Tre assi ... " accusò per la terza volta il signor Pardi, chiudendo gli occhi e appoggiandosi coi gomiti grassi alla tavola per ridere in equilibrio. Il delegato, che perdeva già la terza partita, mormorò: "Tre assassini!" e, volgendosi al ragazzo dell'osteria, gli disse: "Guarda se c'è un agente lí di fuori ... ." Il Pardi tornò a casa piú tardi e piú caldo del solito. Entrò nell'andito buio al lume di un cerino e prese le lettere, che trovò nella cassetta ai piedi della scala. La donna di servizio uscí col lume e, mormorata la buona notte, se ne andò, lasciandolo solo nella deserta camera nuziale. Al di sotto della calda allegria che suscitava il Valpolicella dei Tre Scanni , la vista di quel letto vuoto a man sinistra destò uno strano sentimento o presentimento di malinconia, come se Palmira non fosse andata per un giorno a divertirsi a uno sposalizio, ma gliela avessero portata via morta. Era anche questo un effetto del bicchiere, che eccitava in quel buon uomo linfatico e grasso i pensieri patetici, che fanno piangere, mentre gli altri ridono e cantano volentieri quando li rischiara un po' di lumen luminis . Fece passare alcune lettere; buttò in disparte le solite fatture, gli avvisi commerciali, e si fermò a contemplare una piccola busta, attratto da una scrittura grossa a spina di pesce, che gli parve di riconoscere. Stando in piedi col cappello tondo quasi sugli occhi, il sigaro spento in bocca e il bastone sotto il braccio, ruppe la carta e lesse su un biglietto di visita del cavalier Lanzetti le seguenti parole: "Dimani scade la nostra cambiale; non si potrebbe rinnovarla? Gli affari sono stagnanti, e m'è mancato anche il baritono. Potrei intanto offrirle un palco per tutta la stagione." E piú sotto, conficcato nel piccolo angolo rimasto libero: "Per sua norma, Altamura è a Milano già da una settimana. L'ho saputo soltanto ieri." Tornò a leggere da capo: "Dimani scade la nostra cambiale, ecc.." E piú sotto: "Per sua norma, Altamura ... ." Gli occhi del signor Pardi si sollevarono e andarono a guardare, senza fermarsi troppo, il posto del letto a mano sinistra. Collocò il bastone sulla tavola, vi pose sopra il cappello, e data una rapida e paurosa occhiata alla porta, tornò a leggere la terza volta il biglietto, avvicinandolo piú che poté alla fiamma della candela. Lo buttò sulla tavola con una espressione di schifo. Era una trappola: ci voleva poco a capirla. L'egregio cavalier Lanzetti — oggi sono cavalieri anche gl’impresari e i suggeritori — avendo bisogno estremo che la cambiale fosse rinnovata, cercava di farsi dei meriti, inventando un Altamura a Milano, mentre Altamura cantava a Madrid, e la Gazzetta dei Teatri annunciava la sua prossima partenza per Montevideo. "Un cantante che fa la stagione a Madrid non passa da Milano per andare in America, caro signor cavaliere dalle cambiali insolvibili. Sarà per un'altra volta. Io ti posso regalare anche tre cambiali, ma non voglio che tu mi creda cosí gambero da bevere ... da ritenere che il signor Altamura è a Milano già da una settimana ... ." Il Pardi rideva con sé stesso, movendo tre o quattro passi nella stanza, fermandosi a rimirare con attonita attenzione la gamba di una sedia, stringendo nelle dita in un fascetto solo i peli dei baffi e del piccolo pizzo di barba; poi girava sui tacchi, dava un'altra occhiata di volo al letto ... Palmira non era quasi mai uscita di casa tutto quel tempo. Da qualche mese in qua si mostrava docile, discreta, savia, tollerante. Lettere non ne riceveva piú, e nemmeno giornali, dopo la gran burrasca di quel giorno che l'aveva còlta sulla porta della Posta. Essa non voleva nemmeno andare alle Cascine, al matrimonio della signora Pianelli, per non fare la spesa di un vestito nuovo: era stato lui a cacciarla via, perché prendesse una boccata d'aria, povera diavola ... Stava ancora concludendo il suo ragionamento che già la mano aveva aperto, operando per conto suo, un cassettone, in alto, dove Palmira teneva i fazzoletti, le gioie d'uso, le lettere, il borsellino. Quando si accorse di commettere una stupida ed inutile indiscrezione, spinse e chiuse con violenza, intascando sbadatamente la chiave. Non era il caso di credere che prima di andare alle Cascine, Palmira avesse a incontrarsi con ... qualcuno. Impossibile. Come poteva sapere questo qualcuno che il matrimonio della signora Pianelli era fissato pel giovedí mattina, e che il signor Paolino avrebbe mandata la carrozza a prendere Palmira il mercoledí? Ad ogni modo bisognava sempre supporre che Altamura fosse a Milano, mentre la Gazzetta dei Teatri dava per certo che egli aveva accettata una scrittura per l'America del Sud, dove i mariti non fanno complimenti e piantano fior di coltelli nel cuore ai Trovatori . Che diavolo gli passava mai per il capo? Ecco in qual maniera un uomo può esser felice per tre assi a tresette, e cinque minuti dopo diventare il piú disperato degli uomini per l'ombra di un'idea. Frugando nelle tasche della giacca, per una morbosa inquietudine e quasi curiosità delle mani, vi trovò una chiavetta. Da qual parte questa chiave? Non si ricordava già piú. Stette a guardarla con grossi sopracigli, finché gli venne in mente ch'era la chiave del cassettone. Aprí di nuovo il cassetto in alto, cercò, frugò, trovò una lettera, corse presso la candela. Era la lettera della signora Beatrice ch'egli aveva aperta e letta a Palmira, un gentile invito e non altro, a meno di credere che anche Altamura fosse stato invitato alle Cascine ... Ma se Altamura non era a Milano, non poteva essere nemmeno alle Cascine. Se era in America, non poteva essere in Italia. È vero che per poter dire che un uomo canta in America bisognerebbe essere là a sentirlo, ma d'altra parte, per credere la metà di quel che gli passava per il capo, bisognerebbe ammettere che l'uomo è una bestia feroce, e la donna la madre delle bestie feroci, che il mondo è una tana di tradimenti, che non c'è piú né legge, né fede, e che gli assassini di strada sono i piú galantuomini, perché almeno mettono a rischio la pelle. In queste riflessioni spasmodiche, colle quali il povero geloso procurava di assopire i suoi sospetti, cominciò a svestirsi. Si levò la giacca, che appese al solito chiodo, e caricò l'orologio. Portò l'orologio all'orecchio per sentirne i battiti: lanciò uno sguardo disperato all'altra parte del letto. Era mezzanotte. Palmira doveva essere arrivata da cinque ore almeno alle Cascine. Finite le presentazioni e il trattamento dell'acqua dolce, a quest'ora forse dormiva insieme alla sposa ... Coll'orologio in mano, cogli occhi fissi al quadrante, col panciotto slacciato sul petto, il Pardi seguiva ansiosamente il movimento quasi invisibile dell'indice, come un dottore che conta i battiti di un moribondo. Se fosse stato sicuro di poter trovare il Lanzetti al Biffi, dove andava di solito, sarebbe uscito a cercarlo. Non era ancora deciso se uscir di casa, o se buttarsi a dormire in santa pace, che, rimessa la giacca e col cappello sugli occhi, passava in fabbrica a far qualche cosa per ingannare il tempo. Non si dorme con un ferro rovente che t'infila il cuore. Entrato nel vasto camerone, dove stavano schierati in due grossi corpi i suoi duecento telai con una stretta corsía nel mezzo, ombre grandi e grottesche svolazzarono su per i muri al passare della candela. A mezzo della corsía, che metteva al bugigattolo dello studio, si fermò, e, premendo coll'unghia l'orlo e le croste della candela, tornò a rifare il suo ragionamento, mescolandovi ancora la geografia, la Gazzetta dei Teatri e la probabilità che il mondo sia una tana di ladri e di assassini. La testa, ridiventando pesante, piombava di nuovo sul petto, e nell'ombra della notte, nella fredda e livida compagine de' suoi duecento telai che l'avviluppavano come in una rete dura di ferro e di nodi scorsoi, un'accusa cupa e solenne, sviluppandosi dal fondo piú cieco della sua vita, saliva con un gran turbamento del sangue fino alla sede del pensiero. Che fossero già d'accordo? Che si trovassero già abbracciati in un sicuro nascondiglio? Si può diventare ubbriachi pel sangue che va alla testa. L'alba trovò il signor Pardi curvo sui mastri e sul libro campionario, assopito, piú che addormentato, in una dolorosa stanchezza, col corpo mezzo intirizzito dal fresco delle ore mattutine. Alzò la testa. Se avesse potuto guardarsi in uno specchio e vedere il colorito scialbo, i capelli duri e arruffati, l'occhio cinericcio e spento, avrebbe creduto d'essere molto malato. Tuttavia la luce chiara e onesta del sole che entrava rubicondo per le sei grandi finestre, sbattendo sui congegni bruniti dei cilindri e dei pettini, dissipò molti dei fantasmi che lo avevano assalito la notte. Rilesse ancora una volta il biglietto del cavalier Lanzetti, cercò e ritrovò nel cassetto segreto della scrivania la raccolta della Gazzetta dei Teatri , ch'egli leggeva attentamente dal marzo in poi, interessandosi al movimento di tutto il personale mimico-lirico- danzante del paese, e ritrovò facilmente una notizia, già segnata con matita rossa, che diceva: "Il celebre Altamura accettò per l'agosto un lauto impegno al teatro dell' Opera di Montevideo, dove l'esimio artista ha lasciato indimenticabili impressioni nell'intelligente colonia dei nostri connazionali. Auguriamo al nostro illustre amico larga messe di allori e di pesetas ." "Anch'io" mormorò il Pardi, associandosi di cuore all'augurio. "Ecco la prova stampata della bugia che farò scontare al cento per cento al signor Lanzetti." Intascò il giornale, accese il sigaro, che gli teneva alla mattina il posto del caffè nero, e, mentre le operaie cominciavano a entrare in fabbrica, uscí coll'intenzione di trovare in qualche buco l'impresario e di farsi spiegare l'intreccio di quest'opera buffa. Non erano ancora sonate le sette, quando, venendo per la via stretta di San Simone, nella corrente rumorosa dei muratori e degli operai, che ogni mattina inondano Milano, sbucò nel largo crocevia del Carrobio, già vivo e agitato come deve essere il cuore di una città grande piena di affari e di interessi, che non ha troppo tempo per dormire. Sapeva che i Pianelli abitavano in Carrobio, anzi si ricordò d'aver veduto Palmira uscire da una porta presso il droghiere, quel giorno che i coniugi Pardi s'erano trovati col tempo in burrasca, seduti, l'uno in faccia all'altra, nel medesimo tramvai. I piedi, che non sempre ragionano male come il cervello procura di far credere, ve lo portarono diritto. "Abitano qui i signori Pianelli?" chiese al portinaio. "Abitavano" rispose il Berretta, tenendo sollevata una scopa in mano come un campanello. "Però c'è la signora Beatrice. In quanto al signor Cesarino, saprà bene che ... ." "La signora è in campagna?" "Oggi è a Milano. È arrivata ieri a prendere la figliuola che deve fare gli esami." "Ieri, va bene: ed è partita" seguitò a dire il Pardi, sforzandosi di correggere gli spropositi di fatto che diceva il sarto. "No, no, è a Milano" confermò il Berretta. "Ha qui ancora quasi tutta la roba." "Che c'entra? deve sposarsi stamattina." "Ah ... io non so." "Insomma, c'è o non c'è?" "Chi?" domandò il Berretta, che si lasciava stordire per poco, sollevando gli occhi in faccia a questo signore grasso, che pareva in collera. "Avete detto che la signora Pianelli è a Milano" riprese a dire il signor Pardi colla pazienza di un professore, che torna a spiegare un problema astruso. "Sí, diavolo! le ho portata ieri sera l'acqua per lavarsi la faccia." "Fate il piacere di andar su e ditele ... " il Pardi pescò nel taschino del panciotto quei cinque soldi che occorrono per far correre un uomo "ditele che c'è un signore che desidera parlar con lei subito subito." "Vado in un momento." Secco si lasciò cadere coll'abbandono pesante dell'uomo stanco su di una sedia e si appoggiò al tavolo, in mezzo ai ritagli e alle filaccie, nella luce miope e sonnolenta che mandano a Milano le finestre dei portinai, senza pensar nulla di preciso, ma ripetendo solo con una espressione sforzata e quasi di sprezzo: "fare gli esami!" frase che, caduta come un ciottoletto negli addentellati dei suoi discorsi interni, urtava e guastava il meccanismo del raziocinio. Il Berretta tornò a dire che la signora Beatrice, dovendo uscire per alcune spese, sarebbe venuta dabbasso tra cinque minuti. Il Pardi non rispose, e dopo aver guardato il portinaio con un'aria di compatimento, come se il Berretta non sapesse quel che veniva a contare, si raccolse, si appoggiò colle braccia sui ginocchi e procurò di non pensar piú nulla, finché non fosse uscita questa signora Beatrice. Avesse dovuto aspettare non cinque minuti, ma cinquanta secoli, non sarebbe uscito di lí senza aver parlato coll'amabile sposina. Il portinaio venne a contare delle storie in cui entrava ancora Cesarino, il solaio, la trave, la mano ... che so io? tutte parole che non arrivavano fino alle orecchie di quell'uomo immerso fino ai capelli in una profonda oscurità, e che sentiva sé stesso come un sacco imbottito di stoppa. Di fuori il Carrobio mandava i suoi gridi, i suoi strepiti, i suoi rombi di carri pesanti, accalorandosi nella vita crescente della giornata. Dalla porta entravano e uscivano uomini, donne, ragazzi. Chi consegnò una chiave, chi ritirò una lettera, una donnicciuola in cuffia si lamentò del gatto, che andava sempre davanti al suo uscio ... che era una sporcizia. Un fornaio lasciò tre panini sul tavolo del sarto e se ne andò urtando nei vetri col cavagno. Nella corte strideva a brevi intervalli il manubrio della pompa, con un tonfo di roba pesante; risonavano voci di donne, piagnistei di bambini ... Tutti questi particolari, occuparono, distrassero un momento la sua attenzione durante il buon quarto d'ora che la signora Pianelli si fece aspettare. Erano sottili ricami sopra un fondaccio senza colore. La vita esterna arrivava onda morta fino al suo capo, ma non aveva la forza d'entrarvi. Se avessero gridato al fuoco, se la casa fosse crollata alle sue spalle, il signor Pardi non si sarebbe mosso di lí prima d'aver veduto e parlato colla signora Pianelli. Se essa era arrivata il giorno prima a Milano, come poteva aver invitato Palmira a prender parte alle presentazioni di famiglia? Che il matrimonio fosse andato a monte? "È qui" disse finalmente il Berretta, che stava in sentinella per farsi vedere degno dei suoi cinque soldi. Il Pardi si alzò di scatto e corse a incontrarla ai piedi della scala. Lo spingeva un'ultima speranza: che non fosse lei. Beatrice Pianelli, pallida, un po' abbattuta in viso, scendeva col suo passo tranquillo, tenendo raccolto un lembo del vestito. "È lei?" esclamò colla sua voce chiara e armoniosa. "Se mi avesse detto il nome ... Mi rincresce di averla fatta aspettare." Pardi salí un gradino e le si collocò davanti col pugno stretto, come se si preparasse a una lotta, tremando visibilmente in tutto il corpo, e pure sforzandosi di mostrarsi educato e gentile in mezzo agli aculei della sua sofferenza. "Scusi: Palmira ... ." "Che cosa?" "Non è qui?" "No" rispose Beatrice con candore. "Non è oggi il giorno che lei deve sposarsi?" "No" essa tornò a dire con semplicità, con una nota cantata. "Ma allora ... ." Si dominò. Voltò la testa indietro verso la corte per dar tempo al respiro, alzò una mano mezza chiusa, come se volesse continuare un'argomentazione impossibile. "Difatti il matrimonio si doveva fare in agosto, e se era possibile anche in fin di luglio. Ma non fu possibile, perché c'è un articolo di legge che lo impedisce." "Ah! un articolo di legge ... " ridisse il Pardi adoperando la frase già fatta, tanto per dire qualche cosa, e per tenere avviato il discorso, per non lasciarla scappare quella donna, volendo sapere da lei il resto, e non trovando in tutto il suo vocabolario, in quel momento, due altre parole per tirare innanzi la conversazione. "Scusi ... , lei non ha scritto la settimana scorsa a Palmira una lettera?" "No." "Ma sí!" gridò il Pardi, agitando e allungando la mano verso Beatrice. "Non si ricorda piú." "Che lettera?" "L'ho vista, l'ho letta io ... una lettera ... ." Beatrice raccolse il pensiero a riflettere. "Una lettera con cui lei invitava Palmira alle Cascine ad assistere al suo matrimonio per stamattina." "Non è possibile, caro lei." "Ah! non è possibile?" Secco, come se le forze lo abbandonassero del tutto, discese all'indietro il gradino e piombò sulle gambe, alzando le braccia grosse, congiungendo i due pugni collo sforzo di chi si attacca a una gronda e fa leva sui muscoli per non cadere dall'altezza di un tetto. Beatrice, non ancora vicina all'idea che dava al signor Pardi un'aria cosí stravolta, lo interrogò cogli occhi curiosi. Non era possibile ch'ella avesse invitato Palmira, l'amabile, la maligna, l'invidiosa Palmira, a una festa di famiglia. "Però" prese a dire il Pardi con l'affanno di chi ha lo stomaco rotto dalla nausea, "però ella ha mandato una carrozza a prenderla ... ." "Quando?" "Ieri, ieri sera. Oh, per Dio, l'ho vista io ... ." Il Pardi s'infuriò contro quella stupida donna, che non capiva nulla, e che stava ad osservarlo con gli occhi d'una bambola. Beatrice s'impaurí, entrò nell'idea, capí che Palmira ne aveva fatta una delle sue, divenne smorta, balbettò qualche parola a fior di labbra, e finí col dire: "Scusi, io non so proprio niente ... ." "Mi perdoni ... " disse il Pardi, allentando a poco a poco le braccia e chinando la testa sul petto, piegando il collo robusto e le larghe spalle al peso enorme che scendeva lentamente a comprimerlo. "Mi perdoni ... " balbettò. Colla mano irritata tastò qua e là sul corpo, finché trovò la tasca del fazzoletto, lo strappò fuori, lo strinse nel pugno come un cencio, lo compresse due volte nell'angolo degli occhi, schiacciandolo poi sulla bocca quasi per strozzarvi un grido, e, tirandosi ancora un passo indietro per lasciar passare Beatrice, tornò a dire: "Mi scusi tanto ... ." Beatrice discese gli ultimi gradini, e nel passar davanti a quell'uomo, che pareva fulminato, lo guardò con un senso di sincera e paurosa compassione. Avrebbe voluto salvare Palmira o la buona fede di suo marito. Ma per la seconda volta in poche ore si vergognò della sua povertà di spirito. Si sentí incapace, troppo ignorante delle battaglie della vita. Fece un piccolo saluto colla testa, scappò piú che non uscisse sulla strada, e col cuore pieno di dolori e di spaventi si mescolò al vivo movimento della città, che copre col suo frastuono le piccole e le grandi tragedie degli uomini. Arabella l'accompagnava in silenzio. Il cuore della fanciulla, ancora pieno delle brutte visioni della notte, non pigliava parte alla vita esteriore della città, che essa traversò come un'ombra sdegnosa e corrucciata. Il matrimonio della mamma, quel dover accettare, tacendo, un destino cosí contrario alle sue previsioni, e, oltre a questo, un senso confuso, dirò cosí, di gelosia che nasceva in lei col pensiero del suo povero papà, misto a un altro senso di ripugnanza e di antipatia per un uomo che doveva benedire come un benefattore, tutto ciò la rendeva triste d'una malinconia taciturna e irritata, che rendeva alla sua volta taciturna e irritata la mamma. Non si scambiarono quattro parole, cammin facendo: e tra una parola e l'altra ciascuna passò una fitta matassa di pensieri, che si attaccavano al passato e all'avvenire, ai vivi e ai morti, che sono la storia sacra dell'anima nostra. Una volta sola la ragazza uscí a dire improvvisamente, come conclusione di una riflessione compiutasi nella sua testa: "Di', mamma, se tu sposi il signor Paolino, non potrei io restare collo zio Demetrio?" La mamma non rispose nulla, ma di lí a un poco le si gonfiarono di lagrime gli occhi. Giunsero cosí al cimitero. Arabella, già pratica del sito, ritrovò subito il piccolo monumento. Mentre la mamma, inginocchiata sulla terra sabbiosa del viale, sfogava il suo pianto nelle mani giunte, Arabella perdevasi lontano cogli occhi verso un cielo lontano, che andava coprendosi di nuvoloni bianchi di temporale. Il soffio fresco che mandavano quelle nuvole dissipò a poco a poco come dolce lavacro quell'ultima nebbia di sogni cattivi che era negli occhi, e la compassione amorevole, la compassione che scalda il cuore e che fonde tutto, la trasse piú vicina alla sua mamma, che poco fa aveva conturbata colle sue parole. Pensò che la poverina non sapeva ancora com'era morto il papà e perché avesse voluto morire cosí: e in questa sua coscienza sentí su quella donna inginocchiata a' suoi piedi una superiorità morale, quasi una forza fisica di consolarla, di dominarla. Si accostò, le prese la testa tra le mani, la baciò sui capelli, col fazzolettino aiutò ad asciugare le molte lagrime che le bagnavano il viso, ma senza piangere essa, senza parlare. E rimase cosí un quarto d'ora, nel silenzioso e lento abbandono del dolore che non pensa, nell'aspro ed energico godimento della vita che soffre. Si mossero piú consolate e piú in pace. Nell'uscire, quando furono sul ponticello che traversa il canale, un uomo mal vestito, consunto dalla miseria, stese il cappello, supplicando con una nenia, in cui le parole si spezzavano come singhiozzi. Sui piedi trascinava due scarpe non sue, color della polvere, rigide nelle rughe e nelle infossature, sulle quali cascavano a brandelli certi calzoni flosci, mal sostenuti da un corpo sconnesso e febbricitante. Era il maestro Bonfanti. Un'altra malattia gli aveva dato l'ultimo colpo. Tocco da paralisi nelle dita e nella lingua, egli non poteva piú né sonare, né cantare, e tanto per trascinarsi vivo alla sepoltura, stendeva il cappello ai passanti, sulla porta dei cimiteri, scrollando la sua febbre intermittente, sonnecchiando tra un'Avemaria e l'altra sulle sue artistiche reminiscenze. A quell'uomo, che aveva sempre tenuta alta la bandiera del classicismo, discepolo del Pollini, quasi amico del Thalberg, non restava nemmeno la forza di lamentarsi, e la figura stessa andava ogni giorno scomparendo nel pelo selvatico della barba e nella sordidezza della povertà. Arabella si attaccò stretta stretta al braccio della mamma, quando riconobbe nel vecchio pezzente il suo buon maestro di pianoforte, e le parve che il cuore le cascasse nel petto. Il Bonfanti andava raccontando a furia di singhiozzi la sua dolorosa storia, agitando colla mano paralizzata il cappello, come se lo sventolasse per l'allegria. Gli buttarono una moneta d'argento, lo salutarono colla mano, e partirono in fretta. Tornarono in città a braccetto, sempre in silenzio, ma non piú in collera come prima. Purtroppo di miseria ce n'è per tutti, e chi si lamenta della sua fa torto un poco a quella degli altri.

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Donna Cristina, che temeva la solitudine de' suoi pensieri, chiamava spesso di notte la ragazza nella sua camera (il conte per riguardo al suo cuore dormiva abbasso accanto allo studio), e vegliando con lei, pregando insieme colle quattro mani legate dallo stesso rosario, cogli occhi fissi nell'immagine dell'Addolorata, cercavano di prepararsi ad affrontare il terrore della loro situazione. Nell'ardore di quel tormento, che le consumava, scomparivano le differenze sociali; nel proprio dolore ciascuna sentiva l'altra, si compassionavano come sorelle e si eccitavano a vicenda con isquisite suggestioni. La raffinatezza di questa cura, mentre esauriva le forze dell'infermiera non era tale da infondere coraggio e quiete nella malata. Al contrario, i momenti di inquietudine nervosa si facevan piú frequenti, piú spesse tornavano le allucinazioni, le visioni, i terrori fatui, che facevan balzare la ragazza dal letto e trasalire la contessa nel mezzo de' suoi sogni torbidi e posticci. Durante certe notti, in cui la povera vittima non poteva chiudere occhio, toccava alla contessa scendere, tre, fin quattro volte, dal letto, attraversare il piccolo corridoio, che divideva la sua stanza da quella della ragazza, inginocchiarsi ai piedi dell'altro letto, pregare la sofferente di non piangere piú, di non farsi sentire da Enrichetta, che dormiva poco lontano, la carezzava, le sussurrava orazioni e paroline di pace, la segnava colla croce, le metteva sul petto un crocifisso o vecchie reliquie benedette, finché la stanchezza e il cloralio tornassero ad assopirla. Qualche altra volta, entrando nella stanzetta, trovava la disgraziata seduta sul letto, colle mani morte sui ginocchi, immobile come la statua della meditazione, insensibile al freddo, sorda alla voce di chi la chiamava, con tutte le facoltà concentrate e ipnotizzate in una sola idea, che si condensava nell'oscurità: che cosa doveva dire al suo Giacomo? Di mano in mano che si avvicinava il tempo di tornare a Cremona (ritorno che avveniva sempre nell'estate di San Martino), la contessa, che vedeva la necessità di prendere una deliberazione, cominciò a parlare alla ragazza di queste sue buone parenti di Buttinigo, che l'avrebbero ricevuta volentieri. "Il luogo è quasi un convento, quieto come una chiesa, fuori dagli occhi del mondo. Nella compagnia delle buone signore, due vere sante, e nella vicinanza delle monache della Noce, avrebbe trovata la forza e la pazienza di sopportare la sua disgrazia, insieme ai balsami della religione e della carità. Cosí toglieva alla gente ogni occasione di sussurro, e dava a lei più libertà di preparare l'animo di Giacomo a ricevere il terribile colpo. Del bene se ne può fare dappertutto e in ogni stato: e se il Signore teneva conto del suo grande sacrificio, doveva un giorno rimunerarla con qualche grazia particolare. Qualunque fossero i suoi bisogni e i suoi desideri, avrebbe sempre trovato in lei una madre amorosa e riconoscente". E per dimostrarle che la sua compassione non era fatta di sole parole, le regalò e le mise al collo una preziosa crocetta di lapislazzuli, che una sua amica aveva portato da Lourdes: l'obbligò ad accettare una somma di denaro per far fronte ai bisogni e per accontentare qualche capriccio. Con questo minuto lavoro di antiveggenze, di ingegnose astuzie, di raffinatezze femminili, che alla povera signora, non abituata agli artifici della simulazione, costavano notti intere di pensieri e di spasimi, le riusci di ridurre a poco a poco l'animo incolto e non indocile di Celestina, se non alla rassegnazione passiva, a considerare almeno il suo stato con meno tremito, con minore ribellione di spirito. Tutto il fascino, che una maggiore educazione di spirito, la forza della mente e gli splendori incantevoli della ricchezza possono esercitare su una natura primitiva, incapace di troppo lunghe resistenze, fu messo in opera dalla madre spaventata, colla rapida e sgomentata destrezza che c'insegna e fuggire da un pericolo incalzante; arrivò fino a far tacere, fino a respingere qualche rimorso, che il delicato senso della rettitudine naturale e della carità andava sollevando. In questa tremenda battaglia donna Cristina Magnenzio sapeva d'aver in giuoco la vita e l'onore de' suoi figli; e senza aver mai letto i consigli del Machiavelli, piú che ai modi del vincere badava a vincere presto. La ragazza agli ultimi di ottobre, nella sua integra ignoranza, non sospettava ancora quel che non era piú un dubbio per l'esperienza della madre: per evitare che questa nuova coscienza le nascesse in casa, prima che l'intimo mistero si annunciasse con qualche moto, la signora si affrettò a sfruttare tutti i buoni propositi e le ultime debolezze della vittima. Celestina, rimessasi da una lunga febbre, che ne aveva scossa e indebolita la volontà, si lasciò persuadere ad abbandonare la casa della sua disgrazia, senza avvertirne Giacomo. Per rendere questa partenza piú naturale, una mattina la contessa fece attaccare assai di buon'ora, e, scesa con Celestina, lasciò detto al conte che sarebbero tornate per l'ora della colazione, dopo aver fatte certe loro divozioni alla Madonnina della Noce, dove si celebrava la festa centenaria. Partirono loro due sole con un tempo limpido e fresco, che pareva un sorriso della natura. Tutta la strada quanto fu lunga, dal Ronchetto alla Madonnina, non si dissero che poche parole e a lunghi intervalli: il tumulto dei pensieri impediva di parlare. Quando ebbero passato l'Adda sul traghetto d'Imbersago, entrambe mandarono un piccolo sospiro e si strinsero la mano. Quel fiume, che restava indietro, voleva dire per la ragazza tutta la sua bella vita perduta per sempre; per la signora invece una prima battaglia vinta. - Addio, povero Giacomo, - fece la misera, con voce rotta, ma senza piangere. - Procura di essere buona e rispettosa verso queste signore, che hanno promesso di tenerti sotto la loro protezione, e vedrai che il Signore ti ricompenserà. - Cosí cercò di consolarla la contessa con parole, in cui si sarebbe già potuto sentire un tono di minore angustia. Al trotto serrato dei due cavalli, che sentivano l'energia del riposo e la sferza dell'aria mattutina, la carrozza, dopo aver risalita la riva sinistra dell'Adda, prese a correre sulla strada provinciale di Bergamo. Celestina vide diminuire e restar indietro le note montagne, e confondersi sotto il nuovo orizzonte la linea delle sue colline, che andavano rimpicciolendosi in una malinconica distanza, mentre le campagne a destra e a sinistra della strada si facevan piane, uguali, costeggiate da piccole siepi polverose, non interrotte che dalle piante smozzicate dei gelsi. Traversarono borgate ignote, quasi ancora deserte in quell'ora mattutina, dalle quali non usciva che il suono fuggente di qualche incudine, o il rombo d'un filatoio, che si accompagnava a una mesta cantilena di lavoratrici, o l'abbaiare di un cane, che uscito da un cascinale, inseguiva un tratto la carrozza; poi di nuovo ricominciava la strada bianca e si continuava a correre per luoghi sconosciuti, che suscitavano nell'animo superstizioso della giovine il sospetto che la menassero, come si dice, a perdersi. "Addio, povero Giacomo ." ripeteva in cuor suo a lontani intervalli, concentrando in questo pietoso ritornello tuttoquello che sentiva di soffrire e non era in grado di esprimere. E come se al rotolare delle ruote, che la menavan via, si svolgesse il filo delle sue memorie lontane, le passavan negli occhi chiusi le Fornaci, la vignetta, lo zio Mauro, la zia Santina, le stesse scontrosità un po' odiose della Lisa, che non la poteva vedere, ma che avrebbe avuto pietà di lei, se fosse andata a cercarle aiuto contro questi mali, che la perseguitavano; oh, potevano menarla lontano trecento miglia e seppellire il suo corpo trenta braccia sotto la terra; il cuore non si sarebbe mai mosso da quei siti. Povero Giacomo! come avrebbe ricevuto il gran colpo? avrebbe creduto alla sua innocenza? Oh sí, ma non avrebbe voluto piú rivederla. Né lei avrebbe osato piú tornargli davanti, mai, dal momento che non poteva piú essere quella di prima. Oh gli assassini che cosa avevan fatto di lei! Soltanto a ripensare quel che avrebbe potuto essere per il suo Giacomo, il cuore che pareva morto, ridestavasi con impeto doloroso; lei sarebbe morta un'ora o l'altra per uno di questi schianti. E doveva questa vergogna toccare al piú santo degli uomini, al suo Giacomo, al suo angelo . Osservava con occhio inerte le cose che passavano nella via, dicendo di sí con un movimento automatico del capo tutte le volte che la contessa rinnovava una raccomandazione, mentre il pensiero sprofondavasi con un senso quasi di amara voluttà nell'immaginare quel che non poteva piú essere. - Glielo dirà proprio che sono stata sorpresa? che sono innocente? - balzò una volta a dire, afferrando con improvviso ardimento la mano della signora. - Te lo giuro - rispose questa con sincera franchezza. - E gli dica che cerchi di perdonare anche lui, - soggiunse la poverina, umiliandosi di nuovo nell'angolo della carrozza. Un brivido di commozione passò nel cuore di donna Cristina Magnenzio a quelle buone parole, che sollevavano un'anima semplice alle sublimi altezze della bontà e del perdono, mentre un'altra anima vicina era in via di godere, anzi pregustava già gli amari sapori dei male che trionfa. Socchiuse anch'essa gli occhi un istante per non vedere questa abbagliante seduzione di una virtú, che si eleva fino alla divina aristocrazia della bontà e del sacrificio, e ricompensò la carità della giovine collo stringerle a lungo la mano ardente tra le sue mani inguantate, come se volesse con quel lungo contatto comunicarle la sua tenerezza, e farle sentire con quell'atto materno tutta la forza di una promessa che non aveva parole per parlare. Col cuore immiserito, cogli occhi immobili verso le siepi, donna Cristina cercò di asciugare, con un battere frequente delle palpebre nell'aria viva, il velo di lagrime che le coprí le pupille. Un dolore crudele e duro la strozzava alla gola e al petto. Un quarto d'ora dopo, Giosuè arrestò i cavalli sopra un piazzaletto erboso ombreggiato da antichi platani, che stava davanti alla vecchia chiesa della Madonnina. Il Rebecchino venne ad aprire la portiera. - Siete qui? - chiese la contessa - chi c'è? - Donna Adelasia aspetta in chiesa. La contessa andò avanti, e aspettò Celestina sulla porta. Entrarono nella chiesetta tutta parata a festoncini bianchi, azzurri, con frangie d'oro, mentre un prete stava celebrando la messa davanti a molte donnicciole. Donna Adelasia dal suo banco riservato fece un segno, e si ritirò per lasciar loro il posto sulla predella. Celestina si trovò in mezzo alle due signore nel momento che le quattro monache del coro intonavano un'orazione flebile e lamentevole, su cui la voce grossa del prete correva col rumore d'un carro incorsa. Celestina girò gli occhi intorno e si sentí una gran voglia di gridare. Che avevano fatto di lei? che luogo era questo? che cosa dicevano queste voci lamentose? La contessa, che in questo supremo istante non cessava mai dal sorvegliarla, volle che sedesse e le passò con una soave carezza una mano sui capelli. E quando sonò il campanello dell'elevazione la signora e la cameriera, inginocchiate sulla stessa predella, accostarono la testa a pregare insieme fervorosamente. Quindi donna Cristina le disse piano: - Non voglio far pensare male a casa. Ti lascio con donna Adelasia. Verrò a trovarti presto, appena gli avrò parlato. Coraggio e fiducia nel Signore . Celestina strinse con la mano convulsa e irritata un lembo del vestito della contessa, e, fissandola con occhio spaventato, la supplicò di restare ancora. La signora aspettò ancora un istante: e quando donna Adelasia voltò il viso dalla sua parte, le fece capire che il momento doloroso era venuto. La vecchia dama circondò col braccio la vita della giovine, come se l'invitasse a ripetere una preghiera, e lasciò in tal modo alla contessa agio di sciogliere il vestito dalle dita tenaci. Il corpo di Celestina quasi si sfasciò sul banco. Donna Cristina uscí dal tiepore e dalla religiosa penombra della chiesuola nell'aria cruda e viva, fece un segno quasi marziale col guanto a Giosuè, che si accostò alla carrozza. Essa vi entrò, il Rebecchino chiuse la portiera e i cavalli partirono a corsa. L'emozione, acerba come un rimorso, le impediva di piangere, e gli occhi, quanto fu lungo il viaggio, restarono immobili in una stupefazione insensibile, coperti di un velo di lagrime cristallizzate.

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

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Faldella, Giovanni 2 occorrenze

e abbasso i mariti!" io canterò sulla sua bella faccia e canterò sulle vostre faccie brutte: " Viva i Mariti ed abbasso Piemonte Reale!" La Contessa De Ritz non ebbe uopo di ricorrere ai mariti per risolvere quella sua situazione deserta del Leon d'oro. La sua bellezza, purché fosse per un istante ritenuta, esercitava ancora prodigii di attraenza. Ne fu prova il copioso epistolario di amorose dichiarazioni, che le piovve in quello stesso albergo. C'era da fare una nuova edizione del Segretario Galante. Sono innumerevoli i deviamenti, che cagiona nella vita sociale l'attraenza della Bellezza viziosa. Strappa studenti agli studî e agli esami, rovina le economie dei padri, le sante speranze alle madri; a un agiato negoziante fa dimenticare la numerosa famiglia e vent'anni di probo commercio; fa che un vedovo spogli e abbandoni le figlie da maritare; deraglia tutti dai propri doveri. Tutte le classi erano rappresentate nelle proposte di amore fatte alla Contessa De Ritz, la cui bellezza pareva perfezionata divinamente dai plasmi delle avventure ed acuita preziosamente dal mistero di una superiorità indiscussa. Chi si era innamorato, ammirandola a teatro. Chi sarebbe caduto in ginocchi vedendola uscire di Chiesa. In tutte quelle lettere gocciolavano lacrime calde commoventi di amanti sinceri. Essa si fermò preferibilmente su queste pagine erotiche: " Fiore di bellezza, fiore dell'anima mia! Señora de mi alma y de mi vida señora de mis ojos y de mi alma, señora mia de mi corazon, señora mia de mi bida (Vedi Carteggio di Carlo Emanuele I alla Serenissima Infante sua Reale Consorte). Che cosa è questo cuore, che si rinvergina, questa macchina, che sussulta nell'ispirazione di una nuova aura floreale? Perché dopo le scettiche irrisioni, dopo gli sprezzi filosofici ritorniamo fanciulli? periodicamente fanciulli? Fra le chiacchiere pornografiche dei buoni amici buontemponi si eleva il sentimento purificatore. Mi batte il cuore come in un idillio di Beatrice fanciulla. Basta una figura sorridente di bellezza inaudita, non mai vista. Non so ancora precisamente chi ella sia. So che è bionda e flessuosa, come una Dea del Settentrione e ha la gagliarda maestà di una bellezza schiettamente romana. Ella è una autentica matrona con lo slancio della modernità. È fiera ed angelica. Dapprima la commentai salacemente fra amici. Ma tosto quei commenti mi sembrarono irriverenti, sacrileghi ... Che stranezze! Dopo avere pienamente, intimamente conosciute altre beltà in tutte le loro forze, in tutti i loro abbandoni, dà un'emozione religiosa pur la vicinanza di una bellezza nuova straordinaria. Il nostro cuoricino emette il pigolio del rondinino, che lascia per la prima volta il nido volando tremulo, incerto sugli effluvii di maggio. Ignoto la vidi accompagnata al Caffè, al Teatro, all'Albergo ... Ieri sera contemplandola sola alla Birreria, presunsi essere suo conoscente. Parendomi che Ella cercasse giornali illustrati, io mi permisi di offrirle il Fischietto da me tenuto in mano. Essa accettò graziosamente la mia offerta del foglio, e quando Ella volle restituirmelo, sentii che quel giornale tocco da lei l'avrei conservato per tutta la vita. E lo rubai alla Birreria. Che musica quella della sua voce nel dirmi grazie. Grazie a Lei, o bella Signora, che ha ridato un fiore alla mia anima, grazie al tuo sorriso, che mi ha ricordato un angelo forse intravveduto in una vita anteriore. Musica allegra e dignitosa della tua voce, chi sa se ti sentirò ancora? Se ti parlerò ... ? Dipende da te, da Lei. Forse sarebbe per me più prudente, terminare qui tosto questo romanzo più che ideale; contentarsi del fiore, senza aspettare il frutto che marcirà. Ma è possibile restare ideali, anche a costo che il riconoscimento della nostra idealità ne renda ridicoli a noi stessi? È mio destino terminare una lettera lealmente patetica con un tentativo di felice umorismo. Devo recarmi a Genova a ricevere un bastimento di medicinali e coloniali. Vuol venire con me? Io sono il suo ardente servitore Doctor Malalingua Chimico farmacista Evasio Frappa" Nerina soffusa di curiosità capricciosa diede la preferenza all'umorista foderato di patetico. Ma è dunque inesauribile la serie dei Capricci per pianoforte?! Eccole dinnanzi la specialità inesplorata dell'amore maledico. Amare una malalingua, un umorista di celebrità provinciale, inedita per il resto del mondo. È una varietà di Gioiazza, una varietà più cinica, anzi più brutale, in quanto che nella scala dei bruti il porco sia superiore al cane. Difatti l'intercalare passionale di Evasio Frappa era: * Dimmi che sono un porco. Ma nella brutalità eravi pure l'ingenuità animale. Non quelle promesse di amore eterno proprie della menzogna umana. Tanto meno il disegno pazzo di un nuovo matrimonio, annullati i precedenti in oga magoga. Anzi il farmacista Frappa a Genova nell'attesa dell'imminente bastimento di coloniali e medicinali, cenando allegro in un ristorante dell'Acquasola, e lodando lei della natura allegra, le regalava la primizia di questi Paradossi Idrostatici del Doctor Malalingua autore delle Cacature di Mosca : " Il matrimonio è un'indecenza (lo si capisce con evidenza apodittica pel suo scopo intimo palese). Il matrimonio è una schiavitù; sarebbe come obbligare una persona a mangiare per tutta la vita nella stessa trattoria. Il matrimonio è un'impostura solenne, perché copre con la lustra di un contratto civile e di una santa benedizione il sottointeso di perenni porcherie, che finiscono di stomacare anche gli stomaci meno deboli" . Nerina, che si era meritato da doctor Malalingua il complimento di natura allegra, con la sua volubilità di risorse non mai finite si rannuvolò di un tratto, ed uscì dalla nuvola come una preziosa compunta d'amore riportando con un sospiro la definizione della mascherata linguistica: * Ah! il matrimonio è l' amour permis . Il farmacopola spaventato che gli si spiegasse dinnanzi la carte du tendre , si affrettò a levar le berze da quella geographie d' l'amour ; ed annunziato, che gli era finalmente arrivato il bastimento carico di generi coloniali e medicinali, da cui per suo conto ritirava e spediva a Trentacelle due sacchi e quattro pacchi, si affrettò a scortare la spedizione. Ma prima con quella serietà di precisione contabile, che è prerogativa di certi buffi, volle delicatamente liquidare i suoi conti con la contessa. Con una sostenuta politezza e franchezza, la pregò di accettare per suo piccolo ricordo un ciondolo di rarità numismatica, una pezza d'oro di lire cento del quarantotto recante il motto: Italia libera * Dio lo vuole. E visto accettato il dono senza smorfie, egli stesso sentì una divina liberazione, per cui postergando anche lui il rammarico di staccarsi da tanta bellezza straordinaria, volle tuttavia aggiungerle il regalo del suo cinismo linguacciuto: * Cara Nerina, gli idealismi sono spostati in questa epoca, in cui si va perdendo il senso morale, onde sparisce il rimorso del mal fare. Ci incamminiamo a tale epoca, in cui le più felici coppie, i matrimonii meglio assortiti saranno assolutamente associazioni di malfattori. Nerina, forse per la prima volta convinta da un uomo e da una situazione, accettò la pezza da cento lire, non come ciondolo, ma come moneta. Essa finora era vissuta, come i personaggi della Divina Commedia di Dante, senza preoccuparsi dei quattrini. I quattrini per lei aveva primieramente provveduto il padre suo, poi il primo marito, poi l'amante secondo marito in partibus infidelium , quindi all'uscita del Santo Oblio di nuovo il padre, che non voleva ella rimanesse a carico dei buoni Losati. Spese enormi avevano fatto per lei ricchi perdutamente di lei innamorati in varii gradi di latitudine e longitudine terrestre. Ma, quantunque il ticchio della lautezza borsuale non le fosse mai mancato con una istintiva accortezza, cionondimeno non c'era mai stata ombra apparente di mercimonio. Ora con l'accettazione della pezza da cento si sentiva discesa di un altro gradino. E si vedeva dinnanzi molti altri gradini da scendere, per la prosaica necessità del pane e del companatico quotidiano. I personaggi di Dante, eccetto il conte Ugolino e complice, non mangiano. Essa sì; ed anche si veste, cosa di cui parecchi peccatori e parecchie peccatrici della Divina Commedia fanno a meno, o si aggiustano, senza ricevere la nota del sarto o della sarta per le cappe aurate di piombo ecc. Per mangiare e vestire a questo mondo ci vuole pecunia. Ricorrere al padre no; perché il padre è tomo da ricacciarla in un chiostro anche lontano. E questo programma è troppo pericoloso per la libertà dei suoi capricci, a cui sempre più vorticosamente essa ci tiene. Costituirsi sotto il giogo coniugale del primo o del secondo marito farebbe maggiormente a pugni con la vocazione del libertinaggio spinto oramai agli estremi limiti. Nella infinita processione del suo cervello passa come un'orezza l'idea della Beltà, valore giuridico, industriale. Se per i bisogni indeclinabili della natura umana, anche i sacerdoti di Dio si fanno pagare, perché non si dovranno pagare i favori delle Dee? La lettura del profilo di Formidabile , Dea Reggimentale, fu molto suggestiva per lei; e vieppiù suggestiva la conoscenza dell'autore. Ma non ella inquadrerà i biglietti da cento. Per vestirsi pagando onestamente la sarta, bisogna svestirsi disonestamente a pagamento. È una idea di infamia granitica economica, che si eleva sulle antiche sofferenze e crudeltà cardiache, da cui Dio scampi pure il prossimo! Fino allora essa non aveva considerato l'amore come cosa seria; lo aveva tenuto in conto di un divertimento, come il giuoco, come l'andare a teatro o a passeggio. Ora concepisce l'amore come una serietà finanziaria, che si accorda con il materialismo storico, per cui anche le rivoluzioni più ideali si addebitano a movimento di interessi, e si accorda con la norma dei costumi, per cui anche il rispetto più sacro, quello dovuto ai genitori, si commisura alla ricchezza e all'apparenza della ricchezza. Nerina, che si era primieramente maritata per una presentazione fattale al Caffè San Carlo, ricorda precisamente che Teodoro Mandibola, divenuto basso profondo acclamato a Torino, ricevette molto sostenutamente tra gli specchi dorati di quel Caffè il padre suo contadino, che mediante sacrifizii lo aveva fatto studiare, e quando lo ebbe congedato, disse ai compagni bellimbusti: a l'e il me massè ! (il mio mezzadro). Dunque lusso, ricchezza for ever , per sempre. Onde procacciarsi ricchezza e lusso occorrono intermediarii anche alla bellezza mercantile. Coloro che vogliono escludere affatto le mediazioni dai negozii umani, non conoscono la compagine della umanità, che è tutta una trama di infiniti rapporti. Le mediazioni devono riempire le crepe, far ponti, e non far gobbe; ma sono necessarie alle transazioni umane e anche a quelle d'amore. Il ruffianesimo, se ha un posto distinto nell'Inferno di Dante, è nella vita tra le più riguardevoli fonti di ricchezza. Esso si intreccia ad altri baratti e se ne fa coperchio. A Genova alla Salita dell'Imalaja, N. 69 rosso, interno 12, fioriva una cospicua Agenzia, che in altro tempo e in altra località si era pure occupata di ingaggiare ingegni e studi letterarii per lo sfruttamento attivo del Signor Gravet-Negrier. Ed era precisamente dessa, che aveva spedito il letterato Adriano Meraldi alla fortuna letteraria di Parigi. Ora funzionava in ispecial modo nel ramo erotico, occupandosi principalmente di procurare coppe d'amore alla sete ardente degli ammiragli lussuriosi e dei baldi ufficiali di marina che stazionavano nel porto, dopo una lunga navigazione. L'ammiraglio inglese Sir James Thoptson aveva il ticchio di rifare il celebre Nelson non solo nelle vittorie navali, ma altresì nelle conquiste amorose. Vide, come in un baleno, la Contessa De Ritz alla passeggiata dell'Acquasola, e gli parve di veder sfolgorare Emma Liona rediviva. Si persuase di potere con Lei disporre di regni ... E si rivolse all'accreditata agenzia della Salita dell'Imalaia. Il direttore dell'agenzia fece il caso molto difficile. Si trattava niente meno che di una bellezza europea ed asiatica, moglie separata di un eroe garibaldino, nobile conte ed onorevole deputato al Parlamento Italiano, e moglie scismatica di uno scrittore di fama mondiale. Anche non ci fosse stato di mezzo il matrimonio scismatico ricordiamo: non si gloriava il visconte Boissy d'Anglas pari di Francia, non si gloriava di presentare la Contessa Guiccioli sua moglie in seconde nozze come ci-devant maitresse di Giorgio Byron? L'ammiraglio inglese offriva come prezzo morale inestimabile la gloria di un nuovo Nelson. L'agente traccheggiò fino a che riuscì a conteggiare immoralmente un determinato centinaio di sterline, di cui la maggiore parte restò attaccata alle sue unghie. L'ammiraglio Thoptson era un eccentrico, che oltre alla gloria marinara, pregiava altamente la forma della Diva e la franchezza del costei spirito. Avendo domandato a Nerina: " Siete maritata?" si sentì rispondere: " Non più! I matrimonii sono associazioni di malfattori. Ed io sono onesta." Questa risposta al buon ammiraglio parve il non plus ultra della sublimità spiritosa. Avrebbe voluto impiccare per lei alla più alta antenna della nave ammiraglia il più eloquente oratore del Regno Unito. Dovendo egli salpare dal porto di Genova per il Canadà, profferse di condurre con sé Nerina offrendole l'impero della bellezza del Nuovo Mondo ancora da Lei inesplorato. Nerina, già conquistatrice di Europa e di Terra Santa, avrebbe accettato il patto del miraggio. Non la tratteneva la tribù dei minuti amanti, che erano pullulati intorno all'albero gigantesco dell'amore ammiraglio. Lacrime d'amanti non sono diamanti. Anzi erano diventate ridicole, incalcolabili ossia da non calcolarsi, quantités negligeables , le lacrime di questi piccoli amanti, pesciolini di rimpetto a una balena. Che importa uno studentello, precipite da un tetto, suicida di forsennato amore per lei? Che importa davanti alla prospettiva di divenire grassa gigantessa di ciccia soda, ed essere comperata a peso d'oro da un principe di Kabul, come Lola Montes, la zingara fattucchiera d'amore? Che importa se qualche impiegatuccio, qualche mozzo muore di fame per pagarsi un po' di Lei? Essa pretende che i suoi umili adoratori le dicano: Ave Cesarina ; i morituri ti inchinano. N'è dolce il sacrifizio di morire di fame per te. Avanti, ammiraglio! Ti seguo nella traversata dell'Atlantico, anche se l'oceano ondeggi tutto di lacrime dei miei amanti abbandonati alla disperazione per me. Chi la trattiene a Genova non è un amante né all'ingrosso, né al minuto. È un dispettoso del suo amore. È il baroncino Svembaldo Svolazzini, la cui Gilda, di origine artigiana, si era perfettamente baronificata, come se discendesse da una baronia delle Crociate. Che modelli di coniugi (marito amante della moglie e moglie amante del marito) erano Svembaldo e Gilda! Svembaldo era Direttore amministrativo della Acciajeria Amaldi di San Pier d'Arena; e rappresentava a perfezione il tipo del padrone delle ferriere romanzato da Giorgio Ohnet. In tanta desolazione di fallimenti morali ed amorosi, è consolante fermarci su questa immagine reale di idealità. Per un rarissimo privilegio di tempra adamantina egli aveva potuto conservare nella virilità i purissimi ideali dell'adolescenza. Aveva creduto vedere, che Gilda, solo Gilda sarebbe stata la degna collaboratrice della sua vita; e in tale fede si confermò con la più salda ed immacolata costanza. Bisogna dire, che Gilda fece di tutto per associarsi a lui in quel tipo di coniugio. Bambina si era un po' indugiata a guardare il girasole di Adriano Meraldi. Ma ora è profondamente persuasa, che Svembaldo è un sole in paragone di quel girasole. Egli, benché figlio di ricco e superbo barone, ha prediletta lei povera figliuola di un umile falegname; ed ha continuato ad amarla con un attaccamento maraviglioso, benché spedito alla caccia nell'India per lo scopo di allontanarlo da lei; egli l'ha rintracciata al Ritiro, alla purificazione del Sant'Oblio, e l'ha estratta di là, per farla sua, per farla consorte del più esemplare barone della cristianità nella modernità operosa. Gilda ha nella sua coscienza una rettitudine superiore a quella della pialla e della squadra di suo padre; e sente, che sarebbe un mostro orribile di stortura, se mancasse per un bruscolo a quel dovere colossale di riconoscenza. Per ciò si studia di farsi ogni giorno più bella, più elegante, più savia e più spiritosa all'unico fine di allietare i giorni del suo sposo, e quando può annunciargli con sicurezza la prossimità di un lieto evento, gli promette: voglio fartelo così grazioso, così bombonin , da intenerire la dignità di tuo padre e il contegno della tua signora mamma. Egli le gittò le braccia al collo, e la baciò con estasi lunga, proclamandola santa, santa, santa. Quella beatitudine coniugale gli rendeva più lucida la mente, più solido il carattere, più elastica l'attività, lo rendeva un valore aureo crescente anche nell'acciajeria. Lo sollevava più nobile col blasone del lavoro. Soltanto il vero, degno, santo amore resiste alla seduzione dei sensi peccaminosi. Indarno Nerina imperatrice dei sensi peccaminosi cerca di accivettare Svembaldo; indarno essa ha rinunziato alla conquista dell'America per conquistare lui. Egli si mostra incorruttibile, come l'angelo più vicino alla Divinità; imprendibile come una fortezza fatata. Eppure Nerina non rinunzia ad avvincere anche lui. Niun personaggio della vecchia Europa e dell'Asia Minore le ha finora resistito. Che il giovane Svembaldo rimanga unico invitto nella vecchia Europa? che egli sia maggiore dell'Asia minore? Gli manda messaggi difilati, sinuosi, ardenti, uncinanti, appiccaticci. Affitta un quartierino dirimpetto all'alloggio di lui; lo specula; lo occhieggia; lo occhialineggia; lo persegue; gli fa da sentinella; gli soffia motti audaci, inviti affascinanti, paroline tenerissime. Lo rasenta fino a fargli tastare la sofficità calda, pungente del suo plasma di Dea. Invano, sempre invano. Pur Nerina non cessa dall'assedio e dalla persecuzione. La giovane baronessa Gilda sta per uscire armata di tutta la forza, che le dà il diritto più sacro alla difesa. Ma il marito la scongiura a non insudiciarsi al contatto di quella perduta; e per liberarsi dagli incessanti attentati dell'impudica persecutrice, minaccia di ricorrere alla Questura; pensa che deve finire col ricorrervi. * * * Fu una coincidenza, poiché per lo stesso soggetto, per cui pensava di ricorrere alla Questura una perla di galantuomo, si rivolgeva una schiuma di lerci ribaldi alla Questura, che nel regno d'Italia era legalmente incaricata non pure di tutelare la pubblica sicurezza della civile cittadinanza, ma di organizzare e costringere il più turpe e barbaro carnaio del vizio. Una volta si muovevano la Massoneria e il gesuitismo per restituire la Contessa Nerina al padre e al marito legittimo. Ora è succeduta la fatale combinazione della probabile denuncia di un perfetto gentiluomo e della trama di sordidi malfattori. Mentre gli onesti procedono spesso apertamente isolati, i malfattori si associano nell'ombra. Vere associazioni di malfattori si addensavano per acchiappare nella più vergognosa ragna la contessa Nerina, ed attrarla all'ultima perdizione. Essa con la sua audacia capricciosa tende ad evolversi, evolversi, per innalzarsi infinitamente. E non si accorge di precipitare nella più cupa e fetida profondità. Siccome il vero romanzo è una storia dei costumi, ed il romanziere verista deve lasciar parlare le persone e gli avvenimenti e, secondo una nota formola, deve guardarsi dallo scoprirsi, a similitudine della Corona nel governo costituzionale, così invece delle nostre considerazioni, riportiamo un ristretto delle dispense scolastiche di Ilarione Gioiazza, che è pure un personaggio del nostro racconto. Egli non trovando mai il tempo di divenire ammalato, oltre a tenere uno studio fiorente di avvocato, anzi di avvocatissimo, vinse un famoso concorso di dottore aggregato alla facoltà di giurisprudenza della Università di Torino, e da libero docente promosso a straordinario ebbe indi a poco quale titolare la cattedra di medicina legale all'Università di Catania. Ma non gli convenne accettarla; e seguendo l'andazzo legale di accrescere i corsi liberi per ispremere maggiore quantità di quattrini dagli studenti coatti moralmente; egli inaugurò un corso speciale sulla polizia sanitaria dei costumi nella stessa capitale delle antiche provincie. Noi diamo appunto un tratto delle sue relative lezioni stenografate e poligrafate. " Lo dirò, anche avessero a gongolarne i clericali e gli altri nemici dell'Unità e della Libertà Italiana, che (si intende i nemici) il Diavolo se li porti. Il vero, sì, che nel 1859 e nel 1860, durante l'orgasmo di fare l'Italia libera ed una, gli italiani e le italiane si amarono troppo, si amarono tanto che produssero una spaventosa diffusione di lue venerea specialmente nel regio esercito e nel corpo dei volontarii. Se ne impensierì lodevolmente quel testone del Conte di Cavour, che badava a tutto; ed incaricò l'intemerato ed oculato sifilografo prof. Casimiro Sperino di allestire alla lesta un regolamento sulla Prostituzione, che è il famigerato regolamento del 15 febbraio 1860, contro cui si appuntano i picconi demolitori dei moralisti, degli igienisti, dei giureconsulti e degli apostoli d'ambo i sessi. È perniciosa la schifiltà dei giornali in pantoffole, che vorrebbero mettere la sordina alle verità più strepitose. Noi proclamiamole salutarmente. Si disse che la Natura è più forte delle Leggi, e si direbbe meglio che essa stessa è la legge più forte fra le leggi. Poiché Dio Creatore ha dato l'amore naturale come mezzo indispensabile a continuare la sua creazione, un Governo, il quale deve governare ogni funzione sociale per evitare il maggior male e fare un po' di bene non può prescindere dalla funzione primigenia della massima importanza vitale. Perciò il tessuto connettivo del Governo va dalla santa nobiltà del matrimonio alla abbiettezza peccaminosa della prostituzione. Ma il Governo non deve mai procedere a casaccio, bensì secondo i casi, che offre il perpetuo svolgimento della sfera di vita umana. La Storia dei Costumi ci mostra, come agli stati nella maggiore potenza, e probabilmente a cagione della medesima, (tanto è breve il tratto dalla potenza alla prepotenza e alla strafottenza, dalla retta volontà al folle arbitrio) accadde un pervertimento, una rivulsione sessuale. Così alla Serenissima Repubblica di Venezia occorse provvedere contro al dannoso predominio della masturbazione e della pederastia. Lo stesso pare ricorra nel sottosuolo immorale della granitica Germania pervasa dalla omosessualità. Che fece la Serenissima verso la fine del 1400 per richiamare la sua maschia gioventù alle vie indicate dalla natura figlia di Dio? Ordinò alle sue cortigiane di affacciarsi spettoracciate allettatrici dai balconi. Così Pompeo Gherardi Molmenti nella sua Storia della Vita Privata di Venezia 21a ediz. pag. 321. Anche a Lucca nel 1448 si instituì l' Ufizio dell'Onestà a punire i peccati contro natura e a ravvivare gli amori naturali. E se non capitò al punto di un eccesso diverso forse fu ingiusto l'interdetto ricordato da Dante alle sfacciate donne fiorentine * d'andar mostrando con le poppe il petto. Ad ogni malattia il suo rimedio. Napoleone I, genio della guerra, per amore e necessità dei soldati, coniò il regolamento celtico, sottomettendovi le femmine da conio. Cavour, genio della nuova Italia, riparando all'epidemia celtica, che devastava le schiere giovanili accorrenti al compimento della libertà e dell'unità italiana, faceva rimodellare quel regolamento agli urgenti bisogni della nazione. In che consiste sostanzialmente il suddetto regolamento? Nel matricolare le femmine prezzolate per gli sfoghi sessuali ed astringerle a visita medica periodica, e se riconosciute infette, ritirarle dal commercio sottoponendole a cura coercitiva. Fin qui il regolamento non fa una grinza; il relativo diritto va diritto a fil di spada. Se per la salute pubblica si proibisce al macellaio di vendere carni infette, a fortiori si può applicare la proibizione alle femmine contaminate, che la voce del popolo chiama coi nomi di vacche, troje ed altre bestie da macello. Oltre ai benefizii della salute fisica, non manca chi ravvisa nella prostituzione ordinata i benefizii della salute morale. A questo proposito mi cadde sott'occhi nell'appendice di una gazzetta circondariale "Paradossi idrostatici" (speciosa verità, dove vai qualche volta a ficcarti?) una bizzarra laude di un Doctor Malalingua a Santa Raab patrona delle meretrici. È dedicata ad una nuova Ninon de Lenclost "amica sincera, amante infedele". Con il ritornello "per cinque lire" in quell'inno si loda (non ricordo precisamente i versi) Raab, meretrice di Gerico, e non solo per i meriti patriottici militari, per cui Dante, lasciata Taide puttana nell'inferno a graffiarsi con le unghie merdose, sublima, imparadisa Raab nel cielo luminoso di Venere facendola scintillare come raggio di sole in acqua mera. Nell'inno non solo è vantato il merito storico di Raab che ricettando in sua casa gli esploratori favorò la prima gloria di Jousè in su la Terra Santa ; ma è celebrato il suo merito attuale sociale. Lo studente, il garzone vede in te rifulgere la bellezza di Eva nel Paradiso Terrestre; acqueta un'estasi per cinque lire. E se ne parte senza responsabilità, scossa la polvere dai sandali, scossi i grilli dal cerebro, per cinque lire, aggiunta alla portinaia ruffiana la mancia di moneta invalida. Così è risparmiata la virtù della innocente figlia dell'onesto operaio, e della giovane sposa del vetusto Conservatore delle ipoteche per cinque lire. Si evita una fabbrica pestilenziale di corna con cinque lire. Quanto invece costa una seduzione! Spesso gronda lacrime e sangue. La corte di una damina si prolunga rovinosamente più dell'assedio di Troia. Crudeli infanticidii, fughe sciocche e calamitose, madri aspettanti nella preghiera o nella disperazione, padri che si inginocchiano o maledicono ai figli! suicidii, delitti ... Tutti i disastri, che si evitano con cinque lire. Fin qui l'inno. In prosa un prode e virtuoso generale, Alfonso La Marmora non credeva certamente, che la morale se ne andasse ad magnam meretricem , quando nel rapporto degli ufficiali, li consigliava paternamente: Fieui, andè a magne. Badate che i test ... i non vi pesino mai di più che la testa. Il senatore Giambattista Borelli, chirurgo di salutare prestigio, divisava nettamente l'alto benefizio di una Aspasia sensuale, intellettuale e spiritosa, che riposa, snebbia, consola e rallegra gli spiriti e i corpi affaticati dei grandi lavoratori della patria e dell'Umanità, e rintegra la forza sociale del maschio con la dolce e santa ebbrezza dell'eterno femminino, senza piagnistei di amanti, senza trafitture di gelosia e senza pezzuole ributtanti e puzzolenti di levatrici e nutrici. Signori Studenti! Non bisogna però mai esagerare, e tanto meno tirare a generalità lo specialissimo sollievo di alcuni celibi necessarii come le api operaie. Con tali esagerazioni ci dimostreremmo dammeno del ragionamento collettivo degli imenotteri fabbricatori di miele. La Società è profondamente complessa; la verità è infinitamente poliedrica; e la scienza deve procurare di rifletterne il maggior numero di faccette. Per la santa meretrice Raab della Sacra Scrittura o per la profumata esilarante intelligenza di Aspasia greca o di una principessa cosmopolita, non dobbiamo trascurare le giuste e sante nozze, fondamento della Società, seminarium reipublicae. La prostituzione, tutto al più male necessario, ha i suoi effetti perniciosi, che bisogna ridurre ai minimi termini. I Regolamenti, che si proposero di riparare alla maggiore pernicie, ci riuscirono? Pare di no, se ascoltiamo il grido di dolore e di protesta che si eleva e circola contro di essi dalla Patagonia alla Scandinavia. Da noi si è pronunziata nettamente contro il Regolamento meretricio la Reale Commissione per lo Studio delle Questioni relative alla Prostituzione e ai provvedimenti per la Morale ed Igiene Pubblica , composta dei signori: Peruzzi comm. Ubaldino, deputato al Parlamento, presidente , * Bertani dott. Agostino, deputato al Parlamento, * Bianchi prof. Francesco consigliere di Stato, * Casanova comm. avv. Giuseppe, capo di Divisione al Ministero dell'Interno, * De Renzis barone Francesco, deputato al Parlamento, * Giudici comm. Vittorio colonnello medico, deputato al Parlamento , * Lucchini prof. avv. Odoardo, deputato al Parlamento , * Mazzoni comm. prof. Costanzo, * Patania dott. Carmelo, deputato al Parlamento, * Pessina prof. Enrico, senatore del Regno, * Villari prof. Pasquale, senatore del Regno, * Pellizzari prof. Celso, segretario . Non si potrebbe immaginare un conserto più competente di ingegno, studio, ed amore del bene, dall'accortezza delle antiche repubbliche mercatanti alla fiamma di Gerolamo Savonarola, dal civilista al penalista, dall'ambulanza garibaldina alla tenda del R. Esercito, dall'eleganza del proverbio martelliano alla burocrazia più inchiostrata, dal numero all'idea, dal fucile al microscopio, dal Consiglio di Stato al laboratorio di Chimica, da una buona Camera a un bel Senato. Ebbene tutto questo conflato di osservazione, di scienza e di coscienza è unanime nel denunziare gli orribili abusi, di cui fu capace l'applicazione del Regolamento. Mentre lo Statuto del Regno e il Codice Civile garantiscono la libertà personale dei maggiorenni che non siano condannati al carcere e al manicomio, mentre si è persino abolita la cattura per debiti civili e commerciali, mentre si è tanto gridato contro la schiavitù negra d'America, ecco autorizzata dal nostro governo liberale e Nazionale, protetta dalla sacra maestà del braccio regio la tratta e la coercizione delle schiave bianche, lavoratrici organizzate della bellezza, lavoratrici del piacere, lavoratrici dell'amore. Onde il romanziere moralista Vittorio Bersezio può rettamente deplorare l'harem libero, che la civiltà europea consente alla libidine ricca di procurarsi specialmente nella miseria delle classi povere. Abbiamo le meretrici di stato tra gli altri monopolii dello stato, come i sali, i tabacchi, la polvere pirica, i pallini da caccia, i francobolli, i tarocchi, e le altre carte da gioco; come potremo avere le ferrovie di Stato e il chinino di Stato. Intanto abbiamo l'infezione di Stato. Imperocché i sifilicomii governativi sono definiti dalla Regia Commissione centri di lenocinio, scuole di corruzione, fomiti di libertinaggio, esercizii di tribadismo, scarica di malanni, sentina di febbri, ergastolo fecondo di tifo e scabbia, sordido ricetto di bestie immonde. L'infezione tocca pure i pubblici ufficiali, che impiegati a trattare turpitudini si deturpano. Nei sonetti del Fucini si contemplano le guardie briache addormentate in un casino, mentre in pescheria accadono zuffe mortali. La maggiore turpitudine è segnalata nella recluta delle prostitute. Si comprende alla stregua del semplice buonsenso, che una donna maggiorenne, la quale voglia fare commercio del proprio corpo, sia assoggettata a certe regole di igiene, di cura e di decenza, e che si freni la spocchia di un pistoiese Canonico Pacchiani (vedi Guadagnoli dello Stiavelli) che sorpreso di notte a far gazzarra nella pubblica via con una donnaccia volle proclamarsi uomo libero con donna libera in terra libera. Ma che per offrire carne fresca ai provetti consumatori, per fornire macchine di piacere ai loro organi viziati, l'autorità governativa dia forza legale ad associazioni di malfattori per la retata e la coscrizione di innocenti creature nell'esercito della mala vita, è un orrore. Inorridite, continenti! Inorridite, stelle, davanti a questo bolide. Il Comm. Bolis, benemerito e compianto direttore generale della Pubblica Sicurezza, attestò alla R. Commissione che si erano forzate alla disciplina delle meretrici vergini certe, che da tenenti postriboli si è mercanteggiata la verginità di fanciulle quindicenni e, più orrenda lacerazione della Natura, vennero insanguinate a prezzo dalla libidine fanciulle tuttavia acerbe, ignare del fiotto mestruo. Oh! Società di sepolcri imbiancati, o menzogne convenzionali della Civiltà, o Italia, non donna di provincia, ma bordello!" Neppure, secondo l'eloquenza dell'avv. prof. Ilarione Gioiazza larga di umorismo e di invettive, Nerina verso il termine dei suoi capricci per pianoforte poteva considerarsi vergine martire.

Abbasso i mariti! Desiderato Chiaves in una ricreazione filodrammatica, compassionando una vedovella solitaria nella sua villa, aveva fatto esclamare da uno zio rappresentativo: * Che fa il ministero della guerra, che non manda uno squadrone di cavalleria nei dintorni a consolare la solitudine della mia cara nipotina? * Così e converso gli ufficiali di Piemonte Reale Cavalleria pesante, di guarnigione all'uggia della melmosa Trentacelle nella state del 1873, potevano mitologicamente invocare Venere e Cupido: * Se non siete definitivamente morti, Dio dell'amore, Dea dell'amore, che fate? Spediteci qui una bellezza da ammirare e corteggiare. Si direbbe, che Venere e Cupido esaudissero i voti dell'Ufficialità di Piemonte Reale Cavalleria con la spedizione della Contessa Nerina a Trentacelle. Veramente essa vi era venuta per il professore Losati. Ma non è più lecito ignorare, che essa era uno di quei cuori ardenti, che non si appagano di nessun amore. Ed era più prepotente di una czarina slava nella molteplicità dei suoi capricci imperiosi. Della sua prepotenza aveva già dato saggio all'albergo, al caffè e nelle passeggiate, principalmente con gli occhi, che lucevano come una stella; una stella d'inferno, stella promettitrice di rapimenti, tempeste e rovine. La sua conquista decisiva fu a teatro. Al Politeama Tupinetti si rappresentava un drammaccio da arena: La colpa vendica la colpa. Però il maggiore spettacolo era quello che il pubblico si dava a se stesso, facendo licito il libito in sua legge per esalare seralmente l'afa della giornata estiva. Chi fumava, chi cicalava, chi beveva, chi ordinava scioppi di birra. Si sentivano come revolverate gli stappi della gazosa. Nel pandemonio si distingueva la barcaccia degli ufficiali di Piemonte Reale, che sporgeva al lato destro del proscenio, tanto da poter stringere la mano alla prima donna o dare un pizzicotto alla servetta. Irruppero cinque o sei tenentini reduci coll'ultimo treno dagli esami di promozione della Scuola di Pinerolo. Furono interrogati premurosamente sull'esito. Il più oratore di essi rispose con rassegnazione di iattanza nel latino maccheronico più che goliardico: Si passus, passus; si non passus, andabo a spassus, pigliabo uxorem et coglionabo professorem. Il cicaleccio venne interrotto dalla luminosa apparizione della Contessa De Ritz nelle sedie chiuse col professore Losati. Vista la puntatura pertinace del relativo binoccolo, un capitano osservò all'oratore dei tenentini di Piemonte Reale: * Mi pare che tu voglia pigliare la moglie degli altri, la moglie del professore. Pigliabo uxorem et coglionabo professorem, divenne il ritornello, il refrain , il leit motiv della barcaccia degli ufficiali di Piemonte Reale, che colle bande rosse sulle gambe lunghe si rizzavano, si protendevano, come diavoletti arroncigliatisi: chi spediva baci, chi pareva volesse gettare il fazzoletto di sultano, chi la rete di pescatore, chi il laccio di gaucho mato sulla Contessa imperatrice delle sedie chiuse. Il professore non dava segno di accorgersene, assorto come la maggiore parte del pubblico nella lettura dell' Eco di Trentacelle , il cui foglio uscito e distribuito di fresco, andava a ruba e costituiva l'avvenimento di quella sera. Tutti lo leggevano, ad eccezione degli ufficiali della barcaccia più dediti all'equitazione, alla scherma e alle conquiste, che ai pettegolezzi della letteratura provinciale. Eppure Spirito Losati, benché rotto alle letterature classiche, scopriva un nuovo filone di minerale letterario in quelle Cacature di Mosca , come il Doctor Malalingua dell' Eco di Trentacelle aveva voluto modestamente ed anche sprezzantemente intitolare i suoi ristretti di romanzo e spunti di commedia. Egli era il giovane farmacista Evasio Frappa, che a divagazione e sostegno della monotonia dei suoi pestelli e vasetti si era fatta coll'assidua lettura una cultura straordinaria, e si era formato uno stil nuovo caustico da rivaleggiare nella provincialità di Trentacelle con il rapido, plastico e mordente bozzettista americano Bret Hart, e da precorrere agli acidi corrosivi dell'amaro Massimo Gorki. Se un generoso editore (nella supposizione inverosimile che vi siano generosi editori in Italia) avesse la furberia di raccogliere dalle annate gialle dell' Eco o dell' Oca (come dicevano gli spiritosi dileggiati) di Trentacelle d'una quarantina d'anni fa, le Cacature di Mosca di Doctor Malalingua (Evasio Frappa) colpirebbe l'immaginazione del pubblico con un tesoretto postumo di osservazioni concrete da togliere il gusto della letteratura sbattuta e vuota oggi in voga. Segnalatamente gustosi gli scampoli: Un trombone isolato * Il burattinaio famelico * A che servono le donne d'altri * Lasciate amare * Il mestiere d'amare * Storia di una molecola * Le citte * Necrologia di una pipa * Al marito di cento, senza averne sposata nessuna , titolare di una commedia a soggetto. Noi per connessione di causa riproduciamo un profilo relativamente più debile intitolato: Formidabile , caricatura a chiave riconoscibilissima della Dea reggimentale, la cui attraente lettura in quella sera distraeva l'attenzione dal dramma " La colpa vendica la colpa" nonché dalle manovre di Piemonte Reale Cavalleria nella barcaccia, dagli inviti assordanti di gaseuse e bira , e dallo stesso splendore e fascino civettuolo della contessa Nerina sovrana nelle sedie chiuse. Ecco il profilo esumato: * Formidabile * sommario di romanzo I. Non è la storia di una pirocorvetta ad elice, ma è la storia di una nobile signora più formidabile di una fregata da cento cannoni. Nacque figliuola unica del barone Uvamico, proprietario rentier , insignificante, inconcludente e della baronessa Carissa dei nobili Scintilla morta con sapore di bambina. Fu battezzata Stella. Fu educata in un convento. Ritirata a casa a sedici anni giocava ancora con la puppatola. Sentiva bisogno di amare. In convento le era sembrato di amare un baritono venuto a cantare un pange lingua in una funzione religiosa. Ora avrebbe voluto amare uno scolare studioso, un avvocato eloquente, un giovane che si fosse reso benemerito verso sua madre o verso il prossimo, un fabbricante, che avesse trovata una tinta indelebile per i calzoni o per la cifra della biancheria. Un giorno le annunziarono, che ella avrebbe sposato il marchese Ercole Passerotto di Frappaglia. II. Chi era il marchese Ercole Passerotto di Frappaglia? Era figliuolo a un diplomatico di Carlo Emanuele ultimo e di Vittorio Emanuele I, che aveva abbandonato l'educazione del figlio per la diplomazia. L'aveva commesso a un prete, Don Procopio. Il tirone, di indole frigida, cioè pochissimo sensuale, si innamorò molto spiritualmente e poco spiritosamente del cappellano. Don Ercolino mostrava e sentiva entusiasmo per le benedizioni ed i santuarii: portava il baldacchino, la pellegrina e le conchiglie in processione: avrebbe fatto dieci miglia a piedi per sentire una messa cantata, accompagnata all'organo da padre David. Si soffiava il naso con fazzoletti dello stesso colore del piviale, che deve variare ogni giorno il prete a messa secondo il calendario rituale. Aveva divisato di immortalarsi con una monografia sulla Confraternita di Santa Caterina. I cosidetti sensi non li conosceva più nemmeno, avendo tarpato loro le ali, appena mettevano il cannone. A quindici anni, quando alcuno gli domandava chi intendesse sposare, egli rispondeva: * Voglio sposare Don Procopio! A venticinque anni, il padre gli replicò la domanda. Ed egli rispose, che voleva sposare la Chiesa. Il padre pianse alla pochezza d'ingegno del figlio, egli che voleva tirarne un diplomatico, un uomo di stato. Gli osservò, come per un figlio unico non c'era luogo a vocazione ecclesiastica, * e che per un nobile né prete, né militare era un disonore non avere moglie. Don Ercolino si acconciò e sposò la contessina Clara Faggio Del Poggio, florida bionda, che dal giorno del matrimonio al contatto di quella cartapecora intristì, fino a morire di lì a sette mesi. Il marchese Ercole ne pianse la morte religiosamente, ufficialmente e coralmente, perché così gli imponevano le sue convinzioni di gentiluomo, di galantuomo e di fedele cristiano. Ma nel suo sé fu contento di essersi spacciato dall'obbligo della moglie, e dal disonore di rimanere nobile celibe senza essere colonnello né monsignore. Durò cinquant'anni di fiera vedovanza, durante i quali fece fabbricare due organi nuovi, pubblicò le sue opere storiche su diverse confraternite e comperò la mula bianca per l'ingresso del nuovo arcivescovo. Protestò contra lo Statuto e l'abolizione del foro ecclesiastico e dei Conventi. Nel 1858 per l'epidemia clericale elettiva fu mandato deputato al Parlamento Subalpino. Vi si recava, dopo avere udito e servito due o tre messe a San Filippo. Avrebbe creduto di commettere un peccato di gentiluomo cattolico, se avesse toccato la mano a Brofferio o a Borella. Non parlò mai. Quando il padre Angius o il conte Solaro della Margherita nominavano il Padre Eterno od il suo figliuolo nostro Signore Gesù Cristo, egli si levava il berrettino pretesco, e si faceva fieramente il segno della Santa Croce in Parlamento. Dopo il sessanta, egli pianse su Casa Savoia e si recò nel suo Castello di Frappaglia, paese quasi tutto suo. Diceva il breviario, come i preti. Abolite le corporazioni religiose anche nel Napoletano, egli ospitò a Frappaglia un monastero di suore carmelitane. Una nobile monacella, dolce come una caramella, la Mirto La Chaine di Mostiafè, la quale non aveva ancora varcato gli ultimi voti, gli presentò nel giorno onomastico un mazzo di fiori con la grazia di un'estasi implorante da reclusa. Il vecchio marchese Passerotto di Frappaglia sentì uno strabiliante effetto di amore a settant'anni. Nell'orgasmo senile la baciò, ed onestamente se la sposò, dopo avere pagata una lauta dispensa alla Dateria apostolica di Roma ed ottenuta per sopramercato una particolare benedizione dal Santo Padre. La marchesina allontanava ogni adorazione altrui con un raggio d'occhio dolcemente superbo. Morì nella maternità martire. Inconscio Barbableu, il marchese Ercole Passerotto di Frappaglia pianse di nuovo ufficialmente e coralmente, e fece venire, oltre l'arcivescovo, due vescovi e dieci canonici per la sepoltura. Finito il rito funebre, convocò l'arcivescovo, i vescovi e i canonici a concilio nel coro della cappella, e tenne loro un'arringa, dicendo che per la salute della sua anima e del suo corpo aveva bisogno di una nuova sposa, purché aristocratica e cattolica; e glie la cercassero. Non fiutarono a lungo i monsignori per trovare la nubenda al vegliardo de cujus . Uno di essi propose la propria nipote baroncina Stella Uvamico, il cui padre era vicino a spiantarsi per la sua imbecillità. Nei primi giorni del suo terzo matrimonio, il marchese Passerotto lasciò in libertà la sposa, che aveva quartiere separato. Al sesto giorno la più vecchia delle dame di compagnia avvertiva la marchesa, che lo sposo sarebbe venuto a farle visita intima di sera, dopo il rosario. Venne ilare, rimpennacchiato, ossia vestito comicamente e lussuosamente alla Goldoni con trine bianche e parrucca nera, spadino e fioretti ... Contento della relativa conquista, egli si arrese a trasportare i lari in città. Quivi dava delle feste da ballo, come glie lo permettevano le sue trecento e cinquanta mila lire di rendita. Mentre gli altri ballavano o si divertivano altrimenti, egli diceva il breviario, e finito il ballo andava a messa. La marchesina Stella paragonò il poderoso scalpitio di un capitano di Nizza Cavalleria alla tosse e allo scricchiolare della carcassa del marchese. Dopo mille rimordimenti di coscienza, diede il suo cuore, la sua fotografia, le sue labbra all'ufficiale cavaliere, per crearsi una nuova vita di felicità perpetua, fedele, amorosa, permessa dalle leggi degli angeli. Il capitano cambiò di guarnigione. Inutilmente essa spedì il marito clericale nella capitale usurpata ad invocare dal ministero massone il ritorno di Nizza Cavalleria a presidio della consorte. Essa voleva fuggire, suicidarsi, farsi monaca ... Voleva recarsi a implorare un santo consiglio da un santo vecchio sacerdote ... Invece capitò a farle visita un giovane e bel canonico. Essa si accorse solo allora, come un prete poteva essere salacemente bello. Subì una dichiarazione amorosa sacerdotale. Stella amava misticamente il canonico, che venne graffiato dalla cuoca e piantò la marchesa, dopo averla accompagnata ostensivamente a braccetto nel visitare le cappelle artistiche del Sacro Monte di Varallo. Delusa dall'abbandono canonicale, la marchesa ritiratasi al Castello di Frappaglia, quivi amò rubestamente un contadino, che aveva adocchiato a un ballo pubblico, e giudicato più bello ed aitante di tutti gli ufficiali e di tutti i canonici ... Se ne disgusta una sera per il puzzo ... Stella non voleva cadere in una stalla. Ritorna in città più formidabile che mai. Allaccia, straccia, stritola, scarpiccia cento vincoli di amore. È un uragano in un bosco d'amore. Il marchese sopporta da gentiluomo del settecento; raccomanda solo di salvare le moderne apparenze. Stella riceveva docile e imperiosa i frequenti assalti, più che omaggi, dei tenentini impertinenti ed impetuosi; e dignitosa gli inchini dei grossi colonnelli, uno dei quali, grosso come un tamburo, nel forte della dichiarazione scappò in un petardo. Sgloriata nuovamente del militarismo, essa volle lasciare un'altra volta l'esercito per la chiesa; finse una malattia e una confessione per sedurre un celebre predicatore. Poscia si invaghì di un giovane pittore, il quale visibilmente segnato dalla Dea Gloria, aveva promesso di sposare al suo paese l'umile figlia di un fornaio, ricciuta come una pecora del sole, perché era stata la sua prima favilla artistica. Stella si fissò di rapire il nuovo Raffaello alla fornarina rusticana. L'artista cede alle lusinghe della superba matrona. Ma dopo la prima eclampsi d'amore, egli, già snebbiato di voluttà, sentì la plebea tentazione di imprecare: porca marchesa! Come il re Teodorico in una ammoniaca spirituale dell'ebrietà banchettante vide nella testa del pesce i teschi delle sue vittime Simmaco e Cassiodoro, così il pittore in una svenia della Donna formidabile vide rifiorire l'immagine della sua unica Fornarina, innocente fanciulla, che lo scacciava dalla filatessa degli amanti di Stella. Per riabilitarsi egli ha bisogno di un gran colpo: trae di tasca un portafogli; ne estrae un biglietto della Banca Nazionale di lire cento, rosso come la vergogna, e lo dà alla marchesa, dicendo: non ho mai pagato tanto niuna ... Se avesse pronunciata la parola, l'avrebbe detta in greco: etaira ... La marchesa urla, ma ritiene il biglietto, lo caccia in un medaglione; poi lo fa inquadrare e spianta la sua corte. Diviene una benefattrice. L'artista ha sposato la fornarina. Il marchese Ercole è morto. Morrà anche la marchesa lasciando il fatto suo allo Spedale. Sarà santificata." " Doctor Malalingua" Alla chiusa ottimista del bozzetto, il professore sollevò lo sguardo carico dall'appendice dell' Eco di Trentacelle, e colse in uno sguardo fragrante l'attacco più che formidabile di Piemonte Reale Cavalleria alla contessa De Ritz, e questa in posa smaniosa di fortezza prendibile, e quasi in accensione di Troia omerica; onde sospirò internamente con una sicurezza di virgiliana immagine: Nerina ruit in pejus.

IL FIASCO DEL MAESTRO Chieco (Racconti musicali)

664392
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 2 occorrenze

- Abbasso! - Lasciate quell'uomo! Badate ai ladri, per Dio! Voi pigliate i servi di Dio e lasciate i ladri! - Via! - Abbasso! - Benedetto si fece avanti, accennò, a due mani, di tacere, pregò e ripregò che se n'andassero in pace poiché nessuno gli voleva far male, egli non era arrestato, se n'andava con quel Signore di sua libera volontà. Nello stesso momento scrosciò un tuono in cielo, un impeto di acquazzone sul marciapiede. La folla balenò, si disperse rapidamente. Il delegato diede un ordine al ciclista e salì nella botte con Benedetto. Partirono verso il Tevere, fra i tuoni, i lampi e la pioggia furiosa. Benedetto domandò al delegato, molto quietamente, che si volesse da lui alla Questura. Il delegato rispose che non si trattava di Questura. Chi voleva parlare al signor Maironi era un pezzo più grosso del questore. "Non so se avrei dovuto dirlo" soggiunse "ma già glielo dirà lui." E raccontò che lo aveva cercato inutilmente a villa Mayda, disse quanto gli sarebbe seccato di non trovarlo presto. Benedetto si provò a domandargli se sapesse la cagione della chiamata. Realmente il delegato non la sapeva, ma finse un silenzio diplomatico, si rannicchiò nel suo angolo come per salvarsi dalle folate di pioggia. Un lampo mostrò a Benedetto il fiume giallastro, i neri barconi di Ripagrande; un altro il tempio di Vesta. Poi non si raccapezzò più affatto, gli parve di attraversare una sconosciuta necropoli, un dedalo di vie funeree dove ardessero lampade sepolcrali. Finalmente la carrozzella entrò con fracasso in un atrio, si fermò al piede di uno scalone scuro, fiancheggiato di colonne. Benedetto lo salì col delegato fino al secondo ripiano sul quale si aprivano due porte. Quella di sinistra era chiusa, quella di destra guardava sullo scalone per un occhio ovale lucente. Il delegato la spinse, entrò con Benedetto in un bugigattolo, in una specie di anticamera. Un usciere che dormicchiava si alzò stentatamente. Il delegato lasciò Benedetto e passò in un'altra stanza. Allora l'usciere si chinò come per raccogliere qualche cosa e disse a Benedetto porgendogli una lettera chiusa: "Guardi che Le è caduta una carta." Perché Benedetto si meravigliava, insistette: "Lei è bene quello del Testaccio? Veda che sarà Sua, faccia presto!" Faccia presto? Benedetto guardò l'uomo che si era rimesso a sedere. Quegli lo guardò alla su volta e confermò il suo consiglio con uno scatto secco del capo che significava: tu sospetti che ci sia sotto qualche cosa e realmente c'è. Benedetto guardò la busta. Vi si leggeva questo indirizzo: "Al garzone giardiniere di villa Mayda" E sotto, a caratteri più grandi: "SUBITO" La scrittura era femminile ma Benedetto non la riconobbe. Aperse e lesse: "Sappia che il Direttore generale della Pubblica Sicurezza farà il possibile per indurla a lasciare volontariamente Roma. Rifiuti. Quello che segue lo potrà leggere a Suo agio." Benedetto ripose frettolosamente la lettera. Ma poiché nessuno compariva e tutto pareva dormire intorno a lui, la cavò, riprese a leggerla. Seguiva così: "In Vaticano si è poco contenti, dopo le sue visite, del Santo Padre, il quale, fra l'altre cose, ha richiamato a sé l'affare Selva dalla Congregazione dell' Indice. Ella non può immaginare gl'intrighi che si tramano contro di Lei, le calunnie che si fanno arrivare anche ai Suoi amici, tutto per lo scopo di allontanarla da Roma, di impedire ch' Ella veda più il Pontefice. Si è ottenuto che il Governo aiuti la congiura promettendogli in compenso di non mandare ad effetto certa nomina di persona molto sgradita al Quirinale, per la sede arcivescovile di Torino. Non ceda, non abbandoni il Santo Padre e la Sua missione. La minaccia per l'affare di Jenne non è seria, sarebbe impossibile di procedere contro di Lei e lo sanno. Chi non Le può scrivere ha saputo tutto questo, lo ha fatto scrivere a me, lo farà pervenire a Lei. Noemi D' Arxel. Benedetto guardò involontariamente l'usciere, quasi dubitando ch'egli conoscesse il senso di quella lettera passata per le sue mani. Ma l'usciere dormicchiava da capo e non si scosse che al ricomparire del delegato, il quale gli ordinò di accompagnare Benedetto dal signor commendatore. Benedetto fu introdotto in una stanza spaziosa, tutta buia fuorché nell'angolo dove un Signore sui cinquant'anni stava leggendo la Tribuna nel chiarore di una lampada elettrica, vivo sul suo cranio calvo, sul giornale, sul tavolo coperto di carte. Sopra di lui, nella penombra, si intravvedeva un grande ritratto del Re. Egli non levò dal giornale il capo grave di conscio potere. Lo levò quando gli piacque e guardò con occhi noncuranti l'atomo di popolo che aveva davanti a sé. "Prenda una sedia" diss'egli, gelido. Benedetto ubbidì. "Lei è il signor Pietro Maironi?" "Sì Signore." "Mi rincresce di averla incomodata ma era necessario." Sotto le parole cortesi del signor commendatore si sentiva un fondo di durezza e di sarcasmo. "A proposito" diss'egli. "Perché non si fa chiamare col Suo nome, Lei?" Alla improvvisa domanda Benedetto non rispose immediatamente. "bene bene" ripigliò colui. "Questo adesso importa poco. Qui non siamo in Tribunale. Io penso che se si vuole fare il bene si deve farlo col proprio nome. Ma io non vado in Chiesa, ho idee diverse dalle Sue. Non importa, dico. Lei sa chi sono io? Il delegato gliel'ha detto?" "No Signore." "bene, sono un funzionario dello Stato che s'interessa un poco della sicurezza pubblica e che ha un certo potere; sì, un certo potere. Ora io voglio dimostrarle che ho interesse anche per Lei. Lei, mi dispiace il dirlo, è in una situazione critica, mio caro signor Maironi o signor Benedetto, a Sua scelta. È pervenuta all' Autorità giudiziaria un'accusa contro di Lei, veramente grave; e io vedo molto in pericolo non soltanto la Sua fama di santità ma pure la Sua libertà personale e quindi la Sua predicazione almeno per qualche anno." Una fiamma salì al viso di Benedetto, i suoi occhi scintillarono. "Lasci la santità e la fama" diss'egli. L'augusto funzionario dello Stato riprese senza scomporsi: "Lei si sente ferito. Badi, sa, che la Sua fama di santità corre altri pericoli. Altre cose si dicono di Lei che non hanno a che fare, per questo stia tranquillo, col codice penale ma che non si accordano molto colla morale cattolica; e Le assicuro che sono abbastanza credute. Dico per dire; son cose che non mi riguardano affatto. Del resto la santità non è mai reale, è sempre, più o meno, una idealizzazione che lo specchio fa della immagine. Se c'è una santità è quella dello specchio, è quella della gente che crede ai Santi. Io non ci credo. Ma veniamo al serio. Le ho dovuto dire delle cose sgradevoli, La ho anche ferita; ora medicherò. Io non sono credente ma però apprezzo il principio religioso come elemento di ordine pubblico, e questo è poi il sentimento dei miei Superiori, è il sentimento del Governo. Perciò il Governo non può aver piacere che si faccia un processo scandaloso a qualcuno che presso il popolo passa per Santo; un processo che potrebbe poi anche provocare dei disordini. Ma c'è di più! Noi sappiamo che Lei è persona gradita al Papa il quale La vede spesso. Ora in alto non si ha nessuna voglia di recare dispiaceri personali al Papa. Si ha dunque la buona intenzione di evitargli questo, se possibile. E sarà possibile a una condizione. Qui in Roma Lei ha dei nemici attivi, non di parte nostra, sa! non di parte liberale!, che si preparano a rovinarla interamente; nella riputazione e in tutto. Se vuole che Le apra il mio pensiero, il mio pensiero è questo: dal punto di vista cattolico hanno ragione. Io modifico un poco, per mio uso e per loro uso, il motto famoso dei Gesuiti: "aut sint ut sunt" dico io "aut non erunt." Mi riferiscono che Lei è un cattolico largo. Ciò significa semplicemente che lei non è cattolico. Tiriamo via. I Suoi nemici L'hanno denunciata al Procuratore del Re. Per Verità noi dovremmo far arrestare dai carabinieri il signor Pietro Maironi condannato in contumacia dalla Corte d' Assise di Brescia per mancato servizio di giurato; ma questa è una bazzecola. Lei si figura di avere guarito della gente a Jenne ed è accusato non solamente di esercizio illegale della medicina ma persino di aver avvelenato un paziente, niente meno! Ora noi abbiamo i mezzi di salvarla. Noi faremo in modo che la denuncia si ponga a dormire. Ma se Lei resta in Roma i Suoi nemici di Roma faranno un rumore così grande che non ci potremo fingere sordi. Bisogna che Lei se ne vada lontano; e subito! Meglio se va fuori d' Italia. Vada in Francia, dove c'è carestia di santità. O almeno ... non ci ha una casa, Lei, sul lago di Lugano? Adesso vi sono delle suore, vero? Suore e Santi stanno benissimo insieme. Vada colle suore e lasci passare la burrasca." Il commendatore parlava serio serio, lento lento, coprendo lo scherno di flemma più insolente. Benedetto si alzò in piedi, risoluto e severo. "Io stavo" rispose "presso un infermo che aveva bisogno della medicina illegale mia. Mi si poteva lasciare al mio posto. Lei e il Governo sono i peggiori miei nemici se mi offrono di fuggire la giustizia. Lei faccia il Suo dovere di mandare i carabinieri ad arrestarmi per il mancato servizio di giurato. Io proverò poi che non potei ricevere la citazione. Il signor procuratore del Re faccia il dovere Suo di procedere contro di me per la denuncia di Jenne; mi si troverà sempre a villa Mayda. Lo dica ai Suoi Superiori. Dica loro che non mi moverò da Roma, che temo un Giudice solo e ch'essi pure lo temano nel loro doppio cuore, perché Egli sarà più terribile al doppio cuore che alla violenza sincera!" Il commendatore, impreparato a quel colpo, livido di veleno impotente, prorompeva già in parole di collera quando si udì il rumor sordo di una carrozza ch'entrava nell'atrio. Levò allora lo sguardo da Benedetto, stette in ascolto. Benedetto afferrò la spalliera della sua seggiola per levarsi quell'impaccio a voltar le spalle. L'altro si scosse, riacceso negli occhi dall'ira un momento sopita; gettò il giornale che aveva sempre tenuto in mano, batté il pugno sul tavolo, esclamando: "Che fa? Non si muova!" I due uomini si fissarono per alcuni secondi in silenzio, uno con autorità maestosa, l'altro bieco. Poi questi riprese, veemente: "Debbo farla arrestare qui?" Benedetto durò a fissarlo in silenzio. Quindi rispose: "Aspetto. Faccia." Un usciere, che aveva bussato più volte inutilmente, comparve sulla soglia, s'inchinò al commendatore senza dir parola. Il commendatore disse subito "vengo" e alzatosi frettolosamente uscì con una faccia strana dove la collera spariva e spuntava l'ossequio. L'usciere rientrò immediatamente, disse a Benedetto che aspettasse. Passò un quarto d'ora. Benedetto, tutto fremente, con il cuore in tumulto e la testa in fiamme, eccitato e spossato dalla febbre, era ricaduto sulla sua seggiola, turbinandogli dentro alla rinfusa i più diversi pensieri. - Dio gli perdoni a quest'uomo! - A tutti! - Che gioia se il Pontefice non permette la condanna di Selva! - La persona che non mi può scrivere, come sa? - E adesso perché mi fanno aspettare? - Cosa vogliono ancora da me? - Oh, con questa febbre, se non avessi a esser più padrone dei miei pensieri, delle mie parole! - Che terrore! - Dio, Dio, non lo permettete! - Ma che orride viltà sono nel mondo, che vergogna di fornicazioni occulte fra questa gente della Chiesa e dello Stato che si odia, che si disprezza! Come, come lo permetti, Signore? - Nessuno viene ancora! - La febbre! - Dio, Dio, fa che io resti padrone dei miei pensieri, delle mie parole. Dio Verità, il tuo servo è in potere de' suoi nemici congiurati, fa ch'egli Ti glorifichi anche nel fuoco ardente! - Quelle due persone pensano a me, adesso. Io non devo pensare a loro! - Esse non dormono, pensano a me. - Non sono ingrato, non sono ingrato, ma non devo pensare a loro! - Penserò a te, vecchio Santo del Vaticano, che dormi e non sai! - Ah quella scaletta non la farò più, quel dolce viso pieno di Spirito Santo non lo vedrò più! - Però, Dio sia lodato, non lo avrò visto invano. - Ma cosa faccio qui? - Perché non me ne vado? - Potrò poi andare? - Questa febbre! Si alzò, cercò di legger l'ora sur un occhio tondo di orologio biancheggiante nell'ombra. Mancavano cinque minuti alle undici. Fuori, il temporale continuava. La potenza degli elementi furibondi e la potenza del tempo che spingeva la piccola sfera sul quadrante, parevano amiche a Benedetto nel loro prevalere indifferente sulla potenza umana che aveva sede dov'egli era e lo teneva in sua balìa. Ma la febbre, la crescente febbre! Ardeva di sete. Se almeno avesse potuto aprire una finestra, tendere la bocca all'acqua del cielo! Un tocco di campanello elettrico, passi affrettati nell'anticamera, finalmente. Ecco il commendatore, in soprabito e cappello. Chiude l'uscio dietro a sé, raccoglie delle carte sul suo tavolo, dice a Benedetto con piglio sprezzante: "Stia attento. Lei ha tre giorni per lasciare Roma. Ha capito?" Non cura di aspettare risposta, preme un bottone. Entrato l'usciere, gli ordina: "Accompagnate!" Giunto colla sua guida sullo scalone, Benedetto, credendosi oramai libero di scendere, le chiese un po' d'acqua. "Acqua?" rispose l'usciere. "Non posso andarne a prendere, adesso. Sua Eccellenza aspetta. Favorisca qui." Lo fece entrare, con sua meraviglia, nell'ascensore. "Anzi le Loro Eccellenze" diss'egli; e mentre l'ascensore saliva al secondo piano, venne guardando Benedetto come si guarda qualcuno cui è fatto un grande onore e che non pare meritarlo. Giunti al secondo piano, i due attraversarono una grandissima sala semioscura. Da questa sala Benedetto venne fatto passare in una stanza illuminata così riccamente ch'egli ne provò fastidio e sofferenza, ne rimase quasi acciecato. Due uomini, seduti ai due angoli di un largo canapè, ve lo attendevano in attitudine diversa; il più giovine con le mani in tasca, una gamba a cavalcioni dell'altra, il capo rovesciato sulla spalliera; il più vecchio col busto piegato in avanti e le mani occupate in un continuo blando maneggio alterno della barba grigia. Il primo aveva una guardatura sarcastica; il secondo l'aveva scrutatrice, malinconica, buona. Questi, evidentemente il più autorevole dei due, invitò Benedetto a sedere sur una poltrona di fronte a lui. "Non creda, sa, caro signor Maironi" diss'egli con voce armoniosa e sonora ma rispondente in qualche modo alla malinconia dello sguardo, "non creda che noi siamo qui due artigli potenti dello Stato. Noi siamo qui in questo momento due individui di una specie rara, due uomini politici geniali che conoscono bene il loro mestiere e che lo disprezzano meglio. Siamo due grandi idealisti che sanno mentire idealmente bene colla gente che altro non merita e sanno adorare la Verità; due democratici, ma però adoratori di quella Verità recondita che non è stata mai toccata dalle mani sudicie del vecchio Demos." Detto così, l'uomo dalla barba grigia fluente riprese a farvi scorrere su le due mani a vicenda e strinse gli occhi scintillanti di un sorriso acuto, pago delle proprie parole, cercando la sorpresa sul viso di Benedetto. "Siamo poi anche credenti" riprese. Allora l'altro personaggio alzò, senza levar il capo dalla spalliera, le mani distese e disse quasi solennemente: "Piano." "Lascia, caro amico" ripigliò il primo senza volgersi all'amico. "Siamo ambedue credenti, però in modo diverso. Io credo in Dio con tutte le mie forze che sono molte e lo avrò sempre meco. Tu credi in Dio con tutte le tue debolezze che sono poche e non lo avrai che al tuo letto di morte." Altro sorriso acuto e pago, altra pausa. L'amico scosse il capo alzando le sopracciglia come per una udita corbelleria che meritasse pietà e non risposta. "Io poi" continuò la voce sonora e armoniosa "sono anche cristiano. Non cattolico ma cristiano. Anzi, come cristiano, sono anticattolico. Il mio cuore è cristiano e il mio cervello è protestante. Io vedo con gioia nel cattolicismo i segni, non dico della decrepitezza ma della putrefazione. La carità si va disfacendo nei cuori più schiettamente cattolici in una melma oscura tutta vermi di odio. Vedo il Cattolicismo fendersi da ogni parte e vedo spuntare per le fessure la vecchia idolatria cui si è sovrapposto. Le poche energie giovani, sane, vitali, che vi si manifestano, tendono tutte a separarsene. So che Lei è appunto un cattolico radicale, ch'è amico di un uomo veramente sano e forte che si dice cattolico ma ch'è giudicato eretico, però, dai cattolici puri; e lo è certamente. Mi hanno detto che Lei è scolare di questo nobile eretico, che fa una propaganda riformatrice e che in pari tempo cerca di agire sul Pontefice. Ora un grande riformatore lo aspetto anch'io ma dev'essere un antipapa; non un antipapa nel piccolo senso storico; un antipapa nel grande senso luterano della parola. "Curiosità ci punge di sapere" come Lei creda possibile ringiovanire questo povero vecchione di Papato che noi laici precediamo non soltanto nella conquista della civiltà ma nella scienza di Dio, anche, e persino nella scienza di Cristo; che ci anfana dietro a grande distanza e ogni tanto si pianta sulla via, restio come una bestia che fiuta il macello, e poi, quando è tirato ben forte, fa un salto avanti per tornarsi a piantare fermo fino a un altro strappo di fune. Ci dica il Suo concetto di una riforma cattolica. Sentiamo." Benedetto rimase silenzioso. "Parli" riprese il nume ignoto che pareva imperare in quel luogo. "Il mio amico non è Erode né io sono Pilato. Noi potremmo forse diventare due apostoli della Sua idea." L'amico stese ancora le due mani aperte, senza levar il capo dalla spalliera, disse ancora, però pigiando più forte sulla prima sillaba: "Piano." Benedetto tacque. "Mi pare, caro mio" disse l'amico voltando il capo, senz'alzarlo, verso il collega "che questo sarà il primo fiasco della tua eloquenza. Qui il modello del nihil respondit è preso molto sul serio." Benedetto trasalì, atterrito dal richiamo al Divino Maestro, dal dubbio di parerne un imitatore superbo. Cessò in quel momento di sentire il suo male, la febbre, la sete, la gravezza del capo. "Oh no" esclamò "adesso io rispondo! Lei dice che non è Pilato. Il vero è invece che io sono l'ultimo dei servi di Cristo perché gli sono stato infedele e che Lei mi ripete proprio la domanda di Pilato: - Quid est veritas? Ora Lei non è disposto a ricevere la Verità, come non vi era disposto Pilato." "Oh!" esclamò il suo interlocutore. "E perché?" L'amico rise rumorosamente. "Perché" rispose Benedetto "chi opera tenebre, le tenebre lo avvolgono e la luce non gli può arrivare. Lei opera tenebre. È facile di comprenderlo, Lei è il signor ministro dell' Interno, La conosco di fama. Lei non è nato per operare tenebre, vi è stata molta luce in certe opere Sue, vi è molta luce nella Sua anima, molta luce di Verità e di bontà; ma in questo momento Lei opera tenebre. Io sono questa notte qui perché Lei ha pattuito un mercato non confessabile. Lei dice di adorare la Verità, domanda a un fratello se possiede la Verità e tace che lo ha già venduto!" Mentre Benedetto parlava, l'amico del ministro, Eccellenza egli pure ma in sottordine, alzò finalmente il capo dalla spalliera del canapè. Parve che incominciasse soltanto allora a stimar degno di attenzione l'uomo e quello che diceva. Parve anche divertirsi della lezione toccata al principale del quale ammirava l'ingegno grandissimo ma derideva in cuor suo le velleità idealistiche. Il principale rimase, sulle prime, sbalordito; poi scattò in piedi, gridando come un ossesso: "Siete un mentitore! Siete un insolente! Non meritate la mia bontà! Non vi ho venduto, non valete niente, vi regalerò! Andate! Andate via!" Cercò il bottone del campanello elettrico e non trovandolo nella cecità della collera, gridò: "Usciere! Usciere!" Il sottosegretario di Stato, avvezzo a queste scenate ch'eran poi sempre fuochi di paglia perché il ministro aveva un cuore d'oro, se la rideva, in principio sotto i baffi. Ma quando lo udì chiamar l'usciere a quel modo, conoscendo bene le indiscrezioni degli uscieri e pensando i pettegolezzi pericolosi che potevano nascere di questo incidente, il ridicolo che ne sarebbe schizzato anche sopra di lui, trattenne risolutamente il ministro imponendogli, quasi, di chetarsi, e disse brusco a Benedetto: "Lei se ne vada." Il ministro si diede a camminare per la sala, muto, a capo basso, a passi frettolosi e brevi, male vincendo in sé il bambino che avrebbe voluto battere i piedi sul posto. Benedetto non ubbidì. Ritto e severo, radiante invisibili raggi di uno spirito dominatore, che tennero a distanza il sottosegretario di Stato, egli costrinse l'altro con questo potere magnetico a voltarsi verso di lui, a fermarsi, a guardarlo in faccia. "Signor ministro" diss'egli "io sto per uscire non solo da questo palazzo ma credo anche, fra non molto, da questo mondo. Non La rivedrò più, mi ascolti un'ultima volta. Ella non è ora disposto alla Verità, però la Verità è alle Sue porte, e verrà l'ora, e non è lontana perché la Sua Vita discende, che si farà notte sopra di Lei, sopra i Suoi poteri, i Suoi onori, le Sue ambizioni. Allora Ella udrà la Verità chiamare nella notte. Potrà rispondere - parti - e non la incontrerà più mai. Potrà rispondere - entra - e la vedrà comparire velata, spirante dolcezza dal velo. Ella non sa ora come risponderà, né io lo so, né alcuno al mondo. Si prepari colle opere buone a risponder bene. Qualunque sieno gli errori Suoi, vi è religiosità nel Suo spirito. Iddio Le ha dato molto potere nel mondo; lo adoperi per il bene. Lei ch'è nato cattolico dice di essere protestante. Forse Lei non conosce abbastanza il Cattolicismo per comprendere che il Protestantesimo si sfascia sopra il Cristo morto e che il Cattolicismo evolve per virtù del Cristo vivente. Ma io parlo adesso all'uomo di Stato, non certo per domandargli di proteggere la Chiesa cattolica che sarebbe una sventura, ma per dirgli che se lo Stato non ha ad essere né cattolico né protestante, non gli è però lecito d'ignorare Iddio e voi osate negarlo in più di una scuola vostra, di quelle che chiamate alte, in nome della libertà della scienza che voi confondete colla libertà del pensiero e della parola perché il pensiero e la parola sono liberi di negare Iddio ma la negazione di Dio non ha né può avere carattere di scienza e voi solo la scienza dovete insegnare. Voi conoscete bene la piccola politica che vi fa transigere in segreto con la vostra coscienza per avere celatamente un favore dal Vaticano, nel quale non credete; ma voi conoscete male la grande politica di mantenere l'autorità di Chi è il principio eterno di ogni giustizia. Voi lavorate a distruggerla ben peggio che con i professori atei; in fondo i professori atei hanno un piccolo potere; voi uomini politici che dite spesso di credere in Dio, voi ne distruggete l'autorità molto più che quei professori, con i mali esempî del vostro ateismo pratico. Voi che vi figurate di credere nel Dio di Cristo, siete in realtà profeti e sacerdoti degli dei falsi. Voi li servite come li servivano i principi idolatri ebrei, nei luoghi alti, in cospetto del popolo. Voi servite nei luoghi alti gli dei di tutte le cupidigie terrestri." "Bravo!" interruppe il ministro, conosciuto per la sua morigeratezza, per le virtù famigliari, per la noncuranza del danaro. "Mi divertite!" E soggiunse, vôlto all'amico: "Proprio non valeva la pena." "M'intenda bene!" riprese Benedetto. "Sì, anche Lei è uno di questi sacerdoti. Parlo io forse di gaudenti comuni? Parlo di Lei e di altri come Lei che si credono gente onesta perché non cacciano le mani nel danaro dello Stato, che si credono gente morale perché non si danno ai piaceri dei sensi. Vi dirò due cose. Intanto, voi adorate piaceri più perversi. Voi fate di voi stessi i vostri falsi dei, voi adorate il piacere di contemplarvi nel vostro potere, nei vostri onori, nell'ammirazione della gente. Ai vostri dei voi sacrificate colpevolmente molte vittime umane e la integrità del vostro stesso carattere. Fra voi vi è il patto che ciascuno rispetti il falso Dio del collega e ne aiuti il culto. I più puri di voi sono colpevoli almeno di questa complicità. Voi torcete lo sguardo da torbide congiure d'interessi vili, da non confessabili intrighi di sêtte che strisciano nell'ombra e li lasciate passare in silenzio. Voi vi credete incorrotti e corrompete! Voi distribuite regolarmente denaro pubblico a gente che vi vende la parola e l'onestà della coscienza. Voi disprezzate e nutrite questa infamia sotto di voi. È più empio comperare voti e lodi che venderne! I più corrotti siete voi! Secondo peccato, voi considerate il mentire una necessità della vostra condizione, voi mentite come bere acqua, mentite al popolo, mentite al Parlamento, mentite al Principe, mentite agli avversarî, mentite agli amici. Lo so, qualcuno di voi personalmente non pratica l'abituale mentire, solamente lo tollera nei colleghi, molti di voi prendono con ripugnanza quest'abito nell'entrare dove si governa, come entrando in una miniera si prende talvolta una veste sudicia che difende la nostra; e all'uscire lo depongono con gioia. Ma costoro che sono i migliori, si diranno essi buoni e fedeli servi della Verità? Voi credete in Dio e forse al vostro letto di morte pensate di avere maggiormente offeso Iddio come uomini politici con azioni di violenza contro la Chiesa nel nome dello Stato. No, non saranno state queste le vostre maggiori offese. Se vengono in Parlamento e dal Parlamento al Governo uomini che professino come filosofi di non conoscere Dio ma che insorgano nel nome della Verità contro quest'arbitraria tirannia della Menzogna, meglio serviranno Dio e saranno più grati a Dio di voi che credete in esso come in un idolo e non come nello Spirito di Verità, di voi che osate parlare di putrefazioni del Cattolicismo, puzzolenti di falsità come siete. Sì, puzzolenti! Voi fate tanto impura l'aria delle altezze, a rovescio di quello che sarebbe naturale, da rendere ben difficile di respirarla. Voi avete un cuore religioso, signor ministro; non rispondetemi che in questo palazzo non si può servire Iddio ..." "Sa Lei ..." esclamò con ira il ministro incrociando le braccia sul petto. Il sottosegretario di Stato stese graziosamente una mano verso di lui per arrestarne la parola sdegnosa. "Piano piano piano" diss'egli. "Permetti? Perché mi ci diverto." Il sottosegretario di Stato, piccolo, rotondetto, rispettoso della propria sottosegretarietà, simile a un uovo in possesso cosciente di un sacro pulcino, ben minore uomo del ministro e ben diverso da lui, non aveva affatto le curiosità intellettuali del Superiore e non era venuto che per compiacere al Superiore. Il Superiore, luminosa intelligenza, soleva fermare il proprio lume ora sull'una ora sull'altra delle persone che gli giravano attorno e crederli allora lucenti per loro virtù come forse penserà il sole degli astri che gli fanno la corte. Il sottosegretario di Stato rifletteva luce al ministro e il ministro rifletteva ammirazione al sottosegretario di Stato. Il ministro lo aveva desiderato a quel colloquio non comprendendo affatto che il piccolo Mercurio del suo sistema planetario, avendo risoluto da giovine di sciogliersi dal soprannaturale che gl'impediva i movimenti più spontanei della sua natura egoistica, si era preso per il soprannaturale dell'odio che gl'infermi concepiscono talvolta per la persona della quale sanno che ha fatto delle infermità loro un pronostico triste. Come questi infelici vogliono persuadersi che il profeta non merita fede e più la sua profezia si viene avverando, più s'irritano, più si struggono di abbattere quell'autorità minacciosa; così colui, più sentiva declinargli il vigor giovanile e perder credito i dogmi materialistici e folgorargli nel cuore di quando in quando certe apprensioni lancinanti di una Verità formidabile che poi venivano lentamente meno, più s'inveleniva nell'odio coperto d'ironica noncuranza. "Senta un po', caro Lei" diss'egli a Benedetto dopo essersi fatto largo nella conversazione con quella parola e quel gesto. "Lei parla molto di dei falsi e di dei veri. Io non so se il Suo sia falso o vero. Sarà vero ma è certamente irragionevole. Un Dio che ha creato il mondo come gli è piaciuto, in modo che deve andare come va, e poi viene a dirci che dobbiamo farlo andare in un modo diverso, eh senta, via! non è un Dio ragionevole! Lei si è permesso di vuotare un sacco di contumelie, un sacco di accuse agli uomini politici, che sono calunnie, specialmente se le vuole applicare a quel Signore lì e a me; ma io Le concedo che la politica, per forza, non è mestiere da Santi. Chi ha fatto il mondo non ha voluto che lo sia! Se la sbrighi con lui. Ebbene, bisogna pure che qualcuno lo faccia, quel mestiere lì. Adesso lo facciamo noi che se non siamo Santi, almeno Lei vede quanto pazientemente trattiamo con i Santi. E senta." Il sottosegretario guardò l'orologio. "Si fa tardi" diss'egli "e nelle vie di Roma, a ora tarda, la santità corre qualche pericolo. È meglio che Lei se ne vada." Stese la mano al campanello elettrico per chiamare l'usciere. "Signor ministro!" esclamò Benedetto con tal vigore di accento che il sottosegretario rimase immobile a braccio steso come colto da un colpo di gelo. "Lei teme per lo Stato, per la monarchia, per la libertà, i socialisti e gli anarchici; tema molto più i Suoi colleghi schernitori di Dio, perché i socialisti e gli anarchici sono febbre, gli schernitori di Dio sono cancrena! - Quanto a Lei" soggiunse vôlto al sottosegretario "Lei deride Uno che tace. Tema il suo silenzio!" Senza che né l'uno né l'altro dei due potenti dicesse una parola, facesse un gesto, Benedetto uscì della sala. Egli discese lo scalone vibrando tutto nel contraccolpo delle parole che gli erano scoppiate dal cuore e nel fuoco febbrile del sangue. Le gambe gli tremavano, gli mancavano sotto. Fu costretto due o tre volte di afferrarsi al parapetto e di sostare. Giunto all'ultima colonna, vi premette la fronte pulsante, cercando frescura. Se ne staccò subito, sentì ripugnanza della stessa pietra di quel palazzo come se fosse infetta di tradimento, complice del commercio vile che vi si era fatto, atrocemente vile, fra ministri di Cristo e ministri della Patria. Sedette sul penultimo gradino, non potendone più, senza guardare ai fanali accesi della carrozza che aspettava lì a due passi, senza dubbio la carrozza del ministro; non curando esser veduto. Respirò un poco, lo sdegno gli si venne quietando un poco, quietando in dolore, in desiderio di piangere sulle tristi cecità del mondo. E cominciò anche a sentirsi solo, amaramente solo. Unica lei, la donna del suo passato errore, aveva vegliato, aveva scoperto, aveva agito. Solo per lei gli era stato dato di far fronte al ministro sapendo quale linguaggio fosse da tenergli. Gli altri amici suoi, gli amici devoti alle sue idee religiose, avevano dormito e dormivano. Gli piacque l'acre pensiero che non si curassero più di lui. Gli piacque di abbandonarsi almeno una volta alla pietà della propria sorte, di gustarla, almeno una volta, sino al fondo, di figurarsi la propria sorte anche più dolorosa e amara che non fosse. Tutti erano contro di lui, si accordavano contro di lui, tutti! Solo, solo, solo. E i suoi sostegni interni eran proprio buoni? Eran proprio sicuri? Quell'uomo là in alto, quel ministro di tanto ingegno, di tanto sapere, di tanta bontà personale, se avesse ragione? Se il Cattolicismo fosse veramente insanabile? Oh, ecco, anche il Signore, il Signore da lui servito, il Signore che lo colpiva nel corpo, che lo metteva in potere dei suoi nemici, adesso lo abbandonava nell'anima. Angoscia, mortale angoscia! Desiderò morire lì, aver pace. Le voci, in alto, del ministro e del sottosegretario che discendono. Benedetto si sforzò di alzarsi, si trascinò nella via, vide a sinistra, pochi passi oltre il portone, un'altra carrozza ferma. Un domestico in livrea stava sul marciapiede discorrendo col cocchiere. Al comparire di Benedetto il domestico gli si fece premurosamente incontro. Benedetto riconobbe alla luce del gas il romano antico di villa Diedo, il cameriere dei Dessalle. Gli balenò nel cervello torbido che Jeanne fosse ad aspettarlo in carrozza, diede un passo indietro. "No" diss'egli. Intanto la carrozza era venuta avanti. Benedetto immaginò di vedere Jeanne, esser fatto salire con lei, di non avere forza sufficiente a impedirlo. Preso da vertigine, retrocesse ancora e sarebbe caduto se il domestico non lo avesse raccolto nelle sue braccia. Si trovò in carrozza senza saper come, con un fastidioso lume vivo incontro e un forte ronzio negli orecchi. A poco a poco si raccapezzò. Era solo, una lampadina ad acetilene gli luceva in faccia. Lo sportello alla sua destra era aperto e il domestico gli parlava. Che diceva? Dove andare? A villa Mayda? Sì certo, a villa Mayda. Non si poteva spegnere quel lume? Il domestico spense e parlò ancora, di una carta. Quale carta? Una carta che la signora aveva fatto mettere nel taschino interno del coupé , coll'ordine di consegnarla al Signore. Benedetto non capiva, non vedeva. Il domestico prese la carta e gliela pose in tasca. Poi domandò, per ordine dei signori, stavolta disse così, come il Signore stesse di salute. Se lo avesse veduto morto, il rigido uomo avrebbe ugualmente eseguito l'ordine. Benedetto pregò, per tutta risposta, che gli fosse portata un po' d'acqua; bevette avidamente quella che il domestico gli recò da un caffè vicino, ne provò alquanto ristoro. Riprendendo la tazza vuota, il domestico credette bene di compiere la sua missione: "La signora mi ha ordinato di dirle, se Lei domanda, che i signori hanno mandato la carrozza perché sanno che Lei non sta bene e hanno pensato che qui, a quest'ora, non ne troverebbe." Il coupé aveva molle eccellenti e le gomme alle ruote. Che riposo era per Benedetto di correre silenziosamente così, solo dentro un'oscura carrozza soffice, nel cuore della notte! Di quando in quando apparivano a destra e a sinistra sfondi di vie lucenti e allora era per lui una sofferenza, come se quelle lunghe file di lumi fossero nemiche. Tornava subito l'ombra delle vie strette, la fuga, sui marciapiedi e sulle case, della luce trabalzante dai fanali del coupé . Il cocchiere mise il cavallo al passo e Benedetto guardò fuori, nel buio. Gli parve che incominciasse la salita dell' Aventino. Si sentiva meglio; la febbre, inasprita dai travagli fisici e morali di quella notte di battaglia, declinava rapidamente. Avvertì allora, per la prima volta, il sottilissimo profumo del coupé , il solito profumo usato da Jeanne, e lo morse la memoria viva del ritorno da Praglia con lei, del momento in cui, lasciata lei al piede della salita di villa Diedo, si era allontanato solo nella victoria profumata e tepida di lei; solo, ebbro del suo segreto di amore. Atterrito dalla vivezza dei ricordi, si strinse le braccia al petto, si sforzò di ritrarsi dai sensi e dalla memoria nel centro di sé, ansava a bocca semiaperta non riuscendo a spinger la immagine fuori dalla sua visione interna. E altre gliene lampeggiavano nel cuore senza vincere la sua volontà resistente ma facendola fremere come una corda tesa. Era l'idea che soltanto lei, Jeanne, lo amasse davvero, che soltanto lei soffrisse del suo soffrire. Era la voce di lei che si doleva di non essere riamata, la voce di lei che lo pregava di amore con una cantilena di Saint-Saëns, tanto dolce, tanto triste, nota ad ambedue, della quale egli le aveva detto a villa Diedo che nulla saprebbe ricusare a chi pregasse così. Era l'idea di fuggir lontano, ben lontano e per sempre, da Roma pagana e farisea. Era una visione di pace, di colloquî purissimi con la donna ch'egli conquisterebbe finalmente alla fede. Era un desiderio ardente di dire al Signore: troppo tristo è il mondo, concedi che ti adori così. Era il pensiero che in tutto ciò non vi fosse colpa, che non fosse colpa l'abbandono della sua missione a fronte di tanti nemici. Era il dubbio di non avere realmente missione alcuna, di aver ceduto a suggestioni d'inganno, di aver creduto a realtà di fantasmi, di essere stato illuso da parvenze del caso. Erano le fisionomie spirituali e morali dei suoi amici e seguaci, fatte difformi agli occhi suoi come da uno specchio convesso; era la scorata certezza che ogni speranza posta in essi gli fallirebbe. Era da capo la cantilena tenera e triste, con un senso non più di preghiera ma di pietà, di una pietà circonfusa alla sua lotta amara, dell'accorata pietà di qualche spirito ignoto che pure soffrisse e si dolesse di Dio ma umilmente, dolcemente, e parlasse per tutto che ama e soffre nel mondo. La carrozza si fermò a un crocicchio e il domestico scese dal serpe, si affacciò allo sportello. Pareva che tanto egli quanto il cocchiere non avessero un'idea chiara del posto di questa villa Mayda. A destra scendeva una stradicciuola fra due muri. Dietro quello più alto di sinistra colossali alberi neri ruggivano al tramontano che aveva spazzato le nubi. Nello sfondo nereggiavano al fioco lume stellare il Gianicolo e San Pietro. Era una stradicciuola da pedoni. Doveva il Signore scendere lì per andare a villa Mayda? No, ma "il Signore" volle scendere a ogni modo, uscire della carrozza avvelenata. Si trascinò, lottando col suo povero corpo infermo e col vento, fino a Sant' Anselmo. Rifinito, pensò a domandare l'ospitalità dei monaci ma non lo fece. Scese lungo il grande, silenzioso asilo benedettino di pace, passò sospirando davanti alla porta chiusa che dice vanamente quieti et amicis , giunse infine al cancello di villa Mayda. Il giardiniere venne ad aprirgli mezzo svestito e si meravigliò molto di vederlo. Gli disse che lo credeva in prigione perché verso le nove un delegato di P. S. e una guardia erano venuti a cercarlo. Anzi la signora, la nuora del professore, saputo questo, aveva dato senz'altro l'ordine di non lasciarlo entrare se per caso ritornasse; ma poi, con molta gioia del giardiniere, affezionato a Benedetto e al padrone quanto avverso alla signora, era venuto un fiero contrordine del professore. Udito ciò, Benedetto sarebbe ripartito subito se gliene fossero bastate le forze. Ma non era in grado di fare cento passi. "Sarà per questa sola notte" diss'egli. Abitava una cameretta nella casina del giardiniere. Sperò, nell'entrarvi, che vi avrebbe ritrovata la pace del cuore; ma non fu così. Lo cacciavano anche di là; ecco l'annuncio amaro che il suo cuore diede al povero lettuccio, ai poveri arredi, ai pochi libri, alla fumosa candela di sego. Fissi gli occhi nel Crocifisso pendente sopra uno sgabello a fianco del letto, egli gemette mentalmente con uno sforzo di volontà: "Come posso io dolermi tanto, Signore, delle croci mie?" Invano; il suo spirito non aveva senso vivo né di Cristo né della Croce. Sedette desolato, non volendo coricarsi così, aspettando una stilla di dolcezza che non veniva. Una folata di vento gli fece volgere il capo alla finestra che si era spalancata. Vide laggiù nel cielo lucidissimo, sopra i merli di Porta San Paolo e la nera punta della piramide di Cestio e le vette dei cipressi che cingono la tomba di Shelley, un grande pianeta. Il vento urlava intorno alla casina. Oh la notte nel manicomio dove sua moglie moriva, e le urla delle agitate, e il grande pianeta! Nel reclinare il capo grave di tristezza si accorse per caso della carta che il domestico gli aveva cacciata in tasca. Era una grande busta orlata di nero. La spiegò, vi lesse il nome e i titoli della sua povera vecchia suocera, la marchesa Nene Scremin, e le due semplici parole che seguivano: IN PACE. Impietrò col foglio aperto nelle mani e gli occhi fissi alle due parole anguste. Poi le mani gli cominciarono a tremare e dalle mani il tremito gli salì al petto, crescendo, crescendo, e dall'affollar del petto gli ruppe su per la gola una tempesta di pianto. Piange per il ritorno di tante memorie ricondotte a lui dalla povera morta, dolorose e soavi; piange affissandosi nel Crocifisso, in Cristo, al quale, oh certo, ella si abbandonò fidente, nel morire, come l'altra cara, come la sua Elisa; piange di gratitudine a lei che ancora dal mondo ignoto gli è pia, gl'intenerisce il cuore. Ricorda le ultime parole udite dalla sua bocca: "Allora, vederci, mai più?" Sorride nell'anima presaga, si volge alla finestra spalancata, contempla il grande pianeta.

Più abbasso c'è un san Francesco dipinto dal cavalier Manente. Lo vedranno dopo. Se vogliono passare ..." Noemi disse piano a Jeanne "cos'hai?" e avendo l'altra risposto con voce più tranquilla "niente" le passò avanti, entrò nella cappella, ascoltando le spiegazioni del monaco. Allora la figura nera si staccò dalla parete. Jeanne la vide salire lenta nell'ombra sotto le arcate ogivali. Toccato il ripiano superiore, la figura sparve a destra e subito ricomparve in un braccio di scala attraversato dall'obliquo sfondo della scena, luminoso nel raggio di una finestra invisibile. La figura saliva lenta, quasi faticosamente. Prima di sparire dietro il fianco enorme di un'arcata, piegò il capo a guardare in basso. Jeanne la riconobbe. Sull'attimo, quasi obbedendo a una fulminea volontà impostasi a lei, quasi portata dal turbine del suo destino, pallida, risoluta, senza sapere cos'avrebbe detto, cos'avrebbe fatto, ella prese l'ascesa. Attraversato il ripiano superiore, nel metter piede sulla scala chiara, traboccò a terra, vi giacque un momento; sì che Noemi, uscita della cappella, non la vide, la credette discesa in cerca del ritratto di san Francesco. Si rialzò, riprese la via, povera creatura di passione, richiamata invano dalle immagini di celeste pace, irrigidite sulle mura sacre. Tutto era davanti a lei silenzio e vuoto. Ell'andava per vie ignote a lei, veloce, sicura, come nella chiaroveggenza dell'ipnosi. Passava per buie stretture, per chiarori larghi, senza esitar mai, senza guardare né a destra né a sinistra, chiusi e acuiti tutti i sensi nell'udito, seguendo attimi di sussurri lontani, il dolersi lieve di un uscio, il vento di un altro, lo sfiorar di un abito a uno stipite. Così dai due spinti battenti dell'ultima porta ella emerse rapida in faccia a lui. Anch'egli l'aveva riconosciuta sulla Scala Santa, all'ultimo momento. Si tenne quasi certo di non essere stato riconosciuto alla sua volta; cercò tuttavia di togliersi dal solito cammino dei visitatori. Quando udì giungere a quella recondita sala un fruscìo rapido di vesti femminili, comprese, aspettò, a fronte della porta. Ella lo vide e impietrò sull'atto fra i battenti aperti, fissi gli occhi negli occhi di lui, che non avevano più lo sguardo di Piero Maironi. Era trasfigurato. La persona, forse per le vesti nere, pareva più sottile. Il viso pallido, scarno, spirava dalla fronte, fatta più alta, una dignità, una gravità, una dolcezza triste, che Jeanne non gli aveva conosciute mai. E gli occhi erano del tutto altri occhi, avevano un inesprimibile divino, tanta umiltà e tanto impero, l'impero di un amore trascendente, originario non del suo cuore ma di una mistica fonte ad esso interna, di un amore oltrepassante il cuore di lei, ricercantele più addentro una recondita regione dell'anima, ignota a lei stessa. Ella giunse lenta lenta le mani e piegò i ginocchi a terra. Benedetto si recò alle labbra l'indice della sinistra e tese l'altro alla parete fronteggiante il balcone aperto sui carpineti del Francolano e sul fragore del fiume profondo. Nel mezzo della parete nereggiava, grande, la parola SILENTIUM. Per secoli, da quando la parola era stata scritta, mai voce umana si era udita là dentro. Jeanne non guardò, non vide. A lei bastò quell'indice alle labbra di Piero per serrar le sue. Ma non bastò per costringerle il pianto in gola. Guardava guardava lui con le labbra strette e le sdrucciolavano grosse sul viso lagrime silenziose. Immobile, pendenti le braccia lungo la persona, Benedetto chinò un poco il capo e chiuse gli occhi, assorto nello spirito. La grande, nera parola imperatoria, grave di ombre e di morte, trionfava sulle due anime umane, ruggendo contro a lei dal balcone lucente le anime belluine dell' Aniene e del vento. A un tratto, pochi secondi dopo che gli occhi di Benedetto si erano chiusi allo sguardo di lei, ella balenò e si spezzò, dalle spalle alle ginocchia, in un singhiozzo amaro di tutta l'amara sua sorte. Egli aperse allora gli occhi, la guardò dolcemente, ed ella ribevve avida il suo sguardo, ebbe ancora due singhiozzi, quasi di dolorosa gratitudine. E perché l'amato si recò nuovamente l'indice alla bocca, gli accennò del capo di sì, di sì, che avrebbe taciuto, che si sarebbe chetata. Obbedendo sempre al suo gesto, al suo sguardo, si alzò in piedi, si fece da banda, lo lasciò passare per i battenti aperti, lo seguì umile, con la sua speranza morta nel petto, con tanti dolci fantasmi morti nella mente, con il suo amore fatto tremore e venerazione. Lo seguì fino alla cappella che chiamano la Chiesa superiore. Colà, di fronte alle tre piccole ogive che chiudono interne ombre dove si disegna un altare e una croce di argento brilla su parvenze fosche di pitture antiche, Jeanne s'inginocchiò, com'egli accennolle, sull'inginocchiatoio appoggiato al fianco destro della grande arcata che gira sulla volta acuta, mentr'egli s'inginocchiava su quello appoggiato al fianco sinistro. Sul timpano dell'arcata un pittore del secolo XIV ha dipinto il poema del massimo Dolore. Da un'alta finestra di sinistra scendeva la luce alla Dolorosa; Benedetto era nell'ombra. La voce di lui mormorò appena udibilmente: "Senza fede ancora?" Sommesso come aveva parlato egli e senza volgere il capo, ella rispose: "Sì." Egli tacque un momento e poi riprese con la stessa voce: "La desidera? Potrebbe operare come se credesse in Dio?" "Se non è necessario di mentire, sì." "Promette di vivere per i miseri e per gli afflitti, come se ciascuno di essi fosse una parte dell'anima da Lei amata?" Jeanne non rispose. Era troppo veggente e troppo leale per affermare che lo poteva. "Promette di farlo" riprese Benedetto "se io prometto di chiamarla presso di me in un'ora fissa dell'avvenire?" Ella non sapeva quale ora solenne, non lontana, egli pensasse, parlando così. Rispose palpitante: "Sì sì." "In quell'ora La chiamerò" disse la voce nell'ombra. "Però non cerchi mai rivedermi prima." Jeanne si strinse le mani sugli occhi, rispose un "no" soffocato. Le pareva di turbinare negli angosciosi sogni di una febbre mortale. Piero non parlava più. Passarono due, tre minuti. Ella si levò le mani dagli occhi lagrimosi, li fissò sulla croce che brillava là in faccia, oltre gli archetti ogivali, sulle fosche parvenze di pitture antiche. Mormorò: "Sa che don Giuseppe Flores è morto?" Silenzio. Jeanne volse il capo. Nessuno era più nella Chiesa.

Malombra

670397
Fogazzaro, Antonio 2 occorrenze

Steinegge corse alla finestra, fece atto, nel primo impeto del suo generoso cuore, di gittarsi abbasso, poi scomparve, e, in meno che non si dice, fu nella camera di Silla, con il soprabito male infilato e senza calzoni. In quel momento né lui né Silla pensarono che fosse in arnese ridicolo. Silla gli andò incontro. "Parto" diss'egli. "Parte? Quando parte?" "Adesso." "Adesso?" "Credeva Lei ch'io potessi dormire ancora sotto questo tetto?" Steinegge non rispose. "Vado a piedi sino a... e là aspetterò il primo treno per Milano. Lei mi farà il favore di consegnare questa lettera al conte Cesare. Qui ci son pochi denari che La prego di distribuire, come crederà meglio, ai domestici. Per fortuna non avevo ancora fatto venire i miei libri; ma lascio qui un baule. Avrà Ella la bontà di spedirmelo?" Steinegge affermò del capo; ma non poteva parlare, aveva un groppo alla gola. "Grazie, amico mio. Quando avrà fatta la spedizione me ne avverta con una lettera ferma in posta e vi unisca la chiave che Le lascio, perché vi sarà ancora qualche cosa di mio da raccogliere." "Oh, ma volete proprio partire così?" "Proprio così voglio partire. E sa cosa ho scritto al conte? Gli ho scritto che le mie idee sono troppo lontane dalle sue perch'io possa accettare la collaborazione offertami; e che onde evitare spiegazioni spiacevoli, onde sottrarmi al pericolo di cedere, parto a questo modo chiedendogliene perdono e protestandogli la mia gratitudine. Uno scritto cortese nella forma e villano nel fondo, uno scritto che lo deve irritare contro di me, lo sdegno di accusarla; le avevo scritto e poi ho stracciata la lettera: m a ella intenderà che ho voluto rispondere a lei spezzando netti d'un colpo i legami che le han dato argomento d'insultarmi. E tutti gli altri intenderanno, spero." "Per questa donna!" fremé Steinegge, scotendo i pugni. "Ma Lei non sa il peggio" mormorò Silla. "Lei non sa quanta viltà v'è in me. Glielo voglio dire. Il solo pensiero di posar le labbra sopra una spalla di questa donna mi fa venir le vertigini, mi mette i brividi sotto i capelli. È amore? Non lo so, non lo credo; ma guai se per soffocare l'angoscia e la collera di esserne odiato, non ci fosse ancora in me qualche forza indomita di cui ringrazio Dio! Sì, è così. Lei n'è stupefatto, lo comprendo, ma è così. Però, vede, sono un uomo, il sangue vigliacco deve obb edirmi, vado via. Mi stringa la mano; qualche cosa di più, mi abbracci." Steinegge non seppe proferire che tre ooh soffocati, abbracciò Silla con un cipiglio da nemico mortale e l'affetto tempestoso d'un padre. Poi trasse di tasca un vecchio portasigari sdruscito e lo porse con ambo le mani all'amico. Questi lo guardò attonito. "Vostro a me" disse Steinegge. Allora l'altro intese e trasse egli pure un portasigari ancora più vecchio e sdruscito. Se li scambiarono tacendo. Prima di partire, Silla diede un ultimo sguardo, un appassionato saluto mentale alle memorie di sua madre; gli parve che l'angelo pregasse per lui, per l'aiuto di Dio in altri cimenti ancor più gravi, nascosti nel futuro. Uscì nel cortile per una finestra a piano terreno. Non volle che Steinegge lo accompagnasse, gli strinse ancora la mano, e attraversata in punta de' piedi la ghiaia traditrice , salì lentamente la scalinata fra i cipressi, fermandosi nelle nere ombre oblique che fendevano, come grandi crepacci, le pietre illuminate dalla luna. Egli si voltava allora a guardar la vecchia mole severa da cui si partiva, secondo le previsioni umane, per sempre. Ascoltava il tenero lamento dello zampillo giù nel cortile, la voce grave della grossa polla su in capo alla scalinata. L'una e l'altra voce chiamavan lui; quella sempre più fievole, questa sempre più forte. Non gli era più possibile veder la finestra di lei; ma guardava là quell'angolo del tetto che copriva la stanza sconosciuta, e la immaginava nei più minuti particolari con la rapidità e la vigoria intensa della passione. Ne respirava veramente il tepore odoroso, vedeva saettarvi per la finestra di levante un raggio di luna, rigare il pavimento, sfiorar un'onda di vesti vôte, brillar sopra uno spillo caduto, sulla punta brunita d'uno stivaletto adunco, scivolar sul letto bianco, battere a una delicata mano sottile e morirvi mandando fiochi bagliori su pel braccio ignudo. A questo punto gli si oscurava la fantasia, una stretta nervosa gli si propagava dal petto a tutta la persona ed egli ripre ndeva frettoloso, per liberarsi da quello spasimo, la via. Non è a stupire se la sbagliò. Non era facile, per verità, fra parecchi sentieri che fuggono in mezzo agli uniformi filari di viti, scegliere quello che conduce al cancello. Silla ne prese uno alquanto più basso. Si avvide dell'errore, quando trovò, dopo un tratto abbastanza lungo, che scendeva verso il lago. Pensò che al postutto non era sicuro di rinvenire la chiave del cancello, posta di solito, ma non sempre, in un buco del muro di cinta, e ricordò che ci doveva esser lì presso un'altra uscita per la qu ale passavano qualche volta i coltivatori del vigneto. La trovò infatti. Il muro di cinta era diroccato per metà e dal campo vicino un gelso spingeva i rami per la breccia. Silla fu presto dall'altra parte, a pochi passi da un approdo che serviva ai coloni del campicello lungo il lago. Un sentiero piano move da quell'approdo a raggiungere nel suo punto più basso la strada provinciale di Val... ora toccando l'orlo del lago, ora appiattandosi fra siepi e muricciuoli, ora tagliando qualche pendìo erboso, rotto da radi ulivi. Silla si sforzava invano, camminando, di pensare all'avvenire, alla vita di sacrificio e di lavoro indomito che l'aspettava. Malediva la notte piena di voci lascive e la luna voluttuosa, ormai alta nel sereno. Appoggiò la fronte ardente ad un tronco di ulivo, senza sapere che si facesse. Quel tocco ruvido e freddo lo ristorò, lo acquietò come avrebbe acquietato un metallo vibrante. Si ripose tosto in cammino perché lampeggiava. In faccia a lui nuvoloni torvi di levante si movevano finalmente, si allargavano verso le montagne, invadevano il cielo con tante cime rigonfie, fluttuanti come una marea furiosa che volesse salire fino alla luna. Gittavano lampi continui, silenziosamente, verso il lume di lei, fuggitiva. Ad un tratto Silla si ferma e tende l'orecchio. Ode il sommesso borbottar del lago ne' buchi dei muricciuoli, il lamento dell'allocco nelle selve della riva opposta, il canto dei grilli e il lieve sussurro di un soffio per le viti folte, per le frondi bigio-argentee degli ulivi. Null'altro? Sì, due remi cauti, lenti che tagliano l'acqua a lunghi intervalli. Se vicini o lontani, non s'intende bene; sul lago, a quell'ora, solo un orecchio esperto può misurare le distanze dei suoni. I remi tacciono. Ecco il sordo rumore d'una chiglia che striscia sui ciottoli della riva. Anche i grilli ascoltano. Poi, più nulla. I grilli uniscono ancora il loro canto a quello dell'allocco lontano, ai borbottamenti del lago pei buchi dei muriccioli. Silla non poteva discernere questa barca che approdava; vedeva soltanto l'acqua chiara tremolar tra le foglie. Andò avanti. Il sentiero sbucava presto sulla ghiaia d'un piccolo golfo, all'altro capo del quale grossi macigni neri si protendevano nell'acqua. Si rizzava sopra q uelli, fra caprifichi e rovi, una cappelletta; e ne sporgeva a piè della cappelletta, la sottile poppa nera d'una lancia. Doveva esservi una cala tra i macigni. Non c'erano altre lance che Saetta sul lago, e Silla lo sapeva. Ma chi era venuto con Saetta? Sospettò del Rico e si fermò per non essere scoperto. Vide un'ombra levarsi tra gli arbusti dietro la cappelletta, correr giù, scomparire. Subito dopo sprizzò di là un riso argentino. Impossibile non riconoscerlo; donna Marina! Silla, per istinto, si slanciò avanti, udì una esclamazione di terrore, vide l'ombra di prima ricomparire alla cappelletta e fuggir su tra gli arbusti, mentre donna Marina chiamava invano: "Dottore! dottore!". Silla riconobbe il medico, ma non stette a pensare neppure un momento perc hé si trovasse lì. Udì la chiglia della lancia strisciare indietro dalla riva e saltò alla cappelletta quando la prora, ormai silenziosa, era per uscire dalla cala e Marina, deposto il remo di cui s'era fatta puntello, stava assettandosi i guanti. "Si fermi!" diss'egli ritto sul ciglio del macigno. Ella diè un lieve grido e impugnò i remi. Non era possibile lasciarla partire così. A piè del macigno la ghiaia rideva a fior d'acqua. Silla saltò, afferrò la catena della lancia. Marina diede due colpi disperati di remo, ma Saetta obbedì presto al pugno di ferro che la tratteneva. "Bisogna udirmi, adesso!" disse il giovane. "Lei mi dirà prima di tutto" rispose Marina fremendo "se il nobile mestiere che ha esercitato stanotte è un Suo passatempo consueto, o se Ella è ai servigi di mio zio!" "Fra che abbietta gente ha vissuto, signorina? È questa la Sua nobiltà? Allora Le giuro che la mia vale di più; e ho ben ragione di sperare che il mio nome venga ricordato ancora con onore quando non vi sarà più memoria del Suo!" Salito sopra un sasso sporgente, scoperta la maschia fronte, Silla dominava la barchetta e la donna, palpitanti dinanzi a lui. Marina non voleva lasciarsi dominare, batteva l'acqua con un remo, rabbiosamente. "Avanti" diss'ella "alla seconda scena. Intanto Lei fa una vigliaccheria di tenermi qui per forza." Silla gittò la catena. "Vada" diss'egli "vada pure se ha cuore. Sappia solo che non recito una commedia, recito un oscuro dramma di cui la seconda scena Le è indifferente." "Ah, e la prima no?" riprese Marina lasciando cadere i remi e incrociando le braccia. "La seconda scena" proseguì Silla senza badare all'interruzione "non ha luogo qui. Stia tranquilla; da questa notte in poi non vedrà più né il dramma, né il protagonista. Se ha sospettato, nel candore, nel disinteresse dell'anima Sua, ch'io fossi più d'un amico per l'uomo di cui Ella è nipote ed erede, si rassicuri, neppure amico gli sono più forse; perché pochi momenti or sono, di nascosto, come un malfattore, ho lasciato per sempre la sua casa ospitale, dov'è spuntato, in qualche angolo freddo e ombroso, questo vile sospetto. Se lei poi ha temuto" qui la voce di Silla tremò "di qualche sinistro disegno su donna Marina di Malombra e Corrado Silla, è stato un inganno ben grande il Suo. Se il conte me ne avesse parlato, gli avrei tolta questa illusione, perché Lei è troppo al di sotto di quell'altero cuore ch'io voglio, capace di disprezzare, come le disprezzo io, la ricchezza e la fortuna. E adesso, marchesina, ho l'onore..." "Una parola!" gridò Marina avvicinandoglisi di fianco con due colpi di remi, perché una repentina brezza di levante portava via adagio adagio la lancia. "Il Suo dramma fantastico non va. Ella ha la bontà di farsi una parte eroica. Facile; ma c'è la critica, signor Silla. Dove ha scoperto Lei questa cosa ridicola che io sono una ereditiera sospettosa? Non ha mai veduto quanto mi curo di mio zio? E come osa Lei parlare di progetti sulla mia persona? Le pare che voglia turbarmi di quanto mio zio e Lei possano aver l'impudenza di pensare e di dire?" Intanto Saetta dilungava da capo per la brezza ringagliardita. Marina diede un colpo di remi e si voltò a guardar Silla. La lancia corse un istante contro il vento, contro le onde che gorgogliavan forte sotto la chiglia, e girò subito, respinta, sul fianco sinistro. La luce della luna mancava rapidamente. Fiocchi veloci di nubi, come spume, l'avevan raggiunta, oltrepassata: ora giungevano i cavalloni grossi ed ella vi affondava, non pareva più che un fanale rossastro, perduto nella tormenta, vicino a spegne rsi. "Allora?" esclamò Silla "perché?" Le altre parole si perdettero nello schiamazzo improvviso delle onde intorno a lui. Una raffica violenta gittò Saetta sul sasso dov'egli stava. "Scenda!" gridò curvandosi ad afferrar la sponda della lancia perché non vi urtasse. "Subito!" "No, spinga via, vado a casa!" Benché fossero tanto vicini da potersi toccare, riusciva loro difficile intendersi. Le onde, cresciute di botto smisuratamente, tuonavano sulla riva con un fragore assordante; il timone, la catena, i remi della lancia abballottata strepitavano. Silla vi si stese su, l'allontanò dalla riva con una disperata spinta e vi cadde dentro. "Al timone!" gridò afferrando i remi. "Al largo! Contro il vento!" Marina obbedì, gli sedette in faccia stringendo i cordoni del timone. Ormai il cielo era tutto nero, non ci si vedeva più. Si udiva il tuonar delle onde sulla riva sassosa, sui muricciuoli. Là era il pericolo. Saetta, spinta troppo vigorosamente, alzava la prua sull'onda, la spaccava cadendo a gran colpi sordi; entrava nelle più grosse come un pugnale; allora la cresta spumosa ne saltava dentro, correva sino a poppa. La prima volta, sentendo l'acqua, Marina alzò in fretta i piedi, li posò su quelli di Silla. Nello stesso punto un lampo spaventoso divampò per tutto il cielo e pel lago biancastro, per le montagne di c ui si vide ogni sasso, ogni pianta scapigliata. Marina sfolgorò davanti a Silla con i capelli al vento e gli occhi fissi nei suoi. Era già buio quando egli ne sentì nel cuore il fuoco. E quei piedini premevano i suoi: premevano più forte quando la poppa si alzava; ne sdrucciolavan quindi e vi si riappiccicavano. I due remi gli saltarono in pezzi. Cacciò fuori gli altri due ch'erano nella lancia, remò con furore, perché la notte, le voci della natura sfrenata, quel tocco bruciante, quell'inatteso sguardo gli gridavan tutti di esser vile. E i lampi gliela mostravano ogni momento, lì, palpitante, col viso e il petto piegati a lui. Non era possibile! Fece uno sforzo, si alzò in piedi e passò sull'altra panca più a prua. "Perché?" diss'ella. Anche nella voce di lei v'era una commozione, un'elettricità di tempesta. Silla tacque. Marina dovette comprendere, non ripeté la domanda. Si vide al chiarore dei lampi un denso velo bianco a levante, una furia di piova in Val... Non veniva però avanti: la rabbia del vento e delle onde diminuiva rapidamente. "Può voltare" disse Silla con voce spossata, accennando del capo "il Palazzo è là." Marina non voltò subito, parve incerta. "La Sua cameriera l'aspetta?" "Sì." "Allora torneremo alla cappelletta. Fra dieci minuti il lago è quieto: io scenderò lì." "No" diss'ella. "Fanny non mi aspetta. Dorme." Voltò Saetta e mise la prora al Palazzo. Non parlarono più né l'uno né l'altra. Quando giunsero al Palazzo faceva meno scuro e il vento era caduto affatto, ma le onde strepitavano ancora lungo i muri, tanto da non lasciar udir la barca. Anche il sangue di Silla si veniva chetando. Passarono sotto la loggia. Quella vista gli rese la sua freddezza altera. "Lei mi ha detto stamattina" diss'egli "che non La conoscevo. La conosco invece molto bene." Marina credette forse che volesse alludere alla scena avvenuta lì, e non rispose. "Guardi com'entra in darsena" diss'ella dopo un momento di silenzio. "Io lascio i cordoni." Silla entrò con precauzione. Solo passando adagio adagio per l'entrata, ella gli rispose piano: "Come può dire di conoscermi?" Ma bisognava ora badare a non urtar il battello, approdar bene, presso la scaletta. Ed era così buio! Saetta strisciò sul fondo sabbioso, si fermò. Silla uscì, tentò con la mano la parete grommosa dello scoglio in cui è scavata la darsena, trovò questa scaletta che mette al cortile e continua poi nell'ala destra del Palazzo, sino all'ultimo piano. "La scala è qui" diss'egli porgendo la mano a Marina che ripeté nel prenderla: "Come può dire di conoscermi?" E saltò, dalla prua a terra: ma, imbarazzatasi nella catena, cadde in braccio a Silla. Egli se ne sentì il petto sul viso, strinse, cieco di desiderio, la profumata persona, calda nelle vesti leggere: la strinse fino a soffocarla, le sussurrò sul seno una parola; e lasciatala scivolare a terra corse via per la scaletta, saltò nel cortile. Marina rimase immobile, con le braccia stese avanti. Non era un sogno, non c'era inganno, non c'era dubbio possibile; Silla aveva detto: "CECILIA."

Piccolo mondo antico

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Fogazzaro, Antonio 3 occorrenze

Prima di arrivare a Origa udì, giù abbasso, un rumor lieve di remi. Sapeva che la barca delle guardie passava qualche volta la notte alla riva di Val Malghera. Eran le guardie, certo. Sotto i castagni di Origa respirò. Là era coperto e camminava sull'erba, senza rumore. Scese la costa occidentale di Val Malghera e risalì dall'altra parte senza intoppi. Nell'avvicinarsi a Rooch il cuore gli martellava a furia. Rooch è come un avamposto di Oria. Ivi mette capo la stradicciuola ch'egli aveva salita tante volte con Luisa nei tepidi pomeriggi invernali, cogliendo violette e foglie d'alloro, discorrendo dell'avvenire. Si ricordò che l'ultima volta avevano avuto una piccola disputa sullo sposo desiderabile per Maria, sulle qualità che dovrebbe avere. Franco avrebbe preferito un agricoltore e Luisa un ingegnere meccanico. Rooch è una cascina posta a ridosso di pochi campicelli scaglionati sul monte che fanno una chiara piccola macchia nella boscaglia. Una stanza sopra, la stalla sotto, un portichetto davanti alla stalla, una cisterna nel portichetto; non c'è altro. Il portichetto s'affaccia sulla viottola ciottolata che passa da due a tre metri più basso. Dal ciglio del burrone di Val Malghera a Rooch ci son pochi passi. Salito sul ciglio, Franco udì qualcuno parlare sommessamente nella cascina. Sostò e, fattosi da banda, si stese bocconi sull'erba fuori del sentiero, lungo un cespuglietto di castagni. Non udì più parlare, ma udì venire un rapido passo d'uomo e stette immobile, trattenendo il respiro. L'uomo si fermò quasi accanto a lui, aspettò un poco, poi ritornò indietro adagio e disse ad alta voce, con accento forestiero: "Non c'è niente. Sarà stata una volpe". Le guardie. Seguì un lungo silenzio durante il quale non osò muoversi. Le guardie ricominciarono a discorrere ed egli si propose d'indietreggiare senza far rumore, di calarsi da capo in Val Malghera per girare dietro la cascina, in alto. Si levò adagio adagio le scarpe. Stava per muoversi quando udì le guardie, tre o quattro, uscire dalla cascina discorrendo e venire verso di lui. Ne intese una dire: "Non resta qui nessuno?", e un'altra rispondere: "È inutile". Quattro guardie gli passarono accanto una dopo l'altra senza vederlo. Non avevan sospetti perché discorrevano di cose indifferenti. Uno diceva che si può restare sott'acqua dieci minuti senz'affogare, un altro ribatteva che dopo cinque minuti bisogna morire. La quarta passò in silenzio ma, appena passata, si fermò; Franco rabbrividì udendola fregar un fiammifero. Quegli accese la pipa, tirò due o tre boccate di fumo, e poi domandò ai compagni, alquanto forte perché s'eran già dilungati, scendevan la costa di Val Malghera. "Quanti anni aveva?" Uno di coloro rispose, pure forte: "Tre anni e un mese". Allora la quarta guardia tirò altre due boccate di fumo e si rimise in cammino. Franco, che stava bocconi, all'udir "tre anni e un mese", l'età di Maria, si alzò sulle braccia stringendo l'erba convulsivamente. Il rumor dei passi si perdeva già in Val Malghera. "Dio, Dio, Dio, Dio!", diss'egli. Si rizzò ginocchioni, ripeté lentamente dentro a sé, come istupidito, la parola terribile: "aveva". Si torse le mani, gemette ancora: "Dio, Dio, Dio, Dio!". Di quel che fece in seguito non ebbe quasi coscienza. Scese a Oria con la sensazione vaga d'esser diventato sordo, con un gran tremito nel braccio che portava la bambola. Arrivò alla Madonna del Romìt, attraversò il paese e invece di scendere per la scalinata del Pomodoro continuò diritto per il sentiero che raggiunge la scorciatoia di Albogasio Superiore, discese per la stessa scaletta che aveva presa la Pasotti il giorno prima della catastrofe. Vide sulla faccia della chiesa un chiaror debole che usciva dalla finestra dell'alcova, non si fermò sotto la finestra illuminata, non chiamò, entrò nel sottoportico e spinse l'uscio. Era aperto. Entrò dal fresco della notte in un'afa pesante, in un odore strano di aceto bruciato e d'incenso. Si trascinò a stento su per le scale. Davanti a lui, sul pianerottolo a mezza scala, veniva lume dall'alto. Giunto là vide che la luce usciva dalla camera dell'alcova. Salì ancora, mise il piede sul corridoio. L'uscio della camera era spalancato; molti lumi dovevano arder là dentro. Sentì, con l'odor d'incenso, odor di fiori, fu preso da un tremito violento, non poté avanzare. Dalla parte della cucina si udiva qualcuno dormire, dalla parte dell'alcova non si udiva niente. A un tratto la voce di Luisa parlò, tenera, quieta: "Vuoi che venga anch'io, domani, dove vai tu, Maria? La vuoi la tua mamma, in terra con te?". "Luisa! Luisa!", singhiozzò Franco. Si trovarono nelle braccia l'uno dell'altro, sulla soglia della loro camera nuziale che aveva la memoria degli amori ancor viva e il dolce lor frutto, morto. "Vieni, caro, vieni vieni", diss'ella e lo trasse dentro. Nel mezzo della camera, fra quattro ceri accesi, giaceva nella bara aperta, sotto un cumulo di fiori recisi e languenti come lei, la povera Maria. Erano rose, vainiglie, gelsomini, begonie, gerani, verbene, frondi fiorite di olea fragrans , e altre frondi non fiorite, egualmente scure, egualmente lucenti: le frondi del carrubo già tanto caro a lei perché tanto caro al suo papà. Fiori e frondi erano sparsi anche sul viso. Franco s'inginocchiò singhiozzando: "Dio, Dio, Dio!", mentre Luisa prese due roselline, le pose in una manina di Maria e poi la baciò sulla fronte. "Tu puoi baciarla sui capelli", diss'ella. "Sul viso no. Il dottore non vuole." "Ma tu? Ma tu?" "Oh, per me è un'altra cosa." Egli posò invece le labbra sulle labbra gelide che trasparivano tra le foglie di carrubo e fiori di geranio. Ve le posò lievemente, come per un addio tenero, non disperato, alla veste caduta e vuota della diletta creatura sua partita per altra dimora. "Maria, Maria mia", sussurrò fra i singhiozzi, "che cosa è stato?" Egli non aveva inteso affatto che il primo discorso delle guardie sugli annegati avesse un nesso col secondo. "Non lo sai?", gli chiese la moglie senza sorpresa, pacatamente. Gliel'avevano detto com'era stato telegrafato; ma ella sapeva pure che Ismaele doveva recarsi a Lugano per incontrarvi Franco e ignorava che Ismaele, arrivata la posta dal Ceneri senza nessuno, era andato a dormire. "Povero Franco!", diss'ella baciandolo sul capo, quasi maternamente. "Non c'è mica stata malattia." Egli si rizzò in piedi, esclamò atterrito: "Come? Non c'è stata malattia?" La persona che Franco aveva udito dormire, la Leu, entrò in quel momento per far suffumigi, vide Franco, rimase sbalordita. "Va'", le disse Luisa, "posa il fuoco lì fuori, mettici quel che vuoi e poi va in cucina, dormi, povera Leu." Quella obbedì. "Non c'è stata malattia?", ripeté Franco. "Vieni", gli rispose sua moglie, "ti racconterò tutto." Lo fece sedere sulla dormeuse, a piè del letto matrimoniale. Egli la voleva accanto a sé. Ella gli fe' segno di no, di non insistere, di tacere, d'aspettare, e sedette a terra presso la sua creatura, incominciò il racconto doloroso con voce piana, eguale, indifferente, quasi, al dramma che diceva, con una voce simile a quella della sorda Pasotti, che pareva venire da un mondo lontano. Prese le mosse dall'incontro con la Bianconi in Campò e disse, sempre con la stessa calma, tutti i pensieri, tutti i sentimenti che l'avevan portata ad affrontare la nonna, disse i fatti sino al momento in cui s'era convinta che Maria non aveva più vita. Quand'ebbe finito s'inginocchiò a baciar la sua morta e le sussurrò: "Il tuo papà ha in mente che t'ho uccisa io, adesso, ma non è vero, sai, non è vero". Egli si alzò, tutto vibrante di una commozione senza nome, si chinò sopra di lei, la raccolse da terra, non renitente né abbandonantesi, con mani risolute e riguardose, se la collocò vicina sulla dormeuse, le cinse con un braccio le spalle, la strinse a sé, le parlò sui capelli, bagnandoli di poche lagrime ardenti che a quando a quando gli rompevan la voce: "Povera Luisa mia, no, non l'hai uccisa tu. Come vuoi che io pensi questa cosa? Oh, no, cara, no. Io ti benedico, invece, per tutto che hai fatto per lei da quando è nata. Io che non ho fatto niente, ti benedico, te che hai fatto tanto. Non dir più, non dir più quella cosa! La nostra Maria ..." Un violento singhiozzo gli ruppe le parole, ma subito l'uomo, con forte volere, si vinse, continuò: "Non sai cosa dice la nostra Maria in questo momento? Dice: mamma mia, papà mio, adesso siete soli, ciascuno di voi non ha che l'altro, siate uniti più che mai, donatemi a Dio perché mi ridoni a voi, perché io sia il vostro angelo e vi conduca un giorno a Lui e stiamo insieme per sempre. La senti, Luisa, che dice così?". Ella fremeva nelle sue braccia, scossa da sussulti violenti, col viso basso, resistendo a Franco che glielo voleva alzare. Finalmente gli prese in silenzio una mano e gliela baciò. Egli pure, allora, la baciò sui capelli. Poi gli sussurrò: "Rispondimi". "Tu sei buono", rispose Luisa con voce accorata e debole, "tu hai pietà di me ma non pensi quello che tu dici. Tu devi pensare che la causa della sua morte sono io, che se avessi seguito i tuoi sentimenti, le tue idee, non sarei uscita di casa, e se non uscivo di casa non succedeva niente, Maria sarebbe viva." "Lascia star questo, lascia star questo. Tu potevi credere che Maria fosse in camera o con la Veronica, tu potevi rimanere in sala con gli sposi e la disgrazia sarebbe successa ugualmente. Non pensar più a questo, Luisa. Ascolta invece quello che ti dice Maria." "Povero Franco! Poveretto, poveretto!", disse Luisa, con un'amarezza di sottintesi paurosi, da far gelare il sangue. Franco tacque, tremando, non valendo a immaginare cosa ella pensasse, eppure temendo udirlo. Si sciolsero lentamente dalla loro stretta, Luisa per la prima. Ella riprese però la mano di suo marito, volle accostarsela da capo alle labbra. Franco trasse teneramente a sé quella di lei, tentò un'ultima parola: "Perché non mi vuoi rispondere?" "Ti farei troppo male", diss'ella, sottovoce. Egli ebbe il senso di una irreparabile rovina nell'anima di lei e tacque. Non ritirò la mano ma si sentì mancare ogni forza, invader da uno scuro, da un gelo, come se Maria, chiamata inutilmente, fosse morta una seconda volta. L'angoscia, la stanchezza, l'afa, i misti odori della camera poterono tanto sopra di esso che dovette uscire per non venir meno. Andò in loggia. Le finestre erano aperte; l'aria pura, fresca, lo rianimò. Pianse, al buio, la sua figliuola, senza ritegno, senza nemmeno quel ritegno che vien dalla luce. S'inginocchiò ad una finestra, s'incrociò le braccia sul petto, pianse, col viso al cielo, lagrime e parole a flutti, parole incomposte di strazio e di fede ardente, chiamando Dio in aiuto, Dio, Dio che lo aveva colpito. E glielo disse, a Dio, con la piena delle lagrime, che gli permettesse di piangere ma che sapeva bene perché la bambina era morta. Non aveva egli tanto pregato che il Signore la salvasse dal pericolo di perdere la fede stando con sua madre? Ah quella sera, quella ultima sera che Maria gli aveva detto "papà mio, un bacio" e tante altre tenerezze e non voleva lasciar la sua mano, come come aveva pregato! Era un terrore, una gioia, uno spasimo di ricordarlo. "Signore, Signore", diss'egli verso il cielo, "Tu tacevi e mi ascoltavi, Tu mi hai esaudito secondo le tue vie misteriose, Tu hai preso il mio tesoro con Te, ella è sicura, ella gode, ella mi aspetta, Tu ne congiungerai!" Non fu amaro il dirotto pianto in cui le parole morirono. Ma dopo, pensando ancora quest'ultima sera, gli fu amarissimo di esser partito senza dirlo a Maria, di averla ingannata. "Maria, Maria mia", supplicò piangendo, "perdonami!" Dio, come gli pareva impossibile che tutto questo fosse vero, come gli pareva di andar nell'alcova, di doverla trovar là, dormente nel suo lettino, con la testa piegata sulle spalle e le manine aperte abbandonate sulle lenzuola, con le palme in su! E invece vi era, sì, ma! ... Oh che cosa! non poteva, non poteva essere fine al pianto. Venne la Leu col lume e gli portò il caffè. L'aveva mandata la signora. Egli ebbe un movimento di tenera gratitudine per sua moglie. Dio, povera Luisa, che infelicità nera la sua! E quali spaventose apparenze di castigo per lei nel colpo che le piombava sopra in quel momento, proprio in quel momento! Lo aveva ben compreso, lei, ch'egli doveva pensar così e lo pensava davvero e aveva negato per pietà, sì, per pietà com'ella aveva inteso pure. E queste spaventose apparenze di castigo non frutterebbero dunque niente? Ella si separava da Dio più che mai, chi sa fino a qual punto. Povera, povera Luisa! Non era da pregar per Maria, Maria non ne aveva bisogno, era da pregar per Luisa, da pregar dì e notte, da sperar nelle preghiere dell'animetta cara, nascosta in Dio. Egli parlò con la Leu, abbastanza calmo, si fece raccontar da lei tutto che aveva veduto, tutto che aveva udito della cosa terribile. "La voreva propi el Signor la Soa tosetta", disse la Leu per ultimo. "Bisoeugnava vedèlla in gièsa, cont i so manitt in crôs cont el so bel faccin seri. La somejava on angiol tal e qual! Propi." Poi domandò a Franco se desiderasse tener il lume. No, preferiva star allo scuro. E il funerale, a che ora si farebbe? La Leu credeva che si farebbe alle otto. La Leu, quando cominciava a discorrere, non smetteva facilmente e forse aveva anche paura di starsene soletta in cucina: "El so papà!", diss'ella ancora prima di andarsene. "El so car papà! L'è forsi minga vott dì che son vegnüda chì a portagh di castegn a la sciora e sta cara tosetta, che la parlava inscì polito, propi come on avocàt, la fa: "Sai, Leu, presto il mio papà viene a Lugano e io vado a trovarlo". Ciào, l'è ona gran roba!" Lagrime e lagrime. Ah Iddio aveva preso la bambina per toglierla agli errori del mondo, Iddio aveva punito Luisa degli errori suoi ma non era disegnato l'orribile castigo anche per lui? Non aveva egli colpe? Oh sì, quante, quante! Ebbe la chiara visione di tutta la propria vita miseramente vuota di opere, piena di vanità, mal rispondente alle credenze che professava, tale da renderlo responsabile dell'irreligiosità di Luisa. Il mondo lo giudicava buono per le qualità di cui non aveva merito alcuno, essendo nato con esse; tanto più severo sentiva sopra di sé il giudizio di Dio che molto gli aveva dato e frutto non ne aveva colto. S'inginocchiò da capo, si umiliò sotto il castigo, nella desolata contrizione del cuore, nell'ardor di espiare, di purificarsi, di farsi degno che Iddio lo ricongiungesse con Maria. Pregò e pianse a lungo a lungo, poi uscì sulla terrazza. Il cielo imbiancava sopra la Galbiga e le montagne del lago di Como; veniva giorno. Dal nero Boglia imminente soffiavano le tramontane fredde. Da vicino e da lontano, a riva di lago e nell'alto grembo della valle, si levaron suoni di campane. L'idea che Maria e la nonna Teresa erano insieme, felici, salì al cuore di Franco spontanea, chiara e soave. Gli parve che il Signore gli dicesse: ti addoloro ma ti amo, aspetta, confida, saprai. Le campane suonavano da vicino e da lontano, a riva di lago e nell'alto grembo della valle, il cielo diventava più e più bianco sopra la Galbiga, verso il lago di Como, lungo l'erto profilo nero del Picco di Cressogno; e le distese dell'acqua piana prendevano laggiù in levante, fra le grandi ombre dei monti, un chiaror di perla. Le frondi della passiflora, tocche dalle tramontane, ondulavano silenziosamente sopra il capo di Franco, agitate dall'aspettazione della luce, della gloria immensa che scendeva in oriente colorando di sé nuvoli e sereno, salutata dalle campane. Vivere, vivere, operare, soffrire, adorare, ascendere! La luce voleva questo. Portarsi via i vivi tra le braccia, portarsi via i morti nel cuore, ritornare a Torino, servir l'Italia, morir per lei! Il nuovo giorno voleva questo. Italia, Italia, madre cara! Franco giunse le mani in uno slancio di desiderio. Anche Luisa udì le campane. Non avrebbe voluto udirle, non avrebbe voluto che venisse giorno mai più, che venisse l'ora di ceder Maria alla terra. Inginocchiata presso il corpicino della sua creatura le promise che ogni giorno, finché avesse vita, sarebbe venuta a parlarle, a portarle fiori, a tenerle compagnia, mattina e sera. Poi sedette, affondò nei pensieri cupi che non aveva voluto dire al marito, cresciuti e maturati in lei nel corso di ventiquattr'ore come una maligna infezione assorbita da lungo tempo, rimasta inerte per lungo tempo, colta, un dato momento, dalla corrente del sangue, divampata con fulminea violenza. Tutte le sue idee religiose, la sua fede nell'esistenza di Dio, il suo scetticismo circa la immortalità dell'anima tendevano a capovolgersi. Ella era convinta di non essere affatto in colpa della morte di Maria. Se realmente esisteva una Intelligenza, una Volontà, una Forza padrona degli uomini e delle cose, la mostruosa colpa era sua. Questa Intelligenza aveva freddamente disegnato la visita della Pasotti e il suo dono, aveva allontanato da Maria le persone che potevano custodirla in assenza della madre, l'aveva tratta senza difesa nelle sue insidie feroci, e uccisa. Questa Forza aveva fermato lei, la madre, proprio nel momento in cui stava per compiere un atto di giustizia. Stupida lei che aveva prima creduto nella Giustizia Divina! Non v'era Giustizia Divina, vi era invece l'altare alleato del Trono, il Dio austriaco, socio di tutte le ingiustizie, di tutte le prepotenze, autore del dolore e del male, uccisore degl'innocenti e protettore degl'iniqui. Ah s'egli esisteva, meglio che Maria fosse tutta lì, in quel corpo, meglio che nessuna parte di lei cadesse, sopravvissuta, nelle mani della sua Onnipotenza malvagia! Ma era possibile dubitare che quest'orribile Iddio esistesse. E se non esistesse si potrebbe desiderare che una parte dell'essere umano continuasse a vivere, non miracolosamente, ma naturalmente, oltre la tomba. Ciò era forse più facile a concepire, che la esistenza di un tiranno invisibile, di un Creatore feroce contro le proprie creature. Meglio la signoria della Natura senza Dio, meglio un padrone cieco ma non nemico, non deliberatamente cattivo. Certo non bisognava pensare più in alcun modo né inquesta vita né in una vita futura, se vi fosse, al fantasma vano, Giustizia. La fioca luce dell'alba si mesceva a' suoi pensieri come a quelli di Franco, solenne e consolante per lui, odiosa per lei. Egli, cristiano, pensava una insurrezione di collera e d'armi contro fratelli in Cristo per l'amore di un punto sopra un minimo astro dei cieli; ella pensava una ribellione immensa, una liberazione dell'Universo. Il pensiero di lei poteva parere più grande, l'intelletto di lei poteva parere più forte; ma Colui che meglio è conosciuto dalle generazioni umane quanto più ascendono nella civiltà e nella scienza; Colui che consente venire onorato da ciascuna generazione secondo il poter suo e che gradatamente trasforma ed alza gl'ideali dei popoli, servendosi per il governo della terra, nel tempo opportuno, anche degl'ideali inferiori e perituri; Colui ch'essendo la Pace e la Vita sofferse venir chiamato il Dio degli eserciti, aveva impresso il segno del Suo giudizio sul viso della donna e sul viso dell'uomo. Mentre l'alba si accendeva in aurora, la fronte di Franco venivasi irradiando di una luce interiore, gli occhi suoi ardevano, fra le lagrime, di vigor vitale: la fronte di Luisa sempre più si oscurava, le tenebre salivano in fondo a' suoi occhi spenti. Al levar del sole una barca comparve alla punta della Caravina. Era l'avvocato V. che veniva da Varenna alla chiamata di Luisa.

Lo zio era lassù alla finestra e gittò abbasso un addio sonoro agitando il fazzoletto. "Oh!", fece Franco, stupefatto; e prese la corsa. Lo zio aspettò sul pianerottolo della scala con una espressione di contentezza persino nel ventre pacifico. "Ciao, neh", diss'egli e gli prese le mani, gliele scosse tenendolo a distanza. Non avrebbe voluto baci, come se in quel momento significassero ringraziamenti, ma non poté difendersi dall'impeto di Franco. "Figurati", diss'egli appena svincolatosi dalle braccia del giovane, "se una Maironi può viaggiare senza maggiordomo! Son poi anche venuto ad arruolarmi nei bersaglieri!" E l'uomo stanco discese le scale dicendo che andava a ordinare il pranzo. Non v'era canapè nella stanza degli sposi. Franco trasse Luisa a sedere sul letto, le sedette accanto, le cinse con un braccio le spalle, incapace di un discorso qualsiasi, non sapendo dire che "ti ringrazio, ti ringrazio", non trovando che impetuose carezze, impetuosi baci, nomi di tenerezza. Luisa tremava a capo chino, non gli rispondeva in alcun modo ed egli si frenò, le prese il capo come una cosa santa, le andò sfiorando con le labbra, qua, là, i capelli bianchi che vedeva. Ella capì che cercava i capelli bianchi, intese quei timidi baci, si commosse, le parve sentirsi sgelare il cuore, fu presa da sgomento, volle difendersi più contro se stessa che contro Franco. "Sai", disse, "ho il cuore tanto freddo, non volevo neanche venire, non volevo lasciar Maria né che tu avessi l'amarezza di trovarmi così. È stato causa lo zio che venissi. Voleva venir solo e allora mi sono decisa." Dette le parole crudeli, sentì levarsi dai suoi capelli le labbra di Franco, levarsi il braccio dalle sue spalle. Tacquero ambedue; poi Franco mormorò con dolcezza: "Sono tredici ore. Forse dopo non ti darò noia mai più". In quel punto entrò lo zio Piero e annunciò che il pranzo era pronto. Luisa prese la mano di suo marito, gliela strinse in silenzio, non con la stretta d'un'amante, ma pure abbastanza forte per significargli ch'era una commossa risposta. A pranzo né Luisa né Franco mangiarono. Invece lo zio mangiò con appetito e parlò molto. Egli non approvava che Franco prendesse le armi. "Che soldato vuoi riuscire tu?", gli diceva. "Cosa farai senza la canfora, l'acqua sedativa e il cossa soja mi?" Franco dichiarò che aveva buttato via tutti i rimedi, che si sentiva di ferro, che sarebbe stato il più robusto soldato del 9o. "Sarà!", brontolò lo zio. "Sarà! E tu, Luisa, non dici niente?" Luisa rispose ch'era persuasa di quanto aveva detto suo marito. "N'occor alter!", fece lo zio. "Evviva!" Egli aveva poi anche un gran concetto della potenza austriaca e non vedeva roseo come Franco. Secondo Franco, non c'era da dubitare della vittoria. Egli aveva veduto un aiutante di Niel venuto segretamente a Torino, gli aveva udito dire ad alcuni ufficiale piemontesi di Stato Maggiore: "Nous allons supprimer l'Autriche" . Certo, bisognava lasciare almeno cinquantamila cadaveri italiani e francesi tra il Ticino e l'Isonzo. "Scusi, signore", disse il cameriere che serviva. "Mi pare che il signore parlasse di entrare nel 9o reggimento!" "Sì!" "Brigata Regina. Brava brigata. Io ho servito nel 10o. Ci siamo fatti onore nel 1848, ehi! Goito, Santa Lucia, Governolo, Volta! Adesso tocca a Loro." "Faremo il possibile." Luisa ebbe un lieve brivido. Gl'inglesi che pranzavano alla tavola vicina intesero il dialogo, guardarono Franco. Per qualche momento nessuno parlò nella sala; vi passò la visione di una colonna di fanteria lanciata alla baionetta, fra la mitraglia. Dopo pranzo lo zio rimase all'albergo per il suo solito chilo e Franco uscì con Luisa. Presero a destra, verso il Palazzo. Faceva piuttosto scuro, cadeva qualche rara gocciolina, gli scalini che mettevano dalla riva al cortile della villa erano umidi, si sdrucciolava. Franco offerse il braccio a sua moglie che lo prese in silenzio. Si fermarono tra il cortile deserto e la scala dello sbarco a contar le ore che suonavano all'orologio del Palazzo. Sei. Erano passate due ore, ne restavano altre undici; poi veniva la separazione, l'ignoto. Si incamminarono lentamente, sempre senza parlare, per il viale diritto fra il lago e il fianco del Palazzo, a quell'angolo che guarda l'isola dei Pescatori, dove si vedeva già qualche lume. Due donne venivano loro incontro a braccetto, chiacchierando. Franco le lasciò passare e poi domandò a sua moglie se si ricordava dei Rancò. Due anni prima del loro matrimonio avevano fatto con altri amici una passeggiata a Drano e ai Rancò, alti pascoli di Valsolda, che si attraversano per salire al Passo Stretto. Avevano avuto una disputa vivace, un'ora di broncio e di tormento. "Sì", rispose Luisa. "Mi ricordo." Sentirono ambedue nello stesso momento quanto l'ora presente fosse diversa da quella e quanto ciò fosse doloroso a dire. Non parlarono più fino all'angolo. Un suono di campane veniva dall'isola dei Pescatori. Franco lasciò il braccio di sua moglie, si appoggiò al parapetto. Il lago nebbioso taceva, nulla si vedeva oltre i lumi dell'altra isola. Il lago, la nebbia, quei lumi, quelle campane che parevano di una nave perduta in mare, il silenzio delle cose, le stesse rade minute goccioline di piova, tutto era così triste! "E ti ricordi poi?", mormorò Franco senza voltar il viso. Anche Luisa s'era appoggiata al parapetto. Tacque un poco, indi rispose sottovoce: "Sì, caro". Ah vi era nel suo caro un lieve recondito principio di calore, di emozione affettuosa. Franco lo sentì, n'ebbe una scossa di gioia ma si contenne. "Penso", riprese, "alla lettera che t'ho scritto subito, appena ritornato a casa e alle tre parole che mi hai detto il giorno dopo, a Muzzaglio, quando gli altri ballavano sotto i castagni e tu mi sei passata vicina per andar a prendere il tuo scialletto che avevi posato sull'erba. Te le ricordi?" "Sì." Egli le prese una mano, se la recò alle labbra. "Ti ringrazio ancora", diss'egli, "per quelle tre parole. Allora sono state la vita per me. Ti ricordi che nella discesa t'ho dato il braccio e che c'era chiaro di luna?" "Sì." "E ti ricordi che ho fatto uno sdrucciolone prima di arrivare al ponte e che tu mi hai detto: "Caro signore, tocca a Lei di sostenere me"?" Luisa non rispose, gli strinse la mano. "Non sono stato buono a nulla", diss'egli tristemente. "Non ti ho saputo sostenere." "Hai fatto tutto quello che potevi." La voce di Luisa, dicendo così, era fioca, ma ben diversa da quando ell'aveva detto: il mio cuore è freddo. Suo marito le riprese il braccio, ritornò con lei, a passi lenti, verso lo sbarco. Il caro braccio non era inerte quanto prima, tradiva un'agitazione, una lotta. Franco si fermò e disse piano: "E se vado dalla Maria? Cosa le devo dire di te?" Ella fu presa da un tremito, gli posò il capo sulla spalla e sussurrò: "No, resta". Franco non intese, domandò: "Cosa?". Non udì rispondere, piegò adagio adagio il viso, vide le labbra di lei porgersi, vi posò le sue. Il cuore gli batté, gli batté forte, più forte ancora di quando aveva baciato Luisa la prima volta come amante. Rialzò il viso, non poteva neppur parlare. Finalmente gli riuscì di metter fuori queste parole: "Le dirò che hai promesso ...". "No", mormorò Luisa, accorata, "quello non lo posso, non domandarmelo, non è più possibile." "Cosa, non è possibile?" "Oh, intendi bene! Anch'io ho inteso bene cosa volevi dir tu." Ella riprese a camminare, volendo staccarsi da quel discorso. Tenne però il braccio del marito, che la fermò. "Luisa!", diss'egli, severo, quasi impetuoso. "Mi lascerai partire così? Sai cosa vuol dire per me partire così?" Ella ritirò allora lentamente il braccio di sotto quello di lui e si voltò a destra verso il parapetto, vi si appoggiò guardando l'acqua come a Oria, quella sera. Franco le restò diritto accanto, attese un poco e poi le domandò di rispondergli. "Per me sarebbe meglio finirla nel lago", diss'ella, amaramente. Suo marito le cinse la vita con un braccio, la strappò dal parapetto e la lasciò libera, levò il braccio in aria. "Tu?", esclamò con sdegno. "Parlar così, tu che dicevi sempre di prender la vita come una guerra? E il tuo modo di combattere sarebbe questo? Io credevo una volta che la più forte fossi tu. Adesso intendo che sono io il più forte. Molto più! Sai neanche immaginare cosa ho sofferto io in questi anni? Sai neanche immaginare ..." Sentì la voce sfuggirsi un momento ma si padroneggiò e proseguì: "Sai neanche immaginare cosa tu sei per me e cosa farei per non darti senza necessità un piccolo dolore, mentre pare che a te non importi nulla di lacerarmi l'anima?". Ella gli si gettò fra le braccia. Nel silenzio che seguì, rotto solo da uno spasimo di singhiozzi repressi, Franco udì venir gente e durò fatica a staccarsi sua moglie dal petto, a riprender con essa il cammino dell'albergo. "Tu! tu!", sussurrò. "E non vuoi che desideri di morire io, quando posso morir bene, per il mio paese?" Luisa gli stringeva il braccio senza parlare. Incontrarono due giovani amanti, che passando loro accanto li guardarono curiosamente. La ragazza sorrise. Giunti agli scalini che scendono sul piazzaletto davanti a S. Vittore, udiron voci di ragazzi e di donne. Luisa si fermò un momento sul primo scalino e disse piano le tre parole di Muzzaglio: "Ti amo tanto". Franco non rispose che con una stretta del braccio. Discesero gli scalini adagio adagio, rientrarono all'Albergo del Delfino. Alcuni giovinotti che bevevano, fumavano e schiamazzavano si alzarono all'apparir di Franco e di Luisa, si fecero loro incontro tutti, tranne uno che approfittò del momento buono per vuotare l'ultima bottiglia. "Signora", disse il primo che si presentò a Luisa. "Suo marito Le avrà già annunciato i Sette Sapienti." Successe subito un gran baccano perché Franco aveva dimenticato di dire a Luisa che i suoi amici eran venuti con lui da Torino e s'erano spinti, per discrezione, fino a Pallanza, promettendo una visitina d'omaggio alla signora. "El più sapiente son mi", disse alzandosi il Padovano, che aveva vuotata la bottiglia. "Vualtri fe' bordelo e non bevì; mi bevo e no fazzo bordelo." "Quello, signora", disse un bel giovane, "è, com'Ella ben intende, l'asino sapiente della compagnia." "Tasi, Fante!" "Signora!", fece il Padovano avanzandosi e salutando. "Ah, Lei è il signor Fante di bastoni?", disse Luisa, sorridendo, al bel giovane. Ella fu affabile con tutti, ebbe un gran successo dicendo a un uomo alto, magro, dai baffi arricciati: "Lei dev'essere il signor Caval di spade". "No xe vero, signora", esclamò il Padovano mentre gli altri applaudivano, "che se vede la bestia?" Erano venuti da Pallanza in barca e volevano ripartire subito, ma Franco fece portare altre due bottiglie e il chiasso divenne così enorme, malgrado la presenza di Luisa, che l'albergatore venne a pregare, per amore de' suoi inglesi, di non far tanto "rabello". Il Padovano gli snocciolò dolcemente una litania placida di vituperi padovani. Colui non capì, fece un risolino stupido e se n'andò. I Sapienti eran venuti sul lago per godere anche loro una giornata di libertà prima di arruolarsi. Entravano tutti, meno il Caval di spade, nello stesso reggimento. Bevvero al 9o fanteria, alla brigata Regina, a tutti i "pistapauta" nazionali nel presente e nell'avvenire e discussero sul luogo e il nome della prima battaglia che si darebbe agli austriaci. Tutti i voti meno quello del Padovano furono per una "battaglia del Ticino". Il Padovano voleva una battaglia di Gorgonzola. "No sentì che nome militar? Battaglia di Gorgonzola erborinato. Asèo!" Era scritto nel Libro del Destino ch'egli sarebbe caduto appunto nella prima battaglia, a Palestro, con una scheggia di granata nella coscia, combattendo da buon soldato a due passi dal colonnello Brignone. Quei giovani parlavano di battaglie con entusiasmo ma senza spacconate, parlavano della futura Italia dicendo alquante corbellerie, ma si sentiva che non importava loro un fico secco della vita pur di farla libera, questa vecchia patria, e grande. "Ghe pàrele teste da far l'Italia?", disse il Padovano a Luisa. "Gnanca So marìo, sala. Un bon toso, ma par far l'Italia, gnente. La vedarà che razza de Italia che vien fora! I nostri fioi ne farà un monumento, ma dopo vegnarà, capisela, con licenza, quelle figure porche de quei nevodi, che me par de sentirli: "Che da can", i dirà, "che i la ga fata, quei veci insensai, sta Italia!"" I Sapienti partirono dopo essersi accordati con Franco di trovarsi l'indomani mattina sul primo battello. Franco li accompagnò alla barca e intanto sua moglie salì a vedere lo zio Piero. Egli aveva dato l'incarico all'albergatore di avvertire i suoi nipoti che, sentendosi molto sonno, era andato a letto. Infatti Luisa lo udì dormire rumorosamente. Posò il lume e attese Franco. Egli venne subito e fu sorpreso di udire che lo zio dormiva già. Avrebbe voluto pigliar congedo da lui prima d'andar a letto, perché il battello partiva di gran mattino, alle cinque e mezzo. L'uscio della camera era chiuso, tuttavia Luisa pregò suo marito di camminare in punta di piedi e di parlar sottovoce. Gli raccontò ciò che le aveva detto la Cia. Lo zio aveva bisogno di riposo. Ella sperava che sarebbe rimasto a letto fino alle nove o alle dieci e contava partire al tocco, andar a dormire a Magadino per non affaticarlo troppo. Insistette molto su queste apprensioni per la salute dello zio; parlava, parlava, nervosamente, volendo tener lontani altri discorsi, tener lontane con quest'ombra carezze troppo tenere. In pari tempo andava e veniva per la camera, pigliando e posando le stesse cose, un po' per nervosità, un po' con la intenzione che suo marito si coricasse prima di lei. Egli pareva dal canto suo molto occupato di una borsa a tracolla che non riusciva ad aprire. Finalmente l'aperse, chiamò sua moglie a sé, le diede un rotolo d'oro, cinquanta pezzi da venti lire. "Capisci" ,le disse, "che almeno per qualche mese non potrò mandar nulla. Questi non sono miei, li ho avuti a prestito." Poi trasse di tasca una lettera suggellata. "E questo è il mio testamento", soggiunse. "Ho poco ma devo pur disporre anche di quel poco. Vi è un legato solo, la spilla di mio padre che hai tu, per lo zio Piero; e vi è il nome della persona cui devo le mille lire. A parte del testamento ci sono due righe particolari per te. Ecco." Egli parlava con dolcezza grave, senza commozione. A lei, nel prendere la lettera, le mani tremavano. Gli disse "grazie", cominciò a sciogliersi le trecce, poi se le riannodò, non sapeva bene che si facesse, combattuta dal fantasma della sua morta e da un'altra visione di guerra e di morte. Disse con voce rotta che dovendo alzarsi presto per accompagnarlo al vapore pensava di non sciogliersi le trecce e di coricarsi vestita. Franco non fece parola, pregò brevemente e si cominciò a spogliare , si levò dal collo una catenella e una crocettina d'oro ch'erano state di sua madre. "Tienle tu", diss'egli porgendole a Luisa. "È meglio. Non si sa mai, potrebbero cadere in mano ai croati." Ella inorridì, tremò, esitò un istante, gli si gettò al collo, glielo strinse da soffocarlo. Il cameriere bussò all'uscio degli sposi verso le quattro e mezzo. Alle cinque Franco entrò col lume nella camera dello zio ch'era svegliato. Prese congedo da lui e propose quindi a Luisa che anche il loro congedo seguisse lì. Ell'aveva nel viso e anche nella voce una espressione di stupore grave, dolente. Non si commosse, non pianse, abbracciò e baciò suo marito come trasognata e come trasognata discese le scale insieme a lui. Passò forse in esso un lampo del pensiero che occupava l'animo di lei? Se ciò avvenne fu nel salotto dell'albergo mentre prendeva il caffè e sua moglie gli sedeva in faccia. Parve che scoprisse qualche cosa in quello sguardo, in quella fisionomia, perché si fermò a contemplarla con la tazza di caffè in mano e poi gli si diffuse sul volto una tenerezza, un'ansia, una commozione inesprimibile. Ella, manifestamente, non desiderava di parlare ma egli sì. Una parola occulta gli fremeva in tutti i muscoli del viso, gli luceva negli occhi; la bocca non osò dire niente. Discesero al ponte di sbarco tenendosi per mano, si appoggiarono al muro cui s'era appoggiata Luisa il giorno prima. Quando udirono il fragore delle ruote si abbracciarono per l'ultima volta, si dissero addio senza lagrime, piuttosto sconvolti dal loro comune pensiero occulto che afflitti dalla separazione. Il battello arrivò con fracasso, furon gittate e legate le corde. Una voce gridò: "Avanti chi parte!". Un bacio ancora: "Dio ti benedica!", disse Franco e saltò sul battello. Ella rimase fino a che fu possibile udire il rumor delle ruote che si allontanavano verso Stresa. Poi ritornò all'albergo, sedette sul letto, stette lì come petrificata in quest'idea, in questa istintiva certezza ch'era madre una seconda volta. Benché fosse appunto la cosa tanto temuta, non si può dire che ne provasse afflizione. Lo stupore di sentirsi dentro una voce così forte, chiara e inesplicabile, vinse in lei ogni altro sentimento. Era sbalordita. Aveva sempre pensato, dopo la morte di Maria, che il Libro del Destino nulla potesse più avere di nuovo per lei, che certe intime fibre del suo cuore fossero morte. E adesso una Voce arcana parlava proprio là dentro, diceva: "Sappi che nel Libro del tuo Destino una pagina si chiude, un'altra si apre. Vi è ancora per te un avvenire di vita intensa; il dramma, che tu credevi finito al secondo atto, continua e dev'essere straordinario se Io te lo annuncio". Per tre ore, sino a che lo zio Piero non la chiamò, Luisa restò assorta in questa Voce. Lo zio si alzò alle nove e mezzo. Stava bene. Il tempo era umido ancora, quasi piovigginoso, ma egli non volle saperne di restar in casa, come Luisa avrebbe desiderato, sino all'ora di partire per Magadino. Sapeva, per averne chiesto all'albergatore, che dalle nove in poi si poteva visitare il giardino, e alle dieci, preso il suo latte, vi si avviò con Luisa. Passando da San Vittore desiderò entrarvi, veder le pitture. Vi si stava dicendo messa, il celebrante si voltava a dire: "Benedicat vos omnipotens Deus" . Lo zio si fece un gran crocione, ascoltò l'ultimo vangelo, rinunciò a veder le pitture perché c'era poca luce e uscì di chiesa dicendo con la sua giovialità solita: "Eccomi felice e contento d'essere andato a farmi benedire". Non era possibile aver fretta, con lui. Si fermava ad ogni passo, guardando tutto che avesse forma d'arte, tutto che fosse disposto per venir guardato. Contemplò la facciata della chiesa, la triplice gradinata della sbarco Borromeo, ciascuno dei tre lati del cortile e la gran palma nel mezzo, che Luisa, con grave scandalo di lui, non aveva neppur veduta passando di là insieme a Franco, la sera prima. Quando il custode li introdusse nel Palazzo ci vollero almeno dieci minuti per salire, ammirando, lo scalone. Come ne fu a capo uscì un raggio di sole e il custode propose di approfittarne per vedere il giardino. Prese a sinistra e per una fila di sale vuote accompagnò i visitatori al cancello di ferro, suonò il campanello. Venne un giardiniere, un giovinetto educato che piacque molto allo zio perché gli spiegava tutto con buon garbo, e lo zio non domandava poco. Ci vollero cinque minuti per l'albero della canfora, presso l'entrata. Luisa ci soffriva, temeva che lo zio si stancasse troppo e si stancava moltissimo ella stessa di dover guardare tante piante, udire tanti nomi latini e volgari, fare attenzione allo zio, mentre i suoi pensieri avrebbero voluto silenzio e solitudine. Il giardiniere propose di salire al Castello di Nettuno. Lo zio avrebbe desiderato veder da vicino il liocorno dei Borromei che s'impenna lassù, ma c'erano parecchi scalini a fare, l'aria era pesante ed egli esitava. Luisa approfittò di quell'esitazione per chiedere al giardiniere dove avrebbero trovato un sedile. "Qui sotto", rispose colui, "a sinistra, sulla piazza degli Strobus." Lo zio si lasciò persuadere a discendere su questa piazza degli Strobus. Era stanco ma non tralasciava di guardar tutto e d'interrogar su tutto. Avviandosi verso gli Strobus udì venir da lontano, dalla parte dell`Isola Madre, un rullo di tamburi e ne domandò al giardiniere. Erano i tamburi della Guardia Nazionale di Pallanza, che faceva gli esercizi sulla riva. "Adesso si fa per giuoco", disse il giovinetto. "Mica per giuoco, ma insomma ...! Il mese venturo faremo sul serio. Dobbiamo dare una lezione a una bestia grossa. Eccolo là, quel mostro." Il mostro era il vapore austriaco da guerra Radetzki, detto dai riverani piemontesi Radescòn. "Entra adesso nel porto di Laveno", disse il giovinetto. "Viene da Luino. Vengano qui se vogliono vederlo bene." Lo zio sapeva di non avere occhi bastantemente buoni e sedette sul primo sedile che trovò sotto gli strobus, posto a ridosso di una macchia di bambù e fiancheggiato da due altre macchie di grandi azalee. Dietro ai bambù, fra i grossi tronchi distorti degli strobus, si vedeva tremolare lo specchio delle acque bianche fino alla lista nera delle colline d'Ispra. Il cielo, fosco a settentrione, era chiaro laggiù. Luisa e il giardiniere andarono fino al cancello stemmato che guarda la verde Isola Madre, Pallanza e il lago superiore. Luisa si affacciò alla gran distesa delle acque plumbee, incoronate di colossi nebbiosi dal gruppo del Sasso di Ferro sopra Laveno ai monti di Maccagno, alle nevi lontane della Spluga. Del Radetzki si vedeva più il fumo che il corpo. I tamburi di Pallanza rullavano sempre. Lo zio Piero chiamò il giardiniere e Luisa andò ad appoggiarsi al parapetto di fianco al cancello, presso il tasso che sale dal ripiano inferiore. L'albero le toglieva la vista del chiaro levante; ella era contenta di esser finalmente sola, di riposar i suoi sguardi e i suoi pensieri nel grigio delle montagne lontane e delle acque immense. Il giardiniere tornò dopo un momento per mostrarle le gialle acacie fiorite e le eriche bianche del ripiano inferiore, pure fiorite. "Le bruyères blanches portano fortuna", diss'egli. Vedendo che Luisa, distratta, non gli badava, si allontanò verso la serra delle begonie. "Vecchio strobus", diss'egli parlando forte per farsi udire dai forestieri, ma senza voltarsi. "Vecchio strobus colpito dal fulmine. Se vogliono veder il giardino privato ..." Luisa si alzò e andò a prender lo zio per dargli il braccio se ne avesse bisogno. Il giardiniere che stava aspettando presso l'entrata del boschetto di lauri, vide la signora muovere verso il signore seduto, affrettare il passo, precipitarsi con un grido sopra di lui. Come la vecchia innocente pianta, anche lo zio Piero era stato colpito dal fulmine. Il suo corpo era appoggiato alla spalliera del sedile, la testa gli toccava il petto col mento, gli occhi erano aperti, fissi, senza sguardo. Era proprio stato uno spettacolo di addio quello che la sua Valsolda gli aveva offerto. Lo zio Piero, il caro venerato vecchio, l'uomo savio, l'uomo giusto, il benefattore de' suoi, lo zio Piero era partito per sempre. Egli era venuto, sì, ad arruolarsi, Iddio lo voleva in una milizia superiore, ed ecco era suonato l'appello, egli aveva risposto. I tamburi di Pallanza rullavano, rullavano la fine di un mondo, l'avvento di un altro. Nel grembo di Luisa spuntava un germe vitale preparato alle future battaglie dell'era nascente, ad altre gioie, ad altri dolori da quelli onde l'uomo del mondo antico usciva in pace, benedetto all'ultimo momento, senza saperlo, da quell'ignoto prete dell'Isola Bella, che mai, forse, non aveva detto le sante parole a un più degno. FINE

Primo vi arriva di volo il venerabile cappellone del sior Zacomo scaraventato abbasso da Pedraglio con un "viva l'Italia!" mentre scivola a braccetto della guardia. A Bré Pedraglio fece correre tutto il paese sparando a festa la carabina, distribuì anesone triduo agli uomini e mezz'once alle ragazze, domandò al curato di poter appendere in chiesa il "marsinon" per grazia ricevuta, si attavolò a mangiare con la guardia, gli fece predicar dal prete il perdono dei pugni nello stomaco e gli diede lettura di una stanza del poema fratesco che finiva così: A questo punto il Padre Lanternone Disse: ho mutato ancor io opinione. Gli dimostrò che se aveva mutato un Padre Lanternone poteva mutar anche lui e lo persuase a disertare, gli fece buttar via l'uniforme e indossare il "marsinon" fra le risate e gli applausi. Il solo che non rideva era l'avvocato. "E quel povero Maironi?", diss'egli. Franco non attraversò Castello. Giunto alla cappelletta di Rovajà, saltò giù per il sentiero che mena alla fontana di Caslano, raggiunse la stradicciuola di Casarico, si mise a salir per quella e all'ultima svolta che fa sotto Castello, dove appare la chiesa di Puria sotto un anfiteatro di dirupi, si gittò a destra nella valle per un sentiero da capre, ne risalì sotto la chiesa di Loggio e giunse a Villa Maironi senz'aver incontrato nessuno. Carlo, il vecchio servitore che gli aperse, tramortì, quasi, dalla commozione e gli baciò le mani. In quel momento c'era il medico. Franco decise di attender che uscisse e intanto confidò al vecchio fedele che aveva i gendarmi alle calcagna. Il dottor Aliprandi uscì presto e Franco, sapendolo patriota, si confidò anche a lui, poiché gli occorreva mostrarsi, informarsi dello stato della nonna. L'Aliprandi era stato chiamato nella notte ed era venuto dopo la partenza del prefetto per Oria, aveva trovato dell'agitazione nervosa, una terribile paura di morire ma nessuna malattia. Adesso la marchesa pareva tranquilla. Franco si fece annunciare e fu introdotto dalla cameriera che lo guardò con ossequiosa curiosità e uscì dalla camera. Le imposte socchiuse della camera dove la marchesa giaceva a letto lasciavano entrare due sole oblique lame di luce grigia che non giungevano alla faccia supina sul guanciale. Franco, entrando, non la vide, udì solo la nota voce dormigliosa: "Sei qui, Franco?" "Sì, addio nonna", diss'egli e si chinò a darle un bacio. La maschera di cera non era scomposta; lo sguardo aveva però qualche cosa di vago e di scuro che pareva insieme desiderio e sgomento. "Muoio, sai, Franco", disse la marchesa. Franco protestò, riferì ciò che gli aveva detto il medico. La nonna lo ascoltava fissandolo avidamente, cercando di leggergli negli occhi se il medico gli avesse proprio detto così. Poi rispose: "Non fa niente. Son pronta". Dalla nuova espressione dello sguardo e della voce, Franco intese perfettamente che la nonna era pronta a vivere altri vent'anni. "Mi rincresce della tua disgrazia", diss'ella, "e ti perdono tutto." Non eran parole di perdono che Franco si aspettava da lei. Egli credeva esser venuto a portarlo il perdono, e non a riceverlo. Confortata, rassicurata, la marchesa di ogni giorno ricompariva poco a poco sotto la marchesa di un'ora. Voleva bene acquistar la pace ma come un sordido avaro tentato da qualche cupidigia, che spremendosi dolorosamente dal pugno il prezzo del suo piacere cerca trattenersene fra le unghie quanto può. In altri momenti Franco avrebbe scattato, avrebbe respinto sdegnosamente quel perdono; ora, con la dolce Maria nel cuore, non poteva essere così. Aveva però notato che la nonna si era rivolta, col suo perdono, a lui solo. Questo no, non glielo poteva permettere. "Mia moglie, lo zio di mia moglie ed io abbiamo sofferto molto", diss'egli, "prima dell'ultima sventura; e adesso abbiamo perduto tutta la nostra consolazione. Lo zio Ribera lo metto fuori di causa; davanti a lui bisogna che ci inchiniamo, tu, io, tutti; ma se mia moglie ed io abbiamo delle colpe verso di te, perdoniamoci a vicenda." Era un boccone amaro; la marchesa lo trangugiò e tacque. Benché non vedesse più la morte al suo capezzale aveva però nel cuore lo sgomento dell'Apparizione e di certe parole del prefetto che l'aveva confessata. "Farò testamento", diss'ella, "e desidero che tu sappia che tutta la roba Maironi sarà per te." Ah marchesa, marchesa! Misera, gelida creatura! Credeva ella di aver comperato la pace con questo? Qui veramente aveva sbagliato anche il prefetto perché il consiglio di far questa dichiarazione al nipote gliel'aveva dato egli, buon galantuomo ma privo di tatto, incapace di comprendere l'alto animo di Franco. A Franco l'idea che si potesse credere esser egli venuto per interesse, riuscì intollerabile. "No no", esclamò fremendo tutto e temendo del proprio sangue focoso, "no no, non mi lasciar niente! Basta che tu faccia pagare i miei interessi a Oria. La roba Maironi, nonna, lasciala all'Ospitale Maggiore. Ho paura che i miei vecchi abbiano sbagliato a tenerla!" La nonna non ebbe tempo di rispondere perché fu picchiato all'uscio. Entro il prefetto e fece che Franco pigliasse congedo per non stancare l'ammalata. "Bisogna sbrigarsi!", diss'egli, fuori. "Qui hai fatto più che il tuo dovere. Lo sanno in troppi, oramai, che sei qui e i gendarmi possono capitare da un momento all'altro. Ho combinato tutto coll'Aliprandi. L'Aliprandi suppone che per la marchesa ci sia bisogno di un consulto, piglia la gondola di casa e va a Lugano per cercar un medico. I due barcaiuoli sarete Carlo e tu. Piove. Ci sono i mantelli di tela incerata col cappuccio. Mettete quelli e tu sta a poppa. Adesso ti tagliamo il pizzo; col cappuccio in testa sfido a riconoscerti. Sei sicuro. Forse non vi faranno neanche approdare alla Ricevitoria. A ogni modo non ti riconosceranno. Se c'è da parlare, parla Carlino." L'idea era buona. La gondola della marchesa era sempre guardata dagli agenti dell'Austria con grande rispetto come se portasse un uovo dell'aquila dalle due teste; anche quando ritornava da Lugano non si faceva approdare alla Ricevitoria che pro forma . La gondola uscì dalla darsena dopo le otto. Le nebbie delle alte cime erano calate sul lago e pioveva. Triste triste giorno, triste triste viaggio! Né Franco, né il domestico, né l'Aliprandi parlarono mai. Passarono San Mamette e Casarico. Ecco tra i vapori, oltre gli ulivi di Mainè, le bianche mura della dimora di Ombretta. Gli occhi di Franco si riempirono di lagrime. "No, cara", egli pensa, "no, amore, no, vita, tu non sei là dentro e sia benedetto il Signore, che mi dice di non credere questa cosa orribile!" Poche remate ancora ed ecco la casetta del tempo felice, delle ore amare, della sventura; la finestra della stanza dove Luisa si perde in un dolore tenebroso, la loggia dove passerà quind'innanzi solo le sue giornate il vecchio zio Piero, l'uomo giusto che discende silenziosamente, tribolato e stanco, verso la tomba. Franco vorrebbe pur sapere cosa è successo dopo la sua partenza, se lo zio, se Luisa hanno avuto molestie dalla Polizia. Guarda, guarda, non vede persona viva né sulla terrazza né in giardinetto né alle finestre della loggia; tutto è silenzioso, tutto è tranquillo. Cessa di remare, vorrebbe vedere qualche segno di vita. Il dottor Aliprandi apre lo sportello di poppa del felze e lo supplica di remare, di non tradirsi. In quel momento la Leu si affaccia alla ringhiera del giardinetto con un vassoio in mano, guarda la gondola, entra in loggia. Dunque lo zio Piero è in loggia, quello è il solito bicchier di latte che gli portano, nulla dev'essere successo. Franco torna a remare e il dottor Aliprandi chiude lo sportello. Passa il giardinetto, passano le case di Oria, la gondola piega all'approdo della Ricevitoria. Il Biancòn, che sta pescando alle tinche, con l'ombrello, vede la gondola, abbandona le sue lenze, e viene ad ossequiare la marchesa. Ma trova invece il dottor Aliprandi il quale lo turba tanto con le cattive notizie della dama ch'egli sente il bisogno di chiamare anche la sua Peppina e di parteciparle la cosa; e la Peppina, poveretta, recita sotto l'ombrello del suo Carlascia una piccola commedia d'intenerimento. Marito e moglie eccitano l'Aliprandi a far presto, a ritornar presto. Il bestione gli permette di filar dritto, al ritorno, da Gandria a Cressogno e il dottore si volta a Franco, dice: "Andiamo!". Franco ha assistito impassibile al colloquio, con le mani sul remo, sperando apprender qualche cosa de' suoi amici e di casa sua; ma nessuno ha fiatato di Polizia né d'arresti né di fughe come se casa Ribera fosse nella China. La gondola indietreggia lentamente dall'approdo, gira la prora verso Gandria, si allontana, sfuma oltre il confine, nella nebbia. Alla riva di Lugano il dottor Aliprandi aperse lo sportello e fece entrare Franco. Si conoscevano poco ma si abbracciarono come fratelli. "Quando verrà l'ora delle cannonate", disse l'Aliprandi, "ci sarò anch'io." Convennero di congedarsi lì e che Franco uscisse prima, solo, perché Lugano era piena di spie e il dottore doveva pure usare certi riguardi. Il dottore non aveva fretta, del resto; gli premeva più di trovar un barcaiuolo che un medico. Franco si tirò il cappuccio sugli occhi e scesea terra, andò all'albergo della Corona. Alcune ore più tardi, quando la gondola era ripartita, egli usci in cerca di valsoldesi per avere notizie, si avviò alla farmacia Fontana e incontrò sotto i portici i suoi amici che uscivano appunto dalla farmacia insieme a un vecchio. Gli saltarono al collo, piansero di commozione. Erano andati anche loro a cercar notizie. Alla farmacia si diceva che Franco fosse stato arrestato. Che gioia di trovarlo e che gioia di sentirsi terra libera sotto i piedi! Mi sia permesso di ricordare il vecchio che accompagnava Pedraglio e l'avvocato, bizzarra figura del piccolo mondo antico luganese, artista e degno che un altro artista, passandogli così vicino, gli renda onore. Egli era un tal Sartorio, pittore, poeta e suonatore di chitarra, che a quei tempi si vedeva spesso balenar qua e là per le oscure vie di Lugano con la sua bella barba bianca, con il suo cappello bianco tirato sull'occhio destro, con il suo nobile abito nero e il fiore all'occhiello. Poverissimo ma pulitissimo, cavaliere con le dame e con le pedine, pronto sempre a un'anacreontica e a una chitarrinata, adoratore della propria città, egli viveva di pane, formaggio e acqua, fiutava e rincorreva i forestieri per far loro gli onori di Lugano, era sempre pieno di queste faccende, sempre in moto fra Villa Ciani, l'Hôtel du Parc e Villa Chialiva. L'Hôtel du Parc era per lui l'ottava meraviglia del mondo. Aveva aiutato a inaugurarlo e se ne compiaceva assai, godeva particolarmente citare, col suo classico accento luganese, la strimpellata e la lirica ispirategli dalla sala da pranzo: "ca l'è poeu quand ca ga disi: Le trombe squillano Nel gran salone, Ai suoni accordisi Questa canzone. Ora egli si era spontaneamente accompagnato a Pedraglio e a V. che gli avevan narrata la loro fuga. Li aveva condotti lui alla farmacia Fontana per cercarvi notizie di Franco. "Come?", diss'egli dopo l'incontro. "È questo il Loro amico? Sfuggito anche lui agli artigli dell'aquila rapace di Asburgo? Benissimo! Benissimo! Ho fatto anni sono, per altri lombardi fuggiti qua dopo la rivoluzione di Vall'Intelvi, un'ode ca l'era minga mal. Ho descritto, neh, la loro fuga per la Val Mara, la calata a Maroggia, l'arrivo a Lugano, ca l'è poeu quand ca ga disi: O baldi figli di Lombardia, V'apre le braccia Lugano mia. È una cosetta che va benissimo anche per Loro. Adesso corro a prender la chitarra e poi gliela faccio sentire all'albergo." "Madonna!", fece Pedraglio.

Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 2 occorrenze

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 2 occorrenze

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

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Perodi, Emma 4 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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La tregua

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Levi, Primo 1 occorrenze

I poliziotti e i carcerieri venivano insultati sanguinosamente, accolti con grida di "vattene", "a morte", "abbasso", "lascialo stare". Quando, dopo la prima evasione, il fuggiasco esausto e ferito viene nuovamente incatenato, e per di più schernito e deriso dalla maschera sardonica e asimmetrica di John Carradine, si scatenò un pandemonio. Il pubblico insorse urlando, in generosa difesa dell' innocente: una ondata di vendicatori mosse minacciosa verso lo schermo, a sua volta insultata e trattenuta da elementi meno accesi o più desiderosi di vedere come andava a finire. Volarono contro il telone sassi, zolle di terra, schegge delle porte demolite, perfino uno scarpone d' ordinanza, scagliato con furiosa precisione fra i due occhi odiosi del gran nemico, campeggiante in un enorme primo piano. Quando si giunse alla lunga e vigorosa sequenza dell' uragano, il tumulto volse al sabba. Si udirono strida acute delle poche donne rimaste intrappolate fra la ressa; fece la sua comparsa un palo, poi un altro, passati di mano in mano al di sopra delle teste, fra clamori assordanti. In principio non si comprese a cosa dovessero servire, poi il piano fu chiaro: un piano probabilmente premeditato fra gli esclusi che tumultuavano all' esterno. Si tentava la scalata al loggione-gineceo. I pali furono drizzati e appoggiati alla balconata, e vari energumeni, toltisi gli stivali, cominciarono ad arrampicarsi come si fa alle fiere di villaggio sugli alberi di cuccagna. A partire da questo momento, lo spettacolo della scalata tolse ogni interesse all' altro che proseguiva sullo schermo. Non appena uno dei pretendenti riusciva a salire al di sopra della marea di teste, veniva tirato per i piedi e ricondotto a terra da dieci o venti mani. Si formarono gruppi di sostenitori e avversari: un audace poté svincolarsi dalla folla e salire a grandi bracciate, un altro lo seguì lungo lo stesso palo. Quasi a livello della balconata lottarono fra loro per alcuni minuti, quello di sotto afferrando i calcagni dell' altro, questo difendendosi con pedate sferrate alla cieca. In pari tempo, si videro affacciate alla balconata le teste di un drappello di italiani, saliti a precipizio per le scale tortuose della Casa Rossa a proteggere le donne assediate; il palo, respinto dai difensori, oscillò, rimase librato per un lungo istante in posizione verticale, poi rovinò fra la folla come un pino abbattuto dai boscaioli, coi due uomini abbarbicati. A questo punto, non saprei dire se per caso o se per un savio intervento dall' alto, la lampada del proiettore si spense, tutto piombò nell' oscurità, il clamore della platea toccò una intensità paurosa, e tutti sfollarono all' aperto, al chiaro di luna, fra urla, bestemmie ed acclamazioni. Con rimpianto di tutti, la carovana del cinema partì il mattino seguente. La sera successiva si verificò un rinnovato e temerario tentativo russo di invasione dei quartieri femminili, questa volta attraverso i tetti e le grondaie; in seguito al quale, venne istituito un servizio di sorveglianza notturna, a cura di volontari italiani. Inoltre, per maggior cautela, le donne della galleria sloggiarono, e si ricongiunsero col grosso della popolazione femminile, in una camerata collettiva: sistemazione meno intima ma più sicura.

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Se non ora quando

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Levi, Primo 1 occorrenze

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Storie naturali

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Levi, Primo 2 occorrenze

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Vizio di forma

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Levi, Primo 1 occorrenze

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ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Il capitano guardò abbasso. Sotto di lui, sei o settecento metri più giù, una lunga fila di persone, composta di monaci e di montanari, scendeva i fianchi della montagna, fermandosi di quando in quando per guardare verso la cima. Erano almeno tre o quattromila persone e buona parte di esse armate di moschettoni e di lance. - Eccoli quelli che volevano fare delle nostre ossa delle pillole da dare da mangiare ai cani - disse Rokoff. - Lasciate che vadano ad appiccarsi altrove - rispose il capitano. - Promettetemi di passarvi sopra. - Sì, ma fuori di portata dei loro fucili. - Andiamo allo "Sparviero". Ripresero la corsa e raggiunsero il fuso, dove il macchinista stava facendo sorseggiare a Fedoro un bicchiere di vecchio ginepro, per rimetterlo un po' dalle emozioni provate e per riscaldarlo. - Partiamo! - disse il capitano. - Non è prudente fermarsi troppo a simili altezze. Si erano imbarcati tutti. Lo "Sparviero" attraversò il piccolo altipiano e scese il versante opposto, dirigendosi là dove i pellegrini e i monaci calavano. Questi si erano subito accorti della presenza di quel mostruoso uccello che piombava dalle cime del nevoso colosso con rapidità fulminea, come se volesse schiacciarli. Un immenso urlo di terrore si era alzato fra quelle centinaia e centinaia d'uomini, ripercuotendosi lungamente nelle vallate, poi era subentrato un profondo silenzio. Pareva che tutti, monaci e pellegrini, fossero impietriti dallo spavento. Alcuni si erano lasciati cadere al suolo, nascondendosi il viso fra le cappe villose dei loro mantelloni. Rokoff si era curvato sulla prora del fuso, per farsi meglio vedere e agitava le braccia come se scagliasse sui suoi assassini delle maledizioni. D'un tratto si slanciò verso la macchina, afferrò una cassa di zinco ripiena d'acqua e la precipitò in mezzo alla folla terrorizzata, urlando: - Prendete! Ecco il saluto dei Buddha viventi! Quante persone avesse accoppate o storpiate, non lo poté sapere perché già lo "Sparviero" era lontano, volando in direzione del Tengri-Nor.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

682350
Salgari, Emilio 2 occorrenze

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 1 occorrenze