Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Le belle maniere

180267
Francesca Fiorentina 1 occorrenze
  • 1918
  • Libreria editrice internazionale
  • Torino
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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Chi si dà a questo genere di letteratura deve conoscere a fondo l'anima delle persone a cui si rivolge, deve saper penetrare in esse con delicatezza e discrezione per potervi sviluppare germi preziosi destinati a dare un tempo frutti copiosi ed abbondanti. Ora l'A. dimostra di avere una profonda e vasta conoscenza della psicologia femminile. L'atmosfera e l'ambiente in cui vivono le giovani studenti richiedono per loro dei libri speciali che sappiano infondere nelle loro anime e nelle loro intelligenze i sommi concetti della morale e della scienza vera senza che ease se ne accorgano anzi procurando loro un'ora di sollievo e di ricreazione così necessaria in mezzo agli studi opprimenti che sono frutti degli sbagliati metodi di istruzione addottati nelle scuole pubbliche. Questo libro della Fiorentina risponde in modo esauriente a tutte queste esigenze; dobbiamo adunque salutarlo con gioia come un ausiliario prezioso a tutte le opere che si occupano di questa classe di giovinette. Ciò che contribuisce a renderlo più apprezzabile è la purezza della lingua, altro pregio tanto difficile a trovare ai nostri giorni in cui l'imbarbarimento della lingua va sempre aumentando. Francesca Fiorentina ci fa gustare la prima armonia della nostra bella lingua e questo pregio è certo una raccomandazione di più per un libro da mettersi in mano a delle studenti. L'Azione Muliebre - 1915, Anno XV, 12 - 3 - Consiglierò certamente il libro Cercando la via. . . alle mie alunne, come il libro di lettura scritto bene, dilettevole, istruttivo, vario di contenuto, incitante efficacemente al bene. . . Auguro al volume l'accoglienza più lusinghiera e credo sinceramente che la meriti. MARIA LUCAT della Scuola Normale - Savona. "Cercando la via. . . è un bello e buon libro. All'Autrice la mia più rispettosa ammirazione per l'opera sua fervida e profonda". GIAN BISTOLFI. Or fan tre anni. Il Politeama Regina Margherita sprizzava fiamme di luci e di gemme:tutta la Genova intellettuale era accorsa a recare tributo di applausi e di fiori alla divina Virginia Reiter che, in occasion della serata in suo onore, affascinava coi nobilissimi incanti della sua grande arte, sotto le spoglie di mamam Colibry. Ci eravamo raccolti nell'atrio a commentare le sensazioni dolcissime, Alessandro Varaldo, Pastonchi, Gozzano, Pansieri, il mio povero fratello Giuseppe - il forte e gentile poeta del Sistro d'oro così immaturamente rapito all'arte - Antonio Pastore ed io. Precisamente in quella sera Antonio Pastore - l'autore di Socrate e di Stami di vita - rivolse a noi tutti gentile invito di recarci a visitare la sua scuola; insistendo specialmente con Alessandro Varaldo perchè dalla visita ai bimbi radunati in gaio sciame, avesse a trarre argomento da racchiudere in qualche pagina della sua prosa preziosa. La risposta fu breve come. . . "il motto di un anello o. . . come l'amor di donna "per dirla con l'infelice amante di Ofelia. "E' un campo oramai falciato dal mago De Amicis e non v'è più nulla di nuovo da poter dire"E tutti fummo della stessa opinione. Or sono passati tre anni; e Francesca Fiorentina col suo libro per le giovinette Cercando la via. . . (Torino - Libreria Editrice Internazionale, 1914)ha saputo trovare la. . . medesima per farmi mutare pensiero; procurandomi nuove e sane sensazioni dell'anima, riportandomi ai dolcissimi giorni della prima giovinezza oramai lontana, facendomi rivivere un'ora deliziosa di quei sogni soffusi d'una nostalgica dolcezza, pieni d'incanti e di speranze. Cercando la via. . . è un libro che fa bene all'anima:è un bagno d'ossigeno che ci ricrea e gioconda lo spirito. Siete mai entrati, durante un'afosa giornata d'estate, in una chiesetta romita, sperduta fra le campagne? Avete provato quel delizioso senso di fresco, di silenzio, di pace, che spira dai muri candidi, dalle alte finestre velate di pampini, mobili ad un alito di vento, che riempiono tutta la chiesa di un tremulo riflesso verde? Nell'aria c'è una fragranza sottile d'incenso e di rose appassite; i lini dell'altare odorano ancora di spigo, nel silenzio giunge a tratti un frullo d'ale, un cinguettío di passeri, il tubare d'una colomba, l'eco d'una lontana voce nei campi. Questo senso di riposo e di pace spira nel volume di Francesca Fiorentina. Ella è artista delicata e gentile che sa ascoltare la voce delle cose, appaiano pure piccole ed umili; e con semplicità ch'è finissima arte, casella e racchiude nella trama della purissima prosa e nell'armonia del verso scorrevole, melodioso ed elegante gli affetti più semplici e puri. La prefazione dice tutto il proponimento dell'autrice:parla alla mente e al cuore delle giovinette con una voce amica:non è l'arida precettista che posi a voler scrivere il manuale della perfetta normalista:ma una vera donna e vera e buona mamma per giunta, che, passata attraverso l'aspro cammino degli studi classici, sente di essersi mantenuta donna; e che - son parole sue - "vorrebbe dare alle giovinette il filo che le aiutasse a trovare la strada, ma non con astuzie, non con inganni, non con artifizi:un filo che fosse di luce e le conducesse senza far danno alla serenità". L'autrice vive nel suo libro un anno di vita scolastica con le giovinette: nella classe, in collegio; prova con loro ansie e speranze, gode delle loro virtù:ne studia con carità e arguzia i loro difetti che corregge amorosamente, con parola sobria e serena. Tutto ciò in brevi capitoli che sono mirabili quadretti d'ambiente e che rivelano nell'autrice una profonda conoscenza della psiche umana:e lo stile spigliato, elegante, che sa non riuscire noioso; la lingua pura, sebbene talvolta un po'troppo risciaquata in Arno, la elevatezza di concetti, la diritta e giusta visione delle cose, rilevano nell'Autrice una stoffa oramai elaborata a correr l'alea in lavori di maggior mole nel campo della letteratura. Certi tipi sono così perfettamente miniati nelle pagine di Cercando la via che sembrano saltar fuori dalle righe per sedere con noi e in mezzo a noi:la professoressa Stecchetti ad esempio è cosi palpitante di vita e - forse - d'attualità che basta, come tipo indovinato, a farci conoscere quanto valga Francesca Fiorentina come felicissima scrittrice di quelle"novelle"che ora, purtroppo, van diventando rare. Gigetto, Scemetto, la baita di Cianin, il pastrano del maestro, sono gemme incastonate nel cielo di Cercando la via. . . Sono novelle piene di pregi e altrettante rivelazioni. Quanta delicatezza di sentimenti ne La nostra pelle! Forse ne Le due sorelle l'ideale del sacrifizio è troppo alto per essere contenuto nella odierna umanità; e troppo. . . cauto è il buon frate pittore. . . Ma dinanzi ai pregi di Cercando la via. . . questi appunti non sono che nèi sulle guance di una bella dama del settecento. Se la tirannìa dello spazio non ci urgesse vorrei dir meglio e più a lungo dei meriti di questo libro che non dovrà mancare alla biblioteca delle nostre signore intellettuali. Troveranno in esso un buon amico, un consigliere devoto, zelante, affettuoso. Francesca Fiorentina è pure un'affettuosissima, una dolcissima, una santa mamma. Dal suo cuore materno scendono fiumane d'affetto, che commuovono e incantano! Io non la conosco che attraverso le pagine del suo volume:ma non posso rappresentarla agli occhi della mia mente che circondata dai suoi figli:e tanto è il profumo gentile d'amor materno, che esalano i suoi scritti ch'io - col pensiero, reverentemente, purissimamente, religiosamente, - bacerei le sue mani, che devono essere bianche e sottili come quelle della mia mamma. Il Lavoro, Cenova 13 maggio 1913 GUIDO DE'PAOLI. E' questo il titolo d'un libro testè licenziato alle stampe da una esimia professoressa di una tra le industri e graziose cittadine della bella occidentale ligure riviera. Il volume è dedicato alle allieve maestre che, traverso gli studi faticosi imposti da faticosissimi programmi, cercano la via per inoltrarsi nel delicato ufficio dell'insegnamento. Ed è un lavoro denso d'idee e di pensieri. Le une e gli altri attinti, più che dall'arduo, arido studio dei libri, dall'osservazione serena e quotidiana della vita scolastica, la quale è rappresentata in una serie di bozzetti graziosi, genialissimi, espressivi, riproducenti i pregi e i difetti d'un ambiente che attende ancora non poche modificazioni, quale è appunto l'ambiente morale e intellettuale caratteristico delle scuole normali. Qua e là il libro arieggia un tantino il Cuore del De Amicis:la materia vi si rivela più allargata, più ricca di varietà di contrasti, di episodi. Tuttavia lo spirito intimo che domina nel libro è tutto pascoliano, uno spirito che tranquilla, eleva, riposa in un'atmosfera satura della soave poesia delle piccole cose, fulgida di luce e di bellezza. Lo stile garbato e signorile, il pensiero sempre rigorosamente sintattico, la lingua pura, vivace, agile, il periodare serrato, robusto sono doti che accrescono pregio al volume, da cui le allieve maestre possono ricavare ottimi indirizzi e opportuni consigli. Tutto ciò che è inerente all'età giovinetta, nella stagione degli studi, tutto è vagliato, esaminato, discusso dall'egregia autrice, col fine tatto della donna dal pensiero aristocratico, con quel buon senso pratico che, purtroppo, oggi le non infrequenti indigestioni di cultura male assimilata tendono a soffocare. Tutti i passaggi, or lieti, or bruschi del pensiero delle giovinette alle prese con le fatiche, sovente soverchie, dello studio sono analizzati negli effetti che danno impronta all'animo delle giovinette che muovono i primi passi nella vita, così che chi legge, trova, nei differenti episodi, qualche momento identicamente vissuto, e identicamente attraversato e superato. Epperò quale e quanta messe di pensieri, d'insegnamenti, di conclusioni! Quante lezioni di condotta pratica, e di praticità nella condotta, il tutto esposto con una semplicità che attrae e che solo è prerogativa dei provetti! L'autrice è toscana, nè smentisce la sua nazionalità, il suo temperamento d'artista. La grazia, l'arguzia, l'eleganza tutta toscana, sono diffuse nel libro. La descrizione del paesaggio ligure che s'affaccia tratto tratto, col grande arco fatto dal limpido zaffiro, con le marine inghirlandate di aranceti, dà l'illusione d'un paesaggio primaverile, in cui si agitino e vivano delle creature cui l'età dei sogni e delle speranze sorride e allieta, come sorridono al maggio i cespi di rose tenere, profumate, anelanti alla vita. Così Francesca Fiorentina tesse la sua ghirlanda, scegliendo fiore da fiore, additando alle giovani lettrici, che cercano la via, un sentiero dove, anche tra i primi, erge la sua corolla che mai non avvizzisce, l'eletto fiore della speranza e della virtù. Prof. GIUSEPPE MALATESTA. La scrittrice di questo libro si rivolge alle giovinette durante un anno scolastico, che può essere l'ultimo, dopo il quale esse entreranno nella vita delle loro famiglie, per seguire ciascuna la vita indicata dalla propria vocazione. Le intrattiene, mese per mese, con narrazioni e scene della vita scolastica femminile, onde trae opportunità d'insegnamenti educativi, e con novelle e poesie informate a gentili e nobili sentimenti morali e religiosi. V'è gran ccpia di sagge osservazioni pedagogiche, ammonimenti e riflessioni di moderazione e buon senso contro gli eccessi della"femminilità"e del"femminismo"benchè, qua e là, si desideri maggior precisione di dottrina p. es. sulla carità cristiana verso gli eretici(pag. 150 - 153), e maggior esattezza in qualche espressione(p. es. altruismo invece della parola cristiana carità). La lingua è pura e corretta e lo stile garbatamente vivace e attraente. Civiltà Cattolica(quad. 156:4 - 9 - 915). Cercando la via. . . di Francesca Fiorentina, è un riuscitissimo libro di letture originali, destinato alle giovinette. Scritto con una rara mondezza veramente italiana di espressioni e con una rigida uniformità di morfologia e di sintassi, questo libro è evidentemente destinato a diventare un libro di lettura delle scuole femminili, proponendosi gli scopi ottenuti nelle scuole maschili dalla«Età preziosa»dell'indimenticabile De Marchi. E fra tante antologie, magazzino di grandi e di mediocri, emporio qualche volta mostruoso di tutti i generi letterari di ogni età, crediamo che il Cercando la via. . . avrà buona fortuna, anche perchè l'autrice, accompagnando le giovinette ad osservare se stesse nel piccolo mondo che le circonda, mostra una esperta dirittura di giudizio e, insieme, saldezza di sentimento e affettuosa penetrazione dell'anima femminile. Noi non coltiviamo, per principio, la pruderie, ma il rispetto che l'autrice ha per il suo piccolo pubblico, la commozione che è nelle sue parole, la bontà previdente che traspira dai suoi consigli sono doti commendevolissime. Le giovinette troveranno da educarsi e da dilettarsi. La Tribuna Illustrata. Pochi sono i libri che si possono dare in mano alla gioventù femminile, alla cui avidità di lettura è necessario opporre circospette barriere affinchè non ne venga guastato il delicato sentire, e giovino alla formazione e all'educazione del cuore e della mente. Poichè abbondano le opere dedicate alla donna di casa, alla sposa, alla madre, ci voleva il libro delle giovinette che frequentano la scuola, il libro che esponendo la loro vita interiore ed esteriore, si mettesse accanto ad esse a risvegliar pensieri, suggerir considerazioni, proporre giudizii, con una moralità emergente da tutta la tessitura delle notizie, con una eclettica varietà di forme e con un linguaggio italianamente puro. Questo difficile compito venne assunto dall'A. signora fiorentina di nascita e nutrita di buoni studi, conoscitrice amorosa della gioventù alla quale dedica, nella Scuole medie, un po'del tempo lasciatole libero dalla famiglia; il suo nuovissimo «Cercando la via. . . »sarà letto con piacere e con profitto da tutte le giovinette d'Italia, che vi troveranno sapientemente alternate scene della vita e della scuola, pensieri, considerazioni sul costume, novelle, poesie, ecc. La voce del Cuore, Mestre, 1 - 3 - 1915. Di questo libro che meritò una così lusinghiera accoglienza dal pubblico e tanti favorevoli giudizi di persone autorevoli, si è già parlato con lode su questo giornale. Siccome però il bene che esso può fare al cuore ed alla mente di tante fanciulle ci pare grandissimo, sentiamo il bisogno di ricordarlo ancora, raccomandandolo a quelli che possono farlo conoscere e diffonderlo in mezzo alla gioventù femminile. Porta, come motto, sulla copertina i dolci versi di Dante: . . . . e vo movendo intorno le belle mani a farmi una ghirlanda (PURG. XXVII). E una bella ghirlanda si formeranno davvero le giovinette, che sapranno trarre da questo libro, e serbarli gelosamente per la vita, gli insegnamenti buoni e i nobili sentimenti dei quali è così ricco. La forma semplice, elegante e varia, ne rende la lettura oltre che eminentemente efficace per l'educazione, dilettevole e cara. Se dovessimo consigliare un bel dono da offrire ad una fanciulla non esiteremmo a consigliare Cercando la via. Giornale di Parma, 8 - 4 - 916. E un buon libro, scritto con alto intelletto di amore. Si direbbe di una mamma, tanto vibra in tutte le pagine di quella tenerezza sollecita di affetto che solo sa dare il fatto della maternità. E la vita di un anno, vissuta con giovinette che frequentano le scuole superiori. La scrittrice entra con loro nella classe, nel collegio, le accompagna nella strada fra la casa e la scuola, per sentirne, provarne le ansie e le speranze, per godere di qualche loro virtù per sorprendere qualche loro difettuccio, e, con loro, cercare il mezzo di corregerlo. Per farsi vedere di buon occhio racconta anche qualche novella; novelle di fattura squisita, piene di una sincerità amabile e delicata. Cercando la via. . . è uno di quei libri che hanno tutto l'interesse di un piccolo romanzo, e la utilità di un trattato di educazione. Non alla vita fantastica che seguono tante, la scrittrice vuol preparare le giovinette:ma alla reale, a quella vita che è dovere. Libertà, Sassari, - 10 - 4 - 1915.

Pagina 283

IL nuovo bon ton a tavola e l'arte di conoscere gli altri

191017
Schira Roberta 1 occorrenze
  • 2013
  • Salani
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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La regola è: rarissimi in pubblico, abbondanti in privato. Bacio fraterno. Alcuni popoli ne fanno grande uso. Limitiamo i baci sulle guance alle persone più vicine e con le quali abbiamo un rapporto di amicizia. Le donne fingono di baciarsi, in realtà avvicinano sole le guance le une alle altre per non rovinarsi il trucco; è un'ipocrisia universalmente riconosciuta. Baffi. I baffi sono un ricettacolo di batteri e la regola generale. per chi li porta è pulirsi perfettamente e spesso durante il pasto, prima e dopo aver masticato e bevuto. Bagnadita. Nei ristoranti ho visto di tutto: chi si è bevuto il contenuto della ciotola contenente acqua e limone, chi si è lavato abbondantemente il viso, chi ha guardato l'oggetto con aria interrogativa, chi ci ha spento una sigaretta (quando si poteva fumare). In realtà, questo contenitore che, di norma, è deposto in alto a sinistra dal cameriere dopo un piatto di pesce o che prevede l'uso delle mani, è destinato al lavaggio delle dita che poi andranno asciugate con il tovagliolo. In molti ristoranti si servono salviettine dall'orribile profumo di limone (sintetico), meglio acqua nella quale siano state dissolte alcune gocce di olio essenziale o petali di rosa. Meglio ancora: non usate affatto le mani oppure alzatevi e lavatele in bagno, anche perché il galateo non ne prevede l'uso. Bagno. È il buon rifugio per tutte le situazioni di emergenza: qualsiasi fatto anomalo accada a tavola, nell'incertezza recatevi in bagno. Prima di alzarsi da tavola, ci si accomiata con uno «Scusate». Bambini. Abituare i bambini a stare fermi e seduti al ristorante è una buona cosa, ma sino a che non si è riusciti nell'intento è pura crudeltà e una forma di egoismo obbligarli a seguirci al ristorante. La stessa cosa vale per le cene formali: diciamo che sino ai dodici anni i bambini o ragazzini cenano prima o in un tavolo a parte. Non solo è una sofferenza per loro stare seduti troppo a lungo, ma è anche una limitazione per gli invitati e per chi ospita adattare le portate e i discorsi in funzione della loro presenza. Banane. La banana non è consigliabile in una cena formale. Si tiene ferma con la mano sinistra, e dopo averla sbucciata si appoggia sul piatto, si taglia e si porta alla bocca con la forchetta. Vietato dal galateo sia per gli uomini sia per le donne succhiarla come un ghiacciolo con sguardi maliziosi, cosa invece permessa in privato. Bar. Evitiamo di dare del tu a camerieri e baristi solo perché li abbiamo visti un paio di volte. Non ingombriamo il banco con nostri pacchetti e borse o peggio con i gomiti. Evitiamo di fare «zuppetta» nella tazza del cappuccino. Non monopolizziamo i quotidiani messi a disposizione dai locali pubblici. Nell'ora di punta evitiamo di indugiare davanti al bancone mentre altre persone aspettano il loro turno. All'ora dell'aperitivo non dimentichiamo un minimo di etichetta: prendiamo le olive con l'apposito stecchino per portarle alla bocca e sputiamo il nocciolo con discrezione, nel palmo della mano, per poi buttarlo nel cestino porta-rifiuti (i noccioli rosicchiati nel piattino accanto alle olive offrono uno spettacolo poco piacevole). Le noccioline si prendono con un cucchiaino e si depositano nel palmo. Barzellette. Raccontare barzellette è una vera arte, quindi non cimentatevi se non siete davvero un fuoriclasse, eviterete di vedere i vostri commensali sforzarsi di sorridere alla battuta finale o ancora peggio dire «Non l'ho capita». Per quanto riguarda i contenuti, controllate alla voce «Conversazione». Bere. Bere con moderazione non è solo un fatto di salute, ma anche una forma di rispetto nei confronti degli altri. L'alcol, notoriamente, disinibisce e slatentizza (che non è una parolaccia, ma significa semplicemente che l'alcol fa uscire allo scoperto tutti quei piccoli disturbi della personalità che altrimenti se ne starebbero tranquilli e ben nascosti). Quindi lasciamo tutto com'è, non è piacevole scoprire che potenzialmente siamo dei serial killer, e non lamentatevi se la mattina dopo vi ritrovate in un letto che non è il vostro. Bicchieri. Versando da bere non si deve riempire il bicchiere fino all'orlo, mai, sia per l'acqua che per il vino, il tè, il caffè o i liquori, ma solo un terzo. Quando ci versano da bere il bicchiere non va tenuto in mano, ma poggiato sempre sul tavolo. Sempre. Prima di bere, ci si pulisce le labbra con il tovagliolo, così come dopo aver bevuto Biglietto da visita. Una volta le signore non lo potevano dare a un uomo, adesso c'è la massima elasticità. Evitate per favore di scrive Marchesa o Cavaliere e altri titoli, meglio semplicemente nome e cognome. Non risparmiate sui biglietti da visita: sono il vostro primo lasciapassare per il bel mondo. Un buon biglietto si riconosce dallo spessore del cartoncino. Bottiglia. In una cena formale le bottiglie andrebbero sistemate su un ripiano a parte, e non sulla tavola. La regola è che non compaiano etichette di nessun tipo (sui grissini, purtroppo, ci cascano tutti, soprattutto i ristoratori, che li portano a tavola confezionati), tranne quella del vino, quindi la padrona di casa provvederà a versare in una caraffa anche l'acqua minerale e a predisporre un tavolino di appoggio per le bevande. Si può fare un'eccezione per certe splendide bottiglie di acqua minerale di design. Briciole. È bene toglierle dalla tavola prima di servire il dessert con le apposite spazzoline d'argento o di metallo o, ancora meglio, con un tovagliolo pulito ripiegato si pulirà la tavola facendole cadere in un vassoio. No a tutti gli orribili attrezzi elettrici. Brindare. Non si dice cin cin né si fanno tintinnare i bicchieri se non durante una festa di famiglia senza formalità. Si brinda semplicemente alzando verso l'alto i bicchieri con un sorriso. Brodo. Senza risucchio, please. Nelle tazze a due manici si sorbisce silenziosamente e il cucchiaio, che servirà solo a mescolare all'inizio, si adagia sul piattino sottostante. Buffet. Orribile avventarsi sul buffet sgomitando. Se organizzate un buffet in casa fare attenzione che tutto sia disposto su un tavolo abbastanza lungo affinché si possa avvicinare più gente possibile. Piatti, posate, tovaglioli, bicchieri e bevande vanno sistemati in un altro tavolo. Prevedete anche molti piani d'appoggio, gli ospiti ve ne saranno grati. Buio. Una cena al buio in due è vivamente consigliata dallo Sgalateo. Attenzione! In certi ristoranti per coppie le luci soffuse, anche se hanno la virtù di mitigare le rughe, sono le responsabili dello smascheramento dell'età: chi non riesce a leggere il menu ha bisogno degli occhiali da presbite. Buon appetito. Non si dice. È un'abitudine molto dura a morire, ma benché sia una forma augurale sembra sottolineare che si è a tavola solo per mangiare e non per più nobili fini conviviali. Se qualcuno dei commensali lo pronuncia, si sorride e si risponde grazie. Burro. Se si porta a tavola si sistema alla sinistra accanto al piattino del pane. In genere, non si serve la sera, ma in alcuni ristoranti si usa proporlo aromatizzato. Non si imburra tutta la fetta, ma solo una piccola parte per volta; se vi capitasse di fare colazione in un albergo stellatissimo fateci caso: questa regola la conoscono in pochi. Il coltellino da burro è a lama piatta e corta. Cachi. Sconsigliabile servirli durante una cena formale, in tutte le altre situazioni sistemateli in una ciotola raccogliendo la polpa con un cucchiaino. Caffè. Il caffè precede sempre l'acquavite e viene dopo i liquori. Il caffè, ancora nella caffettiera, viene portato e servito preferibilmente in salotto. La padrona di casa lo versa nelle tazzine, quindi l'ospite si servirà dello zucchero. Lo zucchero si mescola muovendo il cucchiaino dall'alto in basso, e viceversa. Si beve tenendo la tazza con il pollice e l'indice, mentre l'altra mano sorregge il piattino. Da evitare: lo zucchero nella tazza prima della bevanda; succhiare il cucchiaino più o meno rumorosamente; alzare il dito mignolo e lasciare il cucchiaino nella tazza invece che sul piattino. Cameriere. L'approccio con il personale di servizio dirà molto di voi agli altri. Da evitare ogni tono sgarbato o di sufficienza, il tu dato senza chiedere il permesso, il tono confidenziale. Il cameriere da parte sua evita di prendersi qualsiasi libertà nei confronti del cliente, sorride e non interviene assolutamente nella conversazione. Cameriera. Vale tutto come sopra. Si eviti di fare richieste impossibili e soprattutto di gigioneggiare facendo apprezzamenti sulle cameriere sia in presenza di signore sia, e soprattutto, tra uomini. Evitate toni di superiorità con qualsiasi cameriera dando per scontato che sia ignorante come una capra, anche perché spesso dietro le timide ragazze che portano i vassoi ci sono laureande in ingegneria nucleare che parlano benissimo almeno un paio di lingue, mentre qualcuno dei commensali ha ancora difficoltà con il congiuntivo. Candele. Attenzione alle candele a tavola. È vero, scaldano l'ambiente in tutti i sensi e regalano quella calda luce offuscata che mitiga le magagne su cibo, occhiaie e stoviglie asciugate male. Importante, però, è non abusarne e soprattutto in casa vanno sistemate in sicurezza, lontano da pericoli e soprattutto dai capelli dei commensali. Capello. Come già detto la prima regola del galateo è quella di non mettere a disagio nessuno. Se capita di trovare un capello, un insetto o qualsiasi altra cosa nel piatto lo si toglie il più discretamente possibile, facendo in modo che gli altri commensali non lo notino. Dovrebbe essere la padrona di casa ad accorgersi che c'è qualcosa che non va, in quel caso provvederà rapidamente a sostituire il piatto. Al ristorante si può indicare discretamente l'intruso in mezzo al cibo. Importante: gli altri convitati faranno finta di nulla e non indagheranno sull'accaduto. Carciofo. Un ospite attento non servirà i carciofi senza essersi prima assicurato che siano privi delle foglie più coriacee, in questo modo sarà semplice gustarli solo con la forchetta, come prevede il bon ton. Carta. Buona occasione per distinguere la carta dal menu. La carta è quella che chiediamo al cameriere quando ci sediamo in un ristorante e comprende tutti i piatti serviti dalla cucina, mentre il menu (per favore, senza accento), che trova spazio all'interno della carta, è l'insieme delle portate servite in sequenza logica e studiate appositamente dallo chef. Quindi, una cosa è la carta e un'altra è il menu. Caviale. Si serve in una coppa di cristallo adagiata su ghiaccio tritato. L'importante è non usare posate di metallo, meglio di osso, tartaruga o ancora meglio madreperla: le fragili uova di storione non devono rompersi assolutamente. Gli eccentrici miliardari usano cucchiaini d'oro, ma se vi siete svenati per l'oro nero e non vi restano soldi per quello a 24 carati, va benissimo anche un cucchiaino di plastica. Durante le cene private a due, copiamo gli esperti di caviale che lo mangiano appoggiandone una piccola quantità nell'incavo dove si incrociano pollice e indice. Il gesto è molto sensuale. Centrotavola. Mai troppo alto, troppo voluminoso e troppo profumato. Perfetta una piccola composizione di fiori freschi dentro l'apposita spugna da fiorista. Champagne (e bollicine). Oggi c'è libertà nello scegliere dove servirlo, personalmente amo ampi bicchieri da rosso invecchiato. La flûte, il bicchiere dal lungo stelo dalla forma allungata, è un po' superata, mentre è ancora gradevole la coppa da champagne, oggi introvabile. Occhio alla temperatura di servizio, va servito dai 5 agli 8 gradi. Lo Sgalateo prevede, per definizione, una tale dose di creatività che sorbire champagne da un scarpa rosso fuoco con tacco 12 potrebbe sembrare banale. A fine pasto, meglio un vino dolce, ma sono la prima a trasgredire. In tutti i casi, la bottiglia non si stappa rumorosamente, ma si accompagna il tappo delicatamente fuori dal collo della bottiglia. Se volete servirlo prevedete un secchiello da tenere colmo di acqua e ghiaccio. Mai mescolare il prezioso liquido per eliminare le bollicine: sarebbe un sacrilegio. Ciliegie. Meraviglioso frutto per giocare per amore e con i bambini. Il galateo, invece, sconsiglia di servirle in occasioni formali. In tutti gli altri casi si mangia il frutto, si mette il nocciolo nella mano chiusa a pugno, poi si adagia sul piatto. Cioccolatini. Abbiamo visto che regalare cioccolato in gran parte del mondo è un buon modo per fare omaggio alla padrona di casa. Oggi ne esistono decine di varietà e prezzi. I puristi del galateo sconsigliano di regalarli per una cena poiché devono essere per forza aperti in presenza degli ospiti e questo potrebbe disturbare la sequenza dei piatti prevista da chi ha ideato il menu. Se ve li offrono in una scatola non toccateli tutti e scegliete velocemente. Cioccolato sfuso a fine pasto? Sì, se lo avrete già spezzato in comode scaglie monoporzione. Cocktail. Per qualche strana ragione una donna che sa preparare un cocktail Martini comme il faut sale immediatamente nelle quotazioni degli invitati maschi. Conosco pochissime donne che ne sappiano preparare almeno un tipo con disinvoltura, a meno che non sia per professione, quindi esercitiamoci, signore: tutte abbiamo un amico barman condiscendente che ci farà da maestro. Se facciamo un invito per un cocktail ricordiamoci di disporre tutto l'occorrente su un tavolo in modo da non correre continuamente in cucina. Sistemate la casa anche in modo da prevedere alcuni piani d'appoggio: è triste non poter dare la mano a un fascinoso sconosciuto perché abbiamo tra le mani un piatto di vitello tonnato e un prosecco. Comunque fate sempre in modo di avere la destra libera e soprattutto di non farvi beccare con un mostruoso boccone in bocca: c'è sempre un maniaco di Facebook dietro una colonna e voi potreste essere immortalati sullo sfondo. Non voglio entrare nel dettaglio su cosa preparare a un cocktail, non è la sede. Posso solo dire che ciò che rende davvero squallido un cocktail party e infelici gli ospiti più esigenti non è tanto la qualità o quantità di cibo, ma ciò che si beve. In decine di presentazioni, buffet, vernissage, matrimoni, celebrazioni e pranzi in piedi ricordo con piacere soprattutto quelli in cui il vino superava almeno i cinque euro a bottiglia. Chi organizza, anche nelle sedi più prestigiose, commette un errore madornale, se pensa alla cucina e cerca di risparmiare sulla cantina. Se invece siete voi a essere invitati a un cocktail party, evitate di fare come la mia amica americana Dorothy, esperta di finanza e assidua frequentatrice di eventi mondani. Non fermatevi, soprattutto a digiuno, per un drink lungo la strada. Potreste arrivare al cocktail party barcollando e da brilli è facile lasciarsi sfuggire qualche segreto aziendale. Pare che a New York la cosa sia piuttosto diffusa tra i timidi. Non date l'impressione di trovarvi lì solo per riempirvi la pancia, ma siate gentili e sorridenti e approfittatene per aumentare la vostra popolarità. Colazione. Solo in Italia si fa un po' di confusione sul nome dei pasti, dove «colazione» è intesa come veloce pasto del mattino. Poi per influenza anglofona si è cominciato a far slittare il pranzo alla sera, anche perché durante il giorno chi lavora spesso consuma pasti leggeri. Tutto questo genera una gran confusione, quindi sempre meglio quando si invita specificare l'ora e quando si riceve un invito informarsi. Oppure, perché in un rigurgito di nazionalismo non ritornare alla nostra cara ripartizione italiana: colazione, pranzo e cena? Coltello. Prima di addentrarsi nei dettagli d'uso ricordate che il coltello si usa solo se è necessario. È considerato una posata che serve solo per tagliare consistenze coriacee come la carne. Non si usa con uova e frittate, con le insalate e le verdure morbide, e, ovviamente non con il pesce se non quello apposito. Non si porta mai alla bocca, né tanto meno si lecca. Lo Sgalateo lo bypassa sostituendolo con le mani. Anche in caso di costolette d'agnello consigliamo di afferrare la carne con le dita e strapparla a morsi. Pochi impugnano il coltello nel modo corretto: l'indice non dovrebbe mai oltrepassare il manico e quindi non dovrebbe toccare la lama, il dorso della mano è rivolto verso l'alto. Coniglio. Raro e costoso quello di fattoria, non servitelo in cene e pranzi con un minimo di formalità. Il coniglio non è gradito neppure da molti stranieri non vegetariani, che lo considerano un animale domestico. Consommé. Non so perché ho inserito questa voce, in realtà sono decenni che qualcuno non mi serve un consommé. Ma il nome è così chic che non poteva mancare nell'elenco. Diciamo che la regola vale per la maggior parte delle pietanze brodose. Si serve nelle tazze con manici adagiate su un piattino. Si sorbisce silenziosamente e alla fine si lascia il cucchiaio sul piattino. Conto. Sembra superfluo, ma può trasformarsi nel momento più imbarazzante della serata, e proprio per questo è utile e educato evitare ogni fraintendimento. Urge essere subito chiari: chi invita paga il conto, uomo o donna che sia. Nelle cerimonie o cene d'affari, quando non è chiaro chi paga, evitate accuratamente le scene madri che spesso hanno il solo obiettivo di attirare l'attenzione. La persona galante, generosa e brillante si alza qualche secondo prima degli altri commensali, si allontana e va a pagare, poi torna a sedersi senza una parola. Non si fanno commenti sul prezzo e tanto meno discussioni con il proprietario. La cosa migliore è informarsi sui prezzi prima di invitare e, se non è possibile, ricordatevi che il modo migliore per punire un ristoratore disonesto è non tornare più. Oppure segnalatelo a un'amica che di professione fa la critica gastronomica, ci penserà lei. Conversazione. Non si parla di soldi, di sesso e di salute. Per tutto il resto vedi il capitolo dedicato. Lo Sgalateo invece prevede conversazione libera senza tabù. Cozze e vongole, ostriche, frutti di mare. Da evitare nelle cene formali, per quelle con gli amici è meglio corredare il piatto con una ciotola lavadita. Nel caso si tengono strettamente con due dita nella mano sinistra e si estrae il mollusco con la forchettina apposita. Critiche. Le critiche a un piatto non si fanno mai in pubblico a chi ha cucinato in una casa privata, né al ristorante se siamo ospiti. La regola è che si sorride anche per non rispondere negativamente a una domanda diretta. Invece si fanno sempre in tutti gli altri casi. Dal momento che se scrivo male un articolo me lo fanno rifare, perché devo pagare un piatto (spesso profumatamente) se non è all'altezza? Le lamentele si fanno educatamente, garbatamente, ma in maniera ferma. Crostacei. Meglio servirli sempre sgusciati per evitare imbarazzi. In caso contrario, dotatevi delle pinze apposite. Le chele non si portano mai alla bocca, né si succhia il contenuto. Per lo Sgalateo è tutta un'altra storia. Cucchiaio. In Italia, si posiziona con la parte concavo posta in su (in Francia si fa il contrario), a destra accanto al coltello. Non si usa più portare troppe posate in tavola e se servite un gelato o un dolce morbido portate la posata necessaria di volta in volta. Per il gelato quella più adatta ha la forma di una palettina. Il cucchiaio si impugna tra pollice e indice e si porta alla bocca o di lato, evitando i risucchi, oppure introducendolo alla francese, di punta. Non soffiate sulle pietanze nel cucchiaio e non usatelo per gli spaghetti. Denaro. Non se ne parla a tavola, come non si dice mai il prezzo degli oggetti, a meno che non siamo in confidenza con i commensali, ma anche in questo caso non è gentile. Potete vantarvi con le amiche di un bel diamante ricevuto in dono dal fidanzato, senza ovviamente dire il costo. Schiatteranno ancora più d'invidia. Desinare. I toscani lo chiamano desinare, dall'antico francese disner derivato dal latino popolare disiunare, cioè rompere il digiuno; nel francese d'oggi è diner, in inglese dinner. Dessert. Con questo termine si indica l'ultima parte del pasto. Il nome deriva dal francese desservir, che significa «sparecchiare» e raggruppa tre categorie: formaggio, dolce, frutta e quindi non sta a indicare, come si crede comunemente, solo una portata dolce. Ricordatevi che l'invitato non porta il dessert, salvo che non l'abbia preannunciato al momento dell'invito oppure se chiesto espressamente dalla padrona di casa. Prima del dessert si sparecchia la tavola e si tolgono pane, piatti sporchi e bicchieri, eventuali briciole dalla tovaglia e si porta vasellame pulito. Décolleté. Bandito agli incontri professionali e con la futura suocera, alle cene all'oratorio e gite familiari. Consentito in tutti i casi in cui si deve essere dressed to kill, espressione inglese che rende bene l'idea. Dieta. Un consiglio su tutti: se siete a dieta stretta non invitate né accettate inviti, statevene a casa tranquilli. Non c'è cosa peggiore che dividere una cena con compagni immusoniti dalle costrizioni alimentari. Mai pronunciare la fatidica parola a un incontro amoroso: avrebbe un effetto raggelante. Fagiolini. Essendo un ortaggio non si tagliano con il coltello, ma si mangiano solo con la forchetta. Fazzoletto. A tavola si cerca di non soffiarsi il naso, se è necessario lo si fa con discrezione, quando si sente che si sta per starnutire ci si gira di lato, possibilmente lontano da ogni commensale, e si preme il fazzoletto sul naso a protezione. Ancora meglio sarebbe allontanarsi dal tavolo dopo aver chiesto il permesso. Non usate mai il tovagliolo. Fichi freschi. Si mangiano tenendoli con la forchetta nella mano sinistra, si tagliano in quattro spicchi, poi si pelano aiutandosi con il coltello e la polpa si porta alla bocca con la forchetta. I fichi secchi si mangiano con le mani. Figuraccia. L'abbiamo già detto molte volte, le figuracce dei commensali a tavola non vanno sottolineate, anzi sarà premura della padrona di casa stemperare gli imbarazzi. E se siete voi a fare la figuraccia, usate l'arma imbattibile di uno «scusate» accompagnato da un sorriso. Se la figuraccia è rivolta ai padroni di casa un bel mazzo di fiori il giorno dopo sarà di grande aiuto. Fine pasto. Alla fine del pasto si lasciano le posate sul piatto accostate con i manici sul bordo tra le ore 16.20 e le 18.30. Non c'è cosa peggiore che un piatto abbandonato con le posate in disordine seminascoste dai rimasugli di cibo. Conoscere questa semplice regola vi permetterà di «fare la radiografia» ai vostri commensali e, in più, sarete in grado di valutare anche il personale di servizio. Infatti, solo un cameriere che conosce il suo lavoro sa che le posate sistemate in un determinato modo stanno a significare: ho finito, può portare via. Fiori. Ben accetti fiori e foglie come centrotavola, purché non siano troppo alti da oscurare l'altra parte del tavolo. Altrimenti si rischia di non vedere chi ci sta seduto di fronte, se non al termine della cena. È consigliabile che non siano troppo profumati per non interferire con l'aroma delle vivande. Sempre più è accettato e consigliabile utilizzare singoli fiori recisi o a mazzetti come segnaposto o come portatovagliolo. Come dono è meglio farli recapitare qualche ora prima o il giorno dopo; se portati all'ora di cena, infatti, possono creare disturbo alla padrona di casa che dovrebbe perdere tempo a cercare un vaso adatto mentre si occupa di ricevere gli ospiti. Forchetta. Si appoggia a sinistra del piatto e non si impugna come fosse una zappa. Formaggio. Ricordatevi che il formaggio precede il dolce. La regola prevede che sia servito solo a mezzogiorno, ma oggi sempre più spesso viene presentato pure la sera. Se si è avuta l'opportunità di acquistare alcune varietà di formaggio italiano o estero, magari inusuale o introvabile, si può imbandire una cena «a tema»; con composte, confetture o frutta abbinati. Il taglio deve essere fatto in modo che ogni commensale abbia una fetta con una parte di crosta (quando è presente), una parte del centro e del cuore; solo in questo modo non si altera l'aroma e si percepisce il gusto complessivo di ogni formaggio. La quantità servita deve tener conto del fatto che il formaggio, a differenza di altre portate, si dovrebbe offrire una sola volta. I formaggi duri richiedono il coltello e la forchetta; quelli molli la sola forchetta o il solo coltello se spalmati su bocconi di pane. Consiglio per gli intenditori: per gustarli al meglio toglieteli dal frigorifero almeno un'ora prima di consumarli. Purtroppo anche tanti ristoranti se lo dimenticano. Di norma, si inizia dal più dolce e fresco per concludere con il più saporito e stagionato. La mozzarella si consuma quasi tiepida e teme il frigorifero. Fragole. Se ve le propongono in una coppetta si mangiano con un cucchiaino, se su un vassoio intere si prelevano con il picciolo, si mangiano in due bocconi e si deposita il picciolo verde su un piattino. Per le signore e taluni giovanotti: vietato civettare con i commensali mangiando fragole ammiccando, consigliabile invece in un tête-à-tête tra mura sicure, dove potrete sbizzarrirvi. Frattaglie. La maggior parte degli esseri umani non sa neppure cosa siano e al semplice suono della parola scatta la smorfia di disgusto: non si fa. Vi basti pensare che il foie gras, in quanto fegato, è una frattaglia ed è considerato tra i più nobili piatti al mondo. Lo stesso vale per le animelle tanto care a Escoffier, il famoso cuoco francese, la finanziera preparata con le rigaglie di pollo e il rognoncino. Insomma, vale per le frattaglie come per altri ingredienti inusuali: non giudicate senza provare. Sappiate che c'è una stretta correlazione tra apertura mentale e disponibilità ad assaggiare cibi inusuali o appartenenti ad altre civiltà. Quindi se durante una cena privata vi vengono servite, assaggiatele senza prevenzioni. Frittata. Non si mangia mai con il coltello, così come le uova cucinate nelle loro infinite varianti. Frutta. Mangiare la frutta con le posate è assai complicato; se volete bene ai vostri ospiti servitela già pelata e tagliata a fettine. Nota di costume: la classica macedonia è terribilmente datata e quasi sempre si riduce a una poltiglia informe dove i sapori della frutta si mischiano irrimediabilmente. È molto più fresco e moderno servire della frutta già pelata e tagliata a tocchetti o fettine, e spennellata con un mix di zucchero, limone e anice stellato lasciato in infusione, così non diventerà nera. Frutta secca. Noci, mandorle e nocciole si consumano rompendole con lo schiaccianoci e si portano alla bocca. È assolutamente vietato spaccarle con i denti in pubblico, mentre in privato le signore trovano molto virile che vengano aperte da una sfilza di denti bianchissimi. Fumo. Non si fuma sino a dopo il secondo e mai se la padrona di casa non concede apertamente il permesso. I recenti provvedimenti vietano giustamente di fumare a tavola nei locali pubblici, ma la cosa ha risvolti positivi: vuoi mettere quante persone interessanti si possono conoscere nelle sale fumatori o sul marciapiede fuori dal ristorante? Garden party. Se ne organizzate uno, fate attenzione alle temperature tropicali per salse e cibi deteriorabili. Procuratevi del ghiaccio e tenete a disposizione lo spray antizanzare. Gelato. Per gelato e creme, sorbetti e semifreddi si utilizza il cucchiaio. Il «vero» cucchiaino da gelato è una sorta di palettina, ma andranno benissimo anche quelli normali. Gesticolare. Non fatelo davanti al naso degli ospiti, rischiate di essere importuni e di far cadere il vasellame sulla tavola. Giacca. Non si toglie mai nelle cene formali e tra amici si chiede prima il permesso ai padroni di casa; vietato anche togliersi la giacca e appenderla allo schienale della sedia, lo stesso per la cravatta. O si porta per tutta la sera o non si porta. Gironzolare. Quante volte si vedono al ristorante giovanotti e signore fermarsi ai tavoli degli amici abbandonando il proprio: non si fa, si saluta con un cenno della mano discretamente e senza sbracciarsi né urlare da un punto all'altro della sala. Gomiti. Mai sul tavolo e, se è possibile, teneteli stretti al dorso, anche se è difficile allargarsi nei minuscoli tavolini delle tavole urbane. Gossip. Meglio evitarlo a cena, a meno che non siate tra amiche o amici di vecchia data: la gaffe è sempre in agguato. Granchio. Vera crudeltà servirlo agli ospiti con il carapace e non già aperto con la polpa a portata di mano, che si preleva con l'apposita forchetta a tre denti. Grissini. È sempre più diffusa l'abitudine di offrirli ai propri ospiti; in questo caso, vanno tolti dalla confezione e sistemati in un cestino con il pane o da soli sulla tavola. Al ristorante è proibito avventarsi sulle confezioni di grissini senza tener conto degli altri commensali. In tutti i casi non si mangiano a bocconi, ma si spezzano e si portano alla bocca. Imboccare/si. Non si dovrebbero imboccare bambini o anziani in pubblico o al ristorante, ma ricordiamo che dipende sempre dal tipo di locale. Di norma, è meglio non portare alle cene formali i bambini sotto i dodici anni. Non si imbocca mai la fidanzata o l'amico a una cena o un pranzo dove si rispetta l'etiquette. Meglio evitare questa pratica, invece consigliatissima dallo Sgalateo. Se vedete un amico sposato imboccare un'altra donna al ristorante, state alla larga. Insalata. Si serve dopo aver passato due volte il piatto di portata principale per eventuali bis. Si adagia in un piatto o in una ciotola a sinistra del piatto. Come tutte le verdure si mangia con la sola forchetta, però è consentito usare il coltello per tagliare le foglie. Meglio comunque servire l'insalata in modo che possa essere portata alla bocca senza essere tagliata. Invito. Si risponde sempre a qualsiasi tipo di invito e si ricambia entro due mesi. Negli inviti indicate chiaramente il luogo, l'ora e il tipo di abbigliamento richiesto. Si conferma entro tre giorni al massimo e si disdice facendosi perdonare con un piccolo dono floreale. Per gli uomini andrà bene anche una pianta. Invitati. Anche per gli invitati le regole sono molte, limitiamoci riassumere dicendo che si acquista il titolo di invitati ideali quando: non si mettono a disagio gli altri ospiti, quando si contribuisce al divertimento e al piacere di tutti e quando si dimostra gratitudine ai padroni di casa per l'invito. Anche se si viene invitati al ristorante valgono le stesse regole, in più si cerca di non ordinare i cibi più costosi, ma neppure solo i più economici. Se il menu è già stato fissato e vi sono piatti che proprio non potete mangiare per ragioni di salute, chiedete di sostituirli con qualche cosa di semplice, come riso, una bistecca o un pezzetto di formaggio. Un invitato perfetto al ristorante si comporta come se fosse in casa del proprio anfitrione e quindi evita critiche alla cucina o al locale e cerca anzi un motivo per esprimere il proprio gradimento della serata. Chi invita non paga il conto a tavola, ma si alza regolando ogni cosa in privato. Se avvenisse al tavolo, si cerca di ignorarlo, limitandosi a fine serata a ringraziare con qualche commento tipo: «Siamo stati davvero bene» oppure un «Grazie di tutto». Deve essere l'anfitrione e mai l'ospite a concludere la serata; darebbe l'impressione di non gradire la compagnia. Attenzione, quindi, padroni di casa: sta a voi chiudere le danze con garbo. Jeans. In molti paesi del mondo andare a cena o in una casa privata indossando i jeans è sgradito, anche se certe marche costano centinaia di euro. Kiwi. Si taglia a metà e si consuma con un cucchiaino. Legumi. Si tratti di fagioli, piselli, fave o lenticchie i legumi si mangiano con la forchetta. Non si servono fagioli alle cene formali. Liquori. Si servono a tavola o ancora meglio in salotto dopo il caffè. Lisca. Se una vi si conficca in gola non stramazzate al suolo con le mani alla gola, ma alzatevi e andate in bagno dopo aver mangiato un boccone di pane. Ecco perché per evitare imbarazzo è opportuno servire pesce perfettamente pulito. Lumache. L'unica condizione per servirle con il guscio è fornire ai commensali le apposite pinze, in tutti gli altri casi si propongono sgusciate e in umido nelle diverse varianti. Nel primo caso, pinza nella mano sinistra e forchettina nella destra per estrarre la polpa. Make-up. Sì, è vero, non ci si rifà il trucco a tavola e confermo, ma davanti al rossetto non resisto. Mi piace vedere una bella donna tirar fuori dalla borsetta lo specchietto gioiello di famiglia e stendersi un rossetto rosso sulle labbra. C'è chi lo sa fare e chi no: mai durante un pranzo di lavoro. Mancia. In Italia la mancia non è obbligatoria come negli Stati Uniti o nel mondo anglosassone, ma gradita. Si lascia sempre a chi porta i bagagli e a chi vi parcheggia la macchina, al personale di servizio della casa che ci ospita e a tutti coloro che hanno svolto un servizio che non era nelle loro competenze. La cifra deve essere compresa almeno tra il 5 e il 10 per cento del conto totale. Al ristorante non si dà in mano al cameriere, ma è preferibile lasciarla sul piattino con il quale è stato consegnato il conto; se non è possibile si farà scivolare nella mano del destinatario senza farsi notare. Mandarino. Si sbuccia con il coltello tenendolo fermo con la mano sinistra e poi si mangia uno spicchio per volta. I maschi, di norma, non mangiano frutta perché sono maledettamente pigri, ma provate a sbucciargli un mandarino o una fetta di mela, vedrete che apprezzeranno molto il gesto materno! Ricordate però la Teoria del Precedente. Lo Sgalateo consiglia la «sbucciatura della frutta» come merce di scambio: tu fai una cosa per me e io in cambio ne faccio una per te. Mandorle. Vale la stessa regola dell'altra frutta secca. Una raccomandazione: chiudete la sinistra sulla mano destra a protezione, prima di premere le due parti dello schiaccianoci. Si sono visti pezzi di gusci schizzare nei décolleté e colpire il lampadario. Dai latin lover sono considerate cibo afrodisiaco. Mani. Si tengono sulla tavola in Italia e in grembo, nelle pause, se seguite la scuola britannica. Nel mondo occidentale non si mangia nulla con le mani tranne il pane, i pasticcini, l'uva, il cioccolato e il sushi. Sciocco ricordarlo? Prima di andare a tavola bisogna lavare mani e unghie. Lo Sgalateo prevede e consiglia di usare mani e dita quando e come si vuole. Marmellata. Solo quella di agrumi si può chiamare così, è chic sapere la differenza; tutte le altre sono confetture. Non servitevi dal barattolo, è cafone. Mettetene una piccola quantità sul piatto e poi spalmatela sul pane con un cucchiaino o con un coltello da frutta. Mele e pere. Si tagliano in quattro parti sul piatto con il coltello e la forchetta. Le parti si infilzano con la forchetta e con il coltello si eliminano prima la buccia e poi il torsolo, poi si tagliano in pezzi più piccoli e si portano alla bocca con la forchetta. Melone. Dovrebbe essere servito a fette e già sbucciato, se piccolo e maturo può essere servito tagliato a metà, in questo caso si consuma con un cucchiaino. Menu. È cortese, quando si invita a casa, scrivere su un cartoncino la data, i piatti e i vini serviti, sarà utile agli invitati per regolare il proprio senso di sazietà. Quando siete al ristorante chiedete la carta e non il menu. Non soffermatevi su ogni portata un'ora prima di decidere cosa ordinare: è irritante, per il cameriere e per gli altri ospiti. Minestra. Senza rumoracci e senza soffiarci sopra, si sorbisce con il cucchiaio. Non si serve se non per la cena e mai due volte, così recita il cerimoniale. Nel servirla è facile sporcare la tovaglia, quindi è opportuno o tenere a portata di mano un piattino dove appoggiare il mestolo nel tragitto zuppiera-fondina, oppure, ancora meglio, fare le porzioni in cucina e portare a tavola ciascun piatto con grande attenzione. Evitate di offrire una minestra a una cena organizzata per fare conquiste: a meno che non sia una sofisticatissima vellutata di crostacei, ogni altra preparazione in brodo rischia l'effetto «minestrina da ospedale», il che non è affatto sexy. Mollica. Chi non mangia la mollica o la crosta, la ripone in un angolo del proprio piatto; guai a lasciarla sulla tovaglia. Vietato fare pupazzetti con la mollica o, peggio, proiettili da tirare al commensale più odioso. Lo Sgalateo vi lascia liberi di creare con la mollica piccoli cuori da regalare al vostro partner durante la cena. Musica. In casa, una musica di sottofondo è piacevole mentre si aspettano gli ospiti, ma durante la cena dovrete abbassare il volume. Nella scelta, sbizzarritevi: oggi ci sono cd di accompagnamento per ogni esigenza, chiedete in un negozio specializzato. Personalmente adoro, dal tramonto in poi, il vecchio Frank. Per un cocktail in piedi o un garden party, la musica è sempre fondamentale. Una domanda: vi siete mai chiesti dove vanno a prendere quei terribili cd nelle hall di certi alberghi paludati? Naso. Ovviamente ogni operazione di pulizia è vivamente sconsigliata. Nel linguaggio del corpo ogni volta che si toccano le zone periferiche intorno al naso il nostro commensale potrebbe mentire. Attenzione, potrebbe. È il retaggio di un comportamento infantile che porta a mentire coprendosi la bocca con le mani; visto che l'amministratore delegato di una multinazionale non può coprire con entrambe le mani la bocca spalancando gli occhi, ecco che l'inconscio si accomoda sfregando il naso o con movimenti simili. Noccioli. I noccioli della frutta o le parti di scarto, inavvertitamente messe in bocca, non si lasciano cadere direttamente nel piatto. Se sono stati portati alla bocca con una posata si fanno scivolare su di essa e poi sul piatto, ma forse è più facile deporli nella mano chiusa a pugno e riportarli sul piatto. Noia. Sarebbe bello divertirsi follemente a ogni occasione conviviale: ma non è così. Se vi annoiate a morte perché il vostro vicino di destra parla solo di insetti in via di estinzione e l'altro è un distinto ottantenne ma con problemi di udito, tenete duro. Non si guarda l'orologio, né le vie di fuga come la porta d'uscita, né si parla con un tizio nell'altro tavolo escludendo i commensali vicini a voi. Odore. Gli odori di cucina se si invita a casa vanno eliminati azionando le ventole o ancora meglio aprendo le finestre prima che arrivino gli ospiti. Al ristorante sarebbe obbligatorio non narcotizzare i clienti con odori molesti, d'altra parte una stanza completamente asettica non fa buona impressione. Signore, non profumatevi troppo. Olive. Si portano alla bocca con gli stuzzicadenti (unico utilizzo ammesso degli odiosi aggeggi), ma se vengono servite come aperitivo sono consentite anche le mani. Il nocciolo si pone nella mano e poi si lascia in un apposito piattino. In realtà spero sempre di trovare cibo più originale come aperitivo, sia in casa che nei bar, o almeno se volete offrirmi delle olive devono essere buonissime. Ossi. Si lasciano nel piatto e non si toccano con le mani. Evitate, nel tentativo di staccare un pezzo di carne rimasto attaccato all'osso, di farlo schizzare in testa a qualche malcapitato. Lo Sgalateo prevede il contatto con gli ossi da scarnificare e succhiare a piacere come per rivivere un rituale primitivo. Ostriche. Se le offrite voi dovete essere sicuri della qualità superiore, fatele aprire e non gettate via, per carità, la loro acqua di vegetazione. Esistono delle speciali forchettine a tre denti per molluschi che potete usare per estrarre la polpa, in caso contrario potete usare la mano destra evitando il più possibile ogni risucchio. I puristi le degustano assolutamente nature. Nello Sgalateo, ca va sans dire, se ne fa grande uso, sarà per l'alto valore simbolico del mollusco considerato afrodisiaco. Padroni di casa. Dovrebbero essere sorridenti e freschi, anche se in realtà sono stravolti dalla stanchezza. Mai iniziare a mangiare prima della padrona di casa, ma attendere un suo cenno per cominciare. Pane. Una delle poche cose che si possono toccare con le mani, ma non si spezza con i denti. Si fa a pezzi con le mani e poi si porta alla bocca a piccoli bocconi. Evitate di tagliarlo a tavola a meno che non si tratti di un rarissimo pane toscano che desiderate far vedere in tutto il suo splendore, in tutti gli altri casi si taglia in cucina e si porta a tavola in un cestino oppure in un vassoio d'argento. Il piattino del pane, gradito nelle cene formali, si mette in alto a sinistra di ogni commensale. Pasticcini. Si prendono dal vassoio con le mani, insieme alla carta pieghettata che li avvolge. Vietato indugiare nella scelta e soprattutto toccarli tutti prima di sceglierne uno. Pâté. Si mangia con la forchetta e, se accompagnato dai crostini, non viene spalmato ma mangiato separatamente. Pausa. Quando si smette di mangiare per fare una pausa, si mettono le posate con le punte del coltello e della forchetta che si incrociano, con i rebbi della forchetta all'ingiù e la lama del coltello verso il centro del piatto. Come già detto, in questo modo il cameriere o chi per esso dovrebbe, dico «dovrebbe», capire che non deve portar via il piatto. Per piacere e grazie. Ricordiamoci di pronunciarli sempre, ogni volta che chiediamo di passarci qualcosa, quando veniamo serviti a casa o al ristorante, quando chiediamo qualcosa al cameriere. Pesce. Prima il pesce e poi la carne, questa è la regola. Qualsiasi portata di pesce si serve con le posate apposite, se non avete le posate adatte usate solo la forchetta. Pesche. Mangiare frutta intera (purtroppo) con le posate non si fa quasi più, perché difficilmente i ristoranti metropolitani la propongono. È considerata ancora una portata in certe pensioni familiari sull'Adriatico o sulle coste ioniche. Se a una cena formale decidete di mangiare una pesca che vi viene servita intera consideratela una faccenda seria. Si puntano (non infilzano!) i rebbi della forchetta sul frutto e si incide la polpa col coltello per tagliare uno spicchio alla volta, quindi si ferma con la forchetta lo spicchio e lo si sbuccia con il coltello. Si tiene lo spicchio sbucciato sulla punta della forchetta, si taglia un boccone (massimo 2 centimetri) e lo si porta alla bocca senza cambiar di mano alla forchetta, che quindi rimane nella sinistra. Piatti. Quando il cameriere si avvicina per portarci i piatti, e soprattutto per toglierli, non va aiutato. Allo stesso modo, non si impilano i piatti sporchi: perché volete intralciare il lavoro del personale di servizio? Rilassatevi, se pagate il conto avete il diritto di farvi servire. Si può aiutare il personale perché distante, solo se ce lo chiede, anche se non dovrebbe mai farlo. Picnic. Che bello vedere un po' di galateo anche sull'erba, basta poco: piatti di cartone, fazzolettini e tante torte salate. Unica eccezione, mai i bicchieri di carta, mettete dentro un bel cesto di vimini tante flûte di vetro, di certo qualche partecipante al picnic sarà felice di aiutarvi. Il bon ton si rilassa sotto il cielo e diventa più elastico, ma ritorna rigidissimo al momento del dopo picnic. Vietato lasciare mozziconi, plastica e rifiuti abbandonati sull'erba, e vi assicuro che questo è ben peggio che dire «Buon appetito». Piedi. In teoria dovrebbero stare sotto la sedia del proprietario, e questo vuol dire non allungarli incivilmente sotto il tavolo intralciando le estremità altrui e tanto meno lateralmente provocando involontari effetti «piedino». Lo Sgalateo permette di sbirciare sotto il tavolo per, studiare la posizione dei piedi: incrociati, ci sono ancora un po' di riserve. Con le punte all'interno? È rimasto un pizzico di infanzia. Accavallate? C'è ancora qualche resistenza nel vostro commensale. Piedino. Sono due le regole fondamentali da rispettare per il seduttore (uso il maschile, ma vi sono signore grandi esperte nel campo) che usa il piedino come arma di seduzione. 1. Si fa solo se si è certi di non ricevere un rifiuto. 2. Si fa solo se si è certi di non essere scoperti dal resto dei commensali. Pinzimonio. Uno dei pochissimi casi nei quali è permesso usare le dita per mangiare. Le verdure vengono servite già tagliate e ogni commensale ha una scodellina dove intingere carote e sedani. Piselli. È esilarante vedere, come è capitato a me, schizzare i piselli dal piatto come proiettili. Se accade significa che il cuoco era pessimo: dovrebbero essere morbidi. Di norma, basterebbe raccoglierli con la forchetta. Pollo. Anche se un commensale vi ricorda il detto popolare secondo cui pure la regina Margherita mangiava il pollo con le dita, lasciate perdere e continuate a usare forchetta e coltello. Il pollo è difficile da tagliare in tavola anche con il trinciapollo, fatelo in cucina dopo averlo mostrato, se volete, ai commensali. Polpette. Per qualche inspiegabile motivo servire polpette a una cena formale è considerato scorretto, probabilmente perché si può sospettare che siano preparate con gli avanzi. Quindi evitatele, anche se sono un piatto straordinario, in primis quelle di bollito. Sono vivamente consigliate dallo Sgalateo, che incoraggia il consumo di polpettine, cibo da mangiare con le mani e soprattutto da imboccare. Pompelmo. Si serve tagliato a metà e si consuma prelevando la polpa con un cucchiaino. Posacenere. Non si mette in tavola, mai, se non a fine pasto e dopo aver chiesto il permesso di fumare agli altri commensali. Al ristorante non si può più fare, ma non lamentatevi. È così bello ritrovarsi fuori sul marciapiede: si fanno molte conoscenze interessanti. Vietato però abbandonare il proprio ospite o accompagnatrice per interminabili pause. Posate. Oggi si tende a snellire il più possibile il numero delle posate. L'ideale è il tris: una forchetta, un coltello e un cucchiaio, se serve; man mano che si susseguono le portate si cambiano le posate. Posti. L'uomo siede alla destra della donna, le riserva il posto lungo la parete o che comunque le permetta di vedere la sala. Ogni uomo siede a fianco di una signora che non sia sua moglie (o compagna). Nel caso di due coppie, ogni signora siederà alla destra dell'uomo che non è suo marito. Se invece l'uomo e la donna siedono da soli, ai due lati consecutivi di un tavolo quadrato, lui siederà alla sua destra per poter utilizzare il braccio destro e quindi versarle da bere con più agio. I signori siedono un attimo dopo le signore. Lo so, non lo fa quasi più nessuno tranne che in certi adorabili ambienti. Durante il pasto se una signora si allontana dal tavolo, per qualunque motivo, gli uomini si alzano contemporaneamente a lei, si risiedono appena si allontana e si rialzano appena riappare. A una cena in casa privata, ricordate, l'ospite d'onore uomo si siede alla destra della padrona di casa, mentre l'ospite d'onore donna si siede alla destra del padrone di casa. Prenotazioni. Se avete prenotato in un ristorante e poi per qualsiasi motivo cambiate idea, soprattutto se il locale possiede coperti limitati, telefonate sempre per disdire. All'estero nei ristoranti stellati si lascia il numero di carta di credito perché in caso di mancato avviso viene addebitata una mora. Presentazioni. Prima di imparare qualsiasi altra regola, la buona educazione ci impone di presentarci ogni volta che ci troviamo a dividere una tavola. In teoria dovrebbero pensarci i padroni di casa, ma se chi ospita è assente lo faremo noi dicendo il nostro nome con un sorriso accompagnato da un buongiorno o da un buonasera. Prezzemolo. Che dilemma, dire o non dire della fogliolina di prezzemolo tra i denti del nostro commensale. Sì, meglio dirlo. Basta sussurrarlo discretamente in un orecchio. Ribes e frutti di bosco. Si servono in coppette con il cucchiaio da frutta. Reclami. Nel caso di un cibo malcucinato, di un vino che sa di tappo o di una posata o un piatto non pulitissimi, ci si limita, senza recriminazioni, a chiedere che vengano sostituiti spiegando il problema con gentilezza. Con educazione e garbo è giusto sottolineare gli errori da parte della cucina o del servizio, nei locali pubblici. È peraltro di cattivo gusto mostrarsi incontentabili, critici, polemici, commentare la scelta dei piatti al cameriere o parlare dei propri disturbi intestinali agli altri ospiti. Ricci di mare. Solo se volete male ai vostri ospiti li servirete a una cena formale. Meglio lasciare questo ingrediente sensuale per uno spaghetto a due, magari cucinato insieme e consumato su una terrazza al tramonto. Riso e risotto. Si mangia con la forchetta, non si soffia sul risotto e non si allarga nel piatto come si vede fare. Ritardo. Mai arrivare in ritardo a un appuntamento galante, anche se alla signora è permesso un indugio di dieci minuti. Se arriviamo in ritardo in una casa privata o al ristorante è d'obbligo telefonare per avvisare. Sale e pepe. Non si chiede al ristorante di classe se non strettamente necessario, è come sottolineare che il piatto non era perfetto. In casa, durante i pasti quotidiani si mette in tavola, ma è meglio non farne uso. Salame. In una cena formale non si serve. Con gli amici e in famiglia ben venga qualche fetta di salame. Si può prendere con le mani e mangiarlo accompagnato dal pane; si eviti il classico panino, a meno che non ci si trovi a un bel picnic. Salmone. Si consuma con le posate da pesce, se accompagnato da crostini non va messo sul pane ma consumato a parte. Salse. Le salse non si raccolgono se non con il salsacoltello, una posata a forma di cucchiaio, ma con un lato tagliente creata apposta per tagliare e tirar su ciò che rimane nel fondo del piatto. Scampi. Serviteli già sgusciati quando è possibile. Consigliati per le cene private a due. Scarpetta. Mi dispiace, ma il galateo non ammette scarpette di sorta e soprattutto non tollera surrogati, e cioè tutte quelle pratiche che i commensali ingegnosi si inventano per raccogliere un buon sugo dal fondo del piatto. Non esistono deroghe. Via libera alla scarpetta, invece, nelle riunioni familiari e per lo Sgalateo. Segnaposti. È un bel gesto predisporre i segnaposti quando si hanno tanti ospiti e soprattutto se vogliamo mantenere la regia a tavola. Potete sbizzarrirvi con oggetti di ogni genere, che servano da supporto al cartoncino sul quale sarà scritto il nome. Soffiare. È molto maleducato soffiare sul cucchiaio o sul piatto per raffreddare il cibo. Sottopiatti. Sono utili e doverosi nelle cene formali, belli quelli in argento, ma sono ammessi tutti i materiali. Spaghetti. Si mangiano arrotolandoli alla forchetta, che non va puntata sul piatto, ma tenuta leggermente inclinata, quasi orizzontale. Si raccolgono pochi fili di pasta per volta, in modo da portare alle labbra un boccone piccolo. Evitate accuratamente risucchi di ogni tipo e rimasugli di sugo sul mento. Orribile l'utilizzo del cucchiaio o, peggio ancora, del coltello per tagliarli! Spumante. Quello secco non si serve mai a fine pasto insieme ai dolci. Se volete mostrarvi esperto di vino, dite «metodo classico», oggi lo spumante si chiama così. «Bollicine» pare sia superato, ma rende l'idea. Quando si stappa tenete la mano destra sopra l'imboccatura della bottiglia per evitare che il tappo colpisca qualcuno nella stanza e soprattutto cercate di essere silenziosi. Starnuto. L'ideale sarebbe reprimerlo, soffocarlo, ucciderlo, specialmente durante cerimonie e pranzi formali. Quando vi accorgete che lo starnuto sta arrivando, conviene alzarsi e procurarsi un fazzoletto pulito. Se proprio dovete restare seduti, voltate il viso all'esterno del tavolo e starnutite dentro il fazzoletto, badando di fare meno rumore possibile. In Giappone è considerato ripugnante starnutire a tavola. Stuzzicadenti. Come tutte le operazioni riguardanti il proprio corpo, stuzzicarsi i denti a tavola non è ammesso. In realtà i ristoratori dovrebbero mettere il contenitore degli stuzzicadenti in bagno. Se il fastidio è insopportabile, alzatevi dal tavolo. Sushi. Se non sapete usare le bacchette, non pasticciate inutilmente. Usate le mani, che è consentito, oppure chiedete una forchetta. Ogni pezzo di sushi va intinto nella soia dalla parte del pesce, mai dal riso. Le bacchette si appoggiano all'apposito utensile che assomiglia a un poggiaposate, e quando avete finito si mettono allineate sulla ciotola che contiene la salsa di soia. Al sushi bar, se sedete al bancone, non date soldi al maestro sushi presi dall'entusiasmo: non può toccarli. Tavola. Sulla tavola non si appoggia nessun oggetto, niente chiavi, occhiali, portafogli o telefoni. Tè. Si beve sorseggiando dalla tazza senza sollevare il mignolo, per carità. Non vi si inzuppano dolci o tartine, ma si alternano piccoli bocconi e sorsi di bevanda. La padrona di casa che invita per il tè predispone zucchero, latte e fettine di limone, qualche biscotto ed esorta gli ospiti a servirsi da soli dopo aver versato il tè nelle tazze. Toilette. Non c'è bisogno di annunciarlo rumorosamente, se si vuole andare in bagno ci si alza con un semplice «Scusate». Alle signore consiglio di non abbandonare per ore il proprio cavaliere ad aspettare al tavolo. Torta. Si mangia con l'apposita forchetta a tre punte. Tovaglia. La tovaglia, di qualsiasi colore sia, dovrà essere stirata alla perfezione e questo va fatto una volta che viene stesa sulla tavola, sopra un «mollettone», così si chiama il telo morbido di protezione alla superficie del tavolo. Scegliete tessuti naturali in colori contrastanti con i piatti la cui base, sarò tradizionalista, deve essere rigorosamente bianca. Tovagliolo. Solitamente piegato e posato sopra il piatto o il sottopiatto va a destra, ma si può semplicemente piegare a triangolo e adagiare sul piatto. Evitate piegature fantasiose e laboriose. All'inizio del pasto va steso sulle ginocchia, sempre dopo la padrona di casa o, al ristorante, dopo la persona che ha invitato. Non va mai legato al collo. Si usa prima di bere, sempre, e dopo aver appoggiato il bicchiere. Alla fine del pasto si lascia alla sinistra del piatto. In alcuni ristoranti di alto livello, prima del servizio del dolce, il tovagliolo viene cambiato con uno più piccolo. È un atto di grande cortesia. Signore, cercate di non lasciare vistose impronte di rossetto, signori non usatelo per detergervi il sudore dalla fronte. Ubriachezza. Può succedere che un ospite esageri con l'alcol: che fare? Un bravo anfitrione cerca di arginare come può la serata, ma di certo non lo abbandona fuori dalla porta a fine cena. Si preoccupa di accompagnarlo a casa e di assicurarsi che stia bene. Uomo. Uomini, ricordate! Basterà un gesto come aprirle la portiera o alzarsi nel momento in cui lei lascia il tavolo per farsi ricordare a lungo. Insomma, vi verrà perdonato anche qualche sbaglio, se saprete usare qualche galanteria al momento giusto. L'uomo entra per primo in un locale, comunica con i camerieri, versa da bere, si dimostra più interessato alla compagnia che al cibo, conversa e dovrebbe pagare il conto. Uova. Non si usa mai il coltello, in qualsiasi modo siano cucinate. Lo si può usare solo per tagliare il prosciutto o la pancetta che le accompagna. Uva. Va tenuta con la mano sinistra, mentre con la destra si staccano gli acini che andranno alla bocca. Verdure. Non si tagliano mai con il coltello. Vino. Non si versa mai sino al collo del bicchiere. Si stappa sempre davanti agli ospiti, e così pretendete al ristorante. Si fa scegliere alla signora e se questa si rifiuta si prende l'iniziativa chiedendo almeno «bianco o rosso». Chi invita, sia a casa sia al ristorante, propone i vini e chiede se gli invitati sono d'accordo. Il vino non si mescola con l'acqua e non deve essere raffreddato con il ghiaccio. Si lascia in un secchiello di qualsiasi materiale, possibilmente su un tavolino a parte. Zotico. È l'epiteto che si merita chi a tavola pecca di prepotenza e maleducazione. Per neutralizzare lo zotico recidivo è necessaria più fermezza che ironia, la seconda non la coglierebbe. Un seccato richiamo ha più probabilità di venire accolto. Zuppa, zuppiera. Non si soffia sulla minestra o la zuppa. In Inghilterra, il cucchiaio non viene introdotto in bocca di punta, ma appoggiato lateralmente alle labbra. In Italia il cucchiaio viene introdotto in bocca di punta. Ma ciò non vuol dire, beninteso, che lo si debba inghiottire fino al manico. È tollerato che, arrivati agli ultimi cucchiai di minestra, si sollevi appena il piatto inclinandolo verso il centro della tavola. Zuzzurellone. Avete presente quei soggetti che pur essendo adulti si comportano come ragazzini e si divertono a fare i giocherelloni? È il buontempone, il burlone che a tavola gioca con il cibo, estenua i commensali con storielle imbarazzanti, indovinelli, racconti di vita privata e via discorrendo. Basterà ignorarlo senza ridere delle sue battute pesanti per neutralizzarlo.

Pagina 160

Le buone usanze

195588
Gina Sobrero 1 occorrenze
  • 1912
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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Combinare l'ordine e la natura dei cibi da servire deve essere impegno della padrona di casa, a meno che non vi sia un maggiordomo molto esperto; è impossibile dettar leggi a questo riguardo; un pranzo, una colazione sono più o meno abbondanti e di cibi più o meno fini, secondo la fortuna di cui si dispone. Vi sono però regole generali che tutti possono seguire. Così al pranzo non sono adatte le costolette alla milanese, come per colazione non si gradisce un lesso o un piatto umido. Una volta i pranzi erano interminabili; ora le proporzioni sono diminuite assai, e si preferisce una portata di meno ed un po' d'eleganza di più: badi però l'anfitrione, che di ogni piatto ci sia abbondanza per tutti, affinchè non tocchi, per esempio, ad uno dei suoi ospiti la testa del pesce; ella non sa se ha da fare con un ittiofago, e non a tutti piace questa parte, che certi buongustai ritengono la migliore. Non è necessario offrire primizie, ma chi si permette questo lusso, deve procurare che ce ne sia per tutti, senza che si debba lesinare sul boccone. È meglio evitare di dar pranzi i giorni di magro; è più difficile la combinazione di cibi, senza contare che non si ha il diritto di imporre agli ospiti il sacrificio delle loro opinioni. Nei pranzi in campagna molte cose si semplificano; non sempre si trova tutto il necessario per comporre un pranzo o una colazione secondo le norme stabilite; ma se la padrona di casa è una donnina fine, intelligente, può colle più modeste risorse dare alla sua tavola un aspetto di ricchezza, di benessere, di buon gusto, che tengono luogo di tutte le delizie. L'industria moderna ha trovato modo di conservare nelle scatole tutte le verdure e le carni più fine; io non le ammiro e preferisco sempre un pollo arrosto, una frittata di uova fresche, al salmone, a tutte le golosità conservate; ma con la scienza culinaria si può ottenere un grande aiuto dalle piccole scatole di conserve. Il pesce, il gelato, le fritture, i pasticcini grassi e dolci, il formaggio, vanno posti sopra una piccola tovaglia ricamata, guarnita di trine o di frangie. Ho detto che nei pranzi in campagna lecita una maggior libertà, però anche in una colazione fatta sull'erba, all'ombra fresca, di un boschetto, è obbligo di una donna fina, di un uomo bene educato, il condursi come in casa propria. Qualche volta si fa a meno di posate, ma anche un'ala di pollo può essere presa e tenuta fra le dita con grazia, quando chi la mangia possiede questo preziosissimo fra i doni. Del resto, è tanto facile mettere nel paniere qualche posata, qualche tovagliolo; si evita così di veder le smorfie di qualche raffinato o la grossolanità di altri, che, colla scusa della libertà campestre, si permettono qualunque licenza. Poichè ho parlato di posate, voglio accennare ad un fatto disgustoso che pur troppo accade in molte case: le posate sono male lavate, ed esalano un fetore che par fatto apposta per togliere l'appetito. In Francia, per economia, non cambiano le posate ad ogni portata; e mettono una stanghettina di cristallo, d'argento, o d'un metallo qualunque accanto al piatto di ciascuna persona, sulla quale stanghettina si appoggia la posata dopo essersene serviti, per non macchiare la tovaglia; uso davvero non troppo simpatico, al quale mi pare assai preferibile il nostro di cambiare posate ad ogni portata, non lavando però male e in fretta la posata, ma tenendone in serbo la quantità necessaria, quando è possibile. Nei caffè e nelle trattorie sovente si tengono molto male le posate, ed io non saprei immaginare un fetore più disgustoso ed ingrato di quello come di pesce crudo o d'olio rancido, che esala il metallo mal lavato. Sono ora molto in voga i five o' clock teas, ossia il tea, offerto alle cinque; ci si va in toeletta da visita molto elegante, e anche, se il tea non è che una scusa per fare i quattro salti, si tiene il cappello. La tavola per il tea deve essere presieduta dalla padrona di casa, e messa con tutta la cura possibile, più che mai ornata di graziosi gingilli, di fiori, di buon gusto. Non vi si mettono coperti, ma ognuno deve avere la posatina completa, il piccolo tovagliolo, il piatto. Si mangiano dolci, sandwiches, si beve il tea, il cioccolatte nelle tazze di porcellana fine: se si balla sono necessarie varie qualità di vino bianco, se si può, e rinfreschi in abbondanza. È un lusso esotico, questo ricevimento diurno, e per imitarlo, bisogna adoperare tutta l'eleganza che vi sfoggiano gli stranieri, se non si vuol riuscire ridicoli. Tocca agli uomini occuparsi delle signore, giacchè, molte volte, per dare alla festa un carattere di maggiore intimità, i servi non vi compaiono neppure. A questi ricevimenti si va vestiti come per le visite; gli uomini, in stifelius o frac con cravatta bianca: le signore, eleganti quanto vogliono, ma mai scollate, poichè non debbono deporre il cappello.

Pagina 88

D'Ambra, Lucio

220458
Il Re, le Torri, gli Alfieri 1 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Ricominciai imperterrito a leggere mentre Sua Altezza cedeva a poco a poco a quella sonnolenza soddisfatta e beata che segue i pasti abbondanti e gli amori felici. Ma era destino che la conferenza venutami giù di getto dovesse essere nota al principe per frammenti: chè leggevo appena da dieci altri minuti quando la porta s'apri di nuovo e Sua Altezza venne informata che la marchesa di Setteporte chiedeva anche essa di vedere la collezione di medaglie: non aveva, questa seconda dama, una spiccata preferenza per il Pisanello ma il suo interesse per il medagliere del principe non era meno vivace. Questa volta il principe si levò un po' meno vivacemente di prima e non m'invitò a rivedere quello che avevo letto: mi suggerì invece cortesemente di prendermi un breve riposo chè in dieci minuti al massimo avrebbe certamente sbrigato la gentile visitatrice. Ci volle invece un'ora e mezza. Questa volta ero disoccupato, e, disteso su un divano, fumando, potevo anche meglio della prima volta avere esatta nozione delle manifestazioni di riconoscenza cui giungeva l'ammirazione soddisfatta della marchesa per le collezioni di Sua Altezza. Il gran Condé dormiva placidamente e profondamente nella notte precedente alle sue più ardue battaglie. Io potevo quindi, con non minore forza d'animo, appisolarmi durante quelle scaramucce d'amore. I vecchi capitani pronti a tutto e, i vecchi testimoni a tutto abituati possiedono la medesima imperturbabilità. E, quando, un'ora e mezza dopo, Sua Altezza mi destò rientrando nella biblioteca, gli sguardi non bastarono più e ci vollero le parole per manifestarmi chiaramente il suo malumore. — Caro d'Apre, — mi disse, — la cosa comincia a diventare fastidiosa, e queste signore non mi dànno il tempo di respirare. Ho veduto iersera queste due signore all'Opera e le ho invitate, come invito tutte, a venire ad ammirare la mia collezione di medaglie a bere una tazza di te. Ed eccole qui oggi tutt'e due, una dopo l'altra. Decisamente qui bisogna cominciare a rovesciare le parti: poichè non si lascian pregare, sarà necessario che incominci io a farmi pregare! Non insistemmo e riprendemmo per la terza volta la lettura. Eravamo nel cuore della conferenza adesso, e Sua Altezza, non più sonnolenta, ma sostenuta invece da quell'eccitazione nervosa che segue i grandi strapazzi intellettuali, seguiva la mia narrazione col più vivo interesse e con frequenti cenni d'approvazione. Ma la porta si aprì una terza volta, e Sua Altezza venue informata che la principessa di Malaguena desiderava d'ammirare a sua volta collezione di medaglie. Vidi Sua Altezza levarsi in piedi d'un balzo stringendo i pugni e frenando la sua ira, finchè il maggiordomo non si fu allontanato e non ebbe richiusa la porta. Poi si volse verso di me che, levato il volto dal manoscritto sfortunato, guardavo Sua Altezza sorridendo: — Lei sorride! — esclamò Sua Altezza, con un tono irritato. — Lei sorride, eh? Ma vorrei un po' vederla al mio posto. L'invito alla principessa di Malaguena non l'avevo arrischiato che stamattina incontrandola a cavallo al Viale del Tigli. Ed eccola qui, sei ore dopo. È un'esagerazione.... E ci tenessi, almeno.... Ma niente affatto! Sparo a polvere tanto per rimanere in esercizio. Ma per loro basta. Sono uccellini che si contentano del rumore per potersi decentemente dare per morti. Feci rispettosamente osservare a Sua Altezza che, ingrato come tulti gli uomini si lamentava ingiustamente d'una troppo benigna fortuna. — Ma è la terza, sa, — rispose il principe, — e le ripeto che vorrei veder lei al mio posto. Non raccolsi quello che v'era di poco lusinghiero in questa ripetuta esclamazione che mi riguardava e approfittai invece del silenzio del principe, che camminava, con le mani in tasca e il naso verso terra, su e giù, furiosamente, per la biblioteca, per ricordargli che la principessa di Malaguena lo attendeva e che non era possibile farla più oltre aspettare; e che, date le circostanze, non gli rimaneva altro che sacrificarsi eroicamente e andarla sùbito a raggiungere. — Io? Ma lei è matto! — esclamò il principe fermandosi davanti alla mia scrivania e usando con me un linguaggio cosi confidenzialmente irriverente che era naturalmente giustificato dalla sua agitazione. — Lei è matto, caro d'Aprè! Scriverò a mio padre, stasera stessa, che Pulquerrima è una residenza inabitabile, e che qui non basta un principe ereditario ma ce ne vogliono dieci! E sa, intanto, che cosa faccio io? Mi faccia il piacere di cedermi il suo posto...._Grazie. Ecco. Mi siedo qui e la lettura della sua bella conferenza me la finisco per conto mio. E si mise a leggere, seduto al mio posto, coi pugni stretti alle due tempie. Osai ricordare a Sua Altezza la principessa che aspettava. — La principessa? — mi rispose senza levar gli occhi dal manoscritto. — La principessa, senta, me la sbrighi lei. Mi faccia questa cortesia. Le dica che sono uscito, che son malato, che non voglio essere seccato. Le dica che la collezione di medaglie non c'è più. È sparita, me l'hanno rubata, l'ho venduta, sono impazzito e in una crisi di follia l'ho gettata tutta dalle finestre. Lei saprà che cosa dire. Le situazioni difficili son fatte apposta per lei. Gli amici dispotici son come i sovrani assoluti: non discutono. E io che conoscevo Sua Altezza non tentai di ragionare e mi decisi sùbito a sbrogliare una volta di più una matassa intricata. Aggiustai la mia cravatta, spolverai la cenere delle sigarette sul mio vestito, presi un viso di circostanza, e mentre Sua Altezza, assorta, continuava a leggere le nostre avventure di terra e mare, m'avviai verso la mia impreveduta avventura di salotto. Aprii la porta ed entrai, guardingo, nella gabbia della leonessa. La quale leonessa era quanto mai addomesticata e leggiadra. Mi strinse la mano con cordialità e prese per buone tutte le spiegazioni che le davo per l'assenza del principe trattenuto quel giorno dalle sue gravi responsabilita al comando del Corpo d'Armata. Solo manifestò il suo profondo rammarico di non poter ammirare la collezione di medaglie. Le chiesi se anche la sua predilezione fosse per il Pisanello, ma la principessa ebbe l'aria di cadere un po' dalle nuvole. Per fortuna non si sbilanciò a domandarmi se il Pisanello aveva studio a Pulquerrima. E, tanto per tener viva la conversazione, mi scappò di bocca — giuro che fu senza malizia! — ch'ero collezionista anch'io: non di medaglie, ma d'una cosa assai più leggera, i ventagli. Gli eventi precipitarono. La principessa non tardò a dichiararmi che le collezioni di ventagli la interessavano in generale assai più di quelle di medaglie. Dovetti per cortesia dichiararle che sarei stato felice di mostrarle la mia. Accettò. Chiesi che mi fissasse una data e mi sentii rispondere ch'era pronta ad ammirarla anche sùbito. Tutto questo naturalmente con un'innocenza, con una semplicità, con una serietà impassibile come che si trattasse veramente di medaglie e di ventagli. Non c'era altro da fare che quello che feci: aiutare la principessa a indossar di nuovo il Mantello e offrirle la mia automobile per recarci a casa mia, scusandomi di non poterle mostrare, cosi all'improvviso, che una collezione incomplela e disordinata. Naturalmente in automobile non si parlò che di ventagli. In materia d'amore davvero la parola è fatta per nascondere il pensiero. Non parlavamo che di ventagli. Io risalivo a mano a mano fino alle fêtes galantes del secolo decimottavo. La principessa mi ascoltava con la più intensa attenzione come se non si fosse mai interessata d'altro in vita sua. E ne parlammo tanto, dei miei ventagli, che giunti a casa ci dimenticammo tutt'e due di guardarli. Era avvenuto lo stesso con Sua Altezza. I Pisanello, da sei mesi, non avevano visto altra luce oltre quella filtrante dagli spiragli delle loro inviolate custodie. Quando i fatti compiuti ci permisero di parlar d'altro che di ventagli, la seducente principessa mi costrinse a confessare che proprio quel giorno Sua Altezza non aveva avuto proprio nulla da fare al comando del Corpo d'Armata e che non s'era mosso da palazzo. Aveva infatti incontrate poco prima la duchessa di Villahermosa e la principessa di Setteporte che le avevano parlato con entusiasmo dei Pisanello. E, con una moina adorabile, la principessa di Malaguena mi chiese: — Spiegami un poco in due parole che cosa sono i Pisanello. Devo far credere di averli visti anch'io. Capirai, caro, che non posso essere da meno di loro. — E i miei ventagli? — chiesi. — I tuoi ventagli, no, caro. Non c'è bisogno di parlarne. Che c'entra? I ventagli son per il piacere. Ma le medaglie son per l'onore!

Mitchell, Margaret

220956
Via col vento 2 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Dopo ricordò, come in un sogno, le centinaia di candele che illuminavano le pareti, il volto di sua madre, affettuoso, un po' sgomento con le labbra che si muovevano in una silenziosa preghiera per la felicità di sua figlia; Geraldo rosso per le abbondanti libagioni di cognac e per l'orgoglio di maritare la sua gattina con un giovine dotato di denaro e di un bel nome... e Ashley, in fondo alla scala, con Melania al braccio. Vedendo l'espressione di quel volto, ella pensò: «Non può esser vero. Non può essere. È un incubo. Mi sveglierò e troverò che era un incubo. Non devo pensarvi adesso, altrimenti mi metto a piangere dinanzi a tutti. Non posso pensare adesso. Vi penserò piú tardi, quando potrò sopportarlo... quando non vedrò piú i suoi occhi». Era davvero come un sogno, quel passaggio attraverso due ali di gente che sorrideva, il volto scarlatto di Carlo e le sue parole balbettate e le proprie risposte cosí stranamente chiare e fredde. E poi le congratulazioni e gli abbracci e i baci e i brindisi e il ballo... tutto, tutto come un sogno. Anche la sensazione del bacio di Ashley sulla sua guancia, anche il dolce sussurro di Melania, «Ora siamo veramente sorelle» erano irreali. Perfino l'eccitazione cagionata dalla serie di svenimenti della rotondetta ed emotiva zia di Carlo, Miss Pittypatt Hamilton, sembrava un incubo. Ma quando il ballo e i brindisi finalmente terminarono e sopraggiunse l'aurora, quando tutti gli invitati di Atlanta che fu possibile ospitare a Tara e nella casa del sorvegliante si furono coricati nei letti, sui divani e sulle balle di cotone disposte sul pavimento, e tutti i vicini furono tornati alle loro case per riposarsi in vista del matrimonio del giorno seguente alle Dodici Querce, allora quello stato di catalessi simile a un sogno s'infranse come un cristallo dinanzi alla realtà. La realtà era Carlo che usciva pieno d'emozione dal suo spogliatoio in camicia da notte evitando lo sguardo sgomento che ella gli rivolgeva dal letto. Certamente ella sapeva che le persone sposate occupano lo stesso letto; ma non aveva mai pensato a questo. La cosa sembrava naturalissima nel caso di suo padre e di sua madre ma non le era mai venuta l'idea di applicarla a se stessa. Ora, per la prima volta, dopo il banchetto, si rese conto di ciò che aveva fatto. Il pensiero che quel giovane estraneo che ella non aveva mai desiderato sposare, dovesse venire nel suo letto, mentre il suo cuore era pieno d'angoscia e di rimpianto per la sua azione troppo frettolosa e di desolazione per avere perduto Ashley per sempre, era insopportabile per lei. Mentre egli esitava ad avvicinarsi, ella mormorò con voce rauca: - Se vi avvicinate griderò forte, griderò, griderò con tutta la mia voce. Andatevene! Non mi toccate! E cosí Carlo Hamilton trascorse la sua notte di nozze su una poltrona in un angolo, senza sentirsi troppo infelice perché comprendeva, o credeva di comprendere, la verecondia e la delicatezza della sua sposa. Era disposto ad attendere finché i suoi timori svanissero; soltanto... soltanto... sospirò mentre si voltava per cercare una posizione comoda, fra breve bisognava partire per la guerra. Per quanto le proprie nozze avessero avuto per Rossella un carattere di incubo, quelle di Ashley furono anche peggiori. Nel suo abito verde-mela del «secondo giorno», ella stava nel salotto delle Dodici Querce, tra lo splendore di centinaia di candele e stretta nella stessa folla della sera prima; e vide il visino insignificante di Melania Hamilton risplendere fino a sembrar bello nel momento in cui diventò Melania Wilkes. Ora Ashley era perduto per sempre. Il suo Ashley. No, non piú il suo Ashley. Ma era mai stato suo? Tutto era confuso nella sua mente, e il suo cervello era stanco e pieno di sgomento. Le aveva detto che le voleva bene, ma che cosa li aveva separati? Se almeno riuscisse a ricordare... Aveva imposto il silenzio ai pettegolezzi della Contea sposando Carlo, ma qual era il risultato? Allora le era sembrato importante, ma ora non lo era affatto. Tutto ciò che importava era Ashley. Ed ora egli era diviso da lei per sempre, ed ella era sposata ad un uomo che non solo non amava, ma per cui aveva un vero disprezzo. Oh, come rimpiangeva tutto! Aveva sentito parlare di gente che si tagliava il naso per far dispetto al proprio volto, ma finora questa non era stata che una figura retorica. Adesso comprendeva ciò che voleva dire; e insieme al desiderio frenetico di liberarsi di Carlo e tornare sana e salva a Tara, ancora signorina, aveva coscienza di dover biasimare solo se stessa. Elena aveva cercato di trattenerla, ed ella non aveva voluto ascoltare. Ballò tutta la sera come abbagliata e parlò meccanicamente e sorrise meravigliandosi della stupidaggine degli altri che la credevano una sposa felice e non vedevano che aveva il cuore spezzato. No, grazie a Dio, non lo vedevano! Quella sera, dopo che Mammy l'ebbe aiutata a svestirsi e se ne fu andata, e Carlo emerse timidamente dallo spogliatoio chiedendosi se doveva passare una seconda notte in poltrona, ella scoppiò in lagrime. Pianse finché Carlo si arrampicò sul letto accanto a lei e cercò di confortarla; pianse senza parole finché non ebbe piú lagrime, e rimase a singhiozzare tranquillamente col capo sulla sua spalla. Se non vi fosse stata la guerra, si sarebbe avuta una settimana di visite attraverso la Contea, con balli e conviti in onore delle due coppie di sposi, prima che esse partissero per Saratoga o White Sulphur per il viaggio di nozze. Se non vi fosse stata la guerra, Rossella avrebbe avuto da indossare abiti per il terzo, quarto e quinto giorno, ai ricevimenti dei Fontaine, dei Calvert e dei Tarleton in suo onore. Ma non vi furono né ricevimenti né viaggi di nozze. Una settimana dopo il matrimonio Carlo partí per raggiungere il colonnello Wade Hampton; e quindici giorni dopo anche Ashley e lo Squadrone si misero in moto, lasciando tutta la Contea deserta di giovani. In quelle due settimane Rossella non ebbe mai occasione di vedere Ashley da solo, né di scambiare una parola con lui. Nemmeno nel terribile momento della partenza, quando egli si fermò dinanzi a Tara mentre si recava a prendere il treno, ella poté dirgli una parola. Melania, in cuffia e scialle, tranquilla nella nuovamente acquisita dignità di donna, era al suo braccio; e tutto il personale di Tara, bianco e negro, uscí per salutare Ashley che andava in guerra. Melania disse: - Devi baciare Rossella, Ashley. Ora è mia sorella; - e Ashley si chinò e le sfiorò con le labbra fredde il volto rigido e impassibile. Rossella non ebbe alcuna gioia da questo bacio: non era soddisfatta perché era stata Melania a suggerirlo. Melly la soffocò in un abbraccio, dicendole: - Verrai ad Atlanta a fare una visita a me e alla zia Pittypatt, no? Cara, desideriamo tanto di averti con noi! Desideriamo conoscere meglio la sposa di Carlo. Trascorsero cinque settimane durante le quali vennero dalla Carolina del Sud lettere di Carlo, timide, estatiche, innamorate, piene del suo amore e dei suoi progetti per il futuro, dopo la guerra; del suo desiderio di essere un eroe per amor suo, e della sua adorazione per il suo comandante Wade Hampton. Nella settima settimana giunse un telegramma del colonnello stesso e poi una lettera, una bella e dignitosa lettera di condoglianza. Carlo era morto. Il colonnello avrebbe voluto telegrafare prima, ma Carlo credendo che la malattia fosse cosa da nulla, non aveva voluto preoccupare la famiglia. Il disgraziato ragazzo non era soltanto stato truffato nell'amore che credeva di aver conquistato, ma anche nelle sue alte speranze di onore e di gloria sul campo di battaglia. Era morto ignominiosamente dopo una breve polmonite, a seguito di una rosolia, senza essersi neanche avvicinato agli yankees. A suo tempo nacque il bambino di Carlo; e siccome si usava dare ai figlioli il nome del comandante del loro genitore, egli fu battezzato Wade Hampton Hamilton. Rossella aveva pianto di disperazione quando aveva saputo di essere incinta e aveva desiderato di morire. Ma portò la sua gravidanza con un minimo di disturbi, mise al mondo il bimbo con poche sofferenze e si ristabilí cosí rapidamente da far dire a Mammy che questa era una cosa volgare, perché una signora doveva soffrire di piú. Provò poco affetto per il bambino, pur cercando di nasconderlo. Non lo aveva desiderato e non era contenta della sua venuta; ed ora che lo aveva, le sembrava impossibile che fosse suo, parte di lei. Benché fisicamente si fosse rimessa molto presto, mentalmente era stordita e sofferente. Il suo spirito era depresso, malgrado gli sforzi di tutta la piantagione per sollevarla. Elena aveva la fronte aggrottata e preoccupata e Geraldo, bestemmiando piú del solito, le portava da Jonesboro inutili doni. Perfino il vecchio dottor Fontaine ammise di essere imbarazzato dopo che il suo tonico composto di zolfo e di erbe non le aveva giovato. Disse a Elena in via privata che era il dolore che rendeva Rossella cosí irritabile e a volta a volta indifferente. Ma Rossella, se avesse avuto voglia di parlare, avrebbe potuto dire che si trattava di un dolore assai diverso e piú complesso. Non disse che era la noia, lo sgomento di essere madre e soprattutto l'assenza di Ashley che le dava quell'espressione cosí addolorata. La sua noia era acuta e continua. La Contea era priva di ogni divertimento e di ogni manifestazione di vita sociale, da quando lo Squadrone era andato alla guerra. Tutti i giovanotti interessanti erano partiti: i quattro Tarleton, i due Calvert, i Fontaine, i Munroe e tutti quelli di Jonesboro, Fayetteville e Lovejoy che erano giovani e attraenti. Erano rimasti soltanto i vecchi, gli invalidi e le donne; queste passavano il loro tempo a far la maglia e a cucire, a coltivare con piú abbondanza cotone e grano e ad allevare maggior numero di maiali, pecore e mucche per l'esercito. Non si vedeva mai un vero uomo, eccetto quando una volta al mese veniva il commissario dello Squadrone, il maturo corteggiatore e di Súsele, Franco Kennedy, a rifornirsi di viveri. Gli uomini dei commissariati non erano molto eccitanti, e il timido corteggiamento di Franco la infastidiva fino a renderle difficile l'essere cortese nei suoi riguardi. Se almeno lui e Súsele si fossero decisi! Ma se anche il commissario dei viveri fosse stato piú interessante, ciò non avrebbe mutato la sua situazione. Ella era vedova, e il suo cuore era nella tomba; per lo meno tutti ne erano convinti e pensavano che ella dovesse agire in conformità. Ciò la irritava perché, per quanto cercasse, non riusciva a rammentare nulla di Carlo se non la sua espressione di vitello moribondo, quando ella gli aveva detto che lo avrebbe sposato. E anche questa immagine andava scomparendo. Ma era vedova e doveva sorvegliare il proprio contegno. I divertimenti delle ragazze non erano piú per lei. Doveva ormai essere grave e seria. Elena glie lo aveva fatto capire il giorno che aveva trovato il luogotenente di Franco che gironzolava con Rossella nel giardino e la faceva ridere di cuore. Profondamente colpita, Elena le aveva detto come era facile che si chiacchierasse sul conto di una vedova. La condotta di questa doveva essere assai piú circospetta di quella di una donna con marito. «E Dio solo sa» pensò Rossella mentre ascoltava ubbidiente la dolce voce di sua madre «che le donne sposate non si divertono affatto; dunque per le vedove tanto vale morire.» Una vedova doveva portare degli orribili vestiti neri senza neanche una guarnizione per ravvivarli, né fiori né nastri né pizzi e neanche gioielli: soltanto spille di onice o collane fatte coi capelli del defunto. E il velo di crespo nero che portava sulla cuffia, doveva arrivarle alle ginocchia e poteva essere accorciato solo dopo tre anni di vedovanza, per giungere all'altezza delle spalle. Le vedove non potevano chiacchierare vivamente né ridere forte. Anche quando sorridevano, il loro doveva essere un sorriso triste e tragico, e - questa era poi la cosa piú terribile - non potevano in nessun modo mostrare di provar piacere nella compagnia maschile. E se qualche uomo fosse cosí indelicato da mostrare dell'interessamento, ella doveva ghiacciarlo con un dignitoso riferimento al ricordo del proprio marito. «Oh, sí,» pensava Rossella tristemente. «Vi sono delle vedove che si rimaritano, ma quando sono vecchie e raggrinzite. E Dio solo sa come vi riescono, con tutti i vicini che si occupano sempre di loro! E di solito è con qualche vecchio vedovo desolato, il quale deve badare a una grande piantagione e a una dozzina di bambini.» Il matrimonio era già una brutta cosa; ma la vedovanza... Oh, allora la vita era finita per sempre! Come erano sciocchi quelli che le dicevano che il piccolo Wade Hampton doveva esserle di gran conforto ora che Carlo non c'era piú, e com'erano noiosi dicendole che ora aveva uno scopo nella vita! Tutti affermavano che doveva essere assai dolce per lei avere questo pegno postumo del suo amore; e naturalmente ella non li disingannava. Ma questo pensiero era il piú lontano di tutti dalla sua mente. S'interessava pochissimo a Wade e qualche volta stentava perfino a ricordarsi che era suo. La mattina, quando si svegliava, nei primi momenti di dormiveglia era ancora Rossella O'Hara; il sole brillava tra i rami della magnolia dinanzi alla sua finestra, i merli cantavano e il piacevole odore del lardo fritto saliva alle sue narici. Era di nuovo giovane e spensierata. Quindi udiva un vagito affamato, e vi era sempre in lei un attimo di sorpresa durante il quale pensava: «Ma come, c'è un bambino in casa!» E allora si ricordava che era suo. E Ashley! Oh, piú di tutto Ashley! Per la prima volta in vita sua ella detestò Tara, detestò la lunga strada rossa che conduceva dalla collina al fiume, detestò i campi purpurei coi verdi germogli del cotone. Ogni palmo di terreno, ogni albero ed ogni ruscello, ogni viale ed ogni sentiero le ricordavano lui. Egli apparteneva ad un'altra donna ed era andato alla guerra, ma il suo spirito vagava ancora sulle strade nel crepuscolo e le sorrideva coi suoi occhi grigi e sonnolenti nell'ombra del porticato. Ogni volta che lo strepito di zoccoli le giungeva dalla strada delle Dodici Querce, per un dolce attimo ella pensava: Ashley! Ora odiava le Dodici Querce, che una volta aveva amato. Le odiava, ma vi era trascinata, per poter udire John Wilkes e le ragazze parlare di lui; udir leggere le sue lettere dalla Virginia. Le facevano male ma voleva udirle. Le erano antipatiche Lydia cosí rigida e Gioia scioccherella e chiacchierona, e sapeva di essere ugualmente antipatica a loro. Ma non poteva rimanerne lontana. Ed ogni volta che tornava a casa dalle Dodici Querce, si metteva a letto di malumore e rifiutava di alzarsi per andare a cena. Questo rifiuto di mangiare era quello che maggiormente preoccupava Elena e Mammy. Mammy le portava dei vassoi pieni di cibi allettanti, insinuando che adesso che era vedova poteva mangiare quanto voleva; ma Rossella non aveva appetito. Quando il dottor Fontaine disse gravemente a Elena che il dolore spesso può minare un temperamento florido e condurlo alla tomba, la signora O'Hara impallidí, perché questo era il timore che ella nascondeva nel profondo del cuore. - E non si può far nulla, dottore? - Un cambiamento d'aria sarebbe la miglior cosa per lei - rispose il dottore, ansioso di liberarsi di un'ammalata cosí restia. E cosí Rossella, senza entusiasmo, partí col suo bambino, prima per recarsi a visitare i suoi parenti O'Hara e Robillard a Savannah e poi per andare presso le sorelle di Elena a Charleston. A Savannah furono gentili con lei, ma Giacomo e Andrea e le loro mogli erano vecchi e amavano sedere tranquillamente a parlare di un passato che non aveva alcun interesse per Rossella. Lo stesso fu coi Robillard; e Charleston fu addirittura terribile. Zia Paolina e suo marito, un piccolo vecchio pieno di una cortesia formale e volubile e con l'aria assente di una persona che vivesse in un altro secolo, abitavano in una piantagione sul fiume, molto piú isolata di Tara. I loro vicini piú prossimi abitavano a una distanza di venti miglia che bisognava percorrere attraverso foreste vergini, paludi, boschi di cipressi e di querce. Le querce, con i loro drappeggi di musco grigio, davano sempre i brividi a Rossella, e le ricordavano le storie di Geraldo di spiriti irlandesi erranti fra le nebbie color di cenere. Non vi era nulla da fare tutto il giorno se non lavorare a maglia; e la sera ascoltare lo zio Carey che leggeva ad alta voce le opere istruttive di Bulwer Lytton. Eulalia, nascosta in un giardino dalle alte mura in una grande casa presso la Batteria di Charleston, non era piú divertente. Rossella, abituata all'ampio paesaggio di colline rossastre, ebbe l'impressione di essere in prigione. Vi era qui piú vita sociale che presso zia Paolina; ma Rossella non provava alcuna simpatia per i visitatori, con le loro tradizioni, le loro arie, le loro enfasi a proposito della famiglia. Sapeva che tutti la ritenevano il prodotto di una «mésalliance» e che erano ancora stupefatti che una Robillard avesse sposato un volgare irlandese. Rossella sentiva che la zia Eulalia la scusava dietro le spalle; cosa che la irritava perché, come suo padre, ella non teneva affatto all'aristocrazia della famiglia. Ed era fiera di ciò che Geraldo era riuscito a fare senz'altro aiuto se non il suo astuto cervello d'irlandese. E anche quelli di Charleston se la prendevano tanto per il Forte Sumter! Dio mio, ma non capivano che se non fossero stati loro a commettere la sciocchezza di sparare le prime fucilate che avevano portato alla guerra, vi sarebbero stati altri pazzi che lo avrebbero fatto? Abituata alle voci acute della Georgia dell'altipiano, le voci gravi e strascicate della pianura le davano noia. In certi momenti aveva voglia di urlare. Durante una visita di cerimonia giunse a un tal punto di esasperazione che ricorse al dialetto di Geraldo, con gran scandalo di sua zia. Allora decise di ritornare a Tara. Meglio essere tormentata dal ricordo di Ashley che dall'accento di Charleston. Elena, occupata giorno e notte a raddoppiare il prodotto della piantagione per aiutare la Confederazione, fu terrorizzata quando si vide tornare a casa la figlia maggiore, magra, pallida e inasprita. Aveva avuto ella pure il cuore spezzato; quindi, coricata accanto a Geraldo che russava, passava la notte a cercare che cosa potrebbe fare per alleviare il dolore di Rossella. La zia di Carlo, Pittypatt Hamilton, aveva scritto parecchie volte chiedendole di permettere a Rossella di recarsi ad Atlanta per un lungo soggiorno; ed ora, per la prima volta, Elena considerò con serietà la proposta. «Sono sola con Melania nella vasta casa - scriveva Miss Pittypatt - senza protezione maschile ora che il caro Carlo è morto. È vero che c'è mio fratello Enrico, ma non abita con noi. Forse Rossella vi ha parlato di Enrico. La delicatezza mi vieta di scrivere lungamente sul suo conto. Melly ed io ci sentiremo piú tranquille e sicure con Rossella in casa. Tre donne sole stanno meglio di due. E forse Rossella troverà un po' di sollievo al suo dolore, curando - come fa Melly - i nostri bravi soldati negli ospedali di qui... E poi, Melly ed io desideriamo tanto di vedere il caro piccino...» Cosí il baule di Rossella fu chiuso di nuovo con dentro i suoi abiti da lutto, ed ella partí per Atlanta con Wade Hampton, la sua bambinaia Prissy, una quantità di avvertimenti sul suo contegno da parte di Elena e di Mammy e cento dollari in biglietti della Confederazione datile da Geraldo. Non desiderava particolarmente di andare ad Atlanta. Riteneva zia Pittypat la piú noiosa vecchia che dar si potesse; e l'idea di vivere sotto lo stesso tetto con la moglie di Ashley le ripugnava. Ma la Contea, con tutti i suoi ricordi, era un soggiorno impossibile; e qualsiasi mutamento era il benvenuto.

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I suoi capelli grigi erano fatti piú abbondanti da una frangia di riccioli finti che erano fieramente bruni, disdegnando di adattarsi al resto della capigliatura. Aveva un viso rotondo e molto colorito in cui si fondevano una naturale scaltrezza e l'abitudine di comandare. Mrs. Elsing era piú giovane; una donnina sottile e fragile, che era stata una meraviglia e che conservava ancora il ricordo della freschezza svanita e un'aria elegante e imperiosa. Quelle due signore, insieme a una terza, Mrs. Whiting, erano le colonne di Atlanta. Dirigevano in tutto e per tutto le tre chiese a cui appartenevano; il clero, i cori e i parrocchiani. Organizzavano vendite e presiedevano comitati di lavoro, balli e picnic; sapevano chi faceva un buon matrimonio e chi no, chi beveva segretamente, chi aspettava un bambino e per quando. Erano delle vere autorità in fatto di genealogie di qualunque famiglia della Georgia, della Carolina del Sud e della Virginia; e non si tormentavano il cervello per gli altri Stati perché erano convinte che chiunque avesse importanza negli altri Stati doveva esservi giunto da uno di quei tre. Sapevano come ci si doveva e come non ci si doveva comportare quando si era persone bennate, e non mancavano mai di dire schiettamente il loro modo di pensare: Mrs. Merriwether con una voce stridula. Mrs. Elsing con un accento strascicato e Mrs. Whiting in un mormorio desolato che mostrava come le dispiaceva parlare di certe cose. Queste tre signore si detestavano reciprocamente e non avevano fiducia una nell'altra come i primi Triumviri a Roma; e la loro stretta alleanza si doveva probabilmente a quelle stesse ragioni. - Ho detto a Pitty che desidero avervi nel mio ospedale - gridò Mrs. Merriwether sorridendo. - Perciò non promettete nulla a Mrs. Meade o a Mrs. Whiting! - Me ne guarderò bene - rispose Rossella, ignorando completamente ciò che desiderava quella vecchia signora, ma provando una sensazione di calore nel vedersi bene accolta e nel sapersi desiderata. - Spero di vedervi presto. La carrozza continuò la sua strada e si fermò un momento per permettere a due signore che portavano appeso al braccio un cestino pieno di bende, di attraversare la strada melmosa posando il piede su alcune pietre che emergevano. Nello stesso istante l'occhio di Rossella fu colpito da una figura che era sul marciapiede, vestita di un abito sgargiante - troppo sgargiante per la strada - e di uno scialle con lunghe frange che le giungevano ai piedi. Voltandosi vide una donna alta e bella, con una massa di capelli rossi: troppo rossi per esser veri. Era la prima volta che vedeva una donna di cui poteva esser certa che «aveva fatto qualche cosa ai suoi capelli» e la osservò, affascinata. - Zio Pietro, chi è quella? - bisbigliò. - Non sapere. - Sí che lo sai. Ne sono certa. Chi è? - Si chiama Bella Watling - e il labbro inferiore di Pietro cominciò a sporgersi. Rossella afferrò subito che il negro non aveva fatto precedere il nome dall'appellativo di «signora» o «signorina». - E chi è? - Miss Rossella - rispose il vecchio gravemente accarezzando il fianco del cavallo con la sua frusta - Miss Pitty non permettere che voi domandare cose che non vi riguardano. In questo periodo esservi in città grosso mucchio di persone che non contare e che essere inutile parlare di loro. «Dio mio!» pensò Rossella rinchiudendosi nel silenzio. «Dev'essere una donna cattiva!» Non aveva mai visto una donna di malaffare e si voltò a riguardarla finché quella si perse nella folla. Le botteghe e le nuove costruzioni erano ora piú rade, con spazi di terreno fra l'una e l'altra. Finalmente il quartiere degli affari terminò; ora erano tutte case di abitazione. Rossella le riconobbe come vecchie amiche: quella dei Leyden, dignitosa e superba; quella dei Bonnell, con le colonnine bianche e le persiane verdi; la casa georgiana di mattoni rossi della famiglia McLure, dietro alle sue basse siepi di bosso. Ora progredivano piú lentamente, perché dai porticati e dai giardini le signore la chiamavano. Ne conosceva alcune superficialmente; altre le ricordava vagamente; ma la maggior parte le era sconosciuta. Pittypat aveva certamente propagato la notizia del suo arrivo. Ogni tanto bisognava sollevare il piccolo Wade perché le signore che si avventuravano ad avvicinarsi alla carrozza attraversando il pezzetto di marciapiede potessero ammirarlo. Tutte le gridavano che doveva far parte del loro circolo di lavoro - cucito o maglia - e del loro ospedale e di nessun altro; ed ella promise instancabilmente a destra e a sinistra. Mentre passavano dinanzi a una villetta di legno coperta di rampicanti verdi, una bimbetta negra che era appostata sui gradini d'accesso gridò: - Eccola, eccola! - e subito uscirono il dottor Meade con sua moglie e il figlio tredicenne Filli, salutandola a gran voce. Rossella ricordò che anche loro erano venuti al suo matrimonio. La signora si avanzò sul pezzo di marciapiedi dinanzi alla casa e allungò il collo per vedere il bimbo, ma il dottore, senza preoccuparsi del fango, lo attraversò per avvicinarsi alla carrozza. Era alto e robusto, con una barbetta caprina color grigio-ferro; gli abiti ciondolavano sulla sua persona magra come se fossero sospesi a un attaccapanni. Atlanta lo considerava come la sorgente di ogni forza e di ogni saggezza e non era da stupire che egli avesse assorbito qualche cosa di questa loro fede. Ma a parte la sua abitudine di pronunciare delle affermazioni come se fossero oracoli e il suo modo di fare lievemente pomposo, era il piú brav'uomo del mondo. Dopo avere stretto la mano a Rossella e aver solleticato Wade sotto il mento, il dottore annunciò che la zia Pittypat aveva promesso e giurato che sua nipote non andrebbe in altro comitato ospedaliero e di preparazione delle bende se non in quello di Mrs. Meade. - Dio mio, ma ho già promesso a un migliaio di signore! - esclamò la giovine. - Alla signora Merriwether, scommetto! - esclamò la signora Meade indignata. - Al diavolo quella donna! Sono sicura che va incontro a tutti i treni! - Ho promesso perché non sapevo di che cosa si trattava - confessò Rossella. - Prima di tutto, che cosa sono questi comitati ospedalieri? Il dottore e la moglie scossero il capo, un po' scandalizzati della sua ignoranza. - Già, naturalmente siete stata seppellita in campagna e quindi non potete sapere - la scusò la signora Meade. - Abbiamo dei comitati per i diversi ospedali e in giorni diversi. Curiamo gli uomini e aiutiamo i dottori e facciamo bende e vestiti; e quando gli uomini sono in condizione di poter lasciare l'ospedale, li accogliamo nelle nostre case per la convalescenza, finché sono in grado di tornare al reggimento. E ci occupiamo delle famiglie dei feriti poveri o peggio. Il dottor Meade è all'ospedale dell'Istituto dove opera il mio comitato; tutti dicono che è straordinario e... - Lascia andare, Mrs. Meade - la interruppe affettuosamente il dottore. - Non vantarti di me con la gente. Faccio quel poco che posso, dal momento che non hai voluto lasciarmi andare con l'esercito. - Non ho voluto! - esclamò la moglie indignata. - Io? È stata la città che non ha voluto, e lo sai benissimo. Figuratevi, Rossella, che quando si è saputo che voleva andare in Virginia come medico militare, le signore hanno firmato una petizione pregandolo di restare. La città non può fare a meno di lui. - Via, via, Mrs. Meade - si schermí il dottore crogiolandosi evidentemente in quegli elogi. - Del resto, avere un figliolo al fronte può bastare, in questi tempi. - E io andrò l'anno venturo! - esclamò il piccolo Filippo saltando eccitato. - Come tamburino. Sto imparando intanto a suonare il tamburo. Volete sentire? Vado a prenderlo. - No, adesso no - ordinò la signora Meade stringendolo a sé, con una subitanea espressione di spavento. - Non l'anno venturo, tesoro. Forse fra due anni. - Ma allora la guerra sarà finita! - esclamò il ragazzo con petulanza, sottraendosi. - E me lo hai promesso! Gli occhi dei genitori si incontrarono al disopra del suo capo e Rossella vide lo sguardo. Darcy Meade era in Virginia; ed essi si attaccavano maggiormente al figliuolo che era rimasto. Zio Pietro tossicchiò. - Miss Pitty essere molto in bensiero quando io andare alla stazione e se non andare presto avrà svenimenti. - Arrivederci. Oggi nel pomeriggio sono libera - disse ancora la signora. - E dite a Pitty da parte mia che se voi non venite nel mio comitato, peggio per lei. La carrozza si avviò nuovamente per la strada fangosa e Rossella si appoggiò ai cuscini dello schienale sorridendo. Si sentiva bene come non si era piú sentita da molti mesi. Atlanta, con la sua folla, la sua animazione e la sua corrente di eccitazione, era molto piacevole, molto esilarante, molto piú graziosa della solitaria piantagione presso Charleston, dove il muggito degli alligatori rompeva solo il silenzio notturno; meglio della stessa Charleston, sognante nei suoi giardini difesi da alte mura; meglio di Savannah con le sue larghe strade bordate di palme nane e il fiume lutulento che le scorreva accanto. Sí; e provvisoriamente anche meglio di Tara, per quanto Tara fosse un luogo tanto caro. Vi era qualche cosa di eccitante in quella città con le sue strade strette e fangose; qualche cosa di rozzo e di immaturo che ricordava la rudezza e l'immaturità che era sotto la fine vernice data a lei da Elena e da Mammy. E a un tratto sentí che questo era il luogo fatto per lei, non le vecchie città serene e tranquille, cui il fiume pigro e giallo non dava vitalità alcuna. Le abitazioni erano adesso sempre piú rade; sporgendosi in fuori Rossella vide finalmente i mattoni rossi e il tetto piatto della villetta di miss Pittypat. Era quasi l'ultima casa al nord della città. Dopo di essa, la Via dell'Albero di Pesco andava stringendosi e girava tortuosamente sotto alti alberi che la nascondevano alla vista, perdendosi poi nei folti boschi silenziosi. La barriera di legno era stata recentemente ridipinta in bianco e il giardinetto dinanzi alla casa che essa chiudeva era macchiato di giallo dalle ultime giunchiglie della stagione. Sulla gradinata erano due donne vestite di nero e dietro a loro una grossa donna gialla con le mani sotto il grembiule e la bocca aperta a un largo sorriso. La rotondetta miss Pittypat saltellava agitata sui piedi piccolini, con una mano sul petto abbondante a frenare il cuore che le batteva forte. Rossella vide Melania che le stava accanto e, con un senso di antipatia si rese conto che essersi rifugiata nel balsamo di Atlanta significava vedere questa personcina vestita a lutto, coi suoi ribelli riccioli neri tirati e lisciati con dignità di donna sposata, che le rivolgeva un gentile sorriso di gioia e di benvenuto sul visino triangolare.

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222270
Misteri del chiostro napoletano 1 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
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Dopo un'ora soltanto, le lagrime poterono farsi strada, e scorrere abbondanti per le guancie. Mio padre, dotato d'impareggiabile mansuetudine, aveva interamente abbandonata alla moglie la direzione delle figlie, nè mai si opponeva alle risoluzioni di lei, credendole sempre convenienti. Saputo adunque l'accaduto, egli acconsentiva alla sentenza che escluder doveva Domenico dalla nostra società. Questi, ignaro di tutto, non mancò di venir quella sera, secondo l'usato. Notò l'assenza mia, ma credette sul principio che qualche cura impreveduta m'avesse trattenuta in altra stanza. Frattanto il tempo scorreva; non vedendomi punto comparire, cominciò a sospettare del vero, e se ne turbò. S'accostò a mio padre, il quale, incapace d'usare scortesia a chiunque, lo trattò come sempre. S'appressò a mia madre: fu agghiacciato dalla severità di lei, ch'egli non aveva notata nell'entrare in sala. Attese adunque palpitando l'opportunità per potersi avvicinare a Giuseppina, che in quel momento stava discorrendo con giovanette della sua età. "La signora Enrichetta è malata forse?" domandò finalmente, non appena si fu aperto un varco sino alla sorellina. "Sì;" rispose questa, fissando la madre. "Ma ieri stava tanto bene!" La sorella tacque. Dopo una lunga pausa, Domenico ripigliò: "È pure strano il cangiamento della Marescialla a mio riguardo! Ditemi, signorina, ve lo chieggo in grazia, sarebbe forse la malattia di vostra sorella cagionata dall'essermi seduto un istante a lei vicino ieri sera?" "Credo di sì." "Dio buono! Pare che la signora madre sia andata in cerca d'un pretesto per allontanarmi. Sono stati tanto innocenti i nostri discorsi, tenuti d'altronde in sua presenza, che non so a qual altro motivo attribuire la mia disgrazia." Il giovine trasse un sospiro, e continuò: "Ebbene..... non verrò più! Sia fatta la volontà di vostra madre! Vogliate però assicurare vostra sorella, che niente avrà la forza di cangiare il mio cuore per lei." Si alzò, e senza prendere commiato, senza guardare alcuno, celermente uscì. - Sera nefasta della mia vita! I tuoi affanni non saranno cancellati giammai dalla mia memoria! La separazione non poteva che esacerbare le furenti gelosie di Domenico. Per mezzo dell'amico suo mi fece conoscere, che se io voleva dargli una prova della mia costanza, doveva astenermi dal ballare con chicchessia. Niente di più confacevole al mio cordoglio: promisi d'astenermene totalmente. Una sera mi posi al piano-forte mentre si ballava una quadriglia. "Perchè non balli?" venne a domandarmi la madre, atteggiata di sdegno. "Non mi sento bene." "Vorresti, ragazza darla ad intendere a me! Qui, non m'inganno, ci deve star sotto qualche divieto dell'amante....." "Vi assicuro che....." "Bada che non soffro capricci. Alzati e balla!" Mi convenne ubbidire; ma fui tratta della danza in uno stato non lontano dal deliquio. Nè s'arrestarono lì i rigori della madre. Saputosi che Domenico ronzava l'intera notte intorno alla nostra casa per osservare i passi di coloro che ci visitavano, e conoscere se fra quelli vi fosse per avventura qualche rivale, mi venne imposto di non affacciarmi ad altra finestra, se non a quella solamente che non dava sulla via maggiore, ed era riparata da ogni parte. Se l'incalzare delle restrizioni ebbe per effetto di fomentare sino allo stato di frenesia l’umore naturalmente permaloso, e la passione fosca del giovine, io, dal canto mio, mi trovai in una di quelle crudeli alternative, dalle quali impossibil cosa è l'uscir senza discapito. Relativo a questa mia situazione avvenne in quel mentre un fatto, che mi credo in dovere di non passare in silenzio. Messina, cospicua città, situata, come si sa, a dodici miglia di distanza da Reggio, e divisa da quello stretto che in tempo procelloso fa impallidire il più esperto nocchiero, suole festeggiare con pompa solenne l'Assunzione della Vergine per quattro giorni, che cominciano al 12 e finiscono al 15 d'agosto. Questa festa, singolare miscuglio di sacro e di profano, di cristiano e d'idolatrico, di costume europeo e di indiano, mette in gran movimento le genti de' paesi limitrofi e delle Calabrie. Due smisurati cavalli di carta pesta, montati da due giganti della stessa materia, veggonsi drizzati nella piazza dell'Arcivescovado. Una pelle di cammello, da' Messinesi chiamato Beato (non so perchè) copre due altri uomini della plebe. Il cammello si accosta ai venditori d'ogni genere, e questi, per devozione, intromettono nella bocca spalancata del questuante quadrupede una porzione della loro merce, la quale viene raccolta in sacchi per le spese della festa. La parte più rilevante della solennità consiste nella seguente processione: Una macchina enorme è condotta per la città. Sopra la stessa sono messi in movimento rotatorio parecchi pezzi, simboleggianti i corpi celesti, come il sole, la luna, i pianeti ec. Vi sono pur fatti rotare de' cerchi, che grandi alla base, vanno impicciolendosi alla sommità. Bella e sontuosamente fregiata è quella macchina, eretta e posta in azione ad onore di Colei che diede la luce al Dio della carità! Ma le sue funzioni ti rammentano il famoso carro di Jagganatha, o le nefande ecatombe de' Druidi. A quella vista ti rifugge il cuore, nè puoi contenerti dal gridare all'orrenda barbarie. A' raggi del sole, della luna, e intorno a' cerchi sono legati de' bambini lattanti, le cui snaturate madri, mercè il vile guadagno di pochi ducati che dà loro l'impresario dello spettacolo, li fanno simboleggiare gli angioletti che accompagnano l'Assunta al cielo. Questi innocenti pargoletti, non d'altro colpevoli se non d'essere nati figli di madri inumane, e d'aver veduto il mondo in un secolo non abbastanza dirozzato, scendono o morti o moribondi dalla ruota fatale, dopo di aver girato in sensi opposti per sette ore. Terminate la festa, o per meglio dire, giunto al termine il sagrifizio, accorrono stipate, affollate, urlanti le madri, l'una respingendo l'altra, questa bussando quella, e tutte di conserva impazienti di verificare se morta o salva sia uscita la respettiva loro creatura. Comincia allora una scena d'altro genere, che talvolta finisce con ispargimento di sangue. Non essendo, pel grande numero, facili a riconoscersi dalle madri i sopravvissuti figli, l'una disputa all'altra il frutto delle sue viscere, mentre le imprecazioni delle disputanti e i lamenti delle più addolorate si mescolano agli scherni assordanti degli spettatori e a' fischi della ciurmaglia. Quelle poi fra le devote, che tornano in casa loro prive del proprio figlio, consolansi dicendo, che Maria, invaghitasi dell'avvenente angioletto, ha voluto menarlo seco lei in paradiso. Appagate da tale convinzione, s'intrattengono a banchettare colle femmine del vicinato, infino a che scialacquato sia del tutto il prezzo ottenuto, non dubitando di percepire da' preti ulteriori soccorsi, in memoria de' loro angioletti involatisi gloriosamente a' beati Elisi. Avvicinavasi dunque il tempo di questa festa, manifestazione di uno de' sopraddetti tre F Borbonici. I nostri amici, unitamente a' miei genitori, progettarono di assistervi. La brigata era di quaranta persone, ed una sarebbe stata la casa che doveva alloggiare tutti. Io mi trovava agitata, immaginando il cruccio che avrebbe arrecato a Domenico l'annunzio di tale divertimento, perchè nella brigata s'erano insinuati dei giovani, pe' quali egli sentiva un'ingiusta, ma pure straziante gelosia. Ve n'era uno fra gli altri, il quale, ignaro del nostro amore, aveva confidato a Domenico stesso il segreto della simpatia che disgraziatamente io gli aveva ispirata. Appena seppe il progetto, si abbandonò alle più spropositate smanie, e col solito messo mi fece conoscere, che se avessi lasciato Reggio si sarebbe ucciso. Invano Paolo, l'amico suo, gli fece osservare che esigeva da me cosa superiore alla mia volontà, non essendo presumibile che i miei genitori volessero lasciarmi sola; nè d'altronde potendo io lottare contro il loro comando. Cercò persuaderlo co' più efficaci argomenti, promettendogli inoltre ch'egli stesso non si sarebbe mosso dal fianco mio, e m'avrebbe dato il braccio nelle passeggiate, per evitare ch'altri mi avesse approssimata. Gli giurò di più, in nome dell'amicizia che li univa, come schietto e sincero, che al suo ritorno gli avrebbe reso conto della mia condotta rispetto ai rivali immaginarii. Rassicurato alquanto da questa promessa, mi precedette di poche ore nel viaggio; talchè, non appena giunti al porto di Messina, lo vidi lungo il molo che stava aspettandomi. Egli ci seguì da lontano, e conosciuta la nostra dimora s'installò in un caffè, donde senza esser veduto da mia madre, potea vedere i balconi della casa da me abitata. Paolo mantenne puntualmente la promessa. Si allogò a me dappresso, come l'ombra mia stessa, facendo del corpo suo una barriera insormontabile per ogni altra persona che avesse voluto avvicinarmisi. Mi sapeva mill'anni che, scevro di qualche dispiacere, giungesse l'ultimo giorno della festa. - Disgraziatamente non fu così. Erano le nove di sera, allorchè Paolo mi disse che usciva un momento solo, per fare acquisto d'un oggetto che gli era necessario. "Fate presto, Paolo, per carità," gli dissi: "sapete bene che alle dieci dovrò seguire la brigata al palazzo della Borsa." "Sì," rispose; "ma c'è un'ora ancora di tempo, ed io chiedo solamente pochi minuti." Ciò detto, se ne partì. Non aveva appena scesa la scala, che mia madre ordinò a me e a Giuseppina di prepararci per uscir di casa. "Ma che faremo," le dissi, "sino alle dieci, ora fissata per recarci alla Borsa?" "Andremo attorno per godere della luminara." "Non siamo tutti," soggiunsi: "manca ancora qualcuno della comitiva." "Chi manca ci raggiungerà," replicò essa in tuono che non ammetteva replica. Mi tacqui, e feci lentamente gli apparecchi necessari, colla speranza che Paolo esser dovesse di ritorno per darmi il braccio. Mia madre, Giuseppina, e gli altri aspettavano già pronti che mi unissi a loro. Strappai un bottoncino dal guanto, e pregai che avessero la pazienza di attendermi, finchè con un ago me lo riattaccassi. "Inutile!" fece mia madre in collera. "Eccoti uno spillo, che farà le veci del bottoncino." Presi lo spillo, e seguii la brigata, guardando affannosamente se Paolo arrivasse. Una voce mi scosse: "Signorina, poichè il vostro cavaliere è assente, vorrete gradire il braccio mio, invece del suo?" Alzai gli occhi: era quel desso, che aveva detto a Domenico sentire particolare simpatia per me... - Oh, Dio, quale imbarazzo! Come fare per disimpegnarmene? - Restai in forse, se accettare, o bruscamente ricusare. Mia madre mi guardava fissa; parecchi altri signori avevano udita l'offerta. L'urbanità, la confusione, il timore prevalsero. Gli porsi il braccio per metà, come se paventassi qualche contagio, e seguitai il cammino senza far motto. Allo svolgere della strada, non ostante l'immensa calca di gente, chi mi veggo innanzi? Domenico. Egli moveva alla volta mia. Il lividore di un morto è forse minore di quello che copriva il suo volto: aveva l'aspetto d'un vampiro infuriato. Guardò biecamente, ferocemerte il mio compagno, indi, volto quell'occhio terribile su di me, avventossi, come per atterrarmi, pronunziando parole inintelligibili. Misi un grido. Il frastuono della strada, per buona fortuna, lo coprì. Frattanto la folla mi aveva separata da Domenico, e siccome opposte eran le vie che facevamo, egli tirò per la sua, noi proseguimmo la nostra. Non perciò sedato fu il mio spavento, chè anzi, consapevole dell’impetuoso carattere dell'innamorato, temetti non ritornasse munito di un'arma micidiale, onde attentare alla mia od alla vita del povero giovine. Mi quetai un poco, soltanto quando fui giunta alla Borsa. Entrata nella grande sala, dissi a Paolo sotto voce di seguirmi al balcone, ed ivi gli narrai l'accaduto; al che, mostratosi questi dolentissimo, disse di volere mettervi pronto riparo, correndo immantinente in cerca dell'amico suo, e rappresentandogli la mia innocenza. Chi ha provato l'amore, può di leggieri comprendere quale fosse il mio stato. Amava Domenico con amore tenero ed affettuoso; era attentissima a non dargli alcun motivo di gelosia - ed intanto passava ai suoi occhi per donna frivola ed incostante. Spuntò l'alba, sempre desiderata dagli amanti afflitti, e la gente di servizio cominciò a fare gli apparecchi del ritorno. Poche ore dopo eravamo in Reggio. Paolo fu sollecito a venir la sera prima dell'usato. Lo interrogai cogli occhi se avesse veduto Domenico. - Con un leggero chinar di capo m'accennò di sì. Mi raccontò più tardi, che il furore aveva condotto l'amico suo ad un passo di pazza disperazione. Determinato di troncare meco, ed una volta per sempre, qualunque relazione, egli avea promesso a suo padre di partire, senz'altro indugio per Napoli. La parola era già data, nè più potevasi ritrattare. Nondimeno, gli acerbi rimproveri di Paolo, e gli atti della mia giustificazione, aveano esercitato un'influenza benefica sullo spirito di lui, nè era lontano dal pentirsi del passo, che fatto aveva in un momento di folle dispetto. M'alzai, non potendo frenare la commozione prodotta dalle parole di Paolo, e ritiratami in disparte, meditai un istante. Poscia, ripresa la perduta energia, tornai ad occupare il posto abbandonato accanto al confidente delle mie pene. "Un ultimo favore vi chieggo," gli dissi con fermo accento. "Vogliate riabboccarvi con Domenico, non per altro se non per annunziargli a nome mio che la parte offesa sono io. Può partire o restate a suo agio, non me ne curo più, conoscendomi innocente della colpa che m'attribuisce. Possa trovar egli in Napoli donna più fedele di me!" Da quel momento, coerente alla risoluzione presa, e forte della mia lealtà, feci le viste di volermi totalmente staccare da lui; ma egli, sinceramente ravvedutosi, avea digià riprese le consuete passeggiate sotto le mie finestre. Era un giorno di domenica, ed il giorno fissato alla sua partenza era il seguente martedì. Come ho già detto, trovavasi nella nostra casa un coretto che dava nell'interno della chiesa di Sant'Agostino. Ivi recatami per ascoltare la messa, vidi Domenico di rimpetto a me. L'amore, che spento non era nel mio cuore, malgrado gli sforzi che faceva per soffocarvelo, mi fece volgere lo sguardo verso di lui. Finita la messa, volea ritirarmene: al patetico segno ch'egli mi fece di volermi arrestare per poco, ebbi la debolezza di condiscendere. Come tutta la gente fu uscita di chiesa, egli, avvicinatosi al cancello, e giunte le mani in atto supplichevole, mi disse: "Perdonatemi! Confesso il delirio mio!" Lo guardai: l'espressione del suo volto era tale da disarmare il più forte risentimento. Colle lagrime agli occhi risposi: "Crudele! posdomani parti, m'abbandoni, e chiedi perdono!?" "Per questo sacro luogo in cui ci ritroviamo," soggiunse, "giuro che fra un mese sarò restituito a te, malgrado gli ordini del padre, il quale mi vorrebbe allontanato per un anno intero!" "Accetto il tuo impegno: a questo patto dimentico gli oltraggi." Un leggero tossire ci avvertì essere entrato qualcuno in chiesa. "Addio!" disse Domenico. "Addio!" ripetei con voce velata dalla commozione. Allontanossi, e giunto alle spalle dell'altare, presso alla porta minore della chiesa, si volse di nuovo, e mi disse: "Non mi tradire!" -Tradirlo! Or che mi rendeva l'amor suo, qual altra fortuna poteva io desiderare?-

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