Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbracciare

Numero di risultati: 64 in 2 pagine

  • Pagina 2 di 2

L'angelo in famiglia

183384
Albini Crosta Maddalena 1 occorrenze
  • 1883
  • P. Clerc, Librajo Editore
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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Ti verranno fatti molti regali, ti verrà fatta molta festa; oppure non ti verranno fatti quelli nè questa: sia comunque, pensa che queste sono leggerezze, le quali non meritano te ne occupi seriamente, e tu non devi permettere ti distraggano dal pensiero importantissimo dello stato che sei per abbracciare. Dacchè ti sei fidanzata, e non prima, puoi ricevere il dono di promessa e ricambiarlo; ma per cantà, non cessare dall'essere angelo un momento solo, nè con atti, nè con parole, nè col benchè minimo pensiero. L'angelo della famiglia deve recare all'altare intatto il suo giglio; ivi il Ministro di Dio muterà quel giglio colle rose vermiglie del conjugale affetto, e tu tornerai dall'altare quale ci sei andata, angelo, per diventare l'angelo dello sposo e dei figliuoli, se il Signore nella sua bontà crederà di dartene. Potevo avere una dozzina d'anni, allorchè in iscuola mi fu dato, per cómpito, di scrivere alcune parole pronunciate da una madre mentre sta posando la corona di sposa sul capo alla figliuola. Il mio sarà stato uno sgorbio o poco più; ma la sensazione provata e la folla di malinconici e pur dolci pensieri accalcatisi allora nella mia mente mi hanno impressionata assai; quindi lascio a te pure pensare quante cose voglia dire quella ghirlanda di fiori, e da te stessa ne tragga consigli ed ammaestramenti. La tua mamma, se l'hai, ti dirà ciò che ti bisogna; se non l'hai, te l'inspirerà dal cielo. Il contratto civile è doveroso, ma non è il matrimonio per un cristiano; è lo sposalizio in faccia alla Chiesa che costituisce il matrimonio: esso è Sacramento, perciò reca con sè i doni tutti del Signore. Preparati santamente a ricevere questo Sacramento, con devote preghiere, colla Penitenza e coll'Eucaristia, e il tuo nodo sarà benedetto. Ho visto oggi stesso un elegantissimo abito di raso bianco che ha servito jeri per la cerimonia nuziale (religiosa s'intende) ad una sposa d'alto lignaggio. Sai dove l'ho visto? Dalle suore Canossiane che lo debbono presentare alle figlie di Maria per cavarne arredi sacri per le chiese povere. Questo atto generoso in sè stesso, è assai più generoso per lo spirito che rappresenta. Si parla ora di divorzio nella società; ma tu come cristiana sai e credi fermamente che il divorzio non è possibile, poichè non dove nè può disgiungere l'uomo ciò che Dio ha legato. Ti verrà posto in dito un anello; questo ti dice coll'interminabile suo giro, l'interminabilità dell'affetto, della fedeltà che tu devi serbare al tuo sposo; allorchè quell'anello ti sarà posto in dito non potrai più pensare ad alcun uomo, finchè quello, che oggi t'è dato, ti sia dal Signore lasciato in sulla terra. L'Angelo di Dio t'accompagni, o giovane fidanzata, la tua uscita dalla famiglia, dove sei nata, lasci in essa la benedizione, e il tuo ingresso nella nuova casa ve la porti copiosa, eletta! Se il tuo sposo è buono e pio, fa di esserlo tu pure per non essere da metro di lui; s'egli non l'è, fa ch'ei lo diventi, e assieme alla virtù, la pace albergherà sotto il tuo tetto. L'Angelo di Dio t'accompagni, o giovane fidanzata!

Pagina 865

Giovanna la nonna del corsaro nero

204682
Metz, Vittorio 1 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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La fanciulla corse ad abbracciare a sua volta il Corsaro Nero. "Papà!" mormorò con affetto. "Sono molto lieto di vedervi," disse il Corsaro Nero con una espressione cupa che non lasciava scorgere affatto la sua allegria "ma..." Si staccò dalla figlia, rivolgendosi alla vecchia: "Come diavolo vi è saltato in mente di venire qui, alla Tortue?" "Abbiamo approfittato di uno sciabecco genovese che veniva da queste parti," rispose la nonna "ed eccoci qui..." "Ma perché siete venute?" "E volevi che ti lasciassi solo?" proruppe la vecchia. "Tu, il mio unico nipote? E senza una persona accanto che abbia cura di te..." "Veramente" disse il Corsaro Nero "questo non è un posto per donne." Giovanna, la nonna del Corsaro Nero, si rivolse alle quattro creole che avevano smesso di ballare e si erano affollate con gli altri intorno al gruppo composto dal Corsaro Nero e dai suoi familiari: "Avete capito voi?" disse in tono perentorio. "Questo non è un posto per donne... Perciò, fuori di qui!" "Ma," tentò di obiettare ancora il Corsaro Nero "anche voi e Jolanda siete donne..." "Io sono tua nonna" protestò Giovanna. "E io sono tua figlia!" esclamò Jolanda, fieramente. "Quindi abbiamo il dovere di starti accanto anche nei pericoli..." "Che non debbono essere pochi a voler giudicare dalle facce patibolari che ti circondano!" concluse la nonna, girando lo sguardo sui volti dei pirati. I filibustieri, lusingati di essere stati chiamati "facce patibolari" scoppiarono in una grande risata. "C'è poco da ridere!" esclamò la nonna impermalita. "Avete tutti delle facce che fanno spavento..." "Ma sono i migliori pirati del Mar delle Antille!" esclamò il Corsaro Nero. "Migliori, in che senso?" domandò la nonna con diffidenza. "Nel senso che sono tutti Fratelli della Costa..." "Tutti fratelli? Che brutta famiglia!" esclamò Giovanna, facendo una smorfia. "Questi signori" continuò il Corsaro Nero indicando quattro brutti ceffi dalla cui espressione si capiva che, se avessero incontrato per la strada quel viandante di cui si parlava poco fa, lo avrebbero lasciato in mutande "da soli hanno conquistato il Panama..." "Bella prodezza rubare un cappello di paglia!" esclamò la nonna, con una smorfia di disprezzo. "Peuh!" "E questo signore qui," proseguì il Corsaro Nero indicando il Pirata Col Coperchio" aiutato solo dal suo matelot, si è avvicinato di nottetempo ad una caravella spagnola e, a colpi d'ascia, le ha praticato un buco nella fiancata facendola affondare..." "Peuh!" esclamò Giovanna, con disprezzo. "In fondo cosa ha fatto? Ha inventato la caravella col buco..." "E che dire del signor Mendoza," disse il Corsaro Nero senza lasciarsi smontare, indicando il Pirata Meno Un Quarto" che ha lasciato un occhio su un galeone spagnolo, una mano a Trinidad e una gamba a Portobello?" "Dico che non mi piace la gente che lascia la sua roba in giro dappertutto!" rispose la nonna con espressione disgustata. "E lui," così dicendo il Corsaro Nero indicava il nostromo Nicolino "che in una sola giornata nel "E che dire del signor Mendoza, che ha lasciato un occhio su un galeone spagnolo, una mano a Trinidad e una gamba a Portobello?" "Dico che non mi piace la gente che lascia la sua roba in giro dappertutto!" rispose la nonna con espressione disgustata. suo paese ha tagliato mille teste con il suo coltello, tanto che lo hanno soprannominato il Terrore di Pozzuoli?" "Bella roba!" esclamò Giovanna."No, mi dispiace tanto, ma tu questa gente non puoi assolutamente assumerla..." La dichiarazione di Giovanna, che in fondo era la nonna del loro comandante, destò una grande sensazione fra i filibustieri che si guardarono fra loro interdetti. Il Corsaro Nero intervenne: «Come?" domandò."E perché?" «Perché da quello che ho potuto capire," dichiarò la vecchia "questi pirati sono una massa di bricconi... Non sono pirati per bene..." "E noi non ti lasceremo davvero imbarcare con una simile compagnia!" aggiunse Jolanda, con forza. "Ma, signora..." balbettò il nostromo Nicolino "se lei ci caccia via, noi che facciamo?" "Mi dispiace," rispose la nonna crollando il capo "ma siete tutti gente troppo poco raccomandabile..." "Ma io" protestò Nicolino "non ho mai fatto male ad una mosca!" "E le mille teste?" rimbeccò Giovanna. "Le mille teste che avete tagliato in una giornata?" "E... erano teste di pe... pesce, signora..." rispose Nicolino che quando era emozionato balbettava più che mai. "Al mio paese facevo il pescivendolo e non c'era nessuno nella mia città sve... svelto come me a pulire i merluzzi e le sardine..." "E perché allora vi chiamavano il Terrore di Pozzuoli?" inquisì Giovanna guardandolo con diffidenza. "Il Terrone di Pozzuoli, non il Terrore" corresse Nicolino. "Sapete, io sono di vicino Napoli e loro" e così dicendo indicò i pirati "sono tutti settentrionali... E così mi chiamano il Terrone... Il Corsaro Nero ha capito il Terrore e mi ha nominato nostromo... Se gli dicevo la verità perdevo il posto..." "Va bene..." sentenziò Giovanna "questo può restare... Ma gli altri?" Nicolino, visto che a lui era andata bene, volle intervenire a favore degli altri pirati. E con la voce querula che fanno i meridionali in genere quando vogliono ottenere qualche cosa: "Signora," disse "gli altri sono pirati vecchi, fra poco vanno in pensione! Li volete mandar via all'ultimo momento?" Giovanna rifletté un istante. "E va bene," disse "li posso anche tenere, ma ad un patto..." "Che patto?" domandò il Corsaro Nero. "Che assuma io il comando della nave..." Persino Jolanda che, si vedeva benissimo, aveva per la sua bisnonna una vera adorazione, questa non riuscì a mandarla giù. "Ma, nonnina" non poté fare a meno di esclamare. "Avete ottant'anni!" "Ti sbagli, mia cara nipotina" ribatté Giovanna, prontamente. "Ne ho appena venti." "Venti?" trasecolò il Corsaro Nero. "Certo" rispose Giovanna. "Sono nata il 29 febbraio 1587... Siamo nel 1667..." "Quindi avete ottant'anni" calcolò il Corsaro Nero. "No, perché essendo nata il 29 febbraio, cioè 2. Giovanna in anno bisestile, compio un anno ogni quattro" rispose Giovanna con logica strettamente femminile. "Già, ma non so se..." volle ancora obiettare il Corsaro Nero. Ma intervenne Jolanda. "Su, paparino, fai contenta la nonna" pregò, giungendo le piccole mani. "Quando tu non c'eri, al castello, se l'è sempre cavata, sai..." "Sì, questo è vero," annuì il Corsaro Nero, esitando "ma non so se ai miei uomini faccia piacere essere sottoposti a una donna che comanda..." Il Pirata Meno Un Quarto sogghignò. "Perché, mia moglie non comanda forse?" disse. "E la mia?" disse il Pirata Col Coperchio. "Comanda poco quella?" "Io ho sempre sognato di avere una nonna" sospirò il pirata Catenaccio, mentre una lagrima gli solcava il volto patibolare seguendo il percorso tracciato dalla cicatrice. "E voialtri, ragazzi?" "Anche noi!" esclamarono i pirati all'unisono. "Viva la nostra comandante?" gridò il Pirata Meno Un Quarto. "Viva Giovanna, la nonna del Corsaro Nero!" gli fecero eco gli altri pirati in coro, sventolando tutti in aria i loro cappelli, meno il Pirata Col Coperchio che non poteva, com'è facile immaginare, mettere a nudo il proprio cervello sventolando la calotta d'argento. "Viva!" "Allora, siamo tutti d'accordo" concluse il Corsaro Nero. E avvicinatosi alla infernale vecchietta: "Nonna," le annunciò con voce sonora "vi cedo il comando della mia nave..." Giovanna, la nonna del Corsaro Nero, respirò con forza. Quindi, sguainata la lunga spada che le pendeva al fianco e levandone la punta verso il cielo, gridò minacciosamente: "Ed ora a noi due, conte di Trencabar, governatore di Maracaibo! A noi due, assassino dei miei nipoti! A noi due!" Dall'alto del ballatoio che attraverso una scala di legno conduceva al piano superiore si affacciò un bambino, il figlio del bettoliere: "Dice così mamma" disse "che per favore quando dice: 'A noi due!' lo dica un po' più piano... Su, c'è un malato!"

Angiola Maria

207378
Carcano, Giulio 1 occorrenze
  • 1874
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Pagina 353

I ragazzi della via Pal

208058
Molnar, Ferencz 1 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
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E tutti avrebbero voluto abbracciare Boka perchè anche lui si era finalmente indignato. S'avviarono verso casa. Grandi avvenimenti maturavano. In ognuno divampava l'energia e l'ansia di sapere quel che ora si sarebbe fatto di certo. Andavano, camminando adagio, lungo il viale. Cionacos rimase indietro con Nemeciech. Quando Boka si rivolse verso di loro, i due erano fermi, vicini a una finestrina della cantina della manifattura tabacchi sul cui davanzale si depositava in grossi strati gialli la fine polvere di tabacco. — Tabacco da naso! — gridò allegro Cionacos. Fischiò e si ficcò nelle narici un po' di povere. Il piccolo Nemeciech rise di cuore. Ne pigliò anche lui e di sulla punta delle sue dita sottili aspirò un poco. Attraversarono, starnutendo, la strada, ed erano tutti felici della loro scoperta. Cionacos starnutiva a gran colpi tuonanti come di cannone. II biondino sbuffava come un coniglio seccato. Soffiarono, tossirono, corsero, risero e in quel momento erano così contenti che dimenticavano anche la grande ingiustizia, quella che Boka, che lo stesso Boka, il tranquillo e serio Boka qualificava inaudita!

L'uccellino azzurro

213280
Maeterlink, Maurice 1 occorrenze
  • 1926
  • Felice Le Monnier, Editore
  • Firenze
  • Paraletteratura - Ragazzi
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LA GIOIA-DI-COMPRENDERE (scostando le altre Gioie per andare ad abbracciare la Luce). Sei la Luce e noi non lo sapevamo!... Sono anni ed anni che ti aspettiamo. Mi riconosci?... Sono la Gioia-di- comprendere.... Ti cerco da tanto tempo.... Siamo felici, sì, ma non possiamo veder di là dal nostro essere.... LA GIOIA-D'ESSER-GIUSTA (abbracciando alla sua volta la Luce) Mi riconosci?... Sono la Gioia-d'esser-giusta, che ti aveva tanto pregata di venire..... Siamo felici, sì, ma non possiamo vedere di là dalle nostre ombre.... LA GIOIA-DI-VEDERE-CIò-CHE-È-BELLO (abbracciandola anch'essa) E me, mi riconosci?... Sono la Gioia-della- bellezza, che ti ha sempre voluto bene.... Siamo felici, sì, ma non possiamo vedere di là dai nostri sogni.... LA GIOIA-DI-COMPRENDERE Via; via, sorella cara, non farci più a lungo aspettare.... Siamo abbastanza forti, abbastanza pure.... Scosta dunque questi veli che ci nascondono ancora le ultime verità e le ultime felicità.... Guarda, le mie sorelle s'inginocchiano tutte ai tuoi piedi.... Sei la nostra regina e la nostra ricompensa.... LA LUCE (avvolgendosi più, ancora nei suoi veli). Sorelle, sorelle mie belle, io obbedisco al mio Signore... L'ora non è ancora venuta, ma forse scoccherà presto: e allora, tornerò senza timori e senza ombre.— Addio, rialzatevi, abbracciamoci ancora come sorelle che si ritrovano, in attesa del giorno che spunterà ben presto.... L'AMOR MATERNO (abbracciando la Luce). Siete stata così buona verso i miei poveri piccini.... LA LUCE Sarò sempre buona verso coloro che si amano.... LA GIOIA-DI-COMPRENDERE Che il tuo ultimo bacio si posi sulla mia fronte.... (Si baciano lungamente: quando si staccano l'una dall'altra, i loro occhi sono pieni di lacrime). TYLTYL (sorpreso) Perchè piangete?... (guardando le altre Gioie) Oh bella! Anche voi piangete.... Ma perchè tutti gli occhi sono pieni di lacrime?... LA LUCE Zitto, bambino mio.... CALA LA TELA

Contessa Lara (Evelina Cattermole)

219899
Storie d'amore e di dolore 1 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222460
Misteri del chiostro napoletano 3 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
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Pagina 103

Ma per ragioni non abbastanza note, i monasteri di donne abbandonarono la regola di san Basilio, per abbracciare l'altra non molto dissimile ed omogenea di san Benedetto, ancor prima che i conventi di monaci Basiliani si fossero del tutto latinizzati: fatto avvenuto dopo quelle tre potenti e consecutive crisi della Chiesa occidentale: la riforma, il gesuitismo, ed il concilio di Trento; crisi successe nel XVI secolo. Nella facciata della chiesa di san Gregorio, Napoli e sue vicinanze. Tomo I, p. 228. sopra un alto basamento con tre archi di fronte, costrutto a bugne, si elevano due altri ordini di costruzioni, il composito sul dorico. Pochi scalini conducono all'atrio spazioso retto da quattro pilastri, su cui poggia il coro grande delle monache. In fondo è l'ingresso principale della chiesa; ed entrandovi, trovasi una sola navata con quattro cappelle in ciascun dei lati, e due vani, di grandezza eguale alle cappelle, occupati al davanti per metà da due organi: di quei vani uno serve al passaggio della sagrestia e della minor porta, l'altro per i confessionali. Un balaustro divide la nave dal presbiterio, dove si erge l'altar maggiore, fra quattro archi simili che sorgono per sostenere la cupola. L'ordine architettonico dell'intera fabbrica è il composito, ma oltremodo ripieno di cornici, fogliami, decorazioni ed ornamenti d'ogni genere, tutti dorati, e nelle superficie piane dorati a foggia di damasco; e non è spazio vuoto che non sia coperto di pittura a fresco: cose tutte le quali certo meglio si addicono al fasto de' ricchi palagi baronali (o dei teatri), anzi che alla devota semplicità della casa del Signore. La porta grande è costrutta di legno di noce con buoni intagli in rilievo, rappresentanti i quattro Evangelisti, ed in mezzo i due santi Stefano e Lorenzo, circondati da ornamenti. La soffitta, che è di legno intagliato e dorato, dividesi in tre grandi quadri principali, in cui sono tre pitture di Teodoro il Fiammingo, figuranti san Gregorio in vesti pontificali con libro aperto nelle mani fra due assistenti all'altare; lo stesso santo che riceve le monache nel suo ordine; ed il battesimo del Redentore; suddividesi poi in tanti piccioli compartimenti di forme diverse, i quali contengono una pittura di esso Teodoro, se non mostrano un rosone intagliato. I due organi collocati con le orchestre ne' due vani sono ricchi de' più bizzarri intagli, dorati ad oro fino. Ornano poi le cappelle molti lavori a commettitura di marmi scelti e svariati, ed han tutte un balaustro di marmi, parimente commessi in forma di fogliami a traforo; e sopra, altri lavori di bronzo a getto, con in mezzo un cancellino composto dello stesso lavoro e metallo. Delle pitture, i tre quadri sulla porta, nei quali è rappresentato l'arrivo in Napoli e l'accoglimento qui avuto dalle monache greche; come parimente quelle collocate tra' finestrini, che sono pur de' fatti della vita. di san Gregorio; quelle dei piccioli scompartimenti sopra gli archi, le altre della cupola, e quelle infine del coro grande, che figurano storie di san Benedetto, son tutte di mano del Giordano. Ed è a notare, che, dei tre quadri sulla porta, in quello che è a sinistra dell'osservatore, nel volto dell'uomo in atto d'indicare un luogo alle monache arrivate al lido in una barca, il pittore dipinse sè medesimo dell'età di circa cinquant'anni, quanti allora ne contava. Dietro l'altar maggiore, che è costrutto con disegno di Dionisio Lazzari, mirasi la gran tavola dell'Ascensione del Signore, opera di Bernardo Lama. Nella prima cappella del lato destro della chiesa è il quadro dell'Annunziata di bel colorito, dipinto da Pacecco De Rosa. La terza cappella è dedicata a san Gregorio Armeno, ed è più grande e meglio ornata delle altre; sull'altare, in mezzo a due colonne di rosso di Francia, si vede un assai pregevol dipinto di Francesco di Maria, e rappresenta il santo vescovo assiso e corteggiato dagli angeli; su i muri laterali è figurato in due composizioni il Santo, mentre se gli fa d'avanti tutto umiliato il re Tiridate col viso trasformato in porco; e nell'altra, nel momento di esser tirato fuora del lago di Ararat, dove era stentatamente vissuto per quattordici anni: questi due quadri, dipinti con robustezza e verità di colorito e con bell'effetto di luce, sono usciti dal pennello di Francesco Fracanzano, discepolo dello Spagnoletto. Di Cesare Fracanzano, fratello del primo, son le due lunette sovrapposte a' descritti quadri, che rappresentano due maniere di martirii dati al santo. La volta di questa cappella è divisa in più partizioni, dove in picciole figure sono istoriati vari fatti della vita di san Gregorio dallo stesso Francesco di Maria; le quali pitture a fresco richiamaron l'attenzione dello stesso Giordano, che narrasi averle molto ammirate e lodate. Nella quarta cappella, la tela della Madonna del Rosario è di Niccolò Malinconico, scolaro del Giordano. Delle cappelle del lato sinistro, la prima ha una tavola della Natività, della scuola di Marco da Siena; la terza, la tavola della decollazione del Battista, di Silvestro Morvillo, detto il Bruno; e la quarta, una tela, in che è dipinto san Benedetto, adorante la Vergine che apparisce dall'alto, attribuita allo Spagnoletto. Nel mattino del tre di marzo 1443, essendo giorno di domenica, re Alfonso I d'Aragona cinse il capo del suo figliuolo Ferrante d'un cerchio d'oro, e posegli nella man destra una spada ornata di gemme, confermandolo in tal guisa Duca di Calabria e suo successore nel regno, siccome un giorno avanti era stato acclamato dal general parlamento nella sala del Capitolo in San Lorenzo. Una tal solenne cerimonia fu compiuta con regal pompa, in presenza de' baroni e di tutta quanta la corte del re, nell'antica chiesa già demolita, di cui si è fatta menzione poc'anzi. In quella stessa chiesa conservavansi fino al 1574 le sepolture delle monache, e le ossa d'altri defunti, in monumenti che rimontavano fino alle primitive età del monastero, siccome risulta dalla cronaca di donna Fulvia Caracciolo, una delle mie antenate e monaca nel detto monastero, vissuta intorno all'epoca in cui venne introdotta la clausura. Commovente è la descrizione ch'essa ci lascia del trasferimento delle surriferite reliquie dalla chiesa antica a luogo più sicuro, avvenuto sotto l'abbadessato di Lucrezia Caracciolo: «Restavano, scrive essa, solo nella chiesa le sepolture, nelle quali erano posti i corpi morti delle sorelle, e d'altri defonti: e perchè rimanevano scoverte, pungeva a noi il core estremo dolore, avvenga che non havevamo luoco atto, dove potessimo riserbare l'osse de' nostri antecessori, tanto più che di fresco erano morte alcune, che a volerle tor via, poichè erano i corpi jntieri, n'inducevano a tanto ramarico, che di pietà ogn'una di noi si sentiva venir meno; all'ultimo una notte, seguente a' 20 d'ottobre di detto anno 1574, per non dare spavento et horrore alle sorelle, jo, insieme con donna Beatrice Carrafa, donna Camilla Sersale, donna Isabella, e donna Giovanna de Loffredo, chiuse prima le parte della chiesa, e dicendomo l'officio de' morti, fecimo in nostra presenza votare tutte le sepolture, usando ogni diligenza possibile, che fossero ben nettate, e riponemmo l'ossa in un'altra cantina, con quest'ordine: fecimo far tante casse de' morti quante erano le sepolture, et havendo di quelli riposte le già dette osse, fecimo ad ognuno un scritto di fuori, acciò che si conoscessero di chi fossero.» Questo passaggio, che ho letto più volte nello stesso manoscritto, mi ha fatto ogni volta rabbrividire, pel timore che le mie ossa, destinate a restare in consegna alle mie compagne di reclusione, non subissero un giorno le medesime vicende. Egli è pur da questa cronaca che siamo informati del vestire antico delle monache Benedettine e del loro ufficiare ne' libri longobardi: «Intorno poi al vestire che noi usavamo, dirò, che andavamo vestite di bianco; però le tuniche a modo di un sacco, a punto come sono quelli che portano oggidì le donne vidue, ma di panni fini e bianchissimi; in testa portavamo una legatura greca, ornata con molta modestia; leggevamo a' libri longobardi, e perciò la maggior parte della vita spendevamo ne i divini uffici, per esserno in quei tempi assai lunghi e da noi con molta solennità celebrati. Le moniche ch'entravano in questa religione in tre diverse giornate, usavano tre modi di cerimonie. Primieramente si monacavano per mano dell'abbadessa, un giorno dopo dette le Vespere, ove ne troncava le trezze. Dopoi alcuni mesi, o anni, secondo l'età, pigliavano il secondo ordine, ch'erano alcune dignità nel coro. Il terzo ordine si pigliava nell'età perfetta, da quindici anni in su, e nel pigliar questo ordine si diceva primieramente la messa dello Spirito santo; e mentre quella si celebrava di nuovo, ne tornavamo a tagliare i capelli. In questa guisa cavavamo nella fronte una ghirlanda de capelli, la quale spartita in sette fiocchi, nell'estremo di ciascun di quelli l'abbadessa poneva una ballotta di cera bianca e così stavamo finchè si celebrava; ma poi finita la messa, la medesima madre tagliava i fiocchi e copriva la fronte d'un bianco velo, e ne ponevano una veste negra sopra la bianca che fino a quel tempo portavamo, e la negra era più corta della bianca mezzo palmo, senza la quale non era lecito a veruna di comparir nel coro nei giorni festivi. Questa veste adunque era la prerogativa, che ne donava la voce attiva e passiva, e ci faceva partecipe de i beni del monastero. Questa medesima veste ne vestivamo ne i giorni estremi di nostra vita, con la quale si moriva e si andava alla sepoltura. I giorni feriali si ufficiava in coro con un manto nero, senza di cui non si poteva dire un picciolo verso in quel loco, e questo s'osservava tra noi in quel tempo.» Malgrado questi rigori, vero è che le monache di quel tempo andavano liberamente alle ville e possessioni del monastero per trattenervisi parecchie settimane, uscivano dalla mattina alla sera, previa licenza della badessa, e per giorni ed anche mesi rimanevano in casa dei loro parenti, siccome fino ai nostri giorni, ad onore dell'ordine monastico, è praticato ne' chiostri della chiesa greca, presso la quale l'autorità de' canoni tridentini non è riconosciuta. Sono custodite nel santuario del monastero parecchie reliquie di santi e martiri, cui le monache e la volgare superstizione attribuiscono la virtù di operare miracoli. Tranne il capo di san Gregorio l'Illuminatore, che vuolsi importato dalle profughe greche, vi sono pure la testa di santo Stefano e quella di san Biagio, coverte di argento; parte del legno della santa Croce; due bracci, uno di san Lorenzo e l'altro di san Pantaleone; la catena di san Gregorio Armeno e le strisce di cuoio con cui il Santo fu battuto: entrambi oggetti che, per prerogative soprannaturale, sanano gl'indemoniati; il sangue di santo Stefano e quello di san Pantaleone, il quale, se perpetuamente è liquefatto, pure non si fa vedere in tre diversi colori, siccome quello del medesimo martire che è venerato in Roma nella chiesa di santa Maria in Vallicello e nella cattedrale d'Amalfi. Questo Santo gabinetto di anatomia dà motivo a feste, che non mancano d'essere periodicamente segnalate da fatti miracolosi. Vastissimo è il monastero costruito intorno alla chiesa. Entrandovi dalla porta esterna, scorgesi una comoda scalinata che mena ad una seconda porta, su cui veggonsi delle pitture a chiaroscuro di Giacomo del Po, e donde si va ne' differenti parlatorii. Ricco poi di fregi, d'inesauste comodità, di principesca magnificenza è l'interno del monastero, albergo di donne, tanto altiere della nobile loro discendenza, da non voler accogliere per sorella nella congrega nessuna giovine, la cui prosapia non sia stata almeno aggregata in uno de' quattro seggi di Napoli. Grande e pur belle e il dormentorio; non meno bello il refettorio, spazioso il coro che risponde nella chiesa; largo il chiostro, con in mezzo una fontana e due statue, Cristo e la Samaritana, scolpite da Matteo Battiglieri; immensi e deliziosi specialmente i terrazzi elevati sopra il convento, ornati di fiori e di dipinture, donde si gode una delle più belle prospettive di Napoli, poichè da quei belvederi spazia lo sguardo su i monti e le colline circostanti, su parte della sottoposta città, sul mare, sul paesaggio ameno de' contorni. - Tranne queste costruzioni, vedonsi poi nel monastero la cappella di santa Maria dell'Idria (corruzione del vocabolo greco Odigitria), con l'immagine bizantina della Vergine venerata sotto questo nome, con dipinture di Paolo de Matteis: cappella ridondante di sontuosità; e finalmente la sala dell'archivio, ove fra gli altri storici monumenti è conservata la cronaca summenzionata della Caracciolo, documento di non poco rilievo. Ma è tempo di ritornare alle mie vicende. La novità del luogo, delle persone, degli oggetti, dei costumi, mi divagò un poco. Era quello un mondo nuovo a me del tutto sconosciuto. Durante quella prima visita al convento, m'imbattei in molte religiose per la via: tutte quante mi fecero la stessa domanda: "Vuoi farti monaca?" Io rispondeva di no. A questo detto, sorridendo in atto di suprema convinzione, ripigliavano: "San Benedetto non ti lascerà scappare, quando avrai indossate le sue lane!" Qualche giorno prima di entrare nel monastero, era venuta la domestica di mia zia a comunicarmi, come una giovine monaca, chiamata Paolina, desiderava di farsi mia amica e confidente inseparabile, non appena avessi posto il piede nel chiostro. Mi vi trovava intanto da più ore, nè vedeva al mio fianco altre monache, che le due sorelle, da mia zia pregate di guidarmi nella visita. Chiesi a codeste quale fosse la monaca nominata Paolina: risposero essere una giovine, solita sempre a ricrearsi in compagnia di due educande. M'avvidi infatti d'averla incontrata nel mezzo di due giovinette, passeggianti nel chiostro; ed anzi mi maravigliai, che di tutte le monache fosse stata l'unica a non avvicinarmisi. Fatti altri pochi passi lungo l'arcato corridoio del pianterreno, la incontrammo novellamente; atteggiatami d'ilarità, le mandai da lungi il saluto con un sorriso, ma parvemi d'osservare che, in risposta, essa e le sue compagne si fossero scambiate sotto voce qualche parola in tuono beffardo: questo mi mortificò assai; ma non basta. Concettina mi domandò perchè avessi voluto sapere quale monaca fosse nominata Paolina, e dove l'avessi conosciuta: raccontai dell'ambasciata ricevuta. Si rammentò allora Checchina, che essendosi quella Paolina disgustata colle sue amiche, alcuni giorni prima, mi aveva mandato tale messaggio non per altro che per indispettirle, ma che poscia, rappattumatasi con esse loro, aveva lor promesso di non mai avvicinarsi a me, essendone le educande di già gelose. "Gelose!" esclamai stordita: "vi sono dunque delle gelosie fra voi!" "Eh, pur troppo, signorina! così non ve ne fossero!" risposero le sorelle in coro. "Misericordia!" soggiunsi: "ci sarà anche la discordia, inseperabile dalla gelosia." Strana infatti mi sembrò la gelosia fra donne, stranissimo e volgare il pettegolezzo della monaca Paolina, pestifera la discordia in una casa ermeticamente chiusa e non beneficata dagli influssi della rimanente umanità. Da quel primo sintomo di corruzione mi accorsi che avea da far con donne, le quali, benchè nobilissime per nascita, pur tuttavolta non avevano che l'educazione negativa delle loro proprie domestiche. Io aspettava la sera con ansietà per dare libero sfogo all'inquietudine che mi rodeva, credendo di avere una stanza tutta per me. Ma quale non fu la mia sorpresa nel vedere il mio letto collocato nella camera stessa della zia badessa, con al fianco un terzo letto destinato alla sua conversa! - Mi veniva pure intercettato il conforto della solitudine e delle lagrime! Mentre mia zia spogliavasi recitando delle preghiere sotto voce, io dovetti soffrire il tormentoso interrogatorio della converse. Questa donna, Angiola Maria di nome, aveva 32 anni in circa, era d'una costituzione ferrea, di voluminosa corporatura; tarlata dal vaiuolo, con bocca larghissima e denti neri; a questo insieme disgustevole aggiungeva, ora un riso agro e smodato, ora una cupa fissazione, con un rotar senza posa di due occhi squilibrati che sembravano pronti a balzare fuori dell'orbita. D'altronde scortese, disattenta colla mia vecchia zia, e molto petulante, allorchè questa interrompeva il suo eterno cicaleccio con un qualche rimbrotto. Finalmente si pose in letto, e prese sonno per lasciarmi sola coi miei tristi pensieri, sola nel mezzo d'un silenzio, da altro rumore non turbato che dall'isocrona battuta d'un orologio a pendolo. Io era di poco addormentata, vinta più dall'oppressione morale che dal sonno, quando sul far del giorno fui svegliata da Angiola Maria che voleva sapere da me se io voleva assistere alla prima o alla seconda messa. "Ormai sono desta," risposi traendo un sospiro: "assisterò a quella messa che piacerà a te." La conversa mi diè mano a vestirmi, non cessando sempre di ciarlare: poi, presami confidenzialmente per la mano, nel modo che è menato un cieco, mi fece scendere al comunichino, dove trovai riunite parecchie monache nell'atto d'ascoltare la messa e di comunicarsi. Alle 10 venne mia madre: la ritrovai assisa nel parlatorio. Al primo vederla proruppi in pianto stemperato. Le dissi essere infelicissima in un luogo, la cui inoperosa e stupida reclusione era, a parer mio, più insoffribile della stessa prigionia: tremendo martirio per me dover esser quello di convivere con gente non meno ignorante, che ineducata: che già parlavano di farmi monaca: ch'io presentiva di dover perdere la salute, com'era in procinto di perdere la libertà, dovendo dipendere finanche dal capriccio della conversa di mia zia, la quale mi voleva far alzare prima di giorno, per trattenermi un'ora in chiesa, esposta ad un freddo insopportabile, ad un disagio che m'avrebbe fatta prendere a noia la preghiera stessa. Stava per rispondermi la madre mia, quando entrò la portinaia, ed in seguito accorsero altre monache per salutarla. - Dopo di avere scambiati alcuni termini di cortesia, diss'ella di voler andare ad ascoltare la messa in san Lorenzo, e che più tardi sarebbe ritornata. Uscì dunque del parlatorio, ed io, attendendola, mi trattenni fuori del corridoio, immersa nel sentimento dell'abbandono, in cui slanciata mi aveva una dura fatalità. Scorse un'ora, un'ora e mezza, ne scorsero due, mentre io misurava a passi lenti il pavimento del corridoio, e frattanto non la vedeva ritornare. Dolente del suo ritardo, mi volsi alla portinaia, pregandola di mandare alla vicina chiesa di San Lorenzo una delle tante donne che se ne stavano oziose all'atrio del monastero, per sapere la ragione che impediva mia madre di ritornare. La portinaia, presami la mano, mi disse: "Abbi pazienza, cara mia.... per amore o per forza bisogna trangugiare questo calice...." "Di qual calice parli?" le chiesi spaventata, e col presentimento di qualche nuova sventura. "Ti dico che mia madre tarda a tornare, e vorrei conoscerne il perchè." "Inutilmente l'aspetti." "Perchè?" "Tua madre è già partita alla volta di Reggio." Se la portinaia non mi avesse sostenuta pel busto, sarei caduta in terra. Per lunga pezza restai pietrificata. Ben sapeva io che la madre doveva lasciarmi, ma perchè mai partiva l'indomani della mia chiusura? perchè partiva senza avvertirmene? I miei nervi, scossi già di troppo da tanti dispiaceri, non poterono resistere a quest'ultimo colpo. Fui assalita da convulsioni. Quand'ebbi ricuperati i sensi e riaperti gli occhi, mi vidi circondata da uno stuolo di monache, di converse, di educande, tutte straniere a me, tutte intente a pascere l'ozio, la curiosità, l'apatia, proprie alla loro condizione, nello spettacolo del mio abbattimento. Chi bisbigliava di qua, chi commentava di là, chi dell'altra parte componeva il viso al sarcasmo; non una sola di esse che mi volgesse un accento di sincera carità. Il medico Ronchi, che allora entrava nella porteria, essendo uno dei curanti della comunità, mi fece somministrare pronti rimedi. La febbre, che mi sopravvenne mi confinò in letto per più d'una settimana. Quando il destino è avverso, concatenate vengono le disgrazie. Di lì ad un mese incominciai a, persuadermi ch'era pur troppo reale anche l'abbandono di Domenico. Nutriva, sino allora in quel mio sepolcro la dolce speranza, non solamente di ricevere qualche sua lettera, ma, sì ancora di vederlo ritornato in Napoli, e farsi il mio liberatore. Se uguale al mio era l'affetto suo, se generosi sentimenti albergavano nel petto suo, se la voce dell'umanità gli favellava in cuore, se la reminiscenm della mia verace e costante devozione poteva nell'animo suo, più che il vile interesse, come avrebb'egli tollerato ch'io cadessi vittima, della giuratagli fedeltà? Quanta volte guardai dal coro della chiesa per vedere se vi era! Quanta volte dall'alto dei belvederi con febbrile ansietà slanciai lo sguardo in cerca di lui lungo le vie circonvicine! Spesso, delusa dalle sembianze, dall'andatura, dal vestiario di chi parevami che gli somigliasse, mi sentii in procinto di svenire, credendo che giunto fosse il momento del mio riscatto. Ma, ohimè! nè egli direttamente m'indirizzava due linee, nè mia madre nelle sue lettere mi faceva motto di lui. Vedeva di tratto in tratto Giuseppina, ma la presenza di questa diletta sorella, non faceva ogni volta che aumentare le cagioni del mio dolore. L'infiermità alla gamba, provocata, dalla caduta, erasi col cambiamento dello stato dichiarata incurabile, talchè, per muoversi, la misera era costretta di appuntellarsi alle gruccie. Veniva pur talvolta a porgermi pietoso conforto il generale Salluzzi, cui tributo figliale gratitudine. Gli altri parenti, l'amante, gli amici, non si rammentavano più dell'orfana. Sarebbesi detto che già un abisso mi separasse dal mondo intero, a dispetto de' concenti umani, che tuttora echeggiavano teneramente dentro l'animo mio. Se non che, nel mezzo di tanto abbandono, una consolazione sublime rattemprò le mie pene: l'elevazione dello spirito a quel Dio della carità, che volle nascere, vivere e morire, non già per i muti orrori del deserto, per l'inanimata solitudine, ma sibbene per la salute dell'umanità, in civile e vasto consorzio tenuta da una sola ed indivisibile legge di connessione. Una sera di febbraio mi trovai sola sul terrazzo. I raggi del sole morente non isplendevano più che sulla cima del Vesuvio e sulle vette di Castellammare, le cui nevi ripercuotevano un chiarore, che respingeva il progresso dell'oscurità. Regnava, intorno un insolito silenzio; lo schiamazzo del carnevale aveva attirate le genti ne' centri più frequentati della città, per modo che il quartiere di San Lorenzo, ove ergesi il monastero, restava del tutto spopolato. Non giungeva, all'udito mio che l'eco spirante delle popolari esultanze, siccome fragore di mare lontano. Una commozione novella m'invase: all'aria libera sotto l'immensa vôlta del firmamento mi sentii sola, è vero, come prima, ma non isolata. La voce del Signore m'appellava alla contemplazione della sua misericordia. Piegai il ginocchio a terra, giunsi le mani, sollevai al cielo le pupille bagnate di pianto, ed invocai l'aiuto dell'Onnipossente. "E che son io?" esclamai, rialzatami poscia e tergendo le lagrime; "che sono i miei patimenti in confronto a quelli della nazione cui appartengo? Se sotto il doppio giogo della temporale e della spirituale tirannide langue l'Italia intera, pretenderei io, atomo incalcolabile, io sola fra tanti milioni di oppressi, consumar la vita nei contenti e nella prosperità?"

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Esse, concordi in questo disegno, davano la colpa al mio confessore che, a loro dire, non sapeva, persuadermi ad abbracciare la vita claustrale. "No, non è buono per te quel confessore," mi andavano ripetendo; "e la prova patente della sua incapacità fassi vedere nella brevissima durata della sua operazione. Egli ascolta, e non parla; dunque, privo di spontanea attività, si contiene in uno stato di passiva udizione. Ti ha egli, per esempio, significata la diversità che passa fra la vita dei mondani, la cui maggior parte piomba nell'ombre eterne, e quella dei religiosi, che quasi tutti si salvano?" Le monache non si davano pace: questa mi esortava di qua, quella mi catechizzava di là, tutte dal più barbaro vernacolo e dalla più zotica superstizione tiravano argomenti, onde esorcizzare lo spirito maligno che m'ispirava avversione insormontabile per la loro società. Una fra le altre, chiamata Maddalena, la più fanatica, veniva ogni sera nella stanza della zia Lucrezia, coll'intento di convertirmi a tutto costo. Poichè vide anche questa tornati infruttuosi gli assalti sofistici della sua logica, "Vuoi farmi un piacere?" mi disse. "Parla," risposi. "Attendo domani il mio confessore; quel canonico ha la dottrina di san Tommaso d'Aquino e le virtù di san Francesco Caracciolo tuo progenitore. Una conferenza con lui ti strapperebbe certo dall'ostinazione che t'abbrutisce." "Ma, santo Dio! che cosa dovrò dirgli?" "Gli esporrai le ragioni per cui abborrisci lo stato monastico, e udrai le sue risposte." Conoscendo ch'io non aveva intenzione di arrendermi, "Sai tu," soggiunse, "che Iddio, avendoti allontanata dal mondo per farti entrare in questo santo rifugio, ti ha data una prova di bontà, affinchè molte altre donzelle tue pari ne possano profittare? Egli un giorno ti chiederà conto del disprezzo mostrato all'immenso suo benefizio. D'altronde, non è egli meglio purgare la coscienza dagli scrupoli, consigliandoti coi servi di Dio? Almeno, compito quest'ultimo dovere, la Provvidenza non ti biasimerà d'incuria, se persisterai nel tuo proponimento." Cotesti ragionamenti reiterati tutte le sere con crescente incalzare di loquacità, l'atmosfera oppressiva del chiostro, la mia giovanile età, l'ignoranza della pretesca e della monacale impostura, infine l'educazione, che mi rendeva pieghevole ai superiori e cortese con tutti, mi fecero condiscendere alle sue premure. La mattina seguente Maddalena mi conduceva gongolante di gioia dal suo dotto reverendo. L'esultanza e la sollecitudine di quella monaca mi parvero un indizio rassicurante. - Se nelle sue relazioni col prete, mi dissi, vi fosse per avventura alcun che d'equivoco, m'avrebbe ella fatta di sì buon grado compartecipe della sua felicità? - "Non sei curiosa di vedere l'effetto d'un'efficace confessione?" mi domandò essa, qualche momento prima d'introdurmi nel gabinetto. "Curiosa in superlativo grado!" risposi sorridendo. Ed infatti, la situazione mia somigliava a quella d'una sepolta viva, che, ridesta dal letargo, va brancolando intorno alle tenebrose catacombe, ove si vede chiusa, in cerca d'un'eventuale uscita. Il canonico era un uomo di 40 anni, e aveva un aspetto pieno d'espressiva mobilità. Se non era un gesuita, nessuno più di lui sarebbe stato degno di divenirlo. Dopo molti complimenti e riverenze, mi domandò flebilmente il nome, l'età, la condizione, e simili altri particolari. Poi, piegando l'una gamba sull'altra e stropicciandosi le mani, mi disse: "Suppongo, signorina, che abbiate deliberato di farvi monaca." "No, reverendo." "E perchè?" "Perchè la clausura m'opprimerebbe soverchiamente." "Coll'andar del tempo vi abituerete a questa dolce prigionia per modo da non potervene più separare. Non siete dunque entrata di vostro piacere nel convento?" "No; forzata da mia madre." "Ah, forzata dalla mamma! (breve pausa, durante la quale il prete sembrò immerso in profonda meditazione). Ditemi un po', signorina, avete mai fatto all'amore?" "Due volte." "Qual era il vostro fine nell'amoreggiare?" "Sposare l'oggetto amato." "Questo, e null'altro? Vogliate aprirmi senza riserva il vostro cuore." "Non ho avuto per mira che il solo matrimonio." "Avete inviate o ricevute lettere da' vostri amanti?" "Mai." (mi ricordai del viglietto di Domenico) "Avete avuto ambasciate verbali?" "Neppure." (oziose interrogazioni!) "Come dunque hanno avuto termine i vostri amori?" "Sono stata abbandonata dagli amanti." "E la mamma?" "La mamma s'indispettì nel vedermi serbar la fede al secondo amante." "Ecco, figlia mia," sclamò allora, " ecco la differenza che passa fra lo sposo mondano e lo sposo Celeste! Quelli vi hanno abbandonata, benchè li amaste: questi vi ha seguíta, e fedelmente vi seguita, mentre di lui non vi cale, e tuttavia persistete a respingerlo. I primi hanno amareggiato il calice puro della vostra giovinezza: il secondo vuol colmarvi d'ineffabili e sempiterne voluttà. Egli vi apre la sua casa, v'introduce in questa sua famiglia, vi schiude le braccia con tenerezza, ed ansiosamente vi aspetta, per farvi dimenticare nei sublimi conforti dell'amor suo, i dissapori di che gli uomini vi abbeverarono." Continuò per lunga pezza su questa solfa mediocremente edificante. Alfine, io, presa alla mia volta la parola, "È o non è vero," dissi, "che l'uomo è stato creato per l'umanità? Se, come dite, la famiglia di Cristo, fosse questa ristretta comunità, perchè dunque il figlio di Dio sarebbesi fatto crocifiggere a salvamento dell'intero genere umano? Dice la santa Scrittura che, per compiacersi nella solitudine, fa d'uopo essere o Dio, o bruto: Quis solitudinem delectatur, aut Deus, aut fera est. Ora, reverendo mio, io non sono nè all'altezza della Divinità, nè nella condizione delle belve: amo il mondo, e mi compiaccio nella società dei miei simili. Nè credo, d'altronde, che voi stesso abbiate in orrore l'umano consorzio; poichè, se così fosse, non sareste pur voi monaco confesso almeno, se non anacoreta della Tebaide?" "A questi quesiti," disse il canonico, alzandosi e pigliando il cappello "darò risposta alla prossima nostra conferenza. Mi promettete di ritornare un'altra volta da me?" Dovetti acconsentire. Era d'altronde vaga di sperimentare la famigerata persuasiva di quell'alto ingegno. Di lì a due giorni mi richiamò a sè per annunziarmi avergli il Crocifisso ispirato nelle sue preci, ch'egli stesso, e non altri, dovea confessarmi. M'intimava pertanto d'indirizzare al mio vecchio confessore una lettera nelle quale, ringraziandolo della carità (nel glossario monastico far la carità significa confessare), gli avessi dichiarato di essermene provveduta d'un altro confessore. Mostrai qualche renitenza a tale intimazione; ma il canonico, dicendo la virtù più cara a Dio essere l'ubbidienza al Crocifisso, mi vietò l'uscita, prima d'avergli promesso l'invio della lettera propostami, non sì tosto salita sulla mia stanza. - La lettera fu scritta, benchè con mio dolore. Ora, se il cambiamento di confessore spiacque a me, cagione di non minor dispetto fu a suor Maddalena, la quale, se bramava di far spiccare la facondia portentosa del suo confessore, era peraltro ben lungi dall'immaginare che l'atto della mia conversione avrebbe richiesto più d'una conferenza. La incontrai, e nel guardarmi divenne livida in volto, inurbanamente mi voltò le spalle, e, borbottando non so che, andossene via. "È curiosa davvero Maddalena!" venne a dirmi un'altra monaca, che pur dicevasi amica di costei. "Non è essa stessa che ti ha condotta forzatamente dal suo confessore? Eppure adesso piange e si dispera per gelosia." "Gelosia!" esclamai io, sbruffando dalle risa.... "gelosia, di che?" "Il canonico dal canto suo mostra meno affetto per lei che per te, e tu del resto, congedato il primo confessore, divieni la penitente del canonico." Ne rimasi stupefatta. Non potendo più richiamare il vecchio prete, dopo la lettera speditagli, ne scrissi un'altra al canonico, ove gli diceva che, non avendo intenzione di procurarmi nemiche nel chiostro, avrei cercato d'un altro confessore. Un'ora dopo io udiva, sei tócchi alla campana della porteria: era la mia chiamata. - Trovai il canonico nel parlatorio. "Mi avete mandato una lettera di licenziamento?" Disse ridendo nel vedermi. "Sì," risposi; "non sarò per certo motivo di discordia nel chiostro durante il breve tempo che vi soggiornerò; e come non sono scortese con nessuno, così, non darò ad altri il diritto di usarmi degli sgarbi." "Per me, tanto," soggiunse egli, sempre ridendo, "non farò conto alcuno della vostra lettera, anzi per affrancarvi da ogni soggetto di molestía, annunzierò oggi stesso a Maddalena che non la voglio confessar più; per tal modo essa non avrà più motivo di esplorare se sento o non sento affetto per voi. Ho il cómpito sacrosanto di condurre all'ovile la pecorella smarrita da Dio consegnatami, e non mi è lecito abbandonarvi." "Non so," risposi con sostenutezza, "come la gelosia possa insinuarsi nel sacramento della confessione, nè a me tocca di esaminare la causa di sì inqualificabile associamento. Devo però dirvi, che se lascerete Maddalena, mi susciterete una persecuzione più forte. Fatemi questo favore: tenete lei, e lasciate me! Da questo punto vi dichiaro che al confessionale non mi ritroverete più." "Allora," disse, deponendo l'ilarità, ed assumendo un tuono contenuto, "allora impiegherò un altro spediente." Ciò detto, se ne partì, lasciandomi nel dubbio di quello che proponevasi di fare. Avendo frattanto deliberate di non cedere sopra questo argomento, pregai mia zia la badessa di trovarmi un altro confessore badando ch'egli fosse un vecchio, e che non avesse altra penitente nel monastero. Ella ne prese l'incarico, tanto più ch'era pur essa lei dispiacente di vedermi involontariamente caduta in quell'impiccio. Verso le tre intesi nel corridoio un gran fracasso. Mi affacciai dalla loggia, e vidi Maddalena nel mezzo d'un crocchio di monache e di converse, nell'atto di giungere e presentare alle sue compagne un foglio piegato in forma di lettera. Parlavano, o per meglio dire strillavano tutte insieme, con gesticolazioni esagerate, che ricordavano la scena delle streghe di Macbeth. Un affare di confessore per le monache è affar di Stato, è un casus belli. Compresi non poter esser altro che una lettera del canonico, e dal fondo del cuore maledissi il momento che m'avevano portata in quel santo pandemonio. Il fracasso andava crescendo; era in piedi tutta quanta la comunità: dalle confuse strida della rivolta non distinguevasi che una sola parola, mille volte ripetuta, la parola canonico. Intanto la vecchia badessa appoggiata ad un'educanda accorreva al tafferuglio, e cercava di calmar Maddalena, promettendo che sua nipote non si sarebbe più confessata dal canonico, e ch'essa stessa m'avrebbe trovato un altro confessore. "Me ne date la vostra parola?" gridò Maddalena da spiritata, mentre settanta bocche le stavano chiuse d'intorno in atto di silenziosa aspettativa. "Tenetemi per impegnata," soggiunse la badessa. "Brava! brava!" esclamarono in coro le monache. "Era insopportabile, era troppo doloroso vederlo chiuso nel confessionale con un'altra." E congratulandosi con Maddalena della rivendicata proprietà, le andavano dicendo: "Giustizia è fatta! stattene omai tranquilla!" Da quella scene singolare, che non sarà mai cancellata dalla mia memoria, incominciai a convincermi che la premura delle penitenti pei confessori e quella dei confessori per le penitenti aveva la sua ragione d'essere in un certo tale sentimento, non troppo conforme al precetto evangelico, ama il tuo prossimo come te stesso. Ma non doveva la scena terminate lì. Stava scritto che l'argomento della mia confessione trovasse la soluzione presso eminenti autorità della Chiesa apostolica romana. Il mattino seguente fui chiamata al parlatorio: indovinate chi cercava di me! Monsignor vicario; - che voleva da me? Voleva dirmi che il canonico era stato da lui: avevagli raccontato il fatto successo fra Maddalena e me; ed egli, nella sua qualità di capo della Chiesa napoletana, aveva deliberato dovere rimanere a me, e non a Maddalena, la contesa confessione. A completare la commedia, non ci mancava che l'autorità del papa. Non valsero nè le mie proteste nè il mio pianto. La zia mi sgridò, affermando, che al vicario bisognava ubbidire senza replica. Salii piangendo nella mia stanza, ove scrissi una lunga lettera a mia madre, raccontandole tutto, e rammentandole, che, prossimo essendo a spirare il secondo mese, io desiderava di lasciare il convento al più presto possibile. Troppo lungo sarebbe il racconto delle mie sofferenze, per causa di questa ridicola gelosia. Ebbe termine soltanto le persecuzione, allorchè Maddalena trovò un altro confessore, e dimenticò il primo. Avendo intitolato questo capitolo Scene e Costumi, riunirò in esso tutto ciò che relativamente alle monache ed ai preti ho io stessa veduto nei quattro monasteri da me abitati, o che mi giunse all'orecchio di altri chiostri napoletani; come pur farò laddove discorrerò de' tre voti d'umiltà, di castità e di povertà delle monache. Seguirò questo metodo d'esposizione, per non aver a ritornare più volte sullo stesso argomento, troncando il racconto. La frenetica passione delle monache pei preti e pei monaci supera ogni credere. Ciò che specialmente le rende affezionate al loro carcere si è l'illimitata libertà che godono di vedere e di scrivere alle persone amate. Questa libertà le localizza, le incorpora, le identifica al chiostro sì fortemente, che sono infelici allorchè per causa di grave malattia, o prima di prendere il velo, debbono passare qualche mese in seno alla loro famiglia, accanto del padre, della madre, dei fratelli, non essendo presumibile che questi parenti permettano ad una giovinetta di passare più ore al giorno in misteriosi colloqui con un prete od un monaco, e di mantenere seco lui continua corrispondenza. Havvi delle Eloise che più ore spendono nel confessionale in soave trattenimento col loro Abelardo in sottana. - Peccato che non capiscano un iota di latino! Altre, avendolo vecchio, hanno di soprassello un direttore spirituale con cui si trattengono lungo tempo da solo a sola nel parlatorio. Quando questo non basta, trovano il mezzo d'una malattia simulata, per averselo più ore da solo nella propria stanza. V'ha delle monache che, senza l'intervento del confessore, non ardiscono fare neppure la lista del bucato. Una di queste penitenti vedeva il suo tre volte al giorno; la mattina le portava le pietanze pel pranzo, più tardi, venendo egli a dir messa in chiesa, la penitente lo serviva di biscottini e di caffè, e il dopo pranzo poi ritrattenevasi con lui fino ad ora tarda, per fare (diceva essa) il conto di quanto aveva speso la mattina. Non contenti, del resto, di tante conferenze, si scriveano due volte negl'intervalli delle visite. Un'altra monaca aveva amato un prete fin dal tempo che questi serviva in chiesa da chierico. Pervenuto al sacerdozio, fu fatto sacrestano; ma da' suoi compagni denunziata la tresca che da diversi anni manteneva colla monaca, gli fu dai superiori proibito finanche di passare per la via dove il monastero era posto. La monaca ebbe la romanzesca virtù di restargli fedele per sedici anni, nel corso dei quali si scrissero ogni giorno, si scambiarono regali, e di tratto in tratto si videro di soppiatto al parlatorio. Cambiato finalmente il personale dei superiori, ottenne la monaca, benchè ormai giunta all'età matura, di averselo per confessore. Allora, riconoscente alla Santa sua protettrice della grazia ricevuta, le fece dono di numerose candele e di fiori, dispensò confetti a tutta la comunità, siccome in occasione di sposalizio, gradì le felicitazioni delle compagne, non ricusando anche qualche madrigaletto congratulatorio, e finalmente costruì a proprie spese un confessionale distinto, onde aversi le pratiche spirituali libere a tutte le ore della giornata. Un personaggio, altamente collocato, fece un mattino chiamare la badessa del monastero, e consegnolle una lettera, da lui stesso trovata per la via. Quel foglio, mandato da una delle spose di Cristo al suo prete, era stato smarrito dalla domestica. Le espressioni materiali che in esso leggevansi avevano scandalizzata la coscienza del gentiluomo. Una cortigiana avrebbe fatto uso di più modeste frasi. Un giovedì santo, a notte avanzata, trovandomi nel coro, vidi svolazzare, girando per aria, un foglio, che andò a cadere ai piedi del santo sepolcro: era il viglietto che un’educanda del luogo indirizzava al chierico. Una giovine novizia, non avendo di che fare le spese della professione, pensò di ricorrere alla carità d'un confessore vecchio, ma ricchissimo, coll'intenzione di fargli delle moine, sino a che le avesse fornito il denaro occorrente, ma colla riserva però di surrogargliene poscia un giovine, con cui già trovavasi in recondita intrinsechezza. Il vecchio era di cuor tenero, ma circospetto per propria esperienza; le presentò molti regaletti, ma fu restío a somministrarle il denaro richiesto, essendosi avveduto ch'essa confabulava nel parlatorio con un rivale più giovine di lui. La novizia, indispettita, congedò allora lo spilorcio vecchio, e si prese per confessore il prediletto; perlochè, montato in furia e consumato da gelosia il ripudiato, appostossi presso la porta della chiesa il primo giorno che andò il rivale a confessare la sua penitente: "Prosit," vedendolo, gli disse col fiele in bocca. "Vobis," rispose l'altro sogghignando. Di là a poco il vecchio morì di crepacuore, ed il giovine, perchè povero, fu supplantato da un altro confessore, di meno fresca età, ma fratello d'un ricco funzionario. Essendo inferma una monaca, il prete la confessò nella cella. Indi a non molto l'ammalata si trovò in uno stato interessante, ragion per cui il medico, dichiaratala idropica, la fece uscire del monastero. Una giovanetta educanda scendeva tutte le notti al luogo delle sepolture, ove da un finestrino, che comunicava colla sagrestia, entrava in colloquio con un pretino della chiesa. Consumata dall'amorosa impazienza, non era in quelle escursioni impedita nè dal cattivo tempo nè dal timore d'essere scoperta. Udì una volta un forte strepito vicino a sè: nel fitto buio che la circondava credette scorgere un vampiro nell'atto di aggraticciarsi ai suoi piedi. Erano i topi. Ne fu talmente percossa di spavento, che di là a pochi mesi morì di consunzione. I confessori di comunità sono scelti dai superiori per un triennio, ad uso di quelle monache e di quelle converse che non ne hanno uno particolare, per essere pervenute ad un'età disadatta agli intrighi amorosi. Ora, un confessore di comunità aveva prima della sua nomina una penitente giovane. Ogni volta che veniva per assistere una moribonda, e quindi pernottava nel monastero, la giovane monaca, scavalcando le logge che separavano la sua dalla stanza del prete, si recava presso il maestro e direttore dell'anima sua. Un'altra fu assalita dal tifo; durante il delirio, altro non fece che inviar baci al confessore, assiso accanto al letto. Egli, coperto di rossore, per la presenza di persone estranee, portava innanzi agli occhi della sua inferma un Crocifisso, lamentevolmente esclamando: "Poveretta, bacia il suo sposo!" Sotto vincolo di segretezza mi confidò un'educanda tanto bella di forme e candida di costumi, quanto nobilissima di prosapia, d'aver avuto nel confessionale, e per mano del suo confessore, una lettura (come diceva) interessantissima, perchè relativa allo stato monastico. Spiegai il desiderio di saperne il titolo, ed ella, per farmi vedere lo stesso libro, anticipò la precauzione di mettere all'uscio il chiavistello. Era la Monaca di Didérot, libro, come tutti sanno, pieno di disgustose laidezze, e però nelle mani di un'innocente giovinetta più che libro al mondo perniciosissimo. Dalla conversazione dell'educanda avendo raccapezzato di che in quello scritto trattavasi, le suggerii d'interromperne la lettura, e restituire immantinente lo sconcio prestito. Ma qual fu la mia sorpresa nell'udire dalla tenera zittella non esser essa nuova in letture di simile natura! Per favore del confessore medesimo aveva anteriormente divorato, e per ben quattro volte, un altro libro scandaloso, la Cronaca del monastero di Sant’Arcangelo a Bajano: libro allora proibito dalla polizia borbonica. Io stessa ricevetti da un monaco impertinente, lettera in cui mi significava, che non appena mi aveva, veduta, concepita aveva la dolcissima speranza di divenir mio confessore. Un attillato vagheggino, un muschiato bellimbusto non avrebbe impiegato frasi più melodrammatiche, per domandare se nutrire o soffocar doveva la detta speranza. Un prete (che del resto godeva presso tutti una riputazione d'integerrimo sacerdote), ogniqual volta mi vedeva passare dal parlatorio, soleva farmi: "Ps, cara, vien qua...! Ps, ps, vien qua!" La parola cara in bocca di un prete mi moveva non meno nausea, che raccapriccio. Un prete infine, il più fastidioso di tutti per l'ostinatissima sua assiduità, voleva esser amato da me ad ogni costo. Non ha immagini la poesia profana, non sofismi la rettorica, non scaltre interpretazioni la parola di Dio, ch'egli non abbia adoperate per convertirmi alle sue voglie. Dare un saggio succinto della sua dialettica: "Bella figliuola," mi disse un dì, "sai tu quello che veramente sia Iddio?" "È il Creatore dell’universo," risposi io seccamente. "No, no, no, no! non basta questo," riprese egli, ridendosi della mia ignoranza. "Dio è amore, ma amore astratto, che riceve la sua incarnazione nel mutuo affetto di due cuori che s'idolatrano. Tu, adunque, non puoi nè devi amare Iddio nell'esistenza astratta: devi altresì amarlo nella sua incarnazione, ossia nell'esclusivo amore di un uomo che ti adori, quod Deus est amor.... nec colitur, nisi amanda." "Dunque, nell'atto di adorare il proprio amante, la donna nubile adorerebbe la stessa Divinità!" diss'io. "Sicuramente!" ripetè dieci volte il prete, ripigliando coraggio della mia conclusione, e lieto pel felice effetto del suo catechismo. "In tal caso," ripresi io prestamente, "mi sceglierei per amante un uomo del mondo, piuttosto che un prete...." "Dio ti liberi! figlia mia: Dio ti liberi da quella peste!" soggiunse inorridito il mio interlocutore...... "Amare un uomo del mondo, un profano, un empio, un miscredente, un infedele! Ma, tu andresti inevitabilmente all'inferno! L'amore del sacerdote è amore sacro; quello del profano è vituperio; la fede del prete emana dalla stessa fede prestata alla santa Chiesa: quella, del profano è menzognera, quanto è falsa la vanità del secolo; il prete purifica giornalmente l'affetto suo nella comunione della santissima sostanza: l'uomo del mondo (seppur sente amore) spazza dì e notte coll'amor suo tutti i fangosi ruscelli del trivio." "Ma tanto il cuore, che la coscienza mia rifuggono dal prete," rispos'io. "Ebbene, se non volete amarmi, perchè sono vostro confessore, avrò il mezzo di togliervene gli scrupoli. Alle nostre amorose espansioni premetteremo sempre il nome di Gesù Cristo; così l'amore nostro sarà un'offerta gratissima al Signore, e monterà pregno di profumi al Cielo, siccome fumo d'incenso nel santuario. Ditemi, per esempio: - Vi amo in Gesù Cristo; - questa notte ho sognato di voi, in Gesù Cristo: avrete la coscienza tranquillissima, poichè, così facendo, santificherete qualunque trasporto." Talune circostanze, non indicate qui che alla sfuggita, m'obbligavano a ritrovarmi in frequente contatto con questo prete, di cui taccio il nome. Se non che, ad un monaco, rispettabile per l'età e per la morale, avendo io domandato che mai significasse quel premettere il nome di Gesiù Cristo alle amorose apostrofi, "È," mi disse, "una setta orrenda, e sfortunatamente troppo estesa, la quale, abusando del nome di Cristo, si fa lecite le maggiori nefandità."

Pagina 77

Documenti umani

244061
Federico De Roberto 1 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Abbracciare un sistema, in arte, come in politica, importa negare certe cose e crederne delle altre, rinunziare a certe categorie di emozioni e di opinioni, non vedere più che in un modo determinato. Realismo e idealismo sono al tempo stesso delle dottrine etiche e dei metodi estetici, sistemi filosofici e partiti artistici. Un romanzo idealista nell'ispirazione e naturalista nell'esecuzione - o viceversa - non è possibile: Zola ci si è provato, ed ha fatto il Sogno.... Da un'altra parte, il pubblica generalizza troppo facilmente. Se in un libro si descrivono soltanto delle miserie, delle vergogne, delle crudità, che ragione ha la gente di rimproverare all'autore: "Voi rinnegate le nobiltà, le delicatezze, gli eroismi?" Se un altro libro è tutto pieno di queste cose che mancano all'altro, c'è ragione di pigliarsela con l'autore perchè spazia sempre nell'alto? A volere che uno scrittore dia un'adeguata imagine del mondo materiale e morale, bisognerebbe dargli, per lo meno, un po'di tempo! "Dio mio! - esclamò una volta Luigi Capuana - non si può mettere l'universo in sette novelle!..." Supponiamo che un pittore faccia un quadro rappresentante una tempesta; lo accuserete voi di negare il sole e l'azzurro? Tutto ciò che potrete domandare è che egli dipinga bene il suo quadro. Quest'altra volta egli farà un mare tranquillo... se non farà un'altra tempesta, per disposizione naturale dello spirito, per una preferenza tecnica, per una ragione qualunque che egli potrebbe anche non dire.... Discorrendo parecchi anni or sono col Capuana di queste cose - portavo allora intatta la mia verginità letteraria - pensando alla facilità con cui si formano i giudizii di questo genere, io feci all'amico mio una proposta. "Vi incolpano di non sapervi aggirare se non nei bassi fondi sociali? di non avere delicatezza, fantasia, simpatia? Scrivi un romanzo idealista, in cui siano soltanto passioni esaltate, caratteri nobili, azioni generose; in cui ritrarrai un ambiente elevato, i cui personaggi porteranno dei titoli sonori o rappresenteranno l'aristocrazia dell'ingegno; in cui non si sentirà l'odore del popolo zoliano, ma quello degli estratti doppii alla moda.... Scrivi un romanzo romantico, secondo vuole lo stile, dimostra come sia molto più facile che non lo scriverne uno naturalista; è probabile che, dopo, ti lascieranno in pace!" L'idea piacque al Capuana, e con la felice versatilità dell'ingegno che gli ha permesso di passare da Giacinta a C'era una volta, dallo Spiritismo ai Semiritmi, egli avrebbe sicuramente fatto del Feuillet da confondersi col genuino; la storia delle sue contraffazioni avrebbe contato un gustoso capitolo di più.... Altre cure gl'impedirono di porre ad effetto questo disegno; io lo ricordai quindi naturalmente dopo la pubblicazione del mio libro, allorchè accuse simili a quelle fatte al Capuana si fecero a me; allorchà Ella, dimostrandomi l'alta stima - furono sue parole - in cui teneva il mio ingegno, mi disse che avrebbe voluto vederlo impiegato in modo migliore. Ecco come è nata la prima idea di quei Documenti umani che le ho mandati. Come Ella avrà visto, la prima novellina dimostra le mie intenzioni. Documenti umani si sono chiamati i fatti che comprovano le realità miserabili e lamentevoli? Chiamiamo Documenti umani un libro di novelle ispirate alle più alte idealità. Forse i lettori non mi accuseranno più di rinnegarle, forse il signor Treves mi stamperà.... Non le nascondo - sarebbe inutile, Ella se ne sarà accorta da sè - che in quei racconti io ho un poco qua e là calcata la mano, con un partito preso di distinzione, di lindura, di levigatezza quand même. Vi è in questo un movimento di reazione giustificabile, se non giusta, dinanzi alle accuse che mi si fecero. Abyssus abyssum invocat, e le esagerazioni in un senso provocano naturalmente le esagerazioni in un senso opposto. Se vi sentirete rimproverare da ogni parte di appestare i vostri vicini con l'odore dell'aglio, sarete molto probabilmente tentati di procurargli un'accapacciatura a furia di opoponax.... Quando la nuda semplicità della Nedda sollevò, in un certo mondo letterario, quegli scandali che Ella conosce, Giovanni Verga ebbe la tentazione di una solenne canzonatura: un rifacimento arcadico della sua novella, nel quale il famoso e scandaloso raglio dell'asino doveva essere sostituito dai gorgheggi dell'usignuolo.... Questo non vuol già dire che l'autore dei Malavoglia non creda all'esistenza dell'usignolo; come le esagerazioni alle quali io mi sono lasciato andare non significano che io non creda all'esistenza dei sentimenti raffinati e dei caratteri scelti che ho rappresentati. Io credo che tutto possa essere - ma credo del pari che l'artista, in mezzo all'infinita varietà dei fatti umani, abbia piena ed intera la libertà della scelta e della interpretazione. Scegliere fra questi fatti quelli che rappresentano il lato seducente dell'umanità, è certo accaparrarsi un più largo consenso; se, dunque, molti artisti vi rinunziano, per appigliarsi a quegli altri fatti che rappresentano il rovescio della medaglia, più che il biasimo non crede Ella che meritino una lode per il coscienzioso disinteressamento di cui dànno prova? Ma, dirà Ella, perchè scegliere l'altro lato?... Arrivati a questo punto, le teoriche non hanno più che farci: la scelta, il modo di vedere, sono quistioni di temperamento, di gusti, di educazione, di disposizioni permanenti o transitorie, di attitudini speciali: tutti elementi personali, che non è possibile, e si potrebbe fino a un certo punto anche aggiungere non è lecito, di rintracciare. Se una dimostrazione filosofica o gli ammaestramenti di una esperienza mi inducono a credere che i sentimenti più alti e più rari si risolvono negl'istinti primitivi della bestia, io farò oggetto della mia rappresentazione artistica dei fatti dai quali questo concetto scaturisca. Se la mia esperienza mi avrà detto invece che gl'istinti meglio radicati sono domati da qualcosa di più potente e di più puro, io vedrò le cose in tutt'altro modo, la mia scelta sarà diversa. E la scelta è poi libera: - meglio: c'è vera scelta, o sotto l'illusione della libertà si nasconde una rigorosa predeterminazione?... Non passiamo i confini del campo letterario. Se i soggetti presi a trattare dai naturalisti non sono di quelli che più piacciono alla massa dei lettori, io vorrei dimostrare la ragione tecnica di questo fatto. Naturalista è chi vuol riuscire naturale, cioè chi cerca di dare alla finzione artistica i caratteri del vero. Ora, non tutti gli oggetti veri sono egualmente caratteristici, riconoscibili e starei per dire individualizzabili. È quindi evidente che lo scrittore naturalista darà la preferenza a quelli che, per avere dei tratti più salienti, un aspetto più distinto, più accidentato, assolutamente proprio, gli forniscono il mezzo di conseguire il suo intento. Ora, la virtù e la salute sono più uniformi, più semplici, più monotone del vizio e della malattia; questi offrono una più grande varietà ed una più grande particolarità di manifestazioni; e lo scrittore naturalista in traccia di fatti significativi, ne trova, negli ambienti corrotti, nei tipi degenerati, nei casi patologici, una più ricca messe. Questa è pure la ragione perchè, in una gran parte di casi, il mondo dei naturalisti è quello della povera gente. I lettori domanderebbero di assistere a scende della vita elegante, di vedere in azione delle grandi dame e dei gran signori; le descrizioni di catapecchie dove si aggirano dei miserabili in cenci sono, a priori, condannate. Lasciamo stare se questa antipatia è giusta o pur no, se essa risponde ai principii ispiratori della morale cristiana e dell'ideale democratico.... È così, e basta. Ma sa gli scrittori naturalisti non contentano questi desiderii, egli è che a misura che si scende nella gerarchia sociale, le differenze si accrescono e i tipi si determinano più nettamente. Un contadino, un operaio, un marinaio, un minatore hanno dei caratteri esclusivamente proprii, specifici, nella fisonomia, nell'abito, nel modo di fare e di parlare, da renderli riconoscibili a cento miglia lontano; la folla elegante che popola un salone è più uniforme, offre meno presa all'osservazione. Ella mi dirà che le preferenze dei naturalisti si risolvono così nella ricerca di ciò che loro riesce più agevole; nè io le darò torto. Fare della realtà elegante - l'espressione è di Edmondo de Goncourt, ecco l'impresa che si vorrebbe tentata. La quistione è, però, che molto probabilmente l'eleganza di un naturalista procurerebbe dei disinganni agli eleganti di professione. Non bisogna dimenticare che il fatto rettorico è connesso al fatto psicologico, che forma e contenuto s'impongono vicendevolmente; così, il naturalista avvezzo a veder brutto, troverebbe delle immagini brutte, per ritrarre le cose belle, come quell'eroe di Karl Huysmans agli occhi del quale i fiori più smaglianti si paragonavano naturalmente a piaghe, ad escrescenze, ad erosioni patologiche.... Tornando all'ordine di idee interrotto dianzi, un'altra accusa fatta ai nostri novellieri naturalisti è quella del regionalismo. "Voi mi date dei marinai di Aci-Trezza, dei mulattieri di Licodia, dei contadini di Viagrande: che geografia è cotesta? Come volete che io m'interessi ad una gente che non so neppure dove stia di casa?" La quistione è che se voi non potete interessarvi a questi ignorati, lo scrittore non può conseguire una fedeltà di rappresentazione se non mettendosi innanzi dei modelli; ora, se io sono vissuto in Sicilia, non posso pigliare i miei modelli nel Friuli! Ed una quistione strettamente connessa con questa, è l'altra dello stile che i novellieri regionalisti sono costretti a foggiarsi per la necessità di quel che si potrebbe chiamare il colore locale della rappresentazione artistica. I popolani di Sicilia parlano un loro particolare dialetto; quando io li introduco in un'opera d'arte ho due partiti dinanzi a me: il primo, che è l'estremo della realtà, consiste nel riprodurre tal'e quale il dialetto - come hanno tentato per le loro regioni il D'Annunzio, lo Scarfoglio, il Lemonnier - il secondo, che è l'estremo della convenzione, consistente nel farli parlare in lingua, con accento toscano e con sapore classico. Ora, se nel primo caso io rischio soltanto di non farmi comprendere dai lettori che ignorano il dialetto, nel secondo rischio addirittura di farli ridere tutti. Fra i due partiti estremi, io tento, con l'esempio del Verga, una conciliazione; sul canovaccio della lingua conduco il ricamo dialettale, arrischio qua e là dei solecismi, capovolgo dei periodi, traduco qualche volta alla lettera, piglio di peso dei modi di dire, cito dei proverbii, pur di conseguire questo benedetto colore locale non solo nel dialogo, ma nella descrizione e nella narrazione ancora. Per venire ai presenti Documenti umani - Ella troverà che ho divagato un po' troppo - questa che io chiamerei localizzazione artistica vi manca. In alcuni racconti non è neppur detto il luogo dove l'azione si svolge; là dove è detto, potrebbe essere spostato impunemente. È naturale: se si vuole un modello che convenga a tutti, bisognerà sacrificare la precisione. E vede come la differenza dei punti di partenza si trascina dietro la differenza dei processi? Nelle novelle realiste della Sorte io dovevo descrivere delle varietà di costumi: i miei personaggi erano diversi, necessarii, tipici, l'osservazione esteriore era minuziosa; in queste novelle ideali ho dovuto notare delle gradazioni di sentimenti: i personaggi sono dei prestanome, si rassomigliano un po' tutti; l'analisi psicologica soverchia ogni cosa. L'analisi psicologica! Se ne ragionassimo un poco? In che cosa consiste essa? Essa consiste nell'esposizione di tutto ciò che passa per la testa ai personaggi, delle loro sensazioni, dei loro sentimenti e delle loro volizioni. Dato un personaggio con un certo carattere e messo in presenza di una certa situazione, l'analisi psicologica consiste nel rintracciare tutti i movimenti interiori di questo personaggio, come egli apprezzi questa situazione, che cosa essa gli suggerisca, quali partiti gli si presentino per uscirne, e per quale trafila di impulsi e di ragionamenti egli si apprenda all'uno piuttosto che all'altro. Alcuni scrittori eccellono in questo genere: Paolo Bourget specialmente, pel cui ingegno io professo una grandissima stima. Quando però si è letta una di queste pagine così precise, in cui l'azione del personaggio è legittimata da cento motivi uno più sottile e più profondo dell'altro, vien fatto istintivamente di domandare all'autore: "Come li avete saputi? Il vostro personaggio vi ha egli raccontato tutto ciò ch'egli ha provato, sentito, ricordato, previsto, trascurato, ponderato? Se no, come avete fatto ad entrare nel suo cervello ed a leggervi quel che vi si passava?..." Victor Hugo, nell' Homme qui rit, ha un'epica descrizione del naufragio di una nave di Baschi, nessuno dei quali però si salva. Ragazzo, appena finito di leggerla, io domandavo a chi ne sapeva più di me: "O come ha fatto Victor Hugo a risaper tutto quel che è avvenuto a bordo della Mattutina dal momento della partenza fino al naufragio, se nessuno è sopravvissuto per dargliene la notizia e se nessun altro poteva esser presente, in mezzo al mare?" E quelli che ne sapevano più di me, mi rispondevano: "È tutta forza di fantasia e di imaginazione!" Ora, l'analisi psicologica è anch'essa il prodotto di un particolar genere d'imaginazione: l'imaginazione degli stati d'animo. In un sol caso essa può essere il prodotto reale dell'osservazione immediata, ed è quando lo scrittore fa argomento della propria analisi sè stesso. Mettendosi direttamente in iscena, o prestando la propria coscienza ad uno dei suoi attori, egli potrà sviscerare gli stati d'animo più complessi, più delicati e più rari che nel campo di quella coscienza e sotto la propria diretta percezione si svolgono. Ma in tutti gli altri casi, quando studia dei caratteri dissimili dal suo, e specialmente in tutta la grande categoria dei caratteri femminili, ciò che cade sotto la sua diretta osservaiione non sono che gli atti, le parole, i gesti. Ora, se si riflette che non solamente il numero dei gesti, delle parole e degli atti non è proporzionato al numero infinito dei pensieri - che, per dir meglio, non hanno numero, essendo una successione continua ed omogenea - ma che i medesimi atti, le medesime parole, i medesimi gesti servono a diversissimi uomini, per diversissimi motivi in diversissime circostanze, si vede quanta poco probabilità di successo vi sia nel desumere dagli indizii esteriori il processo latente che si svolge nelle singole coscienze. Se si riflette ancora che noi stessi non ci sappiamo spesso dar conto di noi stessi, l'impresa apparisce in tutta la sua ingrata difficoltà. Lo ricostruzioni psicologiche dei romanzieri, pertanto, sembrano poggiate sopra una base poco solida e risultanti da induzioni più o meno possibili; e, in fondo, anche quando lo scrittore non parla di sè stesso, la sua analisi altruistica si risolve nel prevedere simpaticamente ciò che, nella pelle dei suoi personaggi, egli stesso proverebbe e penserebbe. I realisti, invece, presumendo di dar l'impressione del reale, fanno agire i loro personaggi, riproducono ciò che in essi è apparente, lasciando ai lettori l'imaginare quel che vi si passa internamente; tal'e quale come nella realtà, in cui noi vediamo degli uomini e delle donne che parlano e che si muovono, e non delle anime messe a nudo e starei per dire scorticate. Cercando di fare intravedere le modificazioni interiori dai segni esterni, rappresentando una situazione d'animo con un gesto o con una parola che la riassumono, si può ben dire che i realisti, invece dell'analisi psicologica, procedono per mezzo della sintesi fisiologica. Molte di queste cose, in forma diversa, sono state recentemente dette da Guy de Maupassant, con l'autorità che gli viene dalla forte produzione, nella prefazione di Pierre et Jean. Ma il Maupassant, pure ammettendo la legittimità dei varii metodi, tiene troppo al suo e lascia intravedere assai chiaramente le sue preferenze. Per essere veramente disinteressati, dopo la critica dell'analisi psicologica, bisognerebbe farne la difesa. Un analista, infatti, potrebbe rispondere: "Ciò che preme sopra tutto è l'anima umana. Noi non possiamo leggervi dentro, ma vale per noi infinitamente di più la ricostruzione verosimile di uno stato psicologico, che tutti i fatti e gli atti più veri. Il fatto, la parola, il segno esteriore non sono che dei momenti; il pensiero, che non è, ma diviene continuamente, è quello che caratterizza l'individuo e che importa conoscere. Ciò è tanto vero, che le azioni possono essere, e sono spesso, contrarie alle intenzioni: sono questi contrasti quelli che vanno studiati. Del resto, se voi presumete che i vostri lettori possano ricostrurre i processi intimi dagli indizii che voi ne date, noi non facciamo che metterci al posto dei vostri lettori, e scriviamo le nostre ricostruzioni. Del resto ancora, se è vero che ciascun uomo ha una psiche diversa, è ancor vero che la natura umana è una, ha un fondo uniforme, e che le differenze da uomo ad uomo non sono determinate se non dal diverso sviluppo che certe facoltà e certe tendenze prendono in seguito a circostanze speciali e riconoscibili. Nulla, in tutto ciò, che precluda la via all'analisi degli stati d'animo più disparati." E non sarebbero neanche necessarie tante dimostrazioni: basterebbe che gli analisti dicessero: "Noi siamo fatti in modo da analizzare!" Stendhal, che ha un'imaginazione psicologica, scrive la Certosa e Armanzia; Flaubert, che ne ha una tutta fisica, scrive Salambô e la Tentazione di Sant'Antonio.... Siamo sempre lì: i metodi sono molteplici, l'arte è una. Chi vuol rappresentare degli stati d'animo deve naturalmente ricorrere all'analisi psicologica; l'analisi psicologica essendo la narrazione del pensiero, ne deriva come nuova conseguenza che lo scrittore è costretto ad adoperare una forma tutta personale. Altra grossa quistione: Obbiettivismo, subbiettivismo; accademia forse!... Se la lasciassimo lì? Ella imagina già quel che io vorrei dire: si possono conseguire degli effetti di prim'ordine coll'un metodo e con l'altro, nè i metodi sono arbitrarii: lo psicologo sarà sempre subbiettivo; il naturalista, volendo limitarsi a riprodurre quel che vede, sarà necessariamente impersonale. Riassumendo perciò questo lungo discorso - era proprio tempo - se io potei prevedere i rimproveri che i critici avrebbero fatto alla mia Sorte, sono oggi ancor meglio in grado di indovinare le accuse che toccheranno a questi Documenti umani. Vuol vedere se sbaglio? Mi diranno che le favole sono troppo romantiche, che i personaggi sono troppo convenzionali, che lo stile è troppo artifìcioso. Nella Sorte s'incontravano troppi mastri, don e comari; qui vi saranno troppi artisti, cavalieri e contesse. Quelli erano troppo sciatti, questi saranno troppo preziosi. Lì ero troppo indifferente, qui esprimerò troppe opinioni. La Sorte era troppo vera; i Documenti umani saranno troppo inverosimili.... Si metta ora un poco nei miei panni e consideri che bell'impiccio! Lei mi dirà: "Non si preoccupi della critica!" Ma si fa presto a dire! I critici sono o non sono i giudici naturali di noi poveri autori? sono o non sono i supremi custodi della legge dell'Arte? Se cominciamo a discutere la loro autorità, sa come potrebbe finire? Che un bel giorno essi pianteranno lì la loro missione; e allora addio garbo, misura, buon gusto, buon senso: tati i freni saranno sciolti, a scempio del bello, del buono e del vero! Tolga Iddio cho io contribuisca a tanta sciagura! Io sono un autore timorato ed ossequente alla critica costituita. La Sorte era naturalista? Ecco qui delle novelle ideali. Sono troppo ideali? Ed io metto a scrivere un romanzo a modo mio.... Me lo stamperà? Mi stamperà, innanzi tutto, questa lettera? A discorrere solo, uno si persuade presto d'aver ragione; però, dopo aver riletto queste pagine, comincio a persuadermi che probabilmente le mie teorie non avranno persuaso niente affatto lei. Lasci correre lo stesso; tanto, a discutere, si finisce per confermarsi nella propria opinione. Guardi come il pubblice resta incrollabile nella sua, che è quella di non darci retta! Catania, Ottobre 1888. Di lei cordialissimamente F. DE ROBERTO.

In Toscana e in Sicilia

245754
Giselda Fojanesi Rapisardi 1 occorrenze
  • 1914
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
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(gli amici lo burlavano e gli dicevano che erano sentimentalismi alla Tolstoi), non voleva che la sua figlioletta fosse una bastarda, senza nome, senza famiglia, senza diritti civili... sì, sentimentalismi, se volete, ma la sua anima, in cui era tanta alta idealità, e come una specie di misticismo, non aveva saputo abbracciare interamente le nuove idee, le nuove teorie sul libero amore, sull'abolizione della famiglia legale, quantunque, forse per un'eccentricità d'artista, le avesse qualche volta approvate, senza esserne convinto.... Ma all'atto pratico, dinanzi a quell'esserino bello, roseo, incosciente, non aveva saputo resistere e i suoi principî rivoluzionarî erano sfumati col sentimento di tenerezza indicibile provato per la soave ed umile fanciulla che si era abbandonata a lui, inconsapevolmente forse, ma sempre generosamente, che aveva poi tanto sofferto senza un lamento, senza un rimprovero; e dinanzi a quella piccina, sangue del sangue loro, vita della loro vita. Il pensiero di sposare la giovane contadina gli era venuto subito dopo la nascita della figlioletta, ma non aveva voluto pigliare una risoluzione tanta grave, senza ben ponderarla, senza esser sicuro del fatto suo, per non fare tre disgraziati. Si era perciò allontanato dal villaggio in cui era andato per certi studî, e dove era poi rimasto per più di un anno, non volendo lasciare la Maria in quello stato.... Era tornato in città, aveva ripresa la sua vita consueta, aveva riveduto gli amici, parlato con alcuni dei più serî del caso suo, e aveva chiesto loro consiglio. Tutti lo avevano distolto dallo sposare una donna di così umile condizione dicendogli che aveva degli scrupoli esagerati, una sentimentalità morbosa, cercando di persuaderlo che sarebbero stati infelici tutti e due.... Egli aveva tentennato, era stato ancora irresoluto, in lotta con la sua coscenza, ma una mattina, erano ormai passati sei mesi dal suo ritorno in città e non aveva mai avute notizie in quel tempo della Maria e della bimba, si levò sicuro di sé: aveva vinto una difficile battaglia, la sua anima si volgeva lentamente verso nuovi ideali, e le sorrideva un altro avvenire; si propose quindi di compire il dover suo, di sposare la ragazza e di legittimare la piccina. E mentre si avvicinava all'amena borgata toscana, posta sur una collinetta, rannicchiato nella vecchia carrozza che da tanti anni faceva il servizio postale, trascinata da un ronzino che sembrava il cavallo dell'Apocalisse, egli affrettava, ormai lieto della presa risoluzione, il momento di riabbracciare quei due esseri dai quali non si sarebbe mai più separato, che avrebbero formata la sua nuova famiglia, e ai quali voleva dedicarsi tutto... Immaginava la gioia della sua Maria all'annunzio del loro prossimo matrimonio!... Quante lagrime di consolazione non avrebbe versate!... Povera creatura, aveva sofferto tanto per lui... Aveva sopportato con rassegnazione veramente angelica, le impertinenze, le ingiurie dei fratelli e del padre, quando s'erano accorti del suo stato, mentre prima avevano chiuso un occhio e lasciato correre... E anche ora, chissà come la tormentavano... Con lo sposarla, tutto sarebbe riparato: le lagrime si sarebbero convertite in sorrisi, i tormenti in letizia... Dopo le pratiche necessarie, sarebbe stato celebrato il matrimonio, poi egli avrebbe condotto la sposa e la bimba a Firenze, nelle due stanze che abitava lui, da scapolo; intanto avrebbero cercato un quartierino per istallarsi un po' più comodamente... Invece tutto era sfumato dinanzi alla inaspettata resistenza di Maria, irremovibile alle preghiere di lui, alle minacce brutali del padre e dei fratelli. Ormai ella aveva disposto altrimenti della sua vita: aveva commesso un gran peccato, e doveva scontarlo con sacrifici e penitenze, se voleva salvarsi l'anima. Sposando lui, che l'aveva spinta al male, si sarebbe dannata e lei non voleva dannarsi l'anima; ecco ciò che diceva e ripeteva continuamente, senza ragionare. Per allontanare ogni ricordo del suo fallo aveva perfino data la bimba a balia, con la scusa di non aver latte. - Son tutti imbrogli di Don Anacleto, abbadava a dire uno dei fratelli, e di quelle teste fasciate delle monache, laggiù, di S. Chiara. Me n'ero accorto che quel figuro gironzolava da un pezzo intorno casa, come un uccellaccio di malaugurio... - Non parlate a caso, Sandro, e non incolpate nessuno... - Sì sì, se te lo inciampo in queste vicinanze, vedrai che bella giubba di legno gli ammannisco... Scommetto che gliene passa la voglia di convertiti... Sono stato militare io e non ho paura della scomunica... - Oh l Gesù mio, Madonna Santissima, perdonategli - diceva la Maria singhiozzando. Allora, Roberto Catalani volle rimaner solo con lei: era sicuro di persuaderla, e pregò il padre e i fratelli di allontanarsi. E le parlò con dolcezza, ricordandole il gran bene che ella gli aveva voluto, ciò che aveva fatto per lui, dicendole che il suo dovere di donna veramente onesta era appunto quello di cancellare la colpa, se colpa vi era, ma che il solo mezzo vero e santo per raggiunger ciò era di divenire sua moglie, e di far sì che la piccola Ghita avesse, come tutti gli altri bambini felici, i proprî genitori... La supplicò, la scongiurò a mani giunte, con le lagrime agli occhi: Ma dunque, non aveva cuore? Si era ingannato nel credere che gli fosse affezionata, che fosse buona, che volesse bene almeno a quella creaturina che era sangue suo... Lo facesse per lei, per lei... Che cosa era accaduto? Perchè la trovava tanto cambiata? Quando era partito, l'aveva lasciata affettuosa, innamorata, piangente... Come aveva potuto divenire tutt'altra in così poco tempo? - Volontà del Signore, volontà del Signore - ripeteva lei, senza versare una lagrima, senza commoversi a quei ricordi, fredda e dura come una statua. - Dunque è vero, Sandro ha ragione, è stato don Anacleto, sono state le monache, che t'han voltata contro di me. - È il Signore che m'ha toccata con la sua divina grazia, e mi ha fatto ravvedere... - Ma sciagurata, non capisci che condanni la tua figliuolina innocente ad essere una bastarda? Questo sì che è un peccato orribile... - Pregherò tanto, farò tante penitenze, che il Signore mi perdonerà... perchè io faccio tutto a fin di bene. E per quanto dicesse, Roberto Catalani non fu capace di sentire altre parole dalla bocca di lei... Esasperato, avrebbe preso quella creatura ignorante e ingenua, che degli esseri maligni ed astuti avevano pervertita fino a sconvolgerne il senso morale, e l'avrebbe stritolata con le sue mani, tanta era l'ira, I'angoscia, il disgusto che sentiva bollire dentro di sè. - Ma che intendi di fare? - le gridò alla fine - tuo padre e i tuoi fratelli non ti vogliono più in casa e han ragione: che farai? dove te ne andrai? - Iddio è misericordioso, non abbandona le sue creature, e non abbandonerà nè anche me, quantunque sia una peccatrice indegna. Dava queste risposte calma, senza guardarlo in faccia, con accento umile e fermo al tempo istesso, già trasformata, inaridita, staccata dalla vita e dal mondo. Anche nella persona il cambiamento principiava ad essere evidente: il bel colorito roseo, sano, di prima, era scomparso e un pallore unito, senza sfumature, dal tono dell'avorio antico, si stendeva su quel visetto un tempo fresco, aperto, gioviale, che sembrava ora come velato e invecchiato precocemente dalla tiratura che era agli angoli della bocca, dalla mancanza di ogni vivacità, negli occhi, che sfuggivano sempre d'incontrarsi in quelli di chi parlava con lei, e dalla perduta rotondità nel contorno quasi infantile del volto e delle forme giovanili. La voce pure aveva attenuato il suono argentino che Roberto rammentava così bene, e che incominciava a divenir monotono, con dei suoni nasali; il gesto, una volta pronto e vivacissimo, si era fatto sobrio e lento; le mani rimanevano spesso incrociate alla cintura, o nascoste dentro le maniche del vestito, nella posa consueta alle monache, che cercano di sottrarsi più che possono all'osservazione altrui. Roberto Catalani non poteva credere agli occhi suoi: tutto quel profumo agreste di gioventù florida, spensierata, che gli era piaciuto tanto in lei, era scomparso, e ritrovava, dopo pochi mesi soltanto, un essere avvizzito di corpo e di spirito, su cui era passato un soffio distruggitore che ne aveva disseccata la vita nel suo pieno rigoglio. Dinanzi a quella rovina di cui Roberto Catalani scorgeva ora i segni palesi, si sentì prendere da una tristezza profonda, accresciuta da una punta di rimorso: non avrebbe dovuto lasciarla; egli era responsabile di tutto.... Bisognava condur via subito lei e la bambina.... risolver poi.... Oh! come si pentiva del suo egoismo, della sua leggerezza... Ma chi poteva supporre una cosa simile? Ebbene, l'avrebbe condotta via ora, per forza, giacchè non poteva per amore. Finalmente, era la madre della sua bambina ed aveva l'obbligo di seguirlo: era così giovane, così semplice, che tolta di lì si sarebbe rifatta in breve, d'anima e di corpo, ed ei l'avrebbe riavuta come prima, bella, giovane, sana, allegra e fiduciosa. Tutto ciò passò come un lampo dinanzi al pensiero di lui. Sì, non c'era altro mezzo e non, bisognava lasciarsi vincere dalle resistenze di Maria. Glielo disse chiaramente, bruscamente, passando all'improvviso dalle parole buone, dolci, persuasive, alle frasi dure, tronche imperiose. Essa parve spaventarsi un momento, smarrirsi; ma si riebbe presto e gli disse con voce ferma, che non aveva paura di lui, che, grazie al cielo, egli non aveva nessun diritto su lei e non poteva obbligarla a far cosa che ripugnava alla sua coscienza di fare. - Come t'hanno ammaestrata! Si vede che han pensato a tutto, e tu, povera grulla, ti sei prestata ai loro infernali raggiri..... Ma te ne pentirai e più amaramente di quello che tu ti sia pentita d'avermi voluto bene, d'aver ceduto al tuo amore per me, e non sarai più in tempo; non potrai più tornare indietro. Maria, al ricordo del suo fallo, aveva abbassata la testa e chiusi gli occhi, come inorridita, e alla profezia del suo nuovo pentimento, avea fatto un segno energico di negazione, come se avesse sentito dire un'eresia. Roberto Catalani, ormai stanco e disgustato, uscì dalla povera stanza nella quale aveva pur passate tante belle ore, quando la Maria, rimasta sola in casa, dopo che il babbo e i fratelli erano andati a lavorare, lo avvertiva che poteva entrare da lei, e andò fuori, sull'aia, come per respirare e riaversi del suo sbalordimento. Il vecchio e i due giovanotti, seduti sur una panca all'ombra di un pagliaio, capirono dal viso di lui, come fosse andata la cosa: - Fiato sprecato eh? Me l'immaginavo - disse Sandro. - E se si provasse a adoperare un pò di sugo di bosco, chi sa che non fosse il modo di farle capir ragione - aggiunse l'altro fratello. - Mah! io ho fatto di tutto.... e non so più che dire..... Il Catalani, non sentendosi nè la forza, nè la voglia di discutere con loro che disprezzava, si avviò verso il vicino paesello, con l'idea di ritornare la sera per fare un ultimo tentativo. Camminava come un sonnambulo senza vedere, senza sentire.... con una gran confusione in testa, un gran vuoto nell'anima.... A un tratto si scosse e provò il bisogno irresistibile di rivedere la sua bambina. Andò dalla donna che l'allattava e la trovò con la piccina attaccata al petto. Questa, veduto il nuovo arrivato, sospese di poppare: spalancò gli occhietti guardandolo, rise alzando i piedini e battendo le manucce, come se avesse capito chi era.... Roberto Catalani si sentì inondato da una grande tenerezza: la bimba era bella, sana, tenuta bene, ed era sua... tutta sua, dappoichè la mamma l'aveva rigettata, con una crudeltà indegna perfino di una belva. Era possibile che una madre, dopo averla baciata, rinunziasse ad una creaturina simile? Fosse stata malaticcia, stentina, brutta..... ma così rosea, così forte e graziosa, proprio il frutto rigoglioso di due esseri belli e sani che si amano con tutto lo slancio, tutta la vitalità naturale dei migliori anni giovanili! Vi era da andarne orgogliosi, da tenersela come un tesoro benedetto, da coprirla continuamente di baci e di carezze. Allora Roberto Catalani pensò che rivedendo la bambina insieme con lui, la Maria non avrebbe saputo resistere, si sarebbe commossa e data per vinta. Pregò quindi la balia di prendere in collo la piccola Ghita e di seguirlo: ancora una volta il bel fiore della speranza tornava ad aprirsi nel cuore di lui; ancora una volta sorgevano delle illusioni ad illuminargli l'anima. Giunse alla casetta in fondo al villaggio, con la scala ripida di fuori, sull'aia, che incominciava ad annottare. In cucina era stato acceso un lume, se ne vedeva il chiarore fioco riflettarsi in una striscia chiara sul palchetto, dall'uscio aperto. Roberto Catalani entrò in casa e vide il vecchio che si accingeva ad accendere il fuoco, chino sul focolare basso e largo, ove era appeso il paiuolo. - Chiamatemi la Maria, fatemi il piacere - gli disse Roberto Catalani. Quegli si voltò accigliato e borbottò: - La Maria? O dov'è la Maria? chi l'ha più vista? Ha preso il volo - e stendendo il braccio, accennò con la mano che se n'era andata. La donna con la bambina in collo, era rimasta ritta, nel vano dell'uscio illuminato. Il vecchio le dette un'occhiataccia e soggiunse : - Sì, ora che è entrata là dentro, mettetegli il sale sulla coda: chi l'ha vista, l'ha vista; quelle mura agguantano, ma non rendono; era tanto che lo diceva, stasera poi s'è decisa... Per me, non ci metto nè sale nè pepe: guà, chi si contenta gode... Roberto era rimasto sbalordito: questa poi non se l'aspettava... La sua comparsa aveva dunque affrettata la risoluzione della Maria di chiudersi in convento! - E voi l'avete lasciata andare? Perchè non glielo avete impedito? Non siete suo padre? - Io? la ragazza ha l'età della discrezione, ognuno può far di sua pasta gnocchi. Che forse mi veniste a chiedere il permesso, quando metteste insieme quel negozio là? - e accennò la bimba col dito pollice, senza voltarsi a guardarla, sempre curvo sul focolare; poi riprese: - Ora invece pare che abbia mutato idea e si voglia far monaca: buon prò gli faccia; vuol dire che l'abbadessa, se la prende, ha buono stomaco. Il su' fratello maggiore ci s'è arrabbiato, è andato su tutte le furie, il grullo... Come se non fusse una bocca di meno a mangiare... tanto per quel che faceva in casa, da un pezzo in qua..... Roberto Catalani fremeva; capì che non aveva più nulla da fare in quella casa, e se ne andò con un saluto asciutto asciutto. Dopo pochi giorni il giovane pittore riappariva in città, in mezzo ai suoi amici, triste e taciturno. Quelli lo credevano già pentito del passo inconsiderato che stava per fare; nessuno osava perciò di interrogarlo e dirgli qualcosa su tale argomento. Ma il Catalani, natura franca e espansiva, non potè frenarsi a lungo e scoppiò a dire: - Non sapete, eh? non sapete che son tornato con le pive nel sacco? Non m'ha voluto sposare... siete meravigliati, eh? Vi pare impossibile... i preti, cari miei, le monache le han messo per la testa tanti scrupoli, che l'han persuasa a rinunziare a me, e, quello che è peggio, che è mostruoso addirittura, alla sua figliolina..... L'han fatta entrare in convento..... tutto è stato inutile, tutto: preghiere, minacce, ragionamenti, tutto... Non m'ha neppure guardato in viso, capite? Me l'hanno ammazzata... se vedeste... era un fiore... e la mia bambina, la mia povera bambina non avrà mai la madre..... A quest'ultimo grido, il nodo che gli stringeva la gola si sciolse e potè finalmente dar libero sfogo al suo dolore, piangendo a calde lagrime.

Pagina 25

L'indomani

246093
Neera 1 occorrenze
  • 1889
  • Libreria editrice Galli
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Il cuore di Marta si gonfiava, pieno di tenerezza, con un bisogno di espandersi, di abbracciare, col segreto desiderio di quelle ferite per cui l'animo trabocca e dilaga in passione, deliri, abbandoni, singhiozzi, tutta la forza rinchiusa, l'intima essenza del sentimento femminile. Assetata d'amore ella disse a se stessa, stringendosi nel mantello per sentire la carezza del proprio calore. «Egli mi ama, ne sono sicura. Perchè mi avrebbe presa? Mi ama sopra tutte le donne; è mio, tutto mio!» E, sollevata, sorrise a suo marito. Alberto, che per parte sua non pensava a nulla, fu molto soddisfatto nel vedere che la sua sposina aveva un buon temperamento; questo lo persuase sempre più di aver avuto la mano felice nella scelta. La cavalla intanto, sentendo prossima la stalla, prese un trotterello giulivo. Già si vedevano da lungi i tetti del paese dominati dal campanile, e, man mano che la carrozza progrediva, qualche cascinale sparso, qualche cane che abbaiava, una fanciulla che conduceva le oche. - Sono le oche di Gavazzini - disse Gerolamo, indirizzando la sua osservazione alla signora. - Chi è Gavazzini? - È il più ricco proprietario del paese - rispose Alberto. - Tuo amico? - Non dei più intimi, ma qui si è tutti amici. Del resto egli fa vita ritirata, e sua moglie non si vede mai. Oh! un romanzo! Lei era una istitutrice, fuggirono insieme, andarono in cima di un monte a passare la luna di miele, scrissero i loro amori sulle corteccia degli alberi. Figurati, una volta si punsero apposta un dito per bere il sangue l'uno dell'altro.... quando ti dico romanzi! Marta si interessava, avrebbe voluto chiedere di più, ma la faccia di Gerolamo, che sembrava quella di un filosofo stoico in mezzo alle follie del mondo, le dava un po' di soggezione. Incominciarono le prime case allineate, coi portoni aperti, da cui si intravedevano cortili verdeggianti, gruppi di vasi, lunghi anditi freschi, riparati da tendoni a righe; una gonnella svolazzava tra due usci, un visetto curioso spuntava da una finestra, i gatti scodinzolavano sulle sedie di paglia, sbadigliando, socchiudendo gli occhi. Più innanzi, nel centro del paese, si aprivano le poche botteghe; il fornaio, il pizzicagnolo, il mercante, il tabaccaio, il calzolaio, il barbiere. - Ecco la farmacia - disse Alberto. Marta guardò. Non c'era nessuno sulla soglia; una cortina verde, strofinata e attorcigliata come una fune, lasciava scorgere nell'interno un pezzo di scansia coi barattoli di terraglia bianca e azzurra. - Ha moglie il farmacista? - È vedovo; ma la riprenderà. Che cosa deve fare? - Sicuro - disse Marta, ripetendo macchinalmente tra sè: che cosa deve fare! - Guarda la casa di Merelli; sul canto di piazza, dipinta in giallo; l'hai vista? - No, non l'ho vista. - C'era la serva davanti alla porta. - No, non l'ho vista. Ha moglie Merelli? - Sì, ha moglie. - E la casa di.... di quel signore.... quello che ha bevuto il sangue.... - Gavazzini? Ah! non è qui; è fuori di paese, isolata; più isolata ancora della nostra. - La nostra è l'ultima, nevvero? È forse questa? La cavalla rallentò, Gerolamo fece una voltata dà cocchiere esperto, e, passando da un cancello spalancato, fermò di botto nel bel mezzo di un cortile vellutato d'erba minuta, con alte muraglie imbrunite dal tempo, su cui si sbizzarriva a rabeschi una lussureggiante glicina, carica di fiori. L'aspetto generale del fabbricato e del cortile era quello di una vecchia casa borghese, comoda, dove un seguito di generazioni agiate e tranquille si erano succedute senza scosse, senza cambiamenti. Appollonia corse fuori, tutta traballante nella sua rotondità di pan buffetto, con la facciona lucida raggiante di semplicità, la bocca aperta, le mani sporche di farina. Marta, nel guardarla, non potè a meno di sorridere, e balzando lesta dalla carrozza gridò: - Buon giorno, Appollonia. Furono le prime parole che la nuova padrona pronunciò entrando ne' suoi domini. Gerolamo ammiccò segretamente Appollonia, con uno stringimento di palpebre che voleva dire: Va bene, va bene! E la grossa serva, sgangherando la bocca fino alle orecchie, mostrò di aver inteso il senso di questa affermazione. Marta non doveva dimenticare più quel momento del suo arrivo, in un ridente giorno di aprile; i grappoli lilla che fiorivano sui muri, l'erba del cortile, una pace, una serenità diffusa nell'aria, un benessere sicuro che sembrava uscire dalle muraglie della vecchia casa; perfino il volto bonario di Appollonia e il nitrito della cavalla che scuoteva il muso fine sotto le carezze di Gerolamo. Alberto, senza aspettare ch'ella si levasse il cappello, passò il braccio sotto il braccio di sua moglie e la condusse subito a visitare la casa. Niente di ricercato nè di pomposo. Una grande comodità in tutto, nella disposizione delle camere, nei mobili, negli ampi seggioloni, nei divani sparsi con abbondanza; una certa ricchezza tradizionale ma tranquilla; buoni quadri, stipi intarsiati, biancheria accuratissima, delle vecchie maioliche di famiglie. - Queste sedie le ha ricamate mia madre - disse Alberto. Erano otto sedie di legno chiaro con profili dorati, coperte da ricami a mezzo punto, bellissimi, tutti l'uno differente dall'altro. Marta le ammirò religiosamente, commossa. - Questo è il mio ritratto di quando ero bambino. Marta vi si precipitò sopra, coprendolo di baci e di esclamazioni, portandolo sotto alla finestra per esaminarlo meglio. - Come è bellino! Care queste spalluccie nude! E che occhietti! E le manine, Dio, che manine... ma avevi le mani così piccole allora? - Caspita, i bambini!... Risero entrambi, stringendosi il braccio, felici. Salirono così lo scalone che conduceva al piano superiore. - Ma è tutto bello qui, sai? - Sì, non c'è male. È comodo. Entrarono nella camera da letto. Tre finestroni la illuminavano, facendo penetrare i raggi del sole attraverso un ricco cortinaggio di stoffa a fiori sopra un fondo cilestrino. Della medesima stoffa era il parato del letto, altissimo, ampio, per metà ricoperto di un piumino di seta celeste, sull'orlo del quale ricadeva, accuratamente stirata, la trina del lenzuolo. Sulla pettiniera un'altra trina, nel festone della quale serpeggiava un nastro celeste, faceva da sopporto a un servizio di cristallo, lucentissimo. Sugli specchi, sulle cornici non si scorgeva un atomo di polvere. - È stata l'Appollonia a preparare queste belle cose? - Lei, certamente. Vi avrà impiegato tutto il tempo che ci volle a noi per percorrere l'Italia; ma infine, ognuno fa quello che può. Marta, levandosi il cappello e la spolverina, sedette sul divano che era ai piedi del letto, sentendosi finalmente in casa propria. - Oh come si sta bene qui! Tese le mani a suo marito, invitandolo a sedersi anche lui sul divano. Ora non dubitava più di essere la signora Oriani. La sua felicità doveva incominciare da quel momento; prima era stata una corsa vertiginosa, contraria all'amore. L'amore ha bisogno di un nido. Marta sollevò gli occhi, girandoli torno torno come per prendere possesso d'ogni cosa; e quando ebbe ben riguardata la camera, il letto, le cortine a fiori, fissò Alberto con un'estasi tale di riconoscenza, di tenerezza timida e ardente, che egli, un po' sorpreso, la baciò, non sapendo che dire. Ella trasalì tutta, colla speranza di una rivelazione. - O mio Alberto, mi amerai sempre, sempre? - Che domanda! - Dillo! - Ne dubiti dunque! - Dillo... - ripetè Marta, stringendosi, avviticchiandosi a lui tutta tremante, con la bocca socchiusa. Un'ondata di sangue colorì la fronte di Alberto, che rispose per la durata di un attimo alla stretta di sua moglie. Poi si sciolse, dolcemente, ravviandosi i capelli. - Andiamo - disse - non facciamo ragazzate.

Pagina 15

Una peccatrice

249693
Giovanni Verga 2 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
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Quando entrarono nell'Albergo di Francia, dove li aspettava la signora Brusio, questa corse ad abbracciare suo figlio con tutta l'effusione di un cuore di madre; ma rimase senza osarlo, colle braccia aperte, dinanzi lo sguardo fosco ed alla fisonomia cupa ed irritata del figlio suo. - Credevo, - disse questi aspramente, - di non essere più all'età di uno scolaretto che si manda a cercare se ha fatto tardi nel ritornare da scuola... La madre fu dolorosamente colpita da quelle parole, le sole che avesse udite in tal modo da quel figlio che I'idolatrava. L'istinto materno fu atterrito dallo stato di quel giovanetto che in un'ora avea potuto dimenticare siffattamente il culto che nudriva della madre, e risponderle in tal guisa. - Andiamo, figlio mio, le tue sorelle ti aspettano... - diss'ella tristamente, ma evitando di inasprirlo; - grazie, signor Angiolini!... S'incamminarono verso casa; e la madre osservò sospirando che il figliuolo non le offriva il braccio, e camminava cupo, ed anche indispettito al suo fianco. Sulla scala corsero ad incontrarli le due sorelline ancora pallide e singhiozzanti, che gridavano: - Mamma! mamma!... L'hai trovato!... È qui il nostro Pietro?!... Le loro festanti acclamazioni furono interrotte dalla voce dura del fratello. - Per l'avvenire, - esclamò questi, cercando di dare la possibile moderazione alla sua voce tremante d'irritazione, - spero che le mie tardanze non daranno più luogo a simili scene da teatro... che mi costringerebbero a cercare altrove la pace e la libertà di cui ho bisogno... che son deciso ad avere... Datemi la doppia chiave della porta, onde non dia più occasione ad attendermi domani, e facciamola finita!... E senza neanche prendere il lume si chiuse nella sua camera, sbattendone l'uscio con impeto. - Povero figlio mio! - singhiozzò la desolata madre, abbracciando piangente le sue figlie: - ecco le prime lagrime che mi fai versare! Pietro passeggiò per la camera alcuni minuti, agitato e smanioso; poscia si fece al verone. La calma serena di quella notte d'estate, il fresco venticciuolo che gli asciugava il sudore sulla fronte lo calmarono alquanto; egli pensò alle lagrime di sua madre ed odiò se stesso come giammai aveva odiato. - Son vile!... sì, son vile!... - esclamò strappandosi i capelli. - Oh! la testa... Dio mio!... Aprì l'uscio della sua camera senza far rumore, e camminando leggero leggero andò ad origliare dietro la bussola della camera di sua madre, onde vedere se dormiva. La signora Brusio era ancora in piedi quando suo figlio aveva aperto l'uscio, ascoltando ansiosamente il più lieve rumore ch'egli facesse, e che potesse farle indovinare lo stato del cuore di lui; appena udì che si avvicinava capì, con l'istinto materno, che suo figlio pentito veniva a vedere se ella dormisse; e l'istinto materno le suggerì anche che l'unico perdono che egli poteva desiderare nel suo pentimento era che sua madre riposasse. Ella si gettò sul letto, e finse di dormire. Pietro ascoltò, dietro il paravento, il respiro alquanto accentuato di sua madre; credette che dormisse davvero, e non potè frenare le lagrime che gli scorrevano ardenti sulle guance: lagrime di pentimento, di rabbia contro se stesso, di terrore dell'avvenire (che allora soltanto travedeva) per ciò che provava. - Povera madre! - esclamò singhiozzando; - povera madre mia! E la madre udì quei singhiozzi, e soffocò i suoi fra i guanciali. Pietro si ritirò in punta di piedi, come era venuto; e si rimise al verone. Colla fronte fra le mani, ed i gomiti appoggiati alla ringhiera, egli si assopì in quel vortice luminoso e turbolento che il cuore e l'imaginazione gli creavano, e dove vedeva un'ombra, dove una figura, ora vestita di bianco, ora quale l'avea veduta poche ore innanzi... carezzandosi la fronte ed i capelli con le mani di quell'uomo... Quando, abbarbagliato da una luce vivissima, egli alzò gli occhi, si avvide con sorpresa che il primo raggio di sole facea scintillare i vetri. - Diggià! - mormorò egli: - il giorno vien presto al presente!... Sua madre, entrando la mattina nella camera di lui, osservò con dolore che il letto era intatto, come era stato acconciato la sera innanzi. - Madre mia! - le disse il giovane prendendole una mano, in tuono di pentimento del passato ma risoluto di ottenere quello che domandava, - ti chiedo perdono di quello che ho detto e fatto ieri... Ma ti prego di lasciarmi per l'avvenire alquanto più di libertà, che l'età mia ora richiede... - Fa come vuoi, figlio mio... - rispose la madre abbracciandolo. Io non temo che tu ne possa abusare, poichè sei figlio di un uomo onesto e manterrai onorato il nome che ti diede. In quanto a me... - e la povera donna sospirava tentando di sorridere, - in quanto a me cercherò di vincere le mie sciocche paure... - Grazie, grazie, buona madre!... - esclamò Pietro facendo uno sforzo per non bagnare di lagrime quella mano che baciava. Però ogni sera quella madre, che numerava coi battiti del suo cuore i minuti che suo figlio tardava a venire, aspettava sin alle due, e spesso sino alle tre, che il noto passo le annunziasse da lungi, nel silenzio della strada, ch'era lui che veniva; e piangeva sovente, quando, invece di mettersi a letto, lo udiva passeggiare per la camera, o farsi al verone; e l'indomani, dopo avere interrogato sospirando il letto, spesso colle lenzuola ancora rimboccate, cercava negli occhi smarriti del figlio e nei suoi lineamenti pallidi e sbattuti la risposta ai vaghi timori che l'agitavano. Pietro, che ogni mattina pel passato soleva informarsi della salute di sua madre, non s'accorgeva nemmeno del pallore di lei e della sua cera malaticcia. Raimondo non lo vedeva quasi più. Brusio passava i giorni al Laberinto, la sera seguendo la donna che gli aveva ispirato questa folle passione o cercando d'incontrarla al passeggio, (dove lo sguardo di lei qualche volta lo fissava con quel raggio pacato e snervante della sua pupilla cerulea, ciò che faceva delirare il povero giovane, e gli faceva seguire, coll'occhio ardente e le membra convulse, quella veste fluttuante che armonizzavasi sì mirabilmente ai movimenti pieni di seduzione del corpo da fata) o aI teatro dove la vedeva splendente di tutto il prestigio del suo lusso, profumata da quel vapore inebbriante che reca la bellezza, la giovinezza, la ricchezza; facendo scintillare la luce del suo sguardo insieme al riflesso dei suoi diamanti; armonizzando la bianchezza vellutata e purissima della sua pelle alla bianchezza pallida delle perle che le cingevano il collo bellissimo; spesso allegra e ridente cogli uomini più eleganti e più alla moda, appartenenti alla migliore società, che si contendevano un posto nel suo palchetto; spesso a metà nascosta nell'angolo piú oscuro della loggia, colla testolina ricciuta e coronata di fiori e di gemme rovesciata all'indietro sulla parete, con quell'attitudine abbandonata cui ella sapeva dare tutto quanto vi ha d'attraente nella mollezza, d'irresistibile nel languore; e vi stava ad occhi chiusi, come dormendo ed assorbendo con maggior squisitezza di voluttà le armonie della musica che avevano il potere di commuoverla dippiù. Egli passava la notte sotto i veroni di lei, coll'occhio fisso su quel lume che rischiarava la sua stanza; aspirando, con terribile voluttà di passione (ch'era tanto potente da sembrare angoscia qualche volta) di gelosia, ed anche di dolore, tutti i rumori più insensibili del suo passo, del fruscìo della sua veste, tutte le emanazioni della donna amata, i minimi suoni del suo pianoforte e della sua voce, che spesso parlava al conte di quelle parole, cui rispondeva, come un'eco, un singhiozzo dalla strada. Egli sapeva l'ora del suo levarsi, della sua toletta, del suo pranzo, della sua passeggiata; conosceva il modo d'ondeggiare delle tende quando ella vi stava dietro, il rumore delle carrucole della poltroncina che la sua mano indolente tirava a se. Era un martirio spaventevole che s'imponeva senza saperlo; che l'attraeva però col fascino del precipizio; che alimentava il parossismo febbrile, il quale divorava le sue forze e la sua vita, colle sue triste gioie, coi suoi acri godimenti, coi suoi sogni febbricitanti. Alcune volte, ritirandosi ella dopo la mezzanotte, a piedi, accompagnata da due o tre giovanotti eleganti che la corteggiavano si era rivolta verso quell'uomo, seduto sul marciapiede, che si sarebbe scambiato con un mucchio di cenci; ed il conte avea rallentato il passo per meglio osservarlo. Quando ella si ritirava in carrozza Pietro osservava, qualche volta, al riverbero dei lampioni della carrozza, che ella, mentre scendeva dal montatoio, si volgeva con curiosità verso l'angolo ove sapeva di dover trovare quello strano personaggio che la prima volta avea supposto un mendico; e che il conte si fermava innanzi al portone qualche minuto a guardarlo. Una notte, negli ultimi di settembre, verso le due del mattino, Pietro aspettava da un pezzo la contessa che era andata alla serata del prefetto. Il rumore di una carrozza, che si avvicinava al gran trotto, si fece udire da molto lontano per le strade deserte, e poco dopo il legno passò dinanzi al nostro protagonista fermo al suo solito posto. Narcisa ne scese più lestamente del solito, e scomparve quasi subito insieme al conte. La carrozza ripartì. Pietro udì il passo leggiero di lei che saliva le scale accompagnato dal passo più pesante dell'uomo che la seguiva: udì la porta che si apriva a riceverli e si rinchiuse poco dopo; vide che nel salotto ove abitualmente dimorava la contessa, venivano accresciuti i lumi. Poco dopo la dolce voce di Narcisa, col suo accento molle ed armonioso d'indefinibile espressione, fece battere fortemente il cuor del povero giovane. - Mio Dio!... che buio!... Ma dormono tutti in questa casa stassera!... Indi alcuni suoni, tratti così a caso dal pianoforte, quasi le dita cercassero le note di una fantastica melodia, che si stancarono presto a riprodurre e che diede luogo al terzetto finale d'Ernani, anch'esso poco dopo interrotto, colla stessa capricciosa volubilità, per un valtzer allora in gran voga: Il Bacio, di Arditi. Però sembrava che un'attitudine estraordinaria facesse, in chi suonava, supplire a tutte le lievi imperfezioni di esecuzione, che venivano dalle difficoltà che incontrava, con un'espressione molto rara, che traeva degli impeti e dei fremiti di delirio festevole dalle note del valtzer, e faceva piangere con quelle del melodramma. Giammai a Pietro parve di avere udito armonia come quella che le mani della donna adorata creavano sui tasti d'avorio, nel silenzio profondo di quella notte, profumata dal vicino Laberinto e rischiarata dalla luna. Tutt'a un tratto anche il valtzer fu interrotto, ed il giovane udì i passi di lei che si avvicinava al verone, e vide la sua ombra che intercettava il lume che ne rischiarava il vano. Ella si appoggiò all'inferriata del verone, colla testa fra le mani, perdendo il suo sguardo nell'orizzonte. La luna, allora nel suo più alto emisfero, la circondava quasi di un trasparente vapore. Un'altra ombra si avanzò e le si mise al fianco. - Perdio! - disse una voce secca ed orgogliosa, con accento toscano, che Pietro riconobbe per quella del conte, - non mi leverò mai d'addosso quest'accidente! Brusio sentì che quelle parole erano al suo indirizzo, e il sangue gli montò al viso. - Che dite? - rispose la fresca voce della contessa, sebbene parlasse pianissimo. - Parlo di quell'importuno che stà a farci la spia da mane a sera; che non ci lascia un'ora di pace... e che credo, in fede mia, sia pazzo di voi... La contessa alzò le spalle con un moto sprezzante d'indifferenza; indi mormorò sbadatamente, colla sua voce più bella e più calma, e colla più completa noncuranza, lasciando il verone: - E che ci ho da fare io se quest'uomo è pazzo?... Pietro si alzò, lento, come se le gambe gli si piegassero sotto; sentendo agghiacciarglisi il sudore sulla fronte; coi denti sbattentisi di convulsione. Di giorno il conte sarebbe rimasto atterrito dal pallore e dall'alterazione dei lineamenti di lui e dal sinistro splendore dei sui occhi ardenti. Egli rimase un momento immobile, annichilato, come se quella bellissima voce di donna avesse di un sol colpo reciso i muscoli più vitali del suo cuore. Il solo rumore che si udiva era quello dei suoi denti che battevano gli uni contro gli altri. - Questa donna ha ragione! - momorò egli quindi colla voce rauca, stentando a proferire le parole: - io son pazzo!... son pazzo!... sono stato vile anche!... E partì lentamente, quasi strascinandosi. Non avea fatto dieci passi che udì le note allegre e cristalline del valtzer che risuonavano di nuovo. Si fermò in mezzo alla strada, a guardare un'ultima volta, con un'ineffabile espressione di disperata amarezza, quel lume che splendeva chiarissimo in quella stanza riboccante d'armonia; si levò il cappello, con un moto istintivo, lento, quasi solenne, esclamando, cogli occhi umidi di lagrime infuocate: - Addio, signora!... Addio! Camminò tentoni barcollando come un ubbriaco, fino a quando stramazzò, privo di forze, singhiozzante, su di un sedile di marmo sotto gli alberi del Rinazzo. - Oh! questo valtzer! questo valtzer! - gridò egli smaniante, come se quelle note gli percuotessero sul cervello, - Dio! ... mi pare di diventar matto davvero... Ah!... ma non ha dunque nemmeno un pensiero per l'uomo ch'è pazzo per lei, questa donna?!!... E partì correndo, come un delirante, fuggendo quei suoni, che sembravano inseguirlo nel silenzio della contrada. Si aggirò quasi tutta la notte per le vie più solitarie e deserte della città; spesso correndo e singhiozzando disperatamente, spesso lasciandosi cadere a terra, sul canto di una via, quando l'eccitazione febbrile che l'agitava gli toglieva le forze che gli aveva dato nel suo parossismo. Non tenteremo di dare un'idea di quelle lagrime roventi che lasciavano solchi sul suo volto livido ed impastato di polvere e di sudore. La tempesta violenta che mugghiava in quel petto gli faceva emettere voci tronche, gemiti che si articolavano come parole, ma in mezzo ai quali risuonava sempre un grido, or come un singhiozzo, or come una invocazione disperata: - Narcisa!... Narcisa!... - E quando le sue arterie battevano in modo da rompersi, egli si afferava la testa fra le mani, e tornava a correre come un pazzo, fin quando la stanchezza fisica lo istupidiva alla lotta terribile delle sue passioni. Cominciava ad albeggiare; quell'incerto crepuscolo gli ferì gli occhi come un riverbero infuocato; quell vita che si risvegliava nella grande città con tutti i suoi rumori, quella luce che crescendo gli sembrava rischiarasse tutta l'immensità della sua disperazione, gli parvero odiose... a lui che cercava il nulla, che non avea pensato al suicidio perchè odiava troppo ancora per essere stanco della vita. Aprì la porta di strada di casa sua colla doppia chiave che recava sempre addosso; si chiuse nella sua camera, così al buio; e si buttò sul letto, vestito com'era, lasciando cadere soltanto in un angolo il suo cappello: era annichilato. La stanchezza fisica e la morale l'avevano vinta fors'anche sulla sua disperazione; o almeno, in quel punto, gliela avevano resa meno sensibile. Egli si addormentò poco dopo di un sonno agitato, febbrile ed interrotto. Sua madre, che all'alba avea lasciato il letto, dopo una notte passata fra le lagrime, e stava nel salotto che precedeva la camera di lui, onde vedere se almeno fosse rientrato, udì a lungo gemiti, singhiozzi, rantoli soffocati, che si mischiavano alla respirazione affannosa e stentata del dormente, e che conturbavano e straziavano il suo cuore. Questa donna, coll'orecchio fissato sulla toppa dell'uscio, stette quasi un giorno intero ascoltando con angosciosa ansietà tutti i minimi rumori di lui e cercando d'indovinarli. Finalmente, verso le sette di sera, l'udì levarsi e passeggiare per la camera. Ella ebbe timore, sì, la madre che comprendeva come qualche cosa di terribile passasse nell'animo del figlio, e lo allontanasse dalle sue consolazioni e fin dalle sue lagrime, la madre ebbe timore che questo figlio adorato, buono un tempo ed affettuoso, che ella non riconosceva più ora allo sguardo fosco e al carattere aspro e violento, non commettesse qualche scena brutale se si fosse accorto di essere stato spiato. Pietro passeggiò un pezzo per la camera, strascinandosi o camminando a salti, a seconda della istantanee trasformazioni che subiva il corso delle sue idee; odiando quel filo di luce che trapelava dalle commessure delle imposte e che gli provava che la luce illuminava ancora; odiando i rumori della strada che gli annunziavano che tutto non era morto o almeno in lutto come il suo cuore; odiando fin anche il pensiero di esser vicino alla sua famiglia, quella famiglia, che avea formato il suo culto e per la quale avrebbe dato altravolta tutto il suo sangue. Poi sedette presso il tavolino, colla testa fra le mani; e vi stette a lungo, coll'occhio arido, lucido, di una straordinaria fissazione. Una febbre ardente faceva vibrare con forza le sue pulsazioni; allorchè sentì battere sì violentemente le sue arterie ch'egli ne udiva quasi il sordo rumore con colpi spessi percossi sul cervello; allorchè sentì sulle palme quel fuoco che ardeva la sua fronte; allorchè, più che mai, intravide dei lucidi bagliori attraversargli la pupilla con un solco luminoso, che nell'animo tracciava una striscia infuocata fra la tempesta della sue passioni, dubitò un momento che fosse pazzo davvero. Egli ebbe paura di quest'idea... paura di non esser più padrone di se, della sua vita, nel momento che sentiva averne maggior bisogno, per inebbriarsi di tutta la terribile voluttà di quel dolore che l'attaccava alla vita istessa; ebbe paura di abbandonare questa, come in trastullo, agli uomini: egli si fece alcune domande che erano strazianti nella loro calma forzata; si propose ragionamenti posati che tradivano ancora la convulsione dello sforzo che avevano costato, dominando l'uragano che tempestavagli in cuore con volontà disperata di calma, per convincersi che non era pazzo... poichè egli avea paura d'esserlo... poichè egli odiava ferocemente... Udì suonare nove ore all'orologio della stanza contigua. . - Vediamo! - mormorò egli alzandosi - a quest'ora dev'esser buio... Ho tutta la mia ragione ancora!... Che vale disperarsi per colei?.. quali diritti ne ho io?... Siamo uomini, perdio!... come dice Raimondo... Ma chi dice questo spesso è segno che teme di non esserlo abbastanza... Non è vero che son pazzo!... Non voglio essere pazzo io!... Ebbene!... io voglio esser uomo!... sì... ho la testa lucida!... comprendo che bisogna annegarne la memoria... annegarla fra il vino... le donne... l'orgia!... Aprì le imposte, per vedere s'era notte davvero: era buio affatto; raccolse il cappello da terra e se lo calcò sul capo senza nemmeno aggiustarsi i capelli arruffati e appiccicati col sudore sulla fronte, ed uscì, quasi fuggendo la madre che udiva camminare nell'altra stanza.

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Egli andò ad abbracciare la madre nel letto, come per darle la lieta notizia, mescolando le sue lagrime a quelle di gioia di lei, che ritrovava il figlio suo; e dandole la sola spiegazione della metamorfosi che uno sguardo ed un pensiero avevano potuto operare in lui con queste sole parole: - Perdonami, madre mia!... perdonami! Due mesi intieri ebbe la forza di non cercare Narcisa, di non vederla. Usciva di rado, la sera; e sempre in compagnia di sua madre e delle sue sorelle. L'aveva dimenticata? No! Egli aveva tal forza perchè viveva per lei, con lei, in lei; perchè tutta la sua vita era ormai Narcisa. Egli lavorava con un entusiasmo quasi accanito; con una lena che soltanto poteva dargli l'esaltazione in cui si trovava; e fece passare tutto il suo cuore nell'opera sua. Due mesi dopo aveva finito un dramma che rileggeva cogli occhi brillanti di sorriso; del quale era contento; che amava quasi di una parte dell'amore di cui amava Narcisa; che amava come un'emanazione di lei. Quanto egli tu soddisfatto dell'opera sua, di sè stesso; quand'egli si sentì più vicino a Narcisa, allora la cercò. La sua casa era deserta e le imposte dei veroni chiuse. La cercò inutilmente otto giorni poi passeggi e al Teatro: ne domandò agli amici: nessuno l'avea più veduta. Risoluto di trovarla ad ogni costo andò a far visita in casa A*** e colla signora condusse il discorso sino alla contessa. - A proposito, che n'è di lei? domandò. - Credevo che lo sapeste, voi suo amante: è partita. - Partita! - Sì, da venti giorni. - E per dove? - Per Napoli. - Anderò, a Napoli! disse a sè stesso. Brusio.

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