Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Nanà a Milano

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Arrighi, Cletto 1 occorrenze

Io credo - e non so se altri lo abbiano creduto prima di me - che se non esistesse il fenomeno dell'assalto sensuale contro cui non vale nè ragione, nè morale, nè timore della pena possibile, nè religione, nè nulla - a quest'ora il mondo sarebbe rimasto quasi spopolato. Ormai non sono più che i bigotti e i regnanti che fanno legittimamente all'amore per dovere o per calcolo. - Restiamo amici - aveva detto Nanà. - Non guastiamo il nostro bello idillio artistico con dei desiderî che siano precisamente come quelli di tutto il mondo. E poi che vale? Io credo di averlo già un amante, e mi sento ispirata a non tradirlo almeno per ora. - Chi è? - domandò Enrico che era tornato al suo cavalletto affettando molta freddezza nella voce. - Volete proprio saperlo? - Lo bramo. - È Filippo Marliani. - Ah! - Lui! - E ne siete innamorata? - Oh, no, povero Filippo. Non merita punto! - Come potete dire allora che egli sia il vostro amante? - Amante vuol dire: uomo che ama ch'io sappia, e non uomo che è amato Egli mi ama, ne sono certa, e io amo lui, ma non ne sono innamorata. - E questo basta per voi? - Finchè io non mi possa innamorare d'un uomo alla mia volta mi deve bastare, per forza! Che ho a farci io? - Credete voi di potervi riuscire ad amarlo questo signor Marliani? - Neppur per sogno. Manca di due o tre qualità indispensabili... - È ricco? - Era ricco. Ora è povero. - E voi siete ricca? - Lo era. Oggi sono ricca... di debiti. - E che cosa pensate dunque di fare della vostra vita? - Non lo so. - Non ci pensate? - No. Confido nella mia stella. Diventerò artista drammatica. - Ma che idee avete? - Idee! - sclamò Nanà ridendo. - Mi domanda che idee ho! - proseguì come parlando a sè stessa. Facciamo una cosa, Enrico, mettetevi ne' miei panni, nella mia posizione. Sareste capace di fare questa specie di astrazione? - Altro che. - Ditemi ora che idee avreste voi se foste me stessa? Sentiamo. Fatemi il vostro programma. Enrico si trovò dinanzi a un problema, al quale aveva pensato qualche volta senza trovarci uno scioglimento onesto. - M'avete detto che questo signor Marliani non potrebbe pensare a... ai casi vostri? - diss'egli schivando così di rispondere direttamente alle domande di Nanà. - No. Egli è completamente rovinato. Ma vedete che non avete saputo farmi il programma! - Quanto abbisogna a voi per vivere, come sarebbe il vostro desiderio? - Se mi chiedete quanto mi abbisogna per vivere vi potrei rispondere che, amando, mi basterebbero tre franchi al giorno; se mi domandate quanto mi abbisogna per vivere secondo il mio gusto ora che sono annoiata e indifferente, pur troppo vi risponderei che, secondo le mie abitudini, non mi basterebbe un milione all'anno. - Se però un galantuomo vi facesse delle proposte serie, le ascoltereste voi? - Secondo. - Se il galantuomo fosse come me, per esempio? - Allora no. - Perchè? - Prima, perchè non vorrei che la signorina Elisa dovesse odiarmi. E poi perchè non vorrei rovinarvi. - Che importa a voi in caso che io mi rovini? Nanà non rispose; s'accontentò di alzar le spalle con una smorfietta, che poteva essere interpretata in mille sensi. Poteva voler dire: sicuro che a me non m'importa nulla, come poteva voler dire benissimo: mi importa più di quel che pensate! Poteva voler dire: che domanda strana! Come poteva benissimo voler dire: hai indovinato! Astuzia innata di questa sfinge del secolo decimonono. Mezz'ora dopo Enrico entrava come un turbine nella camera da letto del suo amico Sappia che si destava in quel punto e gli diceva: - Ho bisogno di dieci mila franchi. - Che cosa vuoi farne? - Ho paura di essere proprio innamorato. - Innamorato? Ah, capisco! Hai bisogno di dieci mila franchi per farti passar l'amore? - Non per farle un prestito indispensabile... - Si potrebbe sapere chi è? - Indovina. - Non saprei! - È Nanà. - Nanà! - gridò il Sappia balzando a sedere sul letto. - Se non trovo dieci mila franchi per questa sera mi faccio saltar le cervella. - Quand'è così ascolta. Vedrò se mi è possibile di trovare ancora danaro e te lo presterò. Ma sulla mia sola firma ormai non ho più speranza di trovarne. A mio padre nè a mia madre già non posso più ricorrere. Li ho stancati troppo. Ti saprò dire qualche cosa stasera al club. club.- Ma stasera è già troppo tardi. Se io mi presento a Nanà senza una risposta certa, prima di sera sono rovinato. Gliel'ho promesso. - Che ti gira di promettere un prestito senza la certezza di poterlo fare? - Speravo che tu ne avessi o me li potessi trovar subito. Sappia si levò, fece attaccare e andarono in cerca di Bonaventuri, il quale, se il lettore si ricorda, aveva offerto i suoi servigi a Sappia fin da quella sera, che s'eran trovati in casa della Luisa, dove Enrico aveva fatto il primo passo al malcostume. Il Bonaventuri infatti, dal canto suo aveva già fatto prestare più di duecentomila franchi ai due figli di famiglia, e regolarmente alla scadenza rinnovava i loro effetti, sui quali s'accumulava lo spaventevole anatocismo. Di questi, più di centomila li aveva mangiati Enrico O'Stiary. Questi centomila franchi in due anni e mezzo erano diventati circa duecentomila, e alle nuove scadenze toccavano quasi i centocinquantamila. E non erano che la metà de' suoi debiti. Il Bonaventuri faceva credere ai due giovani di essere compromesso fieramente anche lui da quelle scadenze, alle quali poneva la girata per puro favore. Oh, egli era un gentiluomo! Faceva tutto per la grande simpatia che nutriva per que' due poveri giovani, che gli avari parenti tenevano tanto a stecchetto. E si fidava tanto di loro! E sapeva dar loro di quando in quando dei così buoni consigli. E si spaventava di quando in quando con tanta cordialità nel veder ingrossare spaventosamente le somme del loro debito! E si rammaricava con tanta pietà che il padre di O'Stiary avesse messa quella maledetta clausola nel suo testamento. E domandava loro con tanta premura notizie della salute del babbo marchese e del tutore notaio quando li incontrava dalla Luisa! - Aver ancora danaro dalle solite sorgenti - diss'egli a Sappia - è impossibile. Bisognerà che tentiamo nuovi mezzi. - Ne conosce lei? - Io no, ma ho un amico che se ne intende, quantunque da poco in commercio. - Andiamo subito da questo suo amico - disse O'Stiary. - Per farle vedere la mia buona volontà ci andremo oggi. - Come si chiama? - Si chiama Marliani, ed ha lo studio in Valpetrosa. - Oh, diamine! - sclamò il Sappia. - Che fosse mai Filippo Marliani? - Filippo appunto. Quello che era a pranzo dalla signora Nanà...! - Sì, sì. È lui! Come mai s'è dato a vendere pannine? - Lui non vende. Lui è direttore della ragion sociale. - Allora siamo a casa! - sclamò il Sappia tutto allegro. - Ora non è che mezzogiorno - disse O'Stiary. - Troviamoci alle due in qualche luogo. - Dove? - Dica lei. - Dalla Romea? - Va bene. Dalla Romea. E si lasciarono.

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Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 2 occorrenze

Bisognerà trovarglielo da qualche parte, dopo, in paese non può tornare, benché i Palone gli abbiano fatto sapere che sono contenti che impara da sarto. Ha vent'anni, ha dei progetti. Per lui non è finita, a quest'età non è mai finita. E anche il peggio deve ancora venire. Si propone di far vedere sotto le armi che è un "faticatore," che non "litiga," che sa obbedire, come obbedì sempre al padre e come ha obbedito qui dentro. Sa che quando avrà dato sufficienti prove, si potrà iniziare la pratica di riabilitazione. "Quando! " domanda col sorriso nervoso che gli scava la fossetta. S'è spezzato il filo nero intorno al dito, si guarda le mani, le ficca profondamente nelle tasche. Non ha domandato quando andrà soldato, il conto se l'è fatto da sé, è ansioso di andare soldato. Me ne vado senza avere il coraggio di dirgli che è escluso d'ai servizio militare per indegnità.

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Mi domando fino a che punto questi uomini abbiano subito l'inevitabile indurimento professionale. Con quelli della mia provincia mi sono familiarizzata, posso avere perfino una qualche influenza, usare un certo controllo, essere d'aiuto ai ragazzi. Qui è diverso, le proporzioni e la specie, tutto quanto vi si scarica di corruzione delinquenza violenza ferocia. Costretti dal potere, sia chi ne usa sia chi lo subisce. So che ci sono letti di contenzione (da morirci sopra) celle di punizione (da impazzirci dentro) è il sistema a renderli necessari e perpetuarli. Mi fanno pena un po' tutti, ma i ragazzi i ragazzi... Preferirei smetterla di andare avanti. Non vedrò se non quello che mi si concederà di vedere. Impossibile far aprire ogni uscio e del resto una branda in uno sgabuzzino non significherebbe niente, le fasce di contenzione o le camicie di forza si ravvoltolano e si mettono via. Non potrò parlare con nessuno dei reclusi se non in presenza dei carcerieri. Invariabilmente rispondono che si sta bene, che si mangia bene. E poi guardano il direttore gli agenti. A volte li guardano prima. Si sta magari relativamente bene, essi comunque pensano il contrario. Invece si presenta l'imprevisto. Mentre siamo nell'infermeria portano, sanguinante e stravolto, uno che ha tentato il suicidio nel cellulare. Spinto per le braccia cammina come ubriaco. Un ragazzone del quale, girandomi, ho visto la nuca incolta e la schiena in camicia sussultante. Trema tutto. Un fremito nervoso rabbioso, geme e digrigna. S'è tagliato i polsi e la gola con una lametta. Solita storia, frequente tra gli adulti. Ah, un simulatore. Recidivo, era uscito da poco. Il pentimento, vergogna di ripresentarsi al paterno direttore, mi si dice. Durante la medicazione è tenuto in piedi, non pensano a farlo sedere. Al lavaggio che scola alcool rosso, le ferite appaiono superficiali. Vede? Vedo, può essere una finzione, già. E se invece non gli è riuscito in tempo? Uno stratagemma per ottenere il ricovero in infcrmeria e l'indulgenza. O per sfuggire al primo impatto. Il convulso non cessa, sbatte i denti. A me sembra paura, paura nera. Quando passiamo nelle cucine qualcosa mi sfugge. Non noto niente di particolare. Il solito tanfo delle cucine di comunità, una bagnatura in terra melmosa, due minori sguatteri dalle facce ebeti (uno con la patta sbottonata: è forse per questo l'imbarazzo?) il cuoco che corre attorno. Un vero cuoco, grasso e col berrettone bianco. Ma pare agitatissimo, con tutta l'aria dell'uomo colto in fallo. Il ragazzo sbottonato si tiene di sbieco a braccia dondoloni. Qualcosa non va. La voce pacata del direttore aumenta l'agitazione del cuoco, trema e balbutisce. Presenta, come gli viene richiesto, una porzione. Il tocco polposo del baccalà nuota in un lago d'olio, inverosimile. E devo scansarmi perché il piatto balla addirittura nelle mani del poveruomo. Come stesse davanti agli aguzzini. Domando piano se è malato, l'agente mi guarda sorpreso senza rispondere. Scendiamo nell'ultimo cortile. Alte muraglie, il sole arriva a lama per traverso. In mezzo l'albero. Un abete. Terra grigia battuta come terra bruciata e l'abete natalizio unico verde vivente nella città chiusa dei ragazzi. Da una tal quale emozione questo verde di natura e non a me soltanto. Si scioglie la formazione strategica da visita ufficiale, ci mettiamo tutti intorno. È stato un dono di Natale, poi i ragazzi hanno voluto piantarlo. Se ne avvicina qualcuno spontaneamente e vedo infine vere facce di ragazzi. Sorridono. Sorride il direttore con la sua nitida dentatura. Sorridono gli agenti. Domando incredula se davvero ha attecchito. Molte voci me lo assicurano. E tutti stiamo intorno a rimirare spalla a spalla. Sicuro che ce l'ha fatta, dice un raga2zo senza essere interrogato. Incontro gli occhi lustri di un ricciutone. L'agente alla mia sinistra, scelta una cima più chiara, la stringe fra due dita. È una cima nuova, odorosa. Si porta le dita al naso aspirando con delizia. Viene redarguito, mani si sporgono a difendere la tenera cima strizzata. No no, dice il direttore, non sciuparla. E anche le loro facce appaiono diverse. Li riconosco. Sono gli stessi coi quali ho frequenti contatti. La piccola gente di vita grama _ impiegatucci di improbo impiego _ che rientrando stanchi a casa si prendono i bambini sulle ginocchia. Magari ancora pensando con allarme a quegli altri, i figli traviati degli altri, che hanno in difficile custodia. Quanto difficile anche ai buoni padri trattare i propri figli "cattivi." E guardando il direttore _ci sorridiamo _ penso alle tante volte che mi è capitato di alzare la mano su un bambino per una carezza e vederlo pararsi. Ecco qua una nobile faccia, un valoroso uomo assillato da irti problemi, in cerca dell'ardua strada che conduca ai giovani cuori induriti. Essi pure guardano forse me in altro modo, caduta la diffidenza, quel senso d'intrusione malfida che può ispirare la stampa. È un reciproco riconoscimento umano, il riconoscimento di tutte le buone intenzioni che ci animano, per influsso dell'albero. Un albero di Natale che conserva la sua virtù: sempre qui, vigilante, a braccia larghe, con l'aria d'immolazione d'un crocifìsso. ... le buone intenzioni di cui è lastricato l'inferno...

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PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Mi sentivo strozzare da quel che volevo e non potevo dirti ... da quel che ti ho detto, finalmente, quasi cielo e terra abbiano dovuto sconvolgersi per produrre questo altro sconvolgimento qui, nel mio cuore, e spezzare i lacci che lo avvincevano!" "È dunque vero, Patrizio?" balbettò Eugenia. E gli abbandonò la testa sul petto, scoppiando in pianto dirotto. "Perché piangi ora? No, no! Perché piangi ora? Perché?" Tentò di trattenerla, sentendo che cercava di svincolarsi e di rizzarsi in piedi; ma Eugenia gli sfuggì. Alla scarsa luce che veniva dall'uscio socchiuso dell'altra camera, Patrizio la vide portare le mani al cuore e ripetu- tamente aprir la bocca per aspirare, aspirare! "Ah!" ella fece, allargando le braccia e cacciando un fortissimo e prolungato sospiro. E spalancata l'imposta della finestra agitava le mani davanti a sè, quasi a cacciar fuori, a disperdere per l'aria qualco- sa di malefico espulso con quel respiro dal profondo del petto; poi gli si gettava di nuovo tra le braccia, singhiozzando: "Ora sì, ora sì, tu sei mio! ... Vergine santa, vi ringrazio!" Patrizio era così felice, e così commosso che non poteva rispondere niente. Cercava di calmarla con le carezze, a- sciugandole gli occhi, sorridendole. "Ci svegliamo da un triste sogno!" egli esclamò finalmente. "Guarda Eugenia, guarda!" E la ricondusse alla finestra. Il cielo, lavato dal temporale, era d'un azzurro così cupo e così limpido che pareva sprofondato immensamente più lontano. Di faccia, in fondo, la campagna scura riluccicava di rigagnoli e di pozzanghere sotto la viva luce del sole che la irradiava dall'alto. "Guarda, Eugenia, guarda!" Gli alberi della selva, scossi di tratto in tratto da leggeri soffi di vento, lasciavano cadere dai rami sbruffi di perle iri- date; e pareva si rizzassero, si distendessero, si ravviassero per riparare lo scompiglio sofferto col temporale. "Guarda, Eugenia, guarda!" Le siepi, le piante, le erbe brillavano, sorridevano, verdi, ripulite dalla polvere, rinnovate; e dagli alberi, dalle siepi, dalle piante, dal terreno imbevuto di acqua si sprigionava una frescura così soave, un profumo così acuto, una sensazio- ne di colori così allegri e vivaci, che Patrizio ed Eugenia rimasero a guardare muti, assorti, come se quella frescura, quel profumo, quella gioconda vivacità di colori, più che percepirli coi sensi, essi li godessero, spettacolo assai più bello, con un senso interiore dei loro due cuori già diventati un sol cuore. E guardavano, guardavano, e si stringevano amorosamente le mani. 81

Milano in ombra - Abissi Plebi

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Corio, Ludovico 1 occorrenze

Così andranno a finire tutti i travagli dell'industria, fino a che l'istruzione e un certo grado di prosperità, non abbiano messo in sicuro la numerosa classe degli operai. « Oltracciò, in quei dì solenni, nei quali lo spirito di amor patrio si diffonde per tutto il paese e lo commove non si vedono forse disgraziati operai rimanersi come sordi alle grida dell'universale, non badando all'accalcarsi della gente dinanzi a loro? A che serve rammemorare la patria? La miseria fa strazio della loro anima e la strema di forze. Che importa loro della patria? E dolore non lascia luogo ad altre sensazioni. V'hanno pure operai che, tranne il meccanismo proprio della fabbrica dove stanno a lavorare, non conoscono nulla o quasi nulla di tutte le grandi scoperte che si attengono all'industria e fanno l'onore e la ricchezza del nostro secolo. Se inventaste cento volte a pochi passi da loro vie ferrate e telegrafi elettrici, vi darebbero sbadatamente un'occhiata e senza cupidigia, trattandosi di cosa che non fa per loro. Tutte queste opere meravigliose non riforniscono di carbone il loro focolare vuoto appunto nella stagione che più lo richiede, nè di pane la mensa che talvolta è deserta in quella appunto che più sentono lo stimolo della fame. « Freddo similmente il loro sguardo all'apparire del giorno o al tramontare, e, se potessero, direbbero certamente col poeta: Che fa a me il sol? Dal tempo nulla attendo. « Cresce il terrore se vi fate a cercar il numero degli abitanti di questi quartieri. Vi converrà ammettere che sono a centinaia, a migliaia, gli uomini, le donne, i fanciulli, prossimo vostro s'intende, i quali menano cotal vita, ed è la vita di tutti i giorni. Neri pensieri v'entrano in capo, quando voi considerate da questo lato la questione sugli operi. Appresso vi sfugge dal labbro la dolorosa esclamazione: Povera gente! - Sì, povera gente, poveri operai! lo stato vostro fa ben parer giusti gli sforzi, che fanno tanti cuori generosi per cangiarlo in meglio ». Questa descrizione dello stato di una grande parte degli operai non è esagerata, nè mendace. Il Dauby non è persona sospetta di simpatie demagogiche, anzi abbiam sentito da parecchi tacciar di codino lui e il suo libro. Il signor cav. J. Dauby, autore di molti bellissimi libri popolari, era nel 1874 amministratore del Monitore Belga ma fu un tempo semplice operaio. Il benemerito tipografo della città nostra cav. Angelo Colombo, amico ed ammiratore di quello scrittore, ci narrò come quegli dall'umile sua condizione abbia potuto salire tanto alto. Entrato nel 1840, dice il cav. Colombo, per una felice congiuntura di poche ore, nella stamperia del signor G. Lesigne, vi rimase per ventiquattro anni. Il suo padrone non tardò guarì ad affidargli la direzione del suo stabilimento, incombenza, alla quale in seguito aggiunse la tenuta della contabilità e la correzione degli stamponi. Fu in questo mezzo che il Dauby fece amicizia con alcuni eminenti personaggi, che gli professarono grande benevolenza ed esercitarono sulla sua vita un ascendente per lui decisivo. Fra essi noi citererno per tacer d'altri, il compianto Edoardo Ducpetiaux, ispettore generale delle carceri e degli stabilimenti di beneficenza dei Belgio, uomo di fama europea, ed il conte G. Arrivabene, divenuto poi senatore del Regno d'Italia. E Ducpetiaux, che si occupava indefessamente d'opere di riforma in favore di quelli che la fortuna aveva diseredati, organizzò a Bruxelles nel 1856 un'Esposizione internazionale d'economia domestica , ch'ebbe buonissimo esito. Fra i pregevoli oggetti, che quell'esposizione conteneva, eravi pure la casa d'un operaio colle sue modeste supellettili. Per quanto però completo fosse quel mobiliar emodello, vi mancava nondimeno una cosa necessariissima: un buon libro Il Dauby ne fece motto al Ducpetiaux; e questi l'incoraggiò vivamente a scrivere un tal libro; e tre settimane appresso, sulla tavola della casa-modello c'era un manoscritto intitolato: Il libro dell'operaio: consigli d'un collega Un tal fatto decise della carriera letteraria dell'autore. Il libro dell'operaio ottenne all'esposizione d'economia domestica la medaglia d'onore, che fu rimessa all'autore, con vive parole d'incoraggiamento, dal duca di Brabante, oggidì Leopoldo II re del Belgio. « Il libro dell'operaio incontrò favorevolissime accoglienze, e, pel rapido spaccio, se ne fecero più edizioni, meritando di essere tradotto in varie lingue, tra le quali la portoghese, per cura della Società d'incoraggiamento del lavoro negli opifici posta sotto l'alta protezione del re di Portogallo. Il Dauby non può essere pertanto sospetto di demagogia, ed il suo libro è pieno di massime di una grandissima moderazione. Eppure egli, descrivendo in questo modo le condizioni degli operai, non avvertiva che parlava soltanto d'una parte della classe operaia, anzi per meglio dire di momenti speciali nella vita d'una parte della classe operaia. Ma dell'operaio si può fare un altro quadro, che non è men vero di quello dipintoci dal signor Dauby. In modeste stanzuccie abitano le famiglie degli operai. Ecco delle buone mogli che alla mattina s'alzano sollecite per preparare un eccellente caffè nero pel loro marito, il quale non manca tuttavia di recarsi appena uscito di casa, dal liquorista, presso cui convengono i suoi colleghi. Qui si riscalda lo stomaco con un bicchierino o due d'acquavite e scambia quattro idee coi suoi compagni, idee, che so, io? di politica, di economia, di amministrazione, di filosofia epicurea e d'altro. Egli ha così soddisfatto a due bisogni egualmente legittimi, l'uno fisico e l'altro morale. Poi si reca al lavoro. Se l'operaio lavora a cottimo, lo si vede, massime nei primi giorni della settimana, porre mano al lavoro, poi smettere, poi uscire di fabbrica, poi ricominciare, consolandosi colla speranza che, lavorando come una bestia (è una frase di prammatica) per quattro giorni della settimana, egli guadagna più che non ne richieggano i bisogni della sua famiglia. Ma, sciagurato, lo sforzo che fai nei quattro giorni ti rovina la salute! - E che importa? Non c'è l' ospitale? Non c'è il servizio di Santa Corona che mi fornisce e medici e medicine? Non ho io pensato forse a iscrivermi nella Società operaia per avere il soccorso in caso di malattia? E poi non ho io un padrone che anche quando sono ammalato mi anticipa la pappa? Ah stolto egoista! per non fare al tuo mal talento una piccolissima violenza, per non vincere una mala abitudine, per non rinunciare ad un piacere sciocco e passeggero qual è quello di ciondolarsi due giorni interi per la fabbrica, dando la baia a quei pochissimi, che attendono al lavoro, perchè son pagati a giornata, ah, tu non guardi di nuocere alla tua famiglia, di sciupare la pubblica beneficenza, di scroccare un sussidio a tutto danno dei fondi della società a cui appartieni, e di giuocare la tua indipendenza contro le anticipazioni del tuo padrone! E per compensare costui della sua bontà cerchi di danneggiarlo in tutti i modi possibili? Cerchi per tre giorni della settimana, ossia per quasi mezzo anno tieni il suo capitale, la macchina che ti presta per lavorare, nelle tue mani senza corrispondergli alcun frutto, e poi negli altri giorni lavorando in fretta e in furia gli rovini la macchina, ossia gli consumi il suo capitale, assai più che nol faresti se tu lavorassi regolarmente ogni giorno. E posto anche che in quattro giorni tu possa guadagnare senza un grande sforzo di che mantenere la tua famiglia e avanzare di che scialarla all'osteria, non è forse vero che lavorando anche gli altri tre giorni della settimana potresti porre in disparte un bel gruzzolo da depositare alla Cassa di Risparmio? Tu invece non puoi esser mai tranquillo sul domani nè per te, nè per la tua famiglia; tu ostenti indifferenza per le strettezze che ti si affacciano nel futuro, conti sul lavoro de' tuoi figli; ma, nutriti sregolatamente, un giorno cioè indigestione e un giorno digiuno, sono lì male andati in salute e pare anche a te che, continuando di questo passo, non potranno certo giungere ad essere il bastone della tua vecchiezza. Vedi dunque che non sei tranquillo. T'illudi ma non ti regge l'animo, e talvolta per obliare tuffi nel vino o nell'acquavite i tristi tuoi presentimenti. E s'aggiunge a questi tuoi dolori anche il lamento continuo della moglie, la quale s'accora. . . E di che s'accorano la maggioranza delle donne degli operai? Perchè anche domenica dovrà andare all'osteria suburbana collo stesso abito della domenica precedente, mentre le altre donne vi si recheranno con un vestito nuovo, fatto all'ultima moda, con nastri e fronzoli ... E tutta la settimana tu vedi, caro operaio, tua moglie occupata a riattare un vestito vecchio, taglia di qua, ritaglia di là, aggiungi, inserisci, attacca, appendi, sovrapponi, e intorno a quel vestito stanno tutte le casigliane intente a dare consigli, a prodigare lodi al buon gusto, alla diligenza, alla laboriosità della tua donna ... quando non ci sia qualcuna di quelle, che le faccia capire che a lei giovane e bella non potrebbe mancare chi regalasse un bel vestito nuovo ogni domenica, e che la conducesse nei principali alberghi in carrozza, e che le facesse bere di quelle bottiglie di vino, che al solo vederle fanno spuntare sul ciglio la lagrimetta della compunzione ... e che ci sarebbe il figlio del prestinaio dirimpetto, che farebbe pazzie per lei ... Povero a te, ottimo operaio, se sei predestinato! Ma voglio ammettere che tua moglie sia una donna onesta e in tali panie non s'inveschi. Dirà alla malvagia consigliera: Ma, e l'onore, Cecca? Quantunque la Cecca potrebbe farle sulla tesi "onore" dei sillogismi sans nom assai curiosi. Ammettiamo adunque che la tua moglie sia una donna onesta. Non accadrà altro male che quello di sciupare un po' di tempo. Ma sarà appunto quel tempo prezioso, che essa non impiegherà per rassettare la casa, per raggiustarti e stirarti la biancheria, per rattoppare i poveri vestitini de' tuoi figli, per levar le frittelle dall'unica tua giubba della festa. La sua civetteria ucciderà la felicità di tutta la famiglia. E tuttociò ti pare forse poca cosa? E l'operaio che lavora a giornata? Fa il meno che può per tema d'ingrassare troppo il padrone, e si diverte a dirne poi tutto il male possibile. Ma, dal mezzogiorno della domenica alla mattina del lunedì, domandate all'operaio che cosa sia la miseria, domandategli che valore abbiano le lire, parlategli di economia politica (scienza di moda e intorno a cui anche i lustrascarpe pretendono dissertare largamente) citategli lo esempio di Beniamino Franklin, e poi venitemi a dire che cosa vi risponderà? Con quel risolino tra labbro e labbro, proprio di chi ha alzato un po' troppo il gomito, con una strizzatina d'occhio, e con una scrollatina di capo a sinistra, vi dirà: Non ha nessun parente più prossimo da contargli tutta questa bella roba? E col dorso della destra si liscierà i baffi ancora sgocciolanti di vino. Alla domenica le osterie sono piene di operai, i teatri sono pieni d'operai, i postriboli sono anch'essi pieni d'operai, le vetture pubbliche sono tutte noleggiate dagli operai; in quella mezza giornata la ghiottornia, la sensualità, l'imprevidenza riddano, turbinano intorno alla mente ed al cuore, del povero operaio, il quale, trascinato dal vortice delle passioni, crede che il miglior modo di godere sia quello di stancarsi senza saziarsi un giorno, solo, per restare poi digiuno gli altri sei lunghissimi giorni della settimana. Nella notte della domenica avvengono per la città liti indiavolate e ne sono cagioni precipue la gelosia, l'ubbriachezza, il giuoco. Anche quest'ultima passione entra nelle abitudini del nostro popolo. D'estate, in tutte le osterie si giuoca da mattina a sera alle boccie e d'inverno si giuoca a tarocchi, a tresette, a briscola, e infine alla mora. Questo giuoco chiassoso, che Orazio ben conosceva e che chiamavasi a' suoi tempi popolano in digitis dimicare è uno dei passatempi più graditi pel milanese, giacchè risponde meglio d'ogni altro alla sua indole ciarliera ed urlona; serve alla ginnastica del polmone, e a far sentire sempre più il desiderio di ingozzare del vino. Laonde la maggior parte degli osti sono anche giuocatori di mora e organizzano partite nei loro negozi ed invitano, esortano, eccitano i loro avventori a giuocare; sapendo che come tutti i salmi finiscono col gloria, così ognuna di queste partite finisce coll'assorbimento d'un litro di vino, il che dà ad essi non piccolo vantaggio. Anzi, un oste che sappia il suo mestiere fa di più: quando vede tranquillamente seduti nel proprio negozio uno qua uno là alcuni suoi avventori, eglì li raccozza e si mette tra essi come trait d'union affinchè si accingano a giuocare e partecipa egli pure a qualche partita. Basta questa presentazione dell'oste, perchè quei buoni avventori prima di notte siano amici e stiano tra loro come pane e cacio e si promettano di ritrovarsi al tavoliere anche la sera seguente. La partecipazione dell'oste al giuoco è la garanzia della lealtà dei singoli giuocatori. Vi sono alcuni operai, che sono diventati famosi quali giuocatori di mora, e tengono il campo in certe osterie, dalle quali i novellini stanno lontani come i topi dalle trappole. Ma avvengono talora delle sfide formali e i giuocatori che si credono capaci si presentano in queste osterie, dove c'è qualche celebre morista, e con lui si cimentano, e premio della vittoria non sono soltanto i litri e le bottiglie di vino che si scommettono in ciascuna partita, ma il vincitore riporta anche una bandiera, ch'egli reputa premio tanto pregevole quanto lo poteva essere per un romano la corona civica. Per la mora el Togn l'è in bandera vale quanto dire che è un invincibile giuocatore. Com'è facile accorgersi, l'operaio consuma in brev'ora quanto si guadagna in parecchie giornate di faticoso lavoro, e perciò durante la settimana il bisogno l'assale e allora i lamenti, i guai, i litigi si succedono in famiglia, e quando la sventura viene a punirlo dalla sua imprevidenza, allora non gli resta più che ricorrere al Monte di Pietà, alla Congregazione di Carità, ossia a divorarsi la speranza e a sciupare quel rossore, che lo stendere della mano,alla pubblica beneficenza, richiama sempre sul volto a qualunque galantuomo. Eppure v'ha di peggio. Qualche operaia stretto dal bisogno arriva a chiudere un occhio sulle mariuolerie dei figli, su certe colpevoli relazioni delle figliuole e persino della moglie, purchè queste vergogne gli apportino in casa tanto da supplire ai bisogni della famiglia. A tanto l'imprevidenza e la prodigalità possono trascinare anche un onesto operaio. Chi gli sapesse predicare la frugalità e la sobrietà, chi rendergli accetti i gusti semplici e fargli preferire una vita modesta e tranquilla ad una vita turbolenta e scialacquatrice farebbe davvero opera meritoria. Ma dov'è l'apostolo?

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ARABELLA

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

"Senti, caro Pietro," riprese la voce paterna e insinuante del prevosto "capirai benissimo che qui non si tratta del nostro interesse, né di cattive intenzioni che si abbiano contro di te, povero diavolo. Si tratta puramente e semplicemente d'un diritto di giustizia, sicuro! Si tratta del pane di molta povera gente, che si presume danneggiata non da te, povero diavolo, ma da un uomo, a cui Dio avrebbe tolto per un momento il lume della coscienza. O le voci che corrono son false e tu, il mio buon Pietro, hai il dovere di dimostrare che son false e che quello che hai potuto dire a terze persone è egualmente falso: o le voci son vere, cioè hanno fondamento nel vero, anzi tu sei stato, tuo malgrado, testimonio del vero, e allora, caro figliuolo, pensa al carico di coscienza che stai per assumere. Senza cattiva intenzione tu ti fai complice d'un ladroneccio, ti copri di una responsabilità che io, ne' tuoi panni, non vorrei per tutto l'oro del mondo portare davanti al tribunale di Dio." "Ma se io non posso parlare" singhiozzò l'uomo, alzando le due mani sopra la testa e tenendole così aperte nell'aria. "Se ci andasse di mezzo la vita?" "Ah, t'hanno dunque minacciato," entrò a dire don Giosuè "bene, bene, bene!..." E fregandosi le mani, fe' una giravolta nella stanza. "Ti hanno minacciato? e dubiti che questo Signore che ti sta sul capo sia meno forte dei prepotenti che ti minacciano? e quando pur sapessi che c'è qualche pericolo a dir la verità, puoi tu comperare la tua sicurezza a prezzo d'un tradimento? e credi che vi possa essere sicurezza nel campo della ingiustizia? e ti par bello dormire sul letto di spine de' tuoi rimorsi, il mio Pietro? in balìa al genio delle tenebre, il mio Pietro?" Così batteva sul cuore del portinaio la voce amorosa e terribile. "Io non ho rubato nulla a nessuno, per la benedetta Madonna! Sono un povero uomo che non fa male a nessuno; non ho detto niente a nessuno; non voglio andare in cellulare" provò ancora a ripetere con monotonia, annaspando colle mani in aria, buttando gli occhi in tutti i cantucci dov'era sicuro di non incontrare gli occhi de' suoi giudici, chinando il capo per isfuggire al baglior bianco di quel Signore in croce. "Non voglio andare al cellulare: prima mi ammazzo." "Non è la strada più lunga per andare all'inferno, babbuino, l'ammazzarsi... Senti il parere di chi ti vuol bene, asino! non capisci che il tuo negare a noi non serve a nulla, perché ne sappiamo più di te?" A ogni frase don Giosuè dava una ruvida scossa al suo uomo. "Che cosa hai detto al Mornigani? non sai che ti hanno visto col lume in mano a far chiaro al tuo ladrone, voglio dire al tuo padrone?" Il portinaio, scosso, sospinto da queste parole e dalla mano vigorosa del prete, non sapendo dove trovare un rifugio, andò a stramazzare ginocchione sulla predella, come un uomo veramente mazzolato, strinse la testa nelle mani e ruppe in tali singhiozzi, che don Felice ne sentì una profonda compassione. Voltatosi verso don Giosuè, non volle più che seguitasse a tormentarlo. "Sta bene," disse costui "badate però a non lasciarmelo scappare." "È un buon ambrosiano incapace a far del male." "Fategli fare una buona confessione; io intanto corro ad avvertirne l'avvocato." Don Giosuè uscì e ritornò sui suoi passi a prendere il tricorno, che nella furia delle idee aveva dimenticato in sagrestia. Si strinse nel mantello, ritraversò la chiesa, così invasato dal suo primo trionfo, che non salutò nemmeno con una riverenza il padrone di casa. Uscì e prese la strada più corta verso Sant'Ambrogio, dove abitava l'avvocato, senza sentire l'acquerugiola fredda che veniva dal cielo.

Storie naturali

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Levi, Primo 2 occorrenze

Che questa condizione non sia così eccezionale come sembra: che altri animali, forse molti, forse tutti, forse anche l' uomo, abbiano qualcosa in serbo, una potenzialità, una ulteriore capacità di sviluppo. Che al di là di ogni sospetto, si trovino allo stato di abbozzi, di bruttecopie, e possano diventare "altri", e non lo diventino solo perché la morte interviene prima. Che, insomma, neotenici siamo anche noi. _ Su quali basi sperimentali? _ fu chiesto nel buio. _ Nessuna, o poche. È agli atti un suo lungo manoscritto: una ben curiosa mistura di osservazioni acute, di generalizzazioni temerarie, di teorie stravaganti e fumose, di divagazioni letterarie e mitologiche, di spunti polemici pieni di livore, di rampanti adulazioni a Persone Molto Importanti dell' epoca. Non mi stupisce che sia rimasto inedito. C' è un capitolo sulla terza dentizione dei centenari, che contiene anche una curiosa casistica di calvi a cui i capelli sono rispuntati in tardissima età. Un altro riguarda la iconografia degli angeli e dei diavoli, dai Sumeri a Melozzo da Forlì e da Cimabue a Rouault; contiene un passo che mi è parso fondamentale, in cui, al suo modo insieme apodittico e confuso, ma con insistenza maniaca, Leeb formula l' ipotesi che ... insomma, che gli angeli non sono una invenzione fantastica, né esseri soprannaturali, né un sogno poetico, ma sono il nostro futuro, ciò che diventeremo, ciò che potremmo diventare se vivessimo abbastanza a lungo, o se ci sottoponessimo alle sue manipolazioni. Infatti, il capitolo successivo, che è il più lungo del trattato e di cui ho capito assai poco, si intitola I fondamenti fisiologici della metempsicosi. Un altro ancora contiene un programma di esperienze sulla alimentazione umana: un programma di tale respiro che cento vite non basterebbero a realizzarlo. Vi si propone di sottoporre interi villaggi, per generazioni, a regimi alimentari pazzeschi, a base di latte fermentato, o di uova di pesce, o di orzo germinante, o di poltiglia di alghe: con esclusione rigorosa della esogamia, sacrificio (proprio così sta scritto: "Opferung") di tutti i soggetti a sessant' anni, e loro autopsia, che Dio lo perdoni se può. C' è anche, in epigrafe, una citazione dalla Divina Commedia, in italiano, in cui è questione di vermi, di insetti lontani dalla perfezione e di "angeliche farfalle". Dimenticavo: il manoscritto è preceduto da una epistola dedicatoria, indirizzata sapete a chi? Ad Alfred Rosenberg, quello del Mito del xx secolo, ed è seguito da una appendice in cui Leeb accenna ad un lavoro sperimentale "di carattere più modesto" da lui avviato nel marzo 1943: un ciclo di esperienze a carattere pionieristico e preliminare, tanto da poter essere svolto (con le dovute cautele per la segretezza) in un comune alloggio civile. L' alloggio civile che a tale scopo gli fu concesso era situato al numero 26 della Glockenstrasse. _ Mi chiamo Gertrud Enk, _ disse la ragazza. _ Ho diciannove anni, e ne avevo sedici quando il professor Leeb installò il suo laboratorio nella Glockenstrasse. Noi abitavamo di fronte, e dalla finestra si potevano vedere diverse cose. Nel settembre 1943 arrivò una camionetta militare: ne scesero quattro uomini in divisa e quattro in borghese. Erano molto magri e non alzavano il capo: erano due uomini e due donne. _ Poi arrivarono varie casse, con su scritto "Materiale di guerra". Noi eravamo molto prudenti, e guardavamo solo quando eravamo sicuri che nessuno se ne accorgesse, perché avevamo capito che c' era sotto qualcosa di poco chiaro. Per molti mesi non capitò più niente. Il professore veniva solo una o due volte al mese; solo, o con militari e membri del partito. Io ero molto curiosa, ma mio padre diceva sempre: "Lascia andare, non occuparti di quanto capita là dentro. Noi tedeschi, meno cose sappiamo, meglio è". Poi vennero i bombardamenti; la casa del numero 26 restò in piedi, ma due volte lo spostamento d' aria sfondò le finestre. _ La prima volta, nella camera al primo piano si vedevano le quattro persone coricate per terra su dei pagliericci. Erano coperte come se fosse inverno, mentre invece, in quei giorni, faceva un caldo eccezionale. Sembrava che fossero morti o dormissero: ma morti non potevano essere perché l' infermiere lì accanto leggeva tranquillamente il giornale e fumava la pipa; e se avessero dormito, non si sarebbero svegliati alle sirene del cessato allarme? _ La seconda volta, invece, non c' erano più né pagliericci né persone. C' erano quattro pali messi per traverso a mezza altezza, e quattro bestiacce posate sopra. _ Quattro bestiacce come? _ chiese il colonnello. _ Quattro uccelli: sembravano avvoltoi, per quanto io gli avvoltoi li abbia visti solo al cinematografo. Erano spaventati, e facevano dei versi terrificanti. Sembrava che cercassero di saltare giù dai pali, ma dovevano essere incatenati, perché non staccavano mai i piedi dagli appoggi. Sembrava anche che si sforzassero di prendere il volo, ma con quelle ali .... _ Come avevano le ali? _ Ali per modo di dire, con poche penne rade. Sembravano ... sembravano le ali dei polli arrosto, ecco. Le teste non si vedevano bene, perché le nostre finestre erano troppo in alto: ma non erano niente belle e facevano molta impressione. Assomigliavano alle teste delle mummie che si vedono nei musei. Ma poi arrivò subito l' infermiere, e tese delle coperte in modo che non si potesse guardare dentro. Il giorno dopo le finestre erano già state riparate. _ E poi? _ E poi più niente. I bombardamenti erano sempre più fitti, due, tre al giorno; la nostra casa crollò, tutti morirono salvo mio padre e io. Invece, come ho detto, la casa del numero 26 rimase in piedi; morì solo la vedova Spengler, ma in strada, sorpresa da un mitragliamento a bassa quota. _ Vennero i russi, venne la fine della guerra, e tutti avevano fame. Noi ci eravamo fatta una baracca là vicino, e io me la cavavo alla meglio. Una notte vedemmo molta gente che parlava in strada, davanti al 26. Poi uno aprì la porta, e tutti entrarono spingendosi uno coll' altro. Io allora dissi a mio padre: "vado a vedere cosa succede"; lui mi faceva il solito discorso, ma io avevo fame e andai. Quando arrivai su era già quasi finito. _ Finito che cosa? _ Gli avevano fatto la festa, con dei bastoni e dei coltelli, e li avevano già fatti a pezzi. Quello che era in testa a tutti doveva essere l' infermiere, mi è parso di riconoscerlo; e poi era lui che aveva le chiavi. Anzi, mi ricordo che a cose finite si prese la briga di richiudere tutte le porte, chissà perché: tanto dentro non c' era più niente. _ Che ne è stato del professore? _ chiese Hilbert. _ Non si sa con precisione, _ rispose il colonnello. _ Secondo la versione ufficiale, è morto, si è impiccato all' arrivo dei russi. Io però sono persuaso che non è vero: perché gli uomini come lui cedono solo davanti all' insuccesso, e lui invece, comunque si giudichi questa sporca faccenda, il successo lo ha avuto. Credo che, cercando bene, lo si troverebbe, e forse non tanto lontano; credo che del professor Leeb si risentirà parlare.

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È passato parecchio tempo, e temo che alcuni degli interessati non l' abbiano più presente. ARIMANE (visibilmente contrariato: guarda con ostentazione l' orologio da polso, poi il grande orologio) Collega segretario, la prego di ricercare fra gli atti la mozione Uomo, ultima redazione. Non ne ricordo con esattezza la data, ma dovrebbe trovarsi press' a poco all' epoca dei primi verbali di collaudo relativi ai placentati. La prego di far presto: la quarta glaciazione sta per cominciare, e non vorrei che si dovesse rimandare tutto ancora una volta. SEGRETARIO (nel frattempo ha cercato e trovato la mozione in un voluminoso incartamento; legge con voce ufficiale) "Il Consiglio direttoriale esecutivo, persuaso che (mormorio incomprensibile) ...; considerando ... (c. s.); nell' intento di ... (c. s.); conformemente ai superiori interessi della ... (c. s.); RITIENE OPPORTUNA la progettazione e creazione di una specie animale distinta da quelle finora realizzate per i requisiti seguenti: a) particolare attitudine a creare ed utilizzare strumenti; b) capacità di esprimersi articolatamente, ad esempio mediante segni, suoni, o con qualsiasi altro mezzo che i singoli signori tecnici riterranno atto allo scopo; c) idoneità alla vita sotto condizioni di servizio estreme; d) un certo grado, da stabilirsi sperimentalmente al suo valore ottimale, di tendenza alla vita associata. Sollecita dai signori tecnici e dagli uffici competenti il massimo interessamento per il suddetto problema, che riveste carattere di urgenza, e ne auspica una rapida e brillante soluzione". ORMUZ (si alza bruscamente in piedi e parla colla precipitazione dei timidi) Non ho mai fatto mistero della mia opposizione di principio alla creazione del cosiddetto Uomo. Già all' epoca in cui la Direzione aveva, non senza leggerezza (mormorii: Ormuz aspira profondamente, esita, poi continua) formulato la prima stesura della mozione ora letta, avevo fatto presenti i pericoli connessi con l' inserimento del cosiddetto Uomo nell' equilibrio planetario attuale. Naturalmente, conoscendo l' importanza che per ragioni fin troppo ovvie la Direzione annette al problema in questione, e la proverbiale ostinazione (mormorii, commenti) della Direzione medesima, mi rendo conto che è ormai tardi per provocare il ritiro della mozione. Mi limiterò quindi, volta per volta, ed in sede puramente consultiva, a suggerire quelle modifiche e quelle attenuazioni all' ambizioso programma del Consiglio che, secondo me, ne permetteranno l' attuazione senza eccessivi traumi a lunga o breve scadenza. ARIMANE Sta bene, sta bene, venerabile collega. Le sue riserve sono note, noto è il suo personale scetticismo e pessimismo, e nota infine è la sua interessante relazione sul discutibile risultato di esperimenti similari da lei stesso condotti in varie epoche e su altri pianeti, al tempo in cui avevamo tutti le mani più libere. Sia detto fra noi, quei suoi conati di Superbestie tutte raziocinio ed equilibrio, piene fino dall' uovo di geometria, di musica e di saggezza, facevano ridere i polli. Sapevano di antisettico e di chimica inorganica. A chiunque avesse una certa pratica delle cose di questo mondo, o d' altronde di qualsiasi altro mondo, sarebbe stata intuitiva la loro incompatibilità con l' ambiente che le circondava, ambiente per necessità florido e putrido insieme, pullulante, confuso, mutevole. Mi permetterò di ripeterle che proprio a causa di questi insuccessi la Direzione insiste e preme ora affinché venga finalmente affrontato di petto, con serietà e competenza, (ripete con intenzione) con serietà e competenza, ho detto, questo ormai vecchio problema; ed affinché faccia la sua comparsa l' ospite atteso, (liricamente) il dominatore, il conoscitore del bene e del male; colui insomma che il Consiglio direttoriale esecutivo ebbe elegantemente a definire come l' essere costruito ad immagine e somiglianza del suo creatore. (Applausi composti ed ufficiali). Al lavoro, dunque, o signori; ed ancora una volta permettetemi di ricordarvi che il tempo stringe. CONSIGLIERE ANATOMISTA Domando la parola. ARIMANE La parola al collega consigliere anatomista. CONSIGLIERE ANATOMISTA Dirò in breve quanto la mia competenza specifica mi suggerisce circa l' impostazione del problema. In primo luogo, sarebbe illogico partire da zero, trascurando tutto il buon lavoro svolto finora sulla terra. Già possediamo un mondo animale e vegetale approssimativamente in equilibrio; raccomando perciò ai colleghi progettisti di astenersi da scarti troppo arditi e da troppo audaci innovazioni sui modelli già attuati. Il campo è già fin troppo vasto. Se mi fossero concesse indiscrezioni che sfiorano i limiti del riserbo professionale, potrei intrattenervi a lungo sui numerosissimi progetti che vanno accumulandosi sul mio scrittoio (per non dire di quelli cui si addice il cestino). Notate bene, si tratta di materiale spesso assai interessante, e comunque originale: organismi progettati per temperature varianti da -270 a +300ä C, studi su sistemi colloidali in anidride carbonica liquida, metabolismi senza azoto o senza carbonio, e così via. Un bel tipo mi ha addirittura proposto una linea di modelli vitali esclusivamente metallici; un altro, un ingegnosissimo organismo vescicolare quasi perfettamente autarchico, più leggero dell' aria perché gonfio di idrogeno che esso ricava dall' acqua mediante un sistema enzimatico teoricamente ineccepibile, e destinato a navigare col vento per tutta la superficie terrestre, senza sensibile spesa di energia. Accenno a queste curiosità essenzialmente per darvi un' idea dell' aspetto, dirò così, negativo delle mie mansioni. Si tratta, in vari casi, di temi potenzialmente fecondi: ma sarebbe a mio parere un errore lasciarsi distrarre dal loro indiscutibile fascino. Mi pare indubbio, se non altro per ragioni di tempo e di semplicità, che nel progetto in esame il punto di partenza vada cercato in uno dei campi in cui la nostra esperienza sia stata meglio e più a lungo collaudata. Questa volta non ci possiamo permettere tentativi, rifacimenti, correzioni: ci sia di ammonimento il disastroso insuccesso dei grandi sauri, che pure sulla carta promettevano tanto bene, e che, in fondo, non si scostavano gran che dagli schemi tradizionali. Scartando per ovvie ragioni il regno vegetale, addito pertanto all' attenzione dei progettisti i mammiferi e gli artropodi (brusio prolungato, commenti); né vi nasconderò che la mia personale predilezione va a questi ultimi. ECONOMO Come è mia abitudine e mio dovere, intervengo non interpellato. Collega anatomista, mi dica: quali, secondo lei, dovrebbero essere le dimensioni dell' Uomo? CONSIGLIERE ANATOMISTA (preso alla sprovvista) Ma ... veramente ... (calcola a mezza voce, scarabocchiando cifre e schizzi davanti a sé su un foglio) vediamo ... ecco, da una sessantina di centimetri a quindici o venti metri lineari. Compatibilmente con il prezzo unitario e con le esigenze della locomozione, io opterei per le dimensioni maggiori: mi sembrano garantire un più facile successo nell' inevitabile competizione con altre specie. ECONOMO Data la sua preferenza per gli artropodi, lei pensa dunque ad un Uomo lungo una ventina di metri ed a scheletro esterno? CONSIGLIERE ANATOMISTA Certo: mi permetto di ricordarle, modestamente, la eleganza di questa mia innovazione. Collo scheletro esterno portante si soddisfa con un' unica struttura alle esigenze del sostegno, della locomozione e della difesa; le difficoltà dell' accrescimento, come è noto, si possono facilmente aggirare con l' artifizio delle mute, da me recentemente messo a punto. L' introduzione della chitina come materiale di costruzione .... ECONOMO (gelido) ... Lei conosce il costo della chitina? CONSIGLIERE ANATOMISTA No, ma in ogni modo .... ECONOMO Basta. Ho elementi sufficienti per oppormi recisamente alla sua proposta di un uomo artropodo di venti metri. E, meglio pensando, neppure di cinque, e neppure di un metro. Se lo vorrete fare artropodo, affar vostro; ma se sarà più grosso di un cervo volante, io non rispondo più di nulla, e col bilancio ve la vedrete voi. ARIMANE Collega anatomista, il parere dell' economo (oltre che, a mio parere, giustificatissimo) è purtroppo inappellabile. Mi pare d' altronde che, oltre ai mammiferi, a cui lei accennava poc' anzi, l' ordine dei vertebrati presenti ancora interessanti possibilità fra i rettili, gli uccelli, i pesci .... MINISTRO DELLE ACQUE (vecchietto arzillo, con la barba azzurra ed in mano un piccolo tridente) Eccola, eccola, la parola giusta. È inconcepibile, a mio avviso, che in quest' aula non si sia ancora fatto cenno della soluzione acquatica. Ma già, si tratta di una aula disperatamente asciutta: pietra, cemento, legno, non una pozzanghera, che dico? nemmeno un rubinetto. Roba da sentirsi coagulare! Eppure tutti sanno che le acque coprono i tre quarti della superficie terrestre; ed inoltre, la terra emersa è una superficie, non ha che due dimensioni, due coordinate, quattro punti cardinali; mentre l' oceano, signori, l' oceano .... ARIMANE Non avrei obiezioni di principio contro un Uomo in tutto o in parte acquatico; ma il comma a) della mozione Uomo parla di strumenti, e mi domando con quale materiale un uomo galleggiante o subacqueo potrebbe foggiarseli. MINISTRO DELLE ACQUE Non vedo la difficoltà. Un Uomo acquatico, specie se con abitudini costiere, avrebbe a sua disposizione gusci di molluschi, ossa e denti di ogni specie, minerali vari di cui molti facilmente lavorabili, alghe con fibre tenaci; anzi, a questo proposito, basterebbe una mia parolina al mio amico preposto ai vegetali, e nel giro di qualche migliaio di generazioni potremmo disporre in abbondanza di qualsiasi materiale simile ad esempio al legno, o alla canapa, o al sughero, di cui gli proponessimo i requisiti: entro i limiti, beninteso, del buon senso e della tecnica attuale. CONSIGLIERE PSICOLOGO (è equipaggiato da "marziano", con casco, occhiali enormi, antenne, fili ecc.) Signori, siamo, anzi siete, fuori strada. Ho sentito or ora parlare come se niente fosse di un uomo costiero, senza che alcuno si sia alzato per far rilevare l' estrema precarietà di vita a cui sono sottoposte le creature che vivono fra la terra e l' acqua, esposte all' insidia di entrambi gli elementi. Si pensi ai guai delle foche! Ma c' è ben altro: mi pare chiaro, da almeno tre dei quattro commi della mozione direttoriale, che l' uomo viene tacitamente inteso come ragionevole. MINISTRO DELLE ACQUE Si capisce! E con questo? Vuole forse insinuare che non si può ragionare stando sott' acqua? E io allora che ci starei a fare, io che trascorro in acqua la quasi totalità delle mie ore lavorative? CONSIGLIERE PSICOLOGO La prego, venerabile collega, si calmi e mi lasci dire. Non c' è niente di più facile che tirar giù un bel rotolo di disegni, in pianta e spaccato, con tutti i particolari costruttivi, di un bel bestione o bestiola, colle ali o senza, colle unghie o colle corna, con due occhi o otto occhi o centottanta occhi, o magari con mille zampe, come quella volta che mi avete fatto sudar sangue per mettere in ordine il sistema nervoso del millepiedi. Poi si fa un circolino vuoto dentro la testa, con scritto accanto col normografo: "Cavità cranica per sistemazione encefalo", e il capo psicologo deve cavarsela. E finora me la sono cavata, nessuno può negarlo, ma, dico io, non vi siete resi conto che se qualcuno deve dire la sua, sul tema dell' uomo acquatico, o terrestre, o volante, quello sono io? Gli strumenti, e il linguaggio articolato, e la vita associata, tutto in un colpo solo, e subito, e (ci scommetto) magari qualcuno troverà ancora a ridire perché il senso d' orientamento è un po' scarso, o qualcun altro (guarda l' economo con intenzione) protesterà perché al chilo viene a costare di più di una talpa o di un caimano! (Mormorii, approvazioni, qualche dissenso. Il consigliere psicologo si toglie il casco da marziano per grattarsi la testa ed asciugarsi il sudore, poi lo rimette e continua) Insomma, ascoltatemi bene, e se qualcuno vorrà riferire a quelli di lassù, tanto meglio. Di tre cose l' una: o mi si prenderà d' ora in avanti sul serio, e non mi si presenteranno più i progetti già belli e pronti e firmati; o mi si lascerà un tempo ragionevole per uscire dai pasticci; o io mi dimetto, e allora, invece del circolino vuoto, il collega anatomista potrà mettere, nella testa delle sue più ingegnose creazioni, un pacchetto di connettivo, o uno stomaco di emergenza, o, meglio che tutto, un bel gnocco di grasso di riserva. Ho detto. Silenzio compunto e colpevole da cui emerge infine la voce suadente di Arimane. ARIMANE Venerabile collega psicologo, posso darle formale assicurazione che nessuno, in questa assemblea, ha mai pensato neppure per un istante a sottovalutare le difficoltà e le responsabilità della sua opera; d' altronde lei ci insegna che le soluzioni di compromesso sono una regola più che una eccezione, ed è nostro compito comune il cercare di risolvere i singoli problemi nello spirito della massima possibile collaborazione. Nel caso in discussione, poi, è evidente a tutti l' importanza preminente delle sue opinioni, ed è ben nota la sua competenza specifica. A lei dunque la parola. CONSIGLIERE PSICOLOGO (istantaneamente mansuefatto; prende fiato profondamente) Signori, è mia opinione, del resto ampiamente documentabile, che per mettere insieme un Uomo rispondente ai requisiti prescritti, ed insieme vitale, economico e ragionevolmente duraturo, occorrerebbe rifarsi alle origini, ed impostare questo animale su basi definitamente nuove. ARIMANE (interrompe) Niente, niente, non .... CONSIGLIERE PSICOLOGO Va bene, venerabile collega, l' obiezione dell' urgenza era prevista e scontata. Mi sia comunque concesso di deprecare che ancora una volta motivi estrinseci vengano a turbare quello che (e capita di rado!) avrebbe potuto diventare un lavoretto interessante; del resto, pare che sia questo il destino di noi tecnici. Per ritornare dunque alla questione di base, non v' è dubbio per me che l' Uomo ha da essere terrestre e non acquatico. Ve ne esporrò in breve le ragioni. Mi pare chiaro che questo Uomo dovrà possedere facoltà mentali piuttosto bene sviluppate, e questo, allo stato presente delle nostre conoscenze, non può venire attuato senza uno sviluppo corrispondente degli organi di senso. Ora, per un animale sommerso o galleggiante, lo sviluppo dei sensi incontra gravi difficoltà. In primo luogo, il gusto e l' olfatto verranno evidentemente a confondersi in un senso solo; il che sarebbe ancora il minor male. Ma pensate alle condizioni di omogeneità, direi di monotonia, dell' ambiente acqueo: non voglio ipotecare il futuro, ma i migliori occhi finora costruiti non possono esplorare che una decina di metri di acqua limpida, e pochi centimetri di acqua torbida; quindi, o daremo all' Uomo occhi rudimentali, o tali diventeranno per non-uso in poche migliaia di secoli. Lo stesso, o press' a poco, si può dire delle orecchie .... MINISTRO DELLE ACQUE (interrompe) L' acqua conduce egregiamente suoni, signore! e ventisette volte più rapidamente che non l' aria! MOLTE VOCI Cala, cala! CONSIGLIERE PSICOLOGO (continuando) ... si può dire delle orecchie: facilissimo invero costruire un orecchio subacqueo, ma altrettanto difficile generare suoni nell' acqua. Confesso che non saprei chiarirvene la ragion fisicale, che d' altronde non è affar mio; ma che il ministro delle Acque ed il venerabile collega anatomista mi spieghino la singolare circostanza del proverbiale mutismo dei pesci. Sarà questo magari un segno di saggezza, ma mi pare che, durante i miei viaggi di ispezione, ho dovuto spingermi fino ad un remoto angolo del mare delle Antille per trovare un pesce che emettesse suoni; e si trattava poi di suoni assai poco articolati ed anche meno gradevoli, che a quanto mi risulta il pesce suddetto, di cui mi sfugge il nome .... VOCI Il pesce vacca! il pesce vacca! CONSIGLIERE PSICOLOGO ... emette in modo del tutto casuale al momento in cui svuota la vescica natatoria. E, particolare curioso, emerge prima di emetterli. In conclusione, mi domando, e domando a voi, che cosa dovrà udire il perfezionato orecchio dell' Uomo-pesce, se non il tuono quando si avvicina alla superficie, il fragore della risacca quando si avvicina alla costa, ed i muggiti occasionali del suo collega delle Antille. A voi la decisione: ma vi ricordo che, stanti le nostre attuali possibilità costruttive, questa creatura sarebbe mezza cieca, e, se non sorda, muta: il che, quale vantaggio rappresenti per ... (afferra sul tavolo la mozione Uomo e legge ad alta voce) "... capacità di esprimersi articolatamente ecc. ecc." e più oltre: "... tendenza alla vita associata ..." lascio ad ognuno di voi giudicare. ARIMANE Mi permetterò di porre fine a questo primo fruttuoso scambio di vedute, traendone le conseguenze. L' Uomo non sarà dunque né artropodo né pesce; resta da decidere fra un uomo mammifero, rettile o uccello. Se mi è lecito esprimere in questa sede una mia opinione, dettata, più che dalla ragione, dal sentimento e dalla simpatia, mi si conceda di raccomandare i rettili alla vostra attenzione. Non vi nascondo che, fra le molteplici forme e figure create dalla vostra arte e dal vostro ingegno, nessuna più di quella del serpente ha destato la mia ammirazione. È forte ed astuto: "La più astuta delle creature terrestri", è stato detto da ben più alto Giudice. (Tutti si alzano e si inchinano). La sua struttura è di una semplicità ed eleganza eccezionali, e sarebbe peccato non sottoporla a perfezionamenti ulteriori. È un avvelenatore abile e sicuro: non gli dovrebbe essere difficile diventare, secondo i voti, il padrone della terra; magari facendo il vuoto attorno a sé. CONSIGLIERE ANATOMISTA Tutto vero: e potrei aggiungere che i serpenti sono straordinariamente economici, che si prestano a modifiche numerosissime e del massimo interesse, che non sarebbe difficile ad esempio ingrandirne la scatola cranica di un buon rettile fra quelli finora costruiti potrebbe resistere in climi freddi; il comma c) della mozione si troverebbe in difetto. Sarei grato al collega termodinamico se volesse confermare questo mio asserto con qualche dato numerico. CONSIGLIERE TERMODINAMICO (secco secco) Temperatura media annua superiore ai 10äC; mai temperature inferiori ai 15äC sotto zero. È tutto detto. ARIMANE (ride verde) Vi confesso che la circostanza, sebbene ovvia, mi era sfuggita; né vi nascondo un certo disappunto, poiché in questi ultimi tempi ho spesso pensato all' aspetto suggestivo che avrebbe presentato la superficie terrestre, solcata in ogni senso da poderosi pitoni variopinti, ed alle loro città, che mi piaceva immaginare scavate fra le radici di alberi giganteschi, e provviste di ampie camere di riposo e di meditazione collettiva per gli individui reduci da un pasto abbondante. Ma, poiché mi si assicura che tutto ciò non può essere, abbandoniamone il pensiero, e, ristretta ormai la scelta fra i mammiferi e gli uccelli, dedichiamo ogni nostra energia ad una sollecita definizione. Vedo che il nostro venerabile collega psicologo domanda di parlare: e poiché nessuno potrebbe negare che su di lui pesa buona parte della responsabilità del progetto, prego tutti di porgergli attento ascolto. CONSIGLIERE PSICOLOGO (esplode a parlare prima che l' altro finisca) Per conto mio, come ho già accennato, la soluzione andrebbe cercata altrove. Fin dal tempo in cui ho pubblicato il mio celebre ciclo di ricerche sulle termiti e sulle formiche ... (interruzioni da varie parti) ... ho nel cassetto un progettino ... (le interruzioni crescono di violenza) ... alcuni originalissimi automatismi che assicurano un incredibile risparmio di tessuto nervoso .... Si scatena un finimondo, a stento placato a gesti da Arimane. ARIMANE Le ho già detto una volta che queste sue novità non ci interessano. Manca assolutamente il tempo di studiare, varare, sviluppare e collaudare un nuovo modello animale, e dovrebbe essere lei il primo ad insegnarcelo: mi dica un po' , a proposito proprio degli imenotteri a lei cari, fra il loro prototipo e la loro stabilizzazione nella morfologia odierna non è trascorso un numero di anni rappresentabile con otto o nove cifre? La richiamo perciò all' ordine, e che sia l' ultima volta; altrimenti ci vedremmo costretti a rinunciare al suo prezioso aiuto, dal momento che, prima della sua assunzione, i suoi colleghi hanno messo a punto senza tante pretese, ad esempio, degli splendidi celenterati, che funzionano benissimo ancora oggi, non si guastano mai, si riproducono a bizzeffe senza fare storie, e costano una miseria. Quelli sì che erano tempi, sia detto senza offendere nessuno! Molti a lavorare e pochi a criticare, molti fatti e poche parole, e tutto quel che usciva di fabbrica andava bene senza le complicazioni di voialtri modernisti. Adesso, prima di passare un progetto alla lavorazione, ci vuole la firma dello psicologo, e del neurologo, e dell' istologo, e il certificato di collaudo, e il benestare del Comitato estetico in triplice copia, e il diavolo a quattro. E mi si dice che non basta, e che è prossima l' assunzione nientemeno che di un sovraintendente alle Cose dello Spirito, che ci metta tutti sull' attenti .... (Si accorge che si è lasciato andare troppo lontano, tace bruscamente e si guarda intorno con un certo imbarazzo. Poi si volge nuovamente al consigliere psicologo) Insomma, ci pensi sopra, e poi ci esponga chiaramente se a suo avviso si dovrà studiare un Uomo-uccello o un Uomo-mammifero, e su quali motivi questo suo parere riposa. CONSIGLIERE PSICOLOGO (deglutisce più volte, succhia la matita, ecc.; poi) Se la scelta si riduce a queste due possibilità, è mia opinione che l' Uomo deve essere uccello. (Clamori, commenti. Tutti si scambiano cenni di soddisfazione, annuiscono; due o tre accennano ad alzarsi come se tutto fosse finito). Un momento, perdinci! Non ho mica detto, con questo, che sia sufficiente andare a ripescare in archivio il progetto Passerotto o il progetto Barbagianni, cambiare il numero di matricola e tre o quattro capoversi, e trasmettere al Centro Prove perché realizzi il prototipo! Vi prego di seguirmi con attenzione; cercherò di esporvi in breve (poiché vedo che avete fretta) le principali considerazioni sull' argomento. Tutto sta bene per quanto riguarda i punti b) e d) della mozione. Esiste già oggi un tale assortimento di uccelli canori che il problema di un linguaggio articolato, almeno sotto l' aspetto anatomico, è da ritenersi risolto; mentre nulla del genere è stato fatto finora fra i mammiferi. Dico bene, collega anatomista? CONSIGLIERE ANATOMISTA Benissimo, benissimo. CONSIGLIERE PSICOLOGO Resta naturalmente da studiare un cervello adatto a creare ed a servirsi del linguaggio, ma questo problema, di mia stretta competenza, rimarrebbe pressoché il medesimo qualunque fosse la forma che si stabilisse di assegnare all' uomo. Quanto al punto c), "idoneità alla vita sotto condizioni di servizio estreme", non mi risulta ne scaturisca un criterio di scelta fra mammiferi ed uccelli: in entrambe le classi esistono generi che si sono adattati agevolmente ai climi ed agli ambienti più disparati. È invece evidente che la facoltà di spostarsi rapidamente a volo costituisce una importante pregiudiziale a favore dell' Uomo-uccello, in quanto permetterebbe scambi di notizie e trasporto di derrate a distanza di continenti, agevolerebbe l' instaurarsi immediato di un unico linguaggio e di un' unica civiltà per l' intero genere umano, annullerebbe gli ostacoli geografici esistenti e renderebbe futile la creazione di artificiose delimitazioni territoriali fra tribù e tribù. E non occorre che insista sugli altri più immediati vantaggi che il volo rapido porta, nella difesa e nell' offesa contro tutte le specie terragnole ed acquatiche, e nel pronto ritrovamento di sempre nuovi territori di caccia, coltivazione e sfruttamento: per cui mi sembra lecito formulare l' assioma: "animale che vola non soffre la fame". ORMUZ Perdoni l' interruzione, venerabile collega: come si riprodurrà il suo Uomo-uccello? CONSIGLIERE PSICOLOGO (sorpreso ed irritato) Strana domanda! Si riprodurrà come gli altri uccelli: il maschio attirerà la femmina, o viceversa; la femmina sarà fecondata, sarà costruito il nido, deposte e covate le uova, e saranno allevati ed educati i piccoli, a cura di entrambi i genitori, finché non abbiano raggiunto un minimo di indipendenza. I più adatti se la caveranno. Non vedo motivo di cambiare. ORMUZ (dapprima incerto, poi sempre più acceso ed appassionato) No, signori, la cosa non mi sembra così semplice. Molti di voi lo sanno ... e del resto non ne ho mai fatto mistero con nessuno ... insomma, a me la differenziazione sessuale non è mai andata a genio. Avrà certamente i suoi vantaggi per la specie; avrà vantaggi anche per l' individuo (seppure, a quanto mi si riferisce, si tratti di vantaggi di assai breve durata); ma ogni osservatore obiettivo deve ammettere che il sesso è stato in primo luogo una spaventosa complicazione, ed in secondo, una fonte permanente di pericoli e di grane. Nulla vale quanto l' esperienza: poiché di vita associata si tratta, vogliate ricordare che l' unico esempio di vita associata realizzato con successo, e durato dal Terziario ad oggi senza il minimo inconveniente, resta pur sempre quello degli imenotteri; in cui, in buona parte per mia intercessione, il dramma sessuale è stato eluso, e relegato al margine estremo della società produttiva. Signori, è una preghiera questa che vi rivolgo: pesate le vostre parole prima di pronunciarle. Uccello o mammifero che l' Uomo abbia ad essere, è nostro dovere fare ogni sforzo per spianargli la strada, poiché il fardello che dovrà portare sarà grave. Conosciamo, per averlo creato, il cervello, e sappiamo di quali portentose prestazioni sia almeno potenzialmente capace, ma ne conosciamo altresì la misura ed i limiti; conosciamo anche, per avervi posto mano, le energie che dormono e si destano nel gioco dei sessi. Non nego che l' esperienza di combinare i due meccanismi sia interessante: ma confesso la mia esitazione, confesso il mio timore. Che sarà di questa creatura? Sarà duplice, sarà un centauro, uomo fino ai precordi e di qui belva; o sarà legato ad un ciclo estrale, ed allora come potrà conservare una sufficiente uniformità di comportamento? Non seguirà (non ridete!) il Bene e il Vero, ma due beni e due veri. E quando due uomini desidereranno la stessa donna, o due donne lo stesso uomo, che ne sarà delle loro istituzioni sociali, e delle leggi che dovranno tutelarle? E che dire, a proposito dell' Uomo, di quelle famose "eleganti ed economiche soluzioni", vanto del qui presente consigliere anatomista, ed entusiasticamente avallate dal qui presente economo, per cui con tanta disinvoltura si sono utilizzati a scopi sessuali orifizi e canali originariamente destinati all' escrezione? Questa circostanza, che noi sappiamo dovuta ad un puro calcolo di riduzione degli ingombri e dei costi, non potrà apparire altrimenti, a questo animale pensante, che un simbolo beffardo, una confusione abietta e conturbante, il segno del sacro-sozzo, della sragione bicipite, del caos, incastonato nel suo corpo, irrinunciabile, eterno. Eccomi alla conclusione, o signori. Sia fatto l' Uomo, se l' Uomo deve essere fatto; e sia pure esso uccello, se così vorrete. Ma mi sia concesso porre mano fin d' ora al problema, estinguere in germe oggi i conflitti che esploderanno fatalmente domani, affinché non si debba assistere, in un prevedibile futuro, all' infausto spettacolo di un Uomo maschio che muova il suo popolo a guerra per conquistare una femmina, o di un Uomo femmina che distolga la mente di un maschio da nobili imprese e pensamenti per ridurla in soggezione. Ricordate: colui che sta per nascere sarà nostro giudice. Non solo i nostri errori, ma tutti i suoi, per tutti i secoli a venire, peseranno sul nostro capo. ARIMANE Lei avrà magari anche ragione, ma non vedo che urgenza ci sia di fasciarsi la testa prima di essersela rotta. Non vedo cioè né la possibilità né la opportunità di refrigerare l' Uomo in sede di progettazione: e ciò per ovvie ragioni di speditezza dei lavori. Se poi davvero dovessero prendere corpo le sue angosciose previsioni, ebbene, allora si vedrà; non mancherà né l' occasione né il tempo di apportare al modello le correzioni che risulteranno più opportune. D' altronde, poiché l' Uomo, a quanto pare, sarà uccello, mi pare che non sia il caso di drammatizzare. Le difficoltà e i rischi che la preoccupano si potranno limitare agevolmente: l' interesse sessuale potrà essere ridotto a periodi estremamente brevi, forse a non più di qualche minuto all' anno; niente gravidanza, niente allattamento, una tendenza precisa e potente alla monogamia, una cova breve, dei piccoli che usciranno dall' uovo pronti o quasi alla vita autonoma. A questo si potrà pervenire senza rimaneggiare gli schemi anatomici ora in vigore, il che, oltre a tutto, comporterebbe spaventosi intralci di natura burocratica ed amministrativa. No, signori, la decisione è ormai presa, e l' Uomo sarà uccello: uccello a pieno titolo, né pinguino né struzzo, uccello volatore, con becco, penne, artigli, uova e nido. Restano solo da definire alcuni importanti particolari costruttivi, e cioè: 1) quali saranno le dimensioni ottime; 2) se converrà prevederlo sedentario o migratore .... (Alle ultime parole di Arimane, la porta di fondo si è andata cautamente aprendo. Sono apparsi il capo e una spalla del messaggero, che, senza osare interrompere, fa cenni vivaci e lancia occhiate in giro per attirare l' attenzione dei presenti. Ne nasce un mormorio e un trambusto di cui Arimane finisce coll' accorgersi) Che c' è? cosa succede? MESSAGGERO (ammicca ad Arimane con l' aria ufficiosa e confidenziale dei bidelli e dei sagrestani) Venga fuori un momento, venerabile. Novità importanti da .... (Accenna col capo all' indietro e all' insù). ARIMANE (lo segue fuori della porta; si sente un dialogare concitato, attraverso il brusio e i commenti degli altri. A un tratto la porta socchiusa viene chiusa con violenza dall' esterno, e poco dopo riaperta. Arimane rientra, con passo lento e a capo basso. Tace a lungo, poi) ... andiamocene a casa, o signori. È tutto finito, tutto risolto. A casa, a casa. Cosa stiamo a fare qui? Non ci hanno aspettati: non avevo ragione di avere fretta? Ancora una volta, hanno voluto farci vedere che noi non siamo necessari, che sanno fare da soli, che non hanno bisogno di anatomisti, né di psicologi, né di economi. Possono ciò che vogliono. ... No, signori, non so molti particolari. Non so se si siano consultati con qualcuno, o se abbiano seguito un ragionamento, o un piano lungamente meditato, o l' intuizione di un attimo. So che hanno preso sette misure di argilla, e l' hanno impastata con acqua di fiume e di mare; so che hanno modellato il fango nella forma che loro è parsa migliore. Pare si tratti di una bestia verticale, quasi senza pelo, inerme, che al qui presente messaggero è sembrata non troppo lontana dalla scimmia e dall' orso: una bestia priva di ali e di penne, e quindi da ritenersi sostanzialmente mammifera. Pare inoltre che la femmina dell' uomo sia stata creata da una sua costola ... (voci, interrogazioni) ... da una sua costola, sì, con un procedimento che non mi è chiaro, che non esiterei a definire eterodosso, e che non so se si intenda conservare nelle generazioni a venire. In questa creatura hanno infuso non so che alito, ed essa si è mossa. Così è nato l' Uomo, o signori, lontano dal nostro consesso: semplice, non è vero? Se e quanto esso corrisponda ai requisiti che ci erano stati proposti, o se non si tratti invece di un uomo per pura definizione e convenzione, non ho elementi per stabilire. Altro non ci resta dunque che augurare a questa creatura anomala una lunga e prospera carriera. Il collega segretario vorrà incaricarsi della stesura del messaggio augurale, della scheda di omologazione, della iscrizione sui ruolini, del calcolo dei costi eccetera; tutti gli altri sono sciolti da ogni impegno. State di buon animo, signori; la seduta è tolta.

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Lilit

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Levi, Primo 2 occorrenze

Pare che i falsari abbiano lavorato fino all' ultimo giorno, e che poi le matrici siano state gettate in fondo a un lago.

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Che andasse tranquillo, non mangiasse fritti e non prendesse troppe medicine: sì, perché è proprio il fegato che gestisce le medicine, le lascia passare oppure no, le demolisce dopo che hanno fatto il loro mestiere (posto che lo abbiano fatto), in maniera che non vadano in giro col sangue a fare guai. È anche il fegato quello che amministra i grassi, cioè fabbrica la bile che sta in posteggio nella cistifellea, e poi, a richiesta, salta fuori e passa nell' intestino a cucinare i grassi; di modo che, meno grassi uno mangia, meno è la bile che ci vuole, e meno il fegato lavora. In buona sostanza, il suo fegato era sano ma lui non gli doveva far fare gli straordinari. A Gino i fritti e la roba grassa piacevano: peccato. Avrebbe tenuto d' occhio il suo fegato come si fa con le vetture, se uno vuole che durino: lavaggio e grassaggio regolari e un' occhiata ogni tanto all' impianto elettrico, agli iniettori, a tutte le pompe, alla batteria e ai freni. Gino era manovratore sugli autobus, sull' .1 e sull' .4, che sono linee noiose e faticose, ma su tutte le linee urbane è su per giù la stessa musica. Ti annoi ma devi stare attento, che è una contraddizione, e poi, da quando hanno messo le macchinette e levato via il bigliettario, non hai neppure il diversivo di scambiare quattro parole con lui quando si arriva al capolinea, che la vettura è vuota; e in più hai quella seccatura delle porte pneumatiche. Guidava, un occhio alla strada e un occhio allo specchietto, e intanto pensava che siamo complicati. Oltre al fegato, c' è una infinità di aggeggi. Ti distrai, e resti panato; un organo si pianta, non funziona più, oppure funziona male e si mette a fare delle cose che non dovrebbe. Come l' Ernesta, che si era trascurata, le era venuta la tiroide, e non riusciva più a dormire di notte e invece si addormentava di giorno, tanto che lui aveva fatto richiesta di passare al servizio notturno, ma col capo del personale non c' era stato verso. Bisognava stare attenti anche alla tiroide. Andò in libreria, si comprò un libro e lo trovò interessante ma un po' confuso. Per esempio, già solo quello che devi mangiare è un problema, perché se mangi carne ti sale la pressione e si deposita l' acido urico, se mangi pane e pasta diventi obeso e vivi cinque anni di meno degli altri, e se mangi grassi guai al mondo. Puoi mangiare frutta, ma con quello che costa: del resto Gino aveva provato, e dopo tre giorni aveva un po' di disturbo e si sentiva svenire dalla fame. Dalle illustrazioni, poi, non riusciva a staccarsi. Avere tante cose così dentro la pelle era meraviglioso ma anche preoccupante. Si vedevano di fronte, di profilo e in sezione, incastrate di precisione una nell' altra senza neanche un vuoto grosso come un ditale. Gli veniva in mente il vano motore dei suoi autobus, e in confronto era un lavoro da schiappini, tanto era lo spazio che avevano sprecato; senza dire del calore, del rumore e della puzza. Però, a guardare bene, anche lì avevano risolto il problema della simmetria allo stesso modo, insomma preoccupandosi di salvare le apparenze: simmetrico da fuori, ma dentro mica tanto, proprio come noi. La pancia bella simmetrica che fa piacere guardarla, specie quella delle donne, però dentro il fegato è a destra, il cuore a sinistra, a destra l' appendice; e nel cofano, l' alternatore da una parte e il filtro aria dall' altra. Del resto era giusto non avere tanti scrupoli per l' estetica, dal momento che dentro non si vede quasi mai, salvo quando si apre il cofano o quando ti fanno un' operazione. Una gran trovata doveva essere stata quella di eliminare tutti i perni e gli ingranaggi, anzi, tutto il materiale metallico. Siamo fatti di roba molle, salvo le ossa, eppure tutto funziona lo stesso. Lo stomaco e l' intestino, per esempio: non si muovono quasi, eppure il mangiare entra da una parte, fa il suo giro in silenzio che neanche te ne accorgi, e dall' altra parte esce lo sfrido. Gino incominciò a starci attento, specie di notte, e poco per volta si accorse che invece sì, tutto si muoveva, ma liscio come un orologio. Nel libro c' era anche un capitolo sugli ormoni e sulle vitamine, e Gino si sentì a disagio. Va bene per le vitamine, in fondo basta ricordarsi di mangiare i pomodori e i limoni e lo scorbuto non ti viene, ma gli ormoni? Poco da fare, gli ormoni te li devi fabbricare tu. Chissà come e dove, il libro non lo diceva, forse nell' intestino con materiale di recupero, o forse nel midollo delle ossa dove si fabbrica anche il sangue. E come? Mistero: il libro portava figure e formule, non erano delle strutture semplici, eppure se li fabbricano anche le bestie, i bambini e i selvaggi. Si fabbricano da sé: bella spiegazione! E se la fabbrichetta si guasta? O vengono fuori difettosi? Per esempio l' ormone degli uomini invece di quello delle donne, che a vedere le formule (strane ma belle, tutte fatte a esagoni come i radiatori a nido d' ape che usavano una volta) sono quasi uguali: bene, miei cari signori, e se uno si sbaglia? Basta un niente, un momento di disattenzione, un dettaglio trascurato. In quell' angolino fra i due esagoni ti scappa un CO invece di un CHOH come c' è nel progetto, ed ecco che da uomo ti ritrovi donna, da convesso diventi concavo e magari compri anche un bambino. Insomma non si sta mai abbastanza attenti. Guai se uno si distrae: come ai semafori. Dopo qualche settimana Ernesta e i colleghi incominciarono a prenderlo in giro perché il libro se lo portava sempre dietro. Lo leggeva in tutti i momenti liberi, ai capolinea, qualche volta appunto anche davanti ai semafori rossi quando i passeggeri non guardavano. Lo finiva e poi lo ricominciava dal principio, e ci trovava sempre delle cose nuove, allarmanti e interessanti. Ne parlava con tutti, anche, ma poi smise perché gli dicevano che era matto e maniaco, come se loro fossero stati fatti d' aria, come se anche loro non avessero dentro quell' arsenale da tenere d' occhio. Però era faticoso: ogni giorno di più. Ogni tanto Gino si accorgeva che si stava dimenticando di respirare: cioè, il fiato lo tirava, ma così alla spiccia, senza quelle finezze dell' ossigeno e dell' anidride carbonica, uno verso dentro e l' altra verso fuori, e allora si sentiva formicolare le mani e i piedi, segno che il sangue cominciava a inquinarsi. Insomma doveva fare mente locale e tirare il respiro lungo, venti o trenta volte: un giorno gli era successo mentre era di servizio, e i passeggeri lo stavano a guardare ma non osavano dirgli niente perché si prega di non parlare al manovratore. Può anche restare lì secco, il manovratore: ma si prega di non parlargli. Anche il cervello lo preoccupava, ma un po' meno: infatti, se Gino se ne preoccupava voleva dire che ragionava, cioè che il suo cervello funzionava, e se funzionava non c' era motivo di preoccuparsi. Però si preoccupava lo stesso, lui era fatto così. Si preoccupava per esempio di non dimenticare le cose che sapeva: tutto compreso, anche se uno non ha la laurea, di cose ne sa un bel numero, e devono essere tutte scritte dentro il cranio; se sono tante devono essere scritte molto piccole, e allora basta un niente a cancellarle. Non so, una emozione, un piccolo spavento, una sorpresa, e ti dimentichi l' alfabeto, o magari il codice della strada, così ti tocca rifare l' esame della patente. Il problema peggiore si capisce che era quello del cuore. Qui non si scherza, qui in ferie non si va mai: da quando nasci a quando muori. Il cervello può anche andare in vacanza, metti caso quando dormi o quando prendi una sbronza o anche solo quando guidi l' autobus, perché quando uno ci ha preso la mano del cervello non ne ha più bisogno, tanto è vero che guida pensando a tutt' altro. Anche i polmoni possono andare in vacanza qualche minuto: se no come farebbero i subacquei? Ma il cuore no, mai: non ha supplenti, non ha turni di riposo, non ha capolinea. Bestiale. Mai revisione, mai manutenzione. Servizio permanente effettivo. Eppure di qualche riparazione ne avrà pure bisogno anche lui, dopo trenta o quarant' anni di marcia. Si vede che gliele fanno mentre cammina: te lo immagini, cambiare una valvola o un pistone al Diesel mentre cammina? Finì che Gino cominciò veramente a sentire delle palpitazioni: come se il cuore si fermasse un momento, e poi prendesse la corsa per recuperare e rimettersi in orario. Se ne accorse anche il medico, prendendo le misure col centimetro sull' elettrocardiogramma: l' aritmia c' era proprio, poco da discutere. Non era una faccenda grave ma c' era. Sì, poteva continuare a fare il suo lavoro, ma prendere delle gocce e stare un po' più attento. Altro che attento: Gino oramai faceva fatica a stare dietro ai comandi del bus, come si poteva mettere attenzione al gas, alla frizione, al volante, ai semafori, alla manetta delle porte, al campanellino delle fermate, e insieme controllare il cuore e tutto il resto? Un giorno, mentre rallentava a una fermata, sentì tremare tutto, un rumore di ferraglia e gente che gridava. Aveva fatto la barba a un' auto parcheggiata lungo il marciapiede: fortuna che era in sosta vietata e che dentro non c' era nessuno. Però l' azienda lo tolse da manovratore e lo mise a fare pulizia nell' officina, che per uno con la sua anzianità era una vigliaccata. Nello stesso tempo non ci fu più modo di trovare l' Ernesta al telefono: rispondeva sempre la sorellina, come un pappagallo che gli avessero insegnato la lezione, che Ernesta era appena uscita e che non sapeva quando sarebbe tornata. Gino si accorse di essere solo, e gli venne voglia di scappare: si fece dare la liquidazione, fece la valigia e prese il primo treno che stava per partire.

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ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Che abbiano fatto fuoco contro qualche spia? - chiese Tremal-Naik a Sandokan, il quale, curvo sulla prora della bangle, ascoltava attentamente. - Non lo so - rispose il pirata. - Tuttavia le mie inquietudini sono cresciute. Si direbbe che io prevedo qualche tradimento. - Può essere anche un falso allarme, amico, - disse Tremal-Naik. - Taci! - Altri due spari rintronarono in quell'istante, seguìti quasi subito da una scarica nutrita. - Queste non sono le carabine dei miei uomini! - esclamò Sandokan. - Si attacca il nostro rifugio! Presto amici, date dentro ai remi! I minuti sono preziosi! - I malesi non avevano certo bisogno di essere incoraggiati. Arrancavano furiosamente facendo fare alla pesante barcaccia dei veri salti. Ormai nessuno più dubitava che la pagoda sotterranea fosse stata assalita. Le scariche si succedevano alle scariche ed echeggiavano dietro la roccia. Sandokan si era messo a passeggiare pel ponte come una tigre in gabbia. Di quando in quando si fermava per tendere gli orecchi, poi gridava: - Presto! Presto, amici! Assalgono i nostri compagni. - Anche Tremal-Naik era diventato nervosissimo e tormentava il grilletto della sua carabina, ripetendo a sua volta: - Sì presto, presto! - Un combattimento furioso doveva essere stato impegnato dinanzi l'entrata della pagoda. Sandokan distingueva nettamente gli spari delle carabine malesi, le quali avevano un suono più forte di quelle indiane. La bangle finalmente, sotto un ultimo e più poderoso sforzo dei rematori, toccò la riva quasi di fronte alla roccia. - Gettate l'ancora e seguitemi! - gridò Sandokan: - Ed il fakiro? - chiese Tremal-Naik. - Che un uomo, ma uno solo, rimanga a guardia di lui, - rispose Sandokan. - Già non potrà scappare. Su, lesti e non fate rumore. Prenderemo gli indiani alle spalle! - Balzarono a terra e si cacciarono fra le macchie, mentre la fucileria continuava a rumoreggiare con crescente intensità ripercuotendosi sotto le immense volte di verzura dei tara e dei fichi baniani. I pirati correvano veloci senza però far troppo rumore, quantunque le detonazioni delle carabine coprissero il rompersi dei rami. Giunti a trecento passi dall'entrata della pagoda, Sandokan arrestò il drappello dicendo: - Fermatevi qui, e che nessun si muova finché non sarò ritornato. Vieni Tremal- Naik: prima d'impegnarci a fondo andiamo a contare i nostri avversari. - Approvo pienamente la tua prudenza - rispose il bengalese. - Se noi venissimo distrutti, Yanez e Surama sarebbero perduti. Non precipitiamo quindi le cose. - Si gettarono a terra e si allontanarono, strisciando attraverso ad una folta macchia di banani selvatici. Raggiunto il margine di essa si fermarono. - Eccoli, - aveva sussurrato Sandokan. - Sono i seikki! Me l'ero immaginato. - Molti? - Una quarantina per lo meno. - Tremal-Naik si spinse un po' più innanzi, sporgendo il capo attraverso le immense foglie d'un banano. Una quarantina d'uomini sparava senza interruzione verso l'entrata della pagoda sotterranea. Erano tutti seikki e li comandava un capitano che portava sull'elmetto un grosso ciuffo di penne rosse. Per offrire meno bersaglio, erano tutti stesi bocconi, tuttavia sette od otto soldati giacevano senza vita dinanzi alla pagoda. Probabilmente quei valorosi guerrieri avevano cercato di prendere d'assalto il rifugio ed erano stati respinti. - Che cosa dici di fare, Sandokan? - chiese Tremal-Naik. - Di assalirli alle spalle, senza ritardo, - rispose il pirata; - affido però a te un pericoloso incarico. - Quale? - Quello d'impadronirti del capitano dei seikki. Quell'uomo mi è assolutamente necessario. - Vivo o morto te lo porterò. - È vivo che mi occorre. Andiamo a chiamare i nostri uomini. - Riattraversarono la macchia e raggiunsero i malesi che parevano frementi di menare le mani, incominciando ad ubriacarsi coll'odore della polvere. - Siete pronti? - chiese Sandokan. - Tutti, Tigre della Malesia, - risposero ad una voce. - Tu Kammamuri seguirai il tuo padrone e non lo lascerai un istante. - Poi volgendosi verso i malesi aggiunse: - Vi avverto di fare una scarica; una sola, mandando nel medesimo tempo il vostro grido di guerra onde avvertire i compagni che si trovano nella pagoda, poi caricate colle scimitarre. Mi avete bene compreso? - Sì, Tigre della Malesia. - Avanti allora, e non dimenticate che le vecchie tigri di Mompracem hanno sempre vinto. - Partirono quasi a passo di corsa, tanto erano impazienti di prendere parte al combattimento, tenendo il dito sul grilletto delle carabine. Sandokan li precedeva con Tremal-Naik e Kammamuri. Quando giunsero sull'orlo della macchia, i seikki erano a soli venti passi dall'entrata del rifugio ed il fuoco degli assediati cominciava a rallentare. - Giungiamo in buon punto, - disse Sandokan. Snudò la scimitarra, impugnò una delle due pistole che portava alla cintura, due splendide armi a doppio colpo, e si slanciò gridando con voce tuonante: - Su, tigri di Mompracem! - Un urlo selvaggio, acutissimo, il grido di guerra di quei formidabili scorridori dei mari della Sonda, echeggiò coprendo il fragore della fucileria, seguito subito da una scarica. I seikki che non s'aspettavano certo quell'attacco, balzarono prontamente in piedi, mentre dall'interno della pagoda gli assediati rispondevano al grido di guerra dei loro compagni. Sandokan ed i suoi valorosi si erano slanciati furiosamente all'attacco, caricando colle scimitarre e urlando come ossessi onde farsi credere in maggior numero. Sette od otto indiani erano caduti sotto la scarica, quindi il loro numero erasi considerevolmente diminuito; tuttavia quantunque fossero presi fra due fuochi, poiché gli assediati si erano pure slanciati all'assalto, non smentirono nemmeno in quel momento la fama di essere i più valorosi guerrieri della grande penisola indostana. Colla rapidità del lampo si disposero su due fronti, mettendo anche loro mano alle scimitarre e per qualche istante sostennero il doppio urto dei selvaggi figli della Malesia, difendendosi disperatamente. Disgraziatamente avevano dinanzi a loro il più famoso guerriero della Malesia. Con un impeto irresistibile Sandokan s'era gettato in mezzo alle file sciabolandole terribilmente e scompaginandole. Nessuno poteva resistere a quell'uomo, che atterrava un nemico ogni volta che la sua scimitarra calava. Le linee sfondate da quel fulmineo attacco, si ruppero nonostante gli sforzi che faceva il capitano per tenerle salde, poi si sbandarono. Nel momento però in cui scappavano da tutte le parti inseguiti vigorosamente da una dozzina e mezzo di malesi, che facevano fuoco onde impedire loro di riordinarsi, Tremal-Naik e Kammamuri si erano gettati addosso al capitano, atterrandolo di colpo e legandolo solidamente. Sandokan frattanto si era avvicinato al vecchio Sambigliong che teneva ben stretto il ministro Kaksa Pharaum che pareva più morto che vivo. - Quanti uomini hai perduto? - gli chiese con una certa ansietà il pirata. - Due soli, Tigre della Malesia, - rispose il vecchio tigrotto. - Ci eravamo subito trincerati dietro le rocce, dove le palle dei seikki non potevano raggiungerci. - Prepariamoci a sgombrare subito. - Lasceremo questo comodo rifugio? - È necessario: domani i seikki torneranno in maggior numero ed io non ho alcun desiderio di farmi chiudere in una trappola senza uscite. - Dove andremo dunque? - A questo penserà Bindar. - I malesi in quel momento ritornavano. Avevano inseguite le guardie del rajah per cinque o seicento metri, sbandandole completamente, poi temendo di cadere in qualche agguato, si erano ripiegati in buon ordine verso la pagoda sparando qualche colpo di fucile per far meglio comprendere ai fuggiaschi che si trovavano sempre nei dintorni. - Preparatevi alla partenza, - disse loro Sandokan. - Prendete tutto ciò che ci può essere necessario per accamparci in mezzo alle foreste e raggiungeteci alla bangle. Vi raccomando il ministro ed il comandante dei seikki. A me Bindar! E anche tu Tremal-Naik, con quattro uomini di scorta. - Sicuro ormai di non essere più molestato dalle guardie del rajah si diresse verso il fiume accompagnato dai due indiani e dai quattro malesi. - Ora a noi, Bindar, - disse Sandokan all'indiano. - Tu conosci i dintorni? - Sì, sahib. - Dove potremo trovare un nuovo rifugio sicuro? - L'assamese pensò un momento, poi disse: - Non potresti essere sicuro che nella jungla di Benar. - Dove si trova? - Sull'opposta riva del fiume, a quattro o cinque miglia di distanza, però ... - Continua. - È evitata perché le tigri la frequentano. - Non preoccuparti di ciò, - rispose Sandokan alzando le spalle. - Siamo tigri noi, quindi ben poco avremo da temere di quelle a quattro zampe. Nessuno la percorre? - Oh no! Hanno troppa paura. - È folta? - Foltissima. - Non vi è alcun rifugio? - Sì, un'antica pagoda semi-diroccata. - Non domando di più. - Si crede però, sahib, che serva di ricovero a delle bâgh. - Ah! Benissimo, le manderemo a passeggiare altrove se non vorranno regalarci la loro pelle. Con un po' di piombo pagheremo loro l'affitto, è vero Tremal-Naik? - Il nostro è di buona qualità, - rispose il bengalese. - Vale più dell'oro, quando esce dalle nostre carabine. - Raggiungiamo il fiume ed imbarchiamoci, - concluse Sandokan. - Quando saremo al sicuro faremo parlare Tantia e poi vedremo d'intenderci col comandante dei seikki. - Io non comprendo perché tu l'abbia sempre con quei guerrieri. - Seguo un'idea, - rispose Sandokan. - Se vi riesco, la corona sarà assicurata a Surama. Ecco il fiume: appena giungeranno i malesi ed i dayachi partiremo. - Salirono a bordo della bangle che si trovava sempre ancorata presso la riva. I due malesi di guardia chiacchieravano tranquillamente col fakiro, che avevano però strettamente legato, quantunque quel disgraziato, col suo braccio anchilosato, si trovasse nell'assoluta impossibilità di tentare la fuga. - Nessuna barca sul fiume? - rispose Sandokan. - No, Tigre della Malesia, - rispose il malese. - Tutto è tranquillo. - Salpate l'ancora per ora e aspettiamo gli altri. - Credevo che ti avessero ucciso - disse il gussain dardeggiando sul pirata uno sguardo feroce. - Se speri di sfuggire alla vendetta del rajah t'inganni e di molto, ladro! Non ti do una settimana di vita. - Ed a te nemmeno due giorni se non confesserai, amico - disse Tremal-Naik. - Sono indiano come te e so quali mezzi adoperano i nostri compatriotti per sciogliere le lingue. - Tantia non ha nulla da dire: è sempre stato un povero gussain. - Vedremo quale parte tu hai avuta nel rapimento di quella giovane indiana, canaglia - disse Sandokan. Il fakiro ebbe un brivido, però rispose subito, affettando un grande stupore: - Di quale indiana intendi parlare? - Di quella alla quale tu hai levata l'occhiata. - Sii maledetto da Brahma, da Siva e da Visnù e che la dea Kalì ti divori il cuore! - urlò il gussain. - Non sono un indiano io, quindi me ne rido delle tue maledizioni, birbante - rispose Sandokan. - Brahma è il dio più possente dell'universo. - Io non credo che in Maometto, e anche quando mi pare e piace. - Ma il tuo compagno è indù! - E se ne ride anche lui delle tue divinità. Chiudi la bocca e non seccarmi per ora; avrai più tardi tempo di sfogarti. - Ecco i tuoi uomini, - disse in quell'istante Tremal-Naik. I malesi ed i dayachi, ventisei in tutto, giungevano correndo, carichi di pacchi, di coperte e di grosse borse di pelle contenenti viveri e munizioni. In mezzo a loro si trovava il demjadar, ossia il comandante dei seikki. - V'inseguono? - chiese la Tigre accostandosi alla murata. - Ci danno la caccia, - rispose Kammamuri. - A bordo! - Malesi e dayachi salirono lestamente sulla bangle, si sbarazzarono dei loro carichi e delle armi e si precipitarono ai remi. - Otto uomini si tengano pronti a far fuoco, - disse Sandokan. - Ed ora lavorate di muscoli! - La pesante barca si staccò dalla riva e filò rapidamente verso l'opposta onde non rimanere esposta al tiro delle carabine dei seikki, nel caso che fossero riusciti a scoprirli. La traversata si compì felicemente, e prima che il nemico fosse giunto sulla riva, la bangle navigava sotto le immense arcate delle piante curvantisi sul fiume. Essendo colà l'ombra assai fitta, in causa delle immense fronde dei tamarindi che crescevano in gran numero, bagnando le loro colossali radici nell'acqua, era ormai quasi impossibile che i seikki potessero scorgere i fuggiaschi. D'altronde la larghezza del Brahmaputra era tale in quel punto, da non permettere che una palla di carabina lo attraversasse. Sandokan, dopo essersi ben assicurato che nessun pericolo lo minacciava, almeno pel momento, potendo avvenire che più tardi le guardie del rajah lo inseguissero con delle pinasse, od altro genere di barche, s'avvicinò a Bindar che stava osservando attentamente la riva insieme a Tremal-Naik. - Vi sono dei villaggi da queste parti? - No, sahib - rispose l'indiano. - Qui comincia la jungla selvaggia e nessuno oserebbe abitarla per paura delle bestie feroci; solo al di là delle paludi, dove il terreno comincia a salire, si trovano dei bramini drauers. - Chi sono? - La risposta te la darò io, - disse Tremal-Naik. - Sono sacerdoti di Brahma che hanno conservata tutta la purezza della loro antica religione, che parlano una lingua affatto sconosciuta agli altri, che si dipingono la fronte ed il corpo come tutti i bramini, aggiungendo solo alla toeletta alcuni grani di riso, che portano incollati sopra le sopracciglia. Sono d'altronde persone tranquille che si occupano di pratiche religiose e che quindi non ci daranno alcun fastidio. - E vasta la jungla di Benar? - Immensa, sahib, - rispose Bindar. - Faremo di quella il nostro quartiere generale, - disse Sandokan. - Se è lontana solo quindici o venti chilometri, in tre o quattro ore potremo trovarci nella capitale dell'Assam. - M'inquieta però la sorte di Surama, - disse Tremal-Naik. - Per Yanez non sono preoccupato; quel diavolo d'uomo saprà sempre cavarsela bene e sfuggire a tutte le insidie. E poi ha sei malesi, i migliori della banda. - Che cosa temi per Surama? - Che il rajah la faccia uccidere. Non ha distrutto forse tutti i suoi parenti? - Non l'oserà, - rispose Sandokan. - Egli crede che Yanez sia veramente un inglese e ci penserà cento volte prima di commettere un delitto, sapendo che Surama è sotto la sua protezione. Questi principotti hanno troppa paura del viceré del Bengala. - Questo è vero, tuttavia questo tempo perduto in questi momenti mi dispiace. Se perdessimo le tracce dei rapitori? - Il gussain ci metterà sulla buona via. - E se si ostinasse a non parlare? - Lo costringeremo, non temere amico, - rispose Sandokan freddamente. Levò dalla larga fascia il suo cibuc, lo caricò di tabacco e accesolo, si sedette sulla prora della bangle, tenendo una carabina fra le ginocchia. Intanto i malesi ed i dayachi arrancavano con gran lena, mentre Bindar teneva il timone. Essendo la corrente debolissima, non avendo i grandi fiumi dell'India molta pendenza, l'imbarcazione, quantunque fosse pesante e avesse la prora assai rotonda procedeva abbastanza rapidamente, filando sempre sotto le arcate degli alberi che si succedevano continuamente, senza la minima interruzione. Ora erano colossali tamarindi, ora mirti, o sangore drago o nargassa, meglio conosciuti sotto il nome di alberi del ferro, perché differiscono ben poco da quelli brasiliani, che sono così resistenti da rompere il filo delle scuri meglio temprate. Di quando in quando comparivano sulla riva delle bande di sciacalli e di lupi indiani; ma dopo aver ululato o latrato su vari toni contro i remiganti, s'affrettavano a rinselvarsi onde cercare delle prede più facili. Alle quattro del mattino, nel momento in cui i pappagalli cominciavano a strillare in mezzo ai rami dei tamarindi, e le anitre e le oche ad alzarsi al disopra dei canneti, Bindar, che da parecchi minuti osservava attentamente la riva, con un poderoso colpo di timone fece deviare la bangle. - Che cosa fai? - chiese Sandokan balzando in piedi. - Vi è una laguna, sahib, dinanzi a noi, - rispose l'indiano. - Entro nella jungla di Benar e là saremo perfettamente sicuri. - Vira allora. - La bangle si trovava dinanzi ad una vasta apertura. La riva era tagliata da un canale ingombro di piante acquatiche, le quali però non impedivano il passaggio, essendo radunate in gruppi piuttosto lontani gli uni dagli altri. Un numero straordinario di uccelli volteggiava gridando, al disopra di quella laguna. Cicogne di dimensioni straordinarie, grossi avvoltoi che avevano le penne bianche ed il petto quasi nudo; miopi, volatili meno forti delle prime e dei secondi, ma che per destrezza li vincono entrambi; piccoli uccelli del paradiso e moltissime anitre scappavano in tutte le direzioni descrivendo dei giri immensi, per tornare poco dopo a calarsi intorno alla grossa barca, senza dimostrare soverchia paura. Se in quel luogo si trovavano tanti volatili, era segno che gli abitanti mancavano assolutamente. Oltrepassato il canale, dinanzi agli sguardi di Sandokan e di Tremal-Naik apparve un bacino immenso, che rassomigliava ad un lago e le cui rive erano coperte da alberi altissimi, per lo più manghieri, già carichi di quelle grosse e belle frutta che si fendono come le nostre pesche, delle quali se ne servono gli indù per metterle nel carri, onde dare a quell'intruglio un gusto di più, e da splendidi banani dalle foglie immense. - Approdiamo, - disse Bindar. - Dov'è la jungla? - chiese Sandokan. - Dietro quegli alberi, sahib. Comincia subito. - A terra. - La bangle sfondò le erbe galleggianti lacerando vere masse di piante di loto e si arenò sulla riva che in quel luogo era molto bassa. - Copriamola onde non la trovino e se la portino via, - disse Sandokan. - È inutile, sahib - disse Bindar. - Questa palude è più pericolosa e perciò più temuta del terribile lago di Jeypore. - Non ti comprendo. - Guarda in mezzo a quelle piante acquatiche -. Sandokan e Tremal-Naik seguirono cogli sguardi la direzione che l'indiano indicava loro e videro comparire tre o quattro teste mostruose e aguzze. - Coccodrilli! - esclamò la Tigre della Malesia. - E molti, sahib, - rispose Bindar. - Qui ve ne sono delle centinaia, fors'anche delle migliaia. - Che non ci faranno paura. L'amico Tremal-Naik conosce quei brutti sauriani. - Nella jungla nera pullulavano, - rispose il bengalese. - Ne ho uccisi moltissimi e ti posso anche dire che sono meno pericolosi di quello che si crede -. I malesi ed i dayachi si caricarono dei loro pacchi, presero le armi e scesero a terra, dopo aver saldamente ancorata la bangle. - È lontana la pagoda? - chiese Sandokan. - Appena un miglio, sahib. - In marcia. - Formarono la colonna e s'inoltrarono sotto gli alberi, tenendo in mezzo il fakiro, il demjadar dei seikki ed il ministro Kaksa Pharaum. Oltrepassata la zona alberata che era limitatissima, il drappello si trovò dinanzi ad una immensa pianura coperta di bambù altissimi, appartenenti quasi tutti alla specie spinosa. Rari alberi sorgevano qua e là, a grandi distanze, per lo più erano borassi dal fusto altissimo e dalle larghe e lunghe foglie disposte ad ombrello. - Cercate di non fare rumore, - disse Bindar. - Le belve non hanno ancora raggiunti i loro covi e potrebbero assalirci d'improvviso. - Non aver paura per noi, - rispose Sandokan. Tutti si tolsero le carabine che fino allora avevano tenute a bandoliera e la piccola colonna si cacciò in mezzo a quel mare di verzura, nel più profondo silenzio. Fortunatamente Bindar aveva trovato un largo solco, aperto forse dall'enorme massa di qualche elefante selvaggio, o da qualche rinoceronte, sicché il drappello poteva avanzarsi rapidamente senza aver bisogno di abbattere quelle canne gigantesche. Di quando in quando l'indiano, che camminava alla testa della colonna, si fermava per ascoltare, poi riprendeva la marcia più velocemente, lanciando occhiate sospettose in tutte le direzioni. Dopo mezz'ora si trovarono improvvisamente dinanzi ad una vasta radura, ingombra solamente di sterpi e di kalam: quelle erbe altissime che sono taglienti come spade. In mezzo s'ergeva una costruzione barocca, che rassomigliava ad un immenso cono allargantesi alla base, con molte fenditure in tutta la sua lunghezza. Tutto il rivestimento esterno era crollato, sicché si scorgevano accumulati a terra pezzi di statue, di animali e soprattutto un numero infinito di teste d'elefante. Una gradinata, la sola forse che si trovasse ancora in ottimo stato, conduceva ad un portone che non aveva più porte. - È questa la pagoda? - chiese Sandokan fermando il drappello. - Sì, sahib, - rispose Bindar. - Non ci crollerà addosso? - Se ha resistito tanto alle ingiurie del tempo, non saprei perché dovesse sfasciarsi proprio ora, - disse Tremal-Naik. - Andiamo a vedere in quale stato si trova l'interno. - Stava per dirigersi verso la gradinata seguìto da Sandokan e dai malesi che avevano accese due torce, quando Bindar gli si parò davanti dicendo: - Fermati, sahib. - Che cosa vuoi ancora? - Ti ho già detto che questa pagoda serve d'asilo a belve feroci. - Ah! è vero - disse Sandokan. - Me n'ero scordato. Sei sicuro però che abbiano là dentro il loro covo? - Così ho udito raccontare. - Che cosa dici tu, Tremal-Naik? - Talvolta le tigri si servono delle pagode disabitate, - rispose il bengalese. - Andremo a rassicurarci se la notizia è vera o falsa, - disse Sandokan. - Kammamuri prendi una torcia e seguici. Voialtri fermatevi qui, formate una catena e se le belve cercano di fuggire ... - In quel momento un grido rauco, poco sonoro, echeggiò verso la porta della pagoda e quasi subito due punti verdastri, fosforescenti, scintillarono fra la profonda oscurità che regnava dentro quell'enorme cono. Bindar aveva fatto due passi indietro, mormorando con voce tremante: - Le kerkal! Non si sono ingannati quelli che me l'hanno detto. - Sono tigri? - aveva chiesto Sandokan. - No, sahib: pantere. - Benissimo - rispose il pirata colla sua solita calma. - Vieni, Tremal-Naik, andremo a far conoscenza con quelle signore. Finora non ho ucciso che delle pantere nere che pullulano nel Borneo. Andiamo a vedere se quelle indiane sono migliori o peggiori. -

. - Vuoi dire che abbiano dinanzi a noi altri nemici. - Sì, e non mi sembrano pochi. - Saccaroa! - esclamò Sandokan con ira. - Sono uccelli questi indiani per percorrere in così breve tempo tali distanze? Quei guerrieri devono essere quelli sbarcati a monte del fiume. - Certo, - disse Tremal-Naik. - Dove sono? - Imboscati a quattro o cinquecento passi da noi, - rispose Sambigliong. - Quando sono giunti? - Pochi minuti fa. Correvano come gazzelle, attratti senza dubbio dall'incendio. - Vi hanno scorti? - Sì e per questo si sono arrestati. - Ebbene li attaccheremo e passeremo attraverso le loro file, - disse Sandokan. - Formiamo due piccole colonne d'attacco, con Surama ed i prigionieri in coda guardati da sei uomini. Siete pronti? - Non aspettiamo che il vostro segnale, - rispose Kammamuri per tutti. - All'attacco, Tigrotti della Malesia! - Dayachi e malesi si sparpagliarono alla bersagliera e si spinsero innanzi attraverso le erbe ed i cespugli, guidati gli uni da Tremal-Naik e da Kammamuri, e gli altri da Sandokan e da Sambigliong. La fucileria incominciò intensissima da una parte e anche dall'altra. Gli indiani però, che non contavano fra di loro alcun seikko, tiravano come coscritti alle prime prove del bersaglio, mentre gli uomini di Sandokan, che erano tutti meravigliosi bersaglieri, di rado mancavano ai loro colpi. Sandokan che non voleva esporre troppo i suoi uomini al fuoco, per quanto irregolarissimo e pessimo, spingeva alacremente l'attacco, desideroso di venire all'arma bianca. Si era gettato a bandoliera la carabina ed aveva impugnata la sua terribile scimitarra, quell'arma che manovrata dal suo formidabile braccio, non poteva trovare alcuna difesa. Correva dinanzi ai suoi uomini, balzando come una vera tigre a destra ed a sinistra, urlando come una belva feroce: - Sotto, Tigrotti di Mompracem! All'attacco! - I dayachi ed i malesi, che non erano meno agili di lui, piombarono colle scimitarre in pugno addosso alla colonna assamese, come uno stormo di avvoltoi affamati. Sfondarla e fugare i nemici a gran colpi di sciabola, fu l'affare di pochi secondi. Una scarica di carabine li decise a sgombrare completamente la fronte d'attacco ed a rifugiarsi nella jungla. - Tutta quella gente non vale un seikko, - disse Sandokan. - Se il rajah conta su questi guerrieri è perduto. - Prima che possano riunirsi e ritentare l'attacco, raggiungiamo la collina, - disse Tremal-Naik. - Potrebbero ritornare alla caccia e tormentare la nostra marcia verso il villaggio. - E poi lassù potremo opporre una maggior resistenza, - aggiunse Sambigliong. - Voi parlate come generali prudenti, - disse Sandokan, sorridendo. - Riprendiamo la nostra corsa amici. - La collina non distava che cinque o seicento metri e sorgeva perfettamente isolata. Era una montagnola che spingeva la sua vetta a sette od ottocento piedi, e coi fianchi coperti da una lussureggiante vegetazione. La colonna, che si era riformata, attraversò a passo di corsa la distanza, sparando di quando in quando qualche colpo di fucile. L'ascensione fu compita in meno di mezz'ora, non ostante gli ostacoli opposti da tutta quella massa di piante e senza che gli assamesi avessero ritentato l'attacco. Giunti sulla cima, Sandokan fece accampare i compagni, onde accordare a loro un paio d'ore di riposo, ben meritato d'altronde, dopo una così lunga corsa attraverso la jungla, sempre battagliando; poi con Tremal-Naik e Kammamuri si inerpicò su una roccia che formava il culmine della collina, e che era affatto spoglia di qualsiasi vegetazione. Di lassù lo sguardo poteva dominare un immenso spazio, estendendosi tutto intorno la pianura. L'incendio continuava ancora nella jungla minacciando di estendersi fino sulle rive del Brahmaputra e verso la palude dei coccodrilli. Era un vero mare di fuoco, che aveva una fronte di cinque o sei miglia e che tutto divorava sul suo passaggio. Enormi colonne di fumo nerissimo e getti immensi di scintille, ondeggiavano su quell'immane braciere, avvolgendo già la foresta che si estendeva dietro la jungla. Perfino la vecchia pagoda di Benar era crollata, e non era rimasto in piedi che qualche pezzo di muraglia. Sandokan ed i suoi compagni volgendo gli sguardi verso levante, non tardarono a scoprire un piccolo villaggio, formato da una minuscola pagoda e da qualche centinaio di capanne. Si trovava molto lontano dall'incendio e fuori da qualsiasi pericolo, perché vaste risaie, coi canali pieni d'acqua, lo circondavano. - Non può essere che quello, - disse Sandokan additandolo ai compagni. - Non ne vedo altri in nessuna direzione. - E nemmeno io, - rispose Tremal-Naik. - Quanto credi che disti da noi? - Cinque miglia. - Una semplice corsa. - Sì, se gli assamesi ci lasceranno tranquilli. - Li vedi? - Sono sempre nascosti fra i kalam. - Che ci spiino? - Ne sono certo. Ci proveremo a ingannarli scendendo l'altro versante della collina. - Si lasciarono scivolare lungo la parete rocciosa, che aveva già una notevole pendenza e raggiunsero i loro compagni, che si erano accampati fra le piante. - Tutto va bene, almeno per ora - disse Sandokan a Surama. - Io spero di poter raggiungere il villaggio in un paio d'ore, tenuto conto delle difficoltà che incontreremo nella foresta. Se troveremo gli elefanti, faremo correre i seikki, se vorranno darci la caccia. - E Yanez? - chiese la giovane con angoscia. - Come ben puoi comprendere, pel momento, nulla possiamo fare per lui. La sua liberazione richiederà un certo tempo. D'altronde non inquietarti: egli non corre alcun pericolo, perché il rajah, convinto che sia un inglese, non oserà torcergli un capello. Tutt'al più lo farà tradurre alla frontiera bengalese. - E come potremo ritrovarlo poi? - Oh! Sarà lui che muoverà incontro a noi, quando gli giungerà la buona notizia che le Tigri di Mompracem ed i tuoi montanari hanno preso d'assalto la capitale del tuo futuro regno. Ah! mi dimenticavo di chiederti una preziosa notizia. Il Brahmaputra attraversa le tue montagne? - Sì. - Ha delle barche quella gente? - Bangle e anche dei grossi gonga. - Non speravo tanto, - disse Sandokan. Si sdraiò poi sotto un banano selvatico, accese la sua pipa e si mise a fumare con studiata lentezza, tenendo gli sguardi fissi sui kalam, in mezzo ai quali dovevano trovarsi ancora gli assamesi, non potendo allontanarsi in causa dell'incendio, che sbarrava a loro la ritirata verso il fiume. Gli altri lo avevano già imitato, chi fumando e chi masticando noci d'areca. Era trascorsa un'ora e fors'anche di più, quando Sandokan vide delle ombre umane scivolare fra i kalam e radunarsi presso una doppia fila di cespugli, che s'allungavano quasi ininterrottamente verso la base dell'altura. - In piedi amici, - comandò. - È il momento di sloggiare. - Che cosa succede ancora? - chiese Surama. - I tuoi futuri sudditi si preparano a snidarci, - rispose Sandokan, - ed io non ho alcun desiderio di aspettarli quassù. Preparate le vostre gambe, perché si tratta di fare una vera corsa. Tenetevi sempre fra le piante, finché avremo raggiunto il versante opposto. - Strisciando fra i sarmenti ed i cespugli e tenendosi al riparo dalle larghe foglie dei banani, la piccola colonna girò intorno alla roccia e raggiunse, inosservata, il pendio settentrionale, che si presentava ingombro di superbe mangifere, che formavano dei gruppi giganteschi di manghi e di areca dai tronchi contorti, legati strettamente fra di loro da un numero infinito di piante parassite, che avevano raggiunto delle lunghezze straordinarie. L'avanguardia fu costretta a riprendere il suo faticoso lavoro, per praticare un passaggio attraverso a quella muraglia di verzura, che non presentava alcuna apertura. Sandokan, sempre prudente, aveva rinforzata la sua retroguardia, non potendo venire il pericolo che dal versante opposto. Forse in quel momento gli assamesi avevano già attraversata la distanza che li separava dalla collina e stavano salendo, sicuri di sorprendere i fuggiaschi ancora accampati. Se loro salivano in fretta, anche i malesi ed i dayachi, scendevano non meno rapidamente, sfondando rabbiosamente quel caos di piante. Gli uomini dell'avanguardia, si cambiavano di cinque in cinque minuti, onde vi fossero sempre alla testa lavoratori freschi. La fortuna proteggeva certamente la colonna, poiché questa poté finalmente raggiungere la foresta, che Sandokan e Tremal-Naik avevano scorta dall'alto della roccia, e senza che fosse stato sparato un colpo di fucile, né da una parte, né dall'altra. Contrariamente a quanto avevano dapprima creduto, quella foresta era poco folta, essendo composta di piante di tek e di nagassi, ossia di alberi del ferro, vegetali che conservano una certa distanza e che non permettono, ai cespugli che nascono sotto le loro foglie, di svilupparsi troppo. La marcia poteva quindi ridiventare rapidissima come nell'ultimo tratto della jungla. Era bensì vero che anche gli assamesi, se avevano scoperta la pista, ciò che non era difficile col sentiero aperto dalle scimitarre, potevano a loro volta spingere l'inseguimento; ma già a Sandokan ormai poco importava, essendo sicuro che Bindar avrebbe già preparato gli elefanti. Già non distavano dal villaggio che un mezzo miglio, quando Sandokan e Tremal- Naik, udirono a echeggiare alle loro spalle alcuni spari, seguìti subito da una nutrita scarica di carabine. - Ci sono già addosso! - esclamò il primo arrestandosi. - La retroguardia ha risposto con un fuoco di fila - aggiunse il secondo. - Dieci uomini con me: gli altri con Kammamuri continuino la via. Vi raccomando di far preparare subito gli elefanti. - Dieci malesi si staccarono dalla colonna e seguirono a passo di corsa i due capi, che già rifacevano la via percorsa, armando le carabine. Dopo trecento passi s'incontrarono colla retroguardia, che era condotta da Sambigliong. - Siete stati attaccati? - chiese Sandokan. - Sì, da un piccolo gruppo di esploratori, che è fuggito a rompicollo alla nostra prima scarica. - Abbiamo dei feriti? - Nessuno, Tigre della Malesia. - Come mai quegli uomini ci hanno raggiunti così presto? - Correvano come gazzelle. - Sei ben sicuro che si siano dispersi? - Li abbiamo inseguiti per due o trecento metri. - Affrettatevi: il villaggio non è che a due passi e forse troveremo gli elefanti pronti. - Radunò i due piccoli drappelli e tornò indietro sempre di corsa, temendo che il grosso degli assalitori, si trovasse a poca distanza. Quando raggiunse la colonna, questa si trovava già intorno a cinque colossali elefanti, montati ognuno da un cornac e forniti della cassa destinata a contenere gli uomini. Bindar era con loro. - Ah, sahib! - esclamò il bravo ragazzo. - Quante inquietudini ho provato per te, vedendo l'incendio divorare la jungla e udendo tante scariche! Temevo che tu fossi stato sopraffatto ed i tuoi guerrieri distrutti. - Siamo gente diversa dagli indiani noi, - si limitò di rispondere Sandokan. - Vi sono altri elefanti nel villaggio? - Due soli ancora. - Basteranno questi a trasportare tutta la mia gente? - Sì, sahib. - Fece salire Surama sul primo elefante, poi diede ordine ai suoi uomini di occupare gli altri e di tenersi pronti a salutare con una buona scarica gli assalitori, nel caso che si mostrassero sul margine della foresta. Bindar s'arrampicò anche lui, coll'agilità d'una scimmia, sul primo elefante, che era montato, oltre che dalla futura regina, da Sandokan, da Tremal-Naik, da Kammamuri e da tre malesi, che si erano accomodati dietro la cassa sull'enorme dorso del bestione. - Avanti, cornac e spingete la corsa. Venti rupie di regalo, se li farete galoppare come cavalli spronati a sangue, - gridò Sandokan. Non ci voleva di più per incoraggiare i conduttori, che forse non guadagnavano tanto in un anno di servizio. Mandarono un lungo fischio stridulo impugnando, nel medesimo tempo, i corti arpioni e tosto i cinque colossali pachidermi si misero in marcia con passo rapidissimo, con quello strano dondolamento che dà l'impressione, a chi li monta, di trovarsi su un battello scosso ora dal rollio ed ora dal beccheggio. Bindar, che come abbiamo detto, si trovava sull'elefante montato da Sandokan, aveva dato ordine ai cornac di risalire verso il sud-est, seguendo la lunga e stretta frontiera bengalese, che si frappone come un cuscinetto fra il Boutam e l'Assam, avvolgendo quest'ultimo stato a settentrione ed a levante, in modo da separarlo dai montanari dell'Himalaya e dai montanari della vicina Birmania. Makum, l'antica capitale del piccolo principato, retto dal padre di Surama, ultima cittadella della frontiera assamese, doveva essere la meta della loro corsa. Appena oltrepassate le risaie, che si estendevano tutte intorno al villaggio per uno spazio considerevole, i cinque elefanti si trovarono in mezzo alle eterne jungle, che seguono, per centinaia e centinaia di miglia, la riva destra del Brahmaputra, spingendosi quasi ininterrottamente fino ai primi scaglioni della catena del Dapha Bum e dell'Harungi. La foresta che stavano per attraversare, non era così fitta come quella di Benar, tuttavia aveva anche questa immense distese di bambù di dimensioni straordinarie, ottime per servire d'agguato a uomini ed a belve, infinite distese di kalam e di cespugli; però non mancavano le piante d'alto fusto, come tara, pipal, palas e palmizi splendidi, che allargavano smisuratamente le loro foglie dentellate o frangiate. Sandokan che s'aspettava da un momento all'altro qualche brutta sorpresa da parte degli assamesi, i quali potevano essersi accorti della nuova direzione presa dai fuggiaschi, raccomandò ai suoi uomini di non deporre le carabine e di sorvegliare attentamente le macchie. Era sicuro di non passarla liscia, quantunque gli elefanti s'avanzassero colla velocità di cavalli spinti a buon galoppo. Più innanzi le cose si sarebbero certamente cambiate, poiché i nemici per quanto lesti corridori, non avrebbero potuto resistere a lungo alla corsa indiavolata degli elefanti, ma pel momento era da aspettarsi qualche brutto giuoco. - Tu temi qualche altra sorpresa, è vero? - gli chiese Tremal-Naik, senza cessare di osservare attentamente le folte macchie dei bambù, che gli elefanti costeggiavano, aprendosi un passaggio a gran colpi di proboscide, quando se le trovavano dinanzi. - Dubito sempre, e poi mi sembra impossibile che quegli uomini abbiano interrotto così bruscamente l'inseguimento. Devono averci scorti e mi aspetto, fra queste macchie, qualche colpo di testa. - In quel momento, con sorpresa di tutti, gli elefanti, che fino allora avevano continuato ad accelerare la corsa, la rallentarono bruscamente. - Ehi, cornac, che cos'ha il tuo elefante-pilota? - chiese Tremal-Naik, che si era subito accorto. - Sente la vicinanza di qualche tigre forse? Noi siamo uomini da ammazzarne anche una dozzina. - Pessimo terreno, signore - rispose il conduttore crollando il capo. - Vuoi dire? - Che le ultime piogge hanno reso il terreno eccessivamente fangoso e che le zampe dei nostri animali affondano fino al ginocchio. Non mi aspettavo una simile sorpresa. - Non possiamo deviare? - Altrove il terreno non sarà migliore. Vi è dell'argilla sotto questa jungla e le acque stentano a filtrare. - Sandokan e Tremal-Naik si alzarono guardando il terreno. Apparentemente sembrava asciutto alla superficie, ma guardando le larghe impronte, lasciate dagli elefanti, si poteva facilmente comprendere come sotto esistesse una riserva d'acqua, poiché quei buchi si erano subito riempiti d'un liquido fangoso ed a quanto sembrava, tenacissimo. - Ehi, cornac, cerca di spingere più che puoi il tuo elefante, - disse Sandokan. - Farò il possibile, signore. - I cinque pachidermi non sembravano troppo contenti di aver incontrato quel terreno, che arrestava il loro slancio. Barrivano sordamente, agitavano la tromba e le grandi orecchie e scuotevano le loro teste massicce, manifestando il loro mal umore. Nondimeno, quantunque affondassero di quando in quando fino al ginocchio e provassero talvolta qualche difficoltà ad estrarre le loro zampacce da quel fango tenace, come se avessero compreso che dalla loro velocità dipendeva la salvezza degli uomini che li montavano, facevano sforzi prodigiosi, per non rallentare troppo la corsa. Disgraziatamente, di passo in passo che s'avanzavano, il terreno diventava sempre meno resistente. L'acqua ed il fango sprizzavano da tutte le parti, macchiando le rosse gualdrappe dei pachidermi. Era soprattutto sotto i bambù che si trovava maggior copia di materia liquida: là gli elefanti non potevano scorgere dove ponevano i piedi; avanzavano a passo quasi d'uomo e non cessavano di barrire, segnalando così la loro presenza, mentre Sandokan avrebbe desiderato il più scrupoloso silenzio. Una buona mezz'ora era trascorsa, da che avevano lasciato il villaggio, quando Bindar, che si teneva dietro al cornac del primo elefante, con una mano stretta sull'orlo della cassa, avendo nell'altra la carabina, si lasciò sfuggire una esclamazione. Quasi nell'istesso momento l'elefante si fermava, alzando rapidamente la tromba e fiutando l'aria a diverse altezze. - Che cos'hai, Bindar? - chiese subito Sandokan, alzandosi precipitosamente. - Ho veduto dei bambù ad agitarsi, - rispose l'indiano. - Dove? - Sulla nostra sinistra. - Che vi sia qualche tigre? Mi pare che l'elefante sia inquieto. - Una bâgh non spaventerebbe questi cinque colossi, che marciano uno addosso all'altro. Deve aver fiutato qualche cosa d'altro. - Fermo, cornac! - L'elefante non avanza più, - rispose il conduttore. - Preparate le armi! - continuò Sandokan, alzando la voce. Malesi e dayachi si erano alzati come un solo uomo, armando le carabine. Anche gli altri elefanti, che si erano stretti contro il primo, manifestavano una certa inquietudine. Trascorsero alcuni minuti senza che alcun che di straordinario accadesse. I bambù non si erano più mossi, eppure i pachidermi non si erano ancora interamente tranquillizzati. Sandokan, che era impaziente di guadagnare via, stava per ordinare ai cornac di riprendere la marcia, quando alcune detonazioni scoppiarono entro un macchione di bambù, che si estendeva a circa duecento metri dai pachidermi. - Gli assamesi! - esclamò Sandokan. - Fuoco là in mezzo! - I malesi dapprima, poi i dayachi con un intervallo di pochi secondi, fecero una scarica poderosa, mentre l'elefante-pilota mandava un barrito spaventevole, rovesciandosi addosso ai compagni. Qualche palla doveva averlo colpito, poiché gli altri si mantennero impassibili, come brave bestie, abituate al fuoco. Gli assamesi non risposero più. A giudicare dai movimenti disordinati dei bambù, dovevano aver battuto precipitosamente in ritirata, per paura forse di dover subire una carica furiosa da parte dei pachidermi. - Quindici uomini vadano a esplorare quella macchia! - gridò Sandokan. - Se il nemico resiste, ripiegatevi verso di noi facendo fuoco. - Le scale furono gettate ed un drappello composto di dayachi e di malesi, sotto la guida del vecchio Sambigliong, si slanciò attraverso il pantano, balzando fra i bambù e le erbe, le cui radici opponevano una certa resistenza. Sandokan e gli altri, dall'alto delle casse, sorvegliavano intanto la macchia, pronti a sostenere i loro compagni. L'elefante-pilota continuava a lanciare barriti formidabili e ad indietreggiare, non ostante le buone parole che gli diceva il suo conduttore. - Ha ricevuto certamente una palla nel corpo, - disse Tremal-Naik a Sandokan. - Mi spiacerebbe che fosse stato ferito gravemente, - rispose la Tigre della Malesia. - È bensì vero che ce ne rimangono altri quattro. - Cornac, va' a un po' a vedere dove è stato toccato. - Sì, signore - rispose il conduttore raggiungendo rapidamente la scala di corda e lasciandosi scivolare sul pantano. Girò intorno al pachiderma osservandolo attentamente lungo i fianchi e si arrestò presso la gamba sinistra posteriore. - Dunque? - chiese Tremal-Naik. - Sanguina qui, signore - rispose il cornac. - Ha ricevuto una palla presso l'articolazione. - Ti sembra grave la ferita? - Il conduttore scosse il capo a più riprese, poi disse: - Durerà finché potrà. Questi colossi posseggono una forza prodigiosa, eppure sono d'una sensibilità estrema e guariscono difficilmente. - Puoi fare una fasciatura? - Mi proverò, signore, tanto per arrestare il sangue. Estrarre il proiettile, che si è cacciato sotto la pelle, sarebbe impossibile. - Fa' presto. - In quel momento Kammamuri ed il suo drappello ritornavano. - Fuggiti? - chiese Sandokan. - Scomparsi ancora - rispose il maharatto. - Canaglie! Non hanno il coraggio d'affrontarci in campo aperto. - Li ritroveremo più innanzi, se gli elefanti non trovano un terreno migliore. Subiremo delle imboscate finché non potremo galoppare furiosamente. - Continua il fango? - Sempre. - Montate e tenete sempre pronte le carabine. - Malesi e dayachi s'inerpicarono come tanti scoiattoli su per le scale di corda, seguiti poco dopo dal cornac dell'elefante-pilota, che era riuscito ad arrestare l'emorragia. - Avanti! - comandò Sandokan. - Vedremo che cosa sapranno fare quei dannati assamesi. -

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

682211
Salgari, Emilio 3 occorrenze

"Che ci abbiano scorti?" "Sì, O'Donnell, vengono in nostro aiuto." "Giungeranno in tempo?" In lontananza si udirono alcune detonazioni; era l'equipaggio della piccola nave che avvertiva gli aeronauti di averli visti. O'Donnell scaricò la grossa carabina che aveva salvato dal naufragio, mentre l'ingegnere scaricava il suo revolver. "Vengono," disse Kelly, "ma quando giungeranno qui noi saremo già caduti." "Vedete la nave da guerra?" chiese O'Donnell. "No" rispose l'ingegnere, che si trovava più in alto di tutti, essendosi aggrappato alle maglie. "Nemmeno il fumo?" "Mi pare di vedere laggiù come un sottile pennacchio. "Tanto meglio. E quel piccolo legno cosa sarà?" "Senza dubbio uno di quei legnetti che fanno il traffico delle coste per conto delle fattorie." "Speriamo che non sia inglese." "Probabilmente sarà francese o portoghese. "Cadiamo" disse Walter. "Non avrai paura, povero ragazzo?" chiese l'ingegnere. "No, signore" rispose il mozzo con voce ferma. "Procura di tenerti sempre vicino a me" disse O'Donnell. "So nuotare, signore, e le onde non mi fanno paura." "Bravo ragazzo!" "Attenzione!" gridò l'ingegnere. Il pallone cadeva a mille passi dalla spiaggia della prima isola. Si arrestò ancora un momento, poi precipitò fra le onde come una palla di cannone, ma appena gli uomini furono immersi, si sollevò bruscamente, tendendo le funi. "Tenetevi stretti!" gridò l'ingegnere. "Ci sorreggerà fino alla spiaggia." Il mare era agitato, le larghe ondate dell'Atlantico si frangevano contro quell'arcipelago di isole e isolotti e contro la costa africana, producendo quei furiosi flutti. I marosi si scagliavano rabbiosamente addosso agli aeronauti, quasi fossero bramosi di strapparli, li coprivano di spuma, li sbattevano in tutti i sensi assordandoli con lunghi muggiti. I due grandi fusi, che risentivano le scosse subite dai tre uomini, si abbassavano, poi si rialzavano, giravano su se stessi e si piegavano ora da un lato, ora dall'altro. Il vento, che s'ingolfava entro le loro pieghe, li trascinava però verso l'isola. Ad un tratto, fra i muggiti delle onde echeggiò un grido. Quasi contemporaneamente O'Donnell e l'ingegnere si sentirono tratti bruscamente fuori dall'acqua e trascinati rapidamente in alto. "Gran Dio!" esclamò O'Donnell, aggrappandosi prontamente alla rete. "Che cos'è accaduto?" "Walter! Walter!" gridò l'ingegnere, mentre l'aerostato, scaricato di quel peso, s'innalzava ancora in aria. Il mozzo, che le onde avevano strappato dall'asta alla quale era aggrappato, ricomparve fra la spuma nuotando vigorosamente e additò la spiaggia, lontana duecento metri. Il Washington, malgrado fosse quasi mezzo vuoto e inzuppato d'acqua, fu trascinato sopra i grandi boschi che coprivano l'isola. "Si salverà quel povero ragazzo?" "Nuotava vigorosamente" risposero l'ingegnere. "Toccherà la spiaggia senza fatica." "Lo ritroveremo?" "Lo cercheremo, O'Donnell. Cadiamo ancora." "Sui boschi?" "Meglio così: attenueremo l'urto. State attento ad aggrapparvi ai rami." "Vedete il piccolo bastimento?" "Sì, sta doppiando il capo settentrionale dell'isola." In quell'istante il sole scomparve all'orizzonte. Il Washington precipitava sopra i grandi boschi dell'isola.

È probabile che gli antichi fenici e i Cartaginesi, che visitarono le Canarie, le abbiano vedute molti e molti secoli prima, ma al pari di queste ultime rimasero ignote fino al 1344. Fu in quell'epoca che Roberto Macham, gentiluomo inglese, fu spinto dai venti sulle spiagge di Madera, mentre fuggiva su di una nave con alcuni amici e la figlia del duca di Dorset, che dal padre era stata costretta a sposare forzatamente un alto dignitario del regno, mentre essa aveva giurato eterno amore al giovane gentiluomo. La notizia della scoperta venne recata in Europa dai compagni di Macham, dopo che questi e la sua amante erano morti. Gli aeronauti, senza bisogno di cannocchiali, distinguevano nettamente le due isole maggiori e le altre minori, essendo l'orizzonte limpidissimo. Quantunque fossero lontani oltre ottanta miglia, l'ingegnere additò ai suoi compagni il monte Ruino, che è il più elevato di tutti. "È laggiù che si raccoglie quel vino squisito, Mister Kelly?" chiese l'irlandese. "Sì, amico mio." "Ne producono molto quelle isole?" "Quando le annate sono buone, quei vigneti danno circa 5000 pipe(2), ossia 2.685.000 litri. Nel 1852 quelle isole corsero il pericolo di perdere interamente i loro raccolti a causa della comparsa dell'oidium tuckeri, ma gli abitanti vi posero riparo piantando i vitigni americani." "Richiede delle cure speciali quel vino per riuscire così squisito?" "Quasi nessuna, O'Donnell. Basta esporlo per qualche tempo a un'alta temperatura per renderlo più delizioso, e aggiungervi poi una certa dose di alcool, circa dieci litri in ogni pipa. Anticamente anzi, perché prendesse meglio il caldo, che non dev'essere inferiore ai 50o, s'imbarcavano le botti piene di madera e si trasportavano al di là dell'equatore, e su quelle botti gli inglesi, che hanno sempre esercitato l'esportazione di quel prezioso nettare, applicavano un cartellino su cui era scritto: "Twice passed the line" per indicare che aveva passato due volte la linea dell'equatore e che quindi era perfettamente stagionato." "Che sia il terreno che rende così buono quel vino?" Così deve essere, e pare che la sua fertilità derivi da un terribile incendio che durò sette anni." "Ma chi lo accese?" "I primi navigatori portoghesi: Zarco, Fechevra e Pestrello, per distruggere i grandi boschi che coprivano Madera. Quelle ceneri bastarono per concimare immensamente quei terreni." "E a chi venne in mente di piantare delle viti su quelle isole?" "Ai portoghesi, che piantarono nel 1425 alcune talee fatte venire dall'isola di Cipro. In seguito ne piantarono altre di specie diversa, ottenendo così parecchi tipi di vino." "Ma non sono molti anni che questi vini sono diventati celebri." "Tutt'altro, caro amico. Fin dal 1445 il navigatore veneziano Ca'da Mosto li fece conoscere, vantandone le squisitezze, e Francesco I, re di Francia, che fu il primo che lo bevette in Europa e confermò la sua straordinaria bontà, rendendolo di colpo famoso." In quell'istante l'aerostato virò bruscamente di bordo, descrivendo mezzo giro su se stesso e imprimendo alla navicella un largo dondolìo. "Cadiamo?" chiesero O'Donnell e il mozzo. "No," rispose l'ingegnere; "ma ... " "Cambia la corrente?" L'ingegnere rispose con un gesto disperato. Si precipitò verso la bussola e impallidì. "Torniamo al sud!" esclamò con voce sorda. "Al sud!" esclamò O'Donnell. "Si è rotta la corrente?" "Peggio ancora." "Che avviene dunque?" "Una cosa assai grave: i venti alisei ci hanno afferrato e ci respingono nell'Atlantico!" "Per centomila corna di cervo! ... Siamo perseguitati dal destino?" Per parecchi minuti un cupo silenzio regnò sull'aerostato, che il vento trascinava con grande rapidità verso le regioni equatoriali. L'ingegnere e l'irlandese si sentivano vinti e si chiedevano con angoscia quale sorte doveva a loro serbare il destino, che pareva avesse giurato la loro perdita, dopo aver fatto balenare in loro la speranza di condurli verso le coste europee. Se non sopraggiungeva un miracolo, la loro situazione si poteva considerare disperata. La grande corrente degli alisei, che fino ad allora avevano cercato di evitare, non li avrebbe più lasciati, e doveva respingerli in mezzo all'Atlantico, per poi gettarli sulle lontane coste dell'America centrale e forse su quelle del continente meridionale. Si sarebbero mantenuti in aria tanto tempo da riattraversare l'oceano? Non era possibile, coi mezzi limitati che ormai possedevano. Una caduta in mezzo all'Atlantico ora sembrava inevitabile, e quale disastro allora, privi quasi di acqua come erano! L'ingegnere vinto dalla tristezza che lo invadeva, si era lasciato cadere a prora della scialuppa, con la testa stretta fra le mani; O'Donnell gettava sguardi disperati alle isole che sparivano a poco a poco fra le tenebre calanti rapidamente come un branco di corvi; il solo Walter, il povero mozzo raccolto morente sull'oceano, era tranquillo e pareva chiedersi il motivo della disperazione che accasciava i suoi salvatori. "Mister O'Donnell," mormorò timidamente, "è forse il peso della mia persona che ha prodotto il cambiamento di direzione dell'aerostato?" "No, povero ragazzo," disse l'irlandese, sforzandosi di sorridere. "È il vento che, invece di avvicinarci alle coste africane o europee, ci trascina verso l'America." "Non possiamo fermarci, gettando l'ancora, e attendere un vento più favorevole?" "A quest'altezza è impossibile, Walter. Tutte le nostre funi riunite non giungerebbero a toccare la superficie dell'oceano. Più tardi, quando l'idrogeno si sarà condensato, cercheremo di fermarci." "Volete che annodi le funi?" "Sì," disse l'ingegnere scuotendosi. "Bisogna fermarci e non lasciarci trascinare in mezzo all'Atlantico." "Sperate in un cambiamento di vento, Mister Kelly?" chiese O'Donnell. "Spero in un uragano." "Segna una vicina perturbazione il barometro?" "L'ho notato stamane." "E romperà la grande corrente?" "Lo spero, O'Donnell: se non sulla superficie dell'oceano, forse in alto, a tremila, quattromila, a seimila metri, o più sopra." "Possiamo abbassarci subito e gettare le àncore, sacrificando un po' di gas?" "Ora? Sarebbe un'imprudenza, amico mio, perdere dell'idrogeno, mentre forse il vento ci spingerà attraverso l'Atlantico invece di portarci verso l'Africa. Voglio conservare tutte le forze del Washington per cercare in alto una nuova corrente." "Ma scendiamo al sud con grande rapidità, Mister Kelly." "Non importa: l'Africa l'abbiamo alla nostra sinistra e per lungo tempo non l'abbandoneremo. Che approdiamo qui o più al sud, sulle coste del Sahara o della Senegambia o della Sierra Leone, cosa importa, ora che l'Europa ci sfugge? Quando il Washington si abbasserà, getteremo le àncore e attenderemo la burrasca per innalzarci più che potremo." "E se quell'uragano ci spingesse invece all'ovest?" "Siamo nelle mani di Dio: accadrà ciò che Egli vorrà." "Ritenete che il Washington non possieda forze sufficienti per riattraversare l'Atlantico?" "Lo dubito, O'Donnell. È vero che i venti, durante gli uragani, acquistano delle rapidità incredibili e che sole 1500 miglia separano le coste della Sierra Leone e il capo brasiliano di San Rocco, ma i nostri mezzi sono ormai scarsi, e cadremmo in mezzo all'oceano, a meno che qualche nave non ci raccogliesse." "To'! E i nostri amici, li abbiamo dimenticati? Chissà che non ci cerchino a quest'ora, se i piccioni messaggeri sono giunti all'Isola Brettone. "Magra speranza, O'Donnell. L'Atlantico è immenso e i miei amici non possono sapere dove il vento ci ha spinto. Non dobbiamo contare che sulle nostre forze." "Ma mi sembra, Mister Kelly, che il nostro idrogeno si condensi molto lentamente questa sera. perché non abbiamo ancora cominciato la discesa." "Ci troviamo in una corrente d'aria assai calda, e il nostro Washington è stato rinvigorito poche ore fa, ma cadremo, O'Donnell, ve lo assicuro. Intanto annodiamo tutte le funi disponibili e prepariamoci a calare i nostri coni." Il Washington come aveva giustamente notato O'Donnell, non accennava a scendere, quantunque la temperatura si fosse abbassata di alcuni gradi. Si manteneva ancora a 2500 metri di altezza, filando verso il sud con una rapidità di ben sessantadue chilometri all'ora. Se quel vento non rallentava, il Washington doveva perdere l'intero vantaggio acquistato durante la giornata e ritrovarsi nei paraggi delle Canarie, che aveva lasciato verso le undici del mattino. Alle dieci però la discesa dell'aerostato cominciò, ma era assai lenta. Calava in ragione di trecento o trecentocinquanta metri all'ora, mentre invece la rapidità del vento aumentava. A mezzanotte l'ingegnere segnalò ai suoi compagni un punto luminoso, che si scorgeva verso l'est. "Una nave?" chiese O'Donnell. "No," rispose Mister Kelly, che aveva puntato un cannocchiale in quella direzione. "È un bagliore lampeggiante, sarà il faro di Teneriffa o dell'isola del Ferro." "Di già alle Canarie? E la corsa aumenta!" Alle tre del mattino l'aerostato si trovava a soli duecento metri dalla superficie dell'oceano. L'ingegnere fece gettare i due coni, che si riempirono subito d'acqua, immobilizzando il vascello aereo. "Riposiamo," disse poi. "Non corriamo alcun pericolo." I tre aeronauti, che avevano vegliato fino ad allora e che cadevano dal sonno, si coricarono sui loro materassi e si addormentarono profondamente, cullati dolcemente dalla grande corrente degli alisei.

Io però sono d'opinione che non abbiano raggiunto quell'altezza, e così pensano pure molti aeronauti. Se si fossero spinti tanto in alto, non sarebbero ritornati a terra vivi. La più drammatica e più terribile ascensione fu quella dello Zenith, che costò la vita a due giovani e audaci aeronauti, a Croce-Spinelli, un italiano naturalizzato francese, ed a Silvel. Già nel 1874, incoraggiati e aiutati dalla Società Francese di Navigazione Aerea, avevano fatto una prima ascensione, raggiungendo i 7300 metri. Il 15 Aprile 1875 partivano sull'aerostato lo Zenith, in compagnia di Tissandier, un aeronauta che aveva eseguito già oltre venti ascensioni. L'aerostato, continuamente scaricato dalla zavorra che portava, s'innalzava rapidamente verso le solitudini gelate delle grandi altezze. Il freddo li intirizzì, le nausee sopravvennero, le vertigini li colsero; ma continuarono intrepidamente a salire. A 8000 metri Croce-Spinelli e Silvel, malgrado respirassero di frequente l'ossigeno che avevano portato con loro, caddero; ma Tissandier resiste ancora e continuò le sue osservazioni. A 8600 metri lo Zenith s'arrestò, poi ridiscese; ma portava con sé due cadaveri: Croce- Spinelli e Silvel erano morti! Che cosa ne dite, O'Donnell?" L'irlandese, che fino ad allora gli stava seduto a sinistra, a cavalcioni d'una panchina del battello, non diede alcuna risposta. L'ingegnere si volse verso di lui e lo vide accasciato su se stesso, come se fosse stato improvvisamente colto da uno svenimento, o da un sonno irresistibile. Guardò a poppa e vide il negro Simone che pareva pure addormentato. "Diavolo!" esclamò. "Dove ci troviamo?" Gettò uno sguardo sul barometro: segnava 4300 metri. "È troppo," mormorò. "Ancora poche centinaia di metri più in alto, e questi uomini, non abituati alle ascensioni, dormiranno per sempre. Afferrò le due corde che mettevano capo alle valvole di sfogo e diede uno strappo. Tosto in alto si udirono degli scoppiettii e all'intorno si sparse un acuto odore di idrogeno. "Basta," disse mezzo minuto dopo. "È troppo prezioso per consumarlo." Il Washington, benché appena salassato, discendeva lentamente nelle regioni più respirabili. In dieci minuti toccò i 3600 metri e colà giunto arrestò la sua discesa. O'Donnell aprì gli occhi, sbadigliando come un orso che non dorme da una settimana. "Che vi pare della disgraziata sorte toccata a Croce-Spinelli e a Silvel?" gli chiese Kelly, con un sorriso leggermente malizioso. "Silvel! Croce-Spinelli! ... " esclamò O'Donnell, guardando l'ingegnere con due occhi strabuzzati. "Ma siete uno stregone voi, che indovinate i miei sogni?" "Avete sognato, O'Donnell?" "Sì, di palloni, di ascensioni di un certo Tissandier e ... Ma perché ridete?" "Perché non avete sognato nulla di tutto ciò, ma l'avete udito dalla mie labbra e vi siete addormentato mentre io vi narravo quella drammatica ascensione." "Mi sono addormentato, io!" "Sì, O'Donnell, ma per effetto dell'altezza del Washington e Simone, che comincia solamente ora ad aprire gli occhi, vi teneva compagnia. Come vi sentite?" "Benissimo: anzi ho una fame da lupo." "Buon segno," disse Kelly, ridendo. "Con la discesa scompaiono repentinamente i disturbi pericolosi cagionati dalle eccessive altezze." "Dev'essere così, signor Ned; ma si vede che le ascensioni non sono fatte per me, né per Simone. Che ne dici, negrotto mio?" Il negro si limitò a sbadigliare in tal modo da correre il pericolo di slogarsi le mascelle, mostrando due file di denti da fare invidia a un coccodrillo dell'Africa equatoriale.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

682222
Salgari, Emilio 2 occorrenze

Che i guasconi abbiano anche un fiuto meraviglioso? - Non manca nulla a noi, caro compare! Avete perduto il doblone. - Che vi pagherò quando saremo a bordo della fregata, se ci riusciremo. Il guascone fece una smorfia, poi alzò le spalle. - Bah, - disse - mi consolerò con questo deliziosissimo Alicante. Sentite che profumo, compare? La signora marchesa di Montelimar sa dove fare i suoi acquisti. Su, bevete e passate. Volete farmi morire di sete? - No, prima al vincitore! - rispose serio Mendoza, porgendo la brocca. Il guascone l'afferrò, allargò per bene le gambe e si mise a bere a garganella, senza nemmeno prendere respiro. - Carrai! - esclamò il filibustiere, facendo un gesto di spavento; - Volete ubriacarvi, don Barrejo? - Bah! ... Un guascone? ... - rispose l'avventuriero staccando per un momento le labbra. - Al diavolo tutti i guasconi! ... Io mi attaccherò alla botte e vedremo chi berrà piú a lungo. Il degno lupo di mare imboccò lo spinello e per parecchi minuti nella cantina non si udí altro rumore che quello prodotto dal gorgoglio del vino che passava attraverso le gole dei due formidabili bevitori. Chi sa quanto quel leggero rumore sarebbe continuato, se un improvviso sussurrio di voci, che proveniva dalle ampie cantine, non l'avesse interrotto. Il guascone aveva lasciato cadere il boccale senza averne veduto il fondo, mentre Mendoza chiudeva rapidamente la cannella della botte, dicendo precipitosamente al compagno: - Spegnete la fiaccola. Il guascone si affrettò ad obbedire. - Che stiano per scoprirci? - chiese il lupo di mare. - Della gente scende nelle cantine, - rispose don Barrejo, accostandosi alle botti che ostruivano l'entrata. - Vedo delle torcie brillare. - Sacco rotto! ... Che questa bevuta di Alicante ci porti sfortuna? ... Era proprio Alicante, è vero, don Barrejo? - Per Bacco! ... E del piú fino, - rispose l'avventuriero. - Peccato che siano venuti a guastarci la bevuta. Potevano aspettare un momento, diavolo! ... Svegliamo il conte? - Non credo che pel momento sia necessario, - rispose Mendoza. - Aspettiamo di vedere quello che succede. Forse avremo ancora l'occasione di riprendere la nostra bevuta senza incomodi testimoni. Ventre di foca! ... Sono proprio gli spagnuoli. Guardate, don Barrejo. S'avvicinarono entrambi alle botti che occupavano, anzi che nascondevano la porta e spinsero gli sguardi attraverso le fessure lasciate dai grossi recipienti che Marto aveva fatti rotolare. Quattro servi della marchesa, tutti schiavi negri, guidati da Marto in persona, erano entrati nella cantina, seguiti da una dozzina di archibugieri spagnuoli i quali portavano delle torcie. - Ohé, compare, - disse Barrejo, - va bene essere guasconi e baschi, ma mi pare che la faccenda diventi un po' seria. - Forse meno di quello che credete, - rispose Mendoza. - Non vedete che invece di frugare le cantine s'attaccano alle botti? Scommetterei un mezzo doblone contro cento che quei bravi armigeri sono piú assetati di noi! ... - E allora noi li imiteremo. - Adagio, signor guascone. Non scherziamo troppo con questo delizioso Alicante, specialmente in questi momenti. Potrebbero interrompere la loro bevuta e venire a scoprirci e non so che cosa succederebbe allora con troppo vino in corpo. Invece di bucare gli spagnuoli, potremmo bucare le botti. - E causare una inondazione. - È vero, signor guascone. - Ammiro la vostra prudenza. - State zitto e vediamo che cosa sta per succedere. Gli archibugieri del governatore di San Domingo pareva che avessero affatto dimenticato lo scopo principale della loro escursione nelle cantine della marchesa. I servi, guidati da Marto, avevano tratto di sotto le travi che reggevano le monumentali botti, dei grossi boccali e si erano affrettati a riempirli ed i soldati, che forse mai si erano trovati in mezzo a tanta abbondanza, vi avevano dato dentro, bevendo furiosamente Porto, Alicante, Xeres e Madera. Perfino il sergente che li guidava, afferrato un boccale e dopo essersi seduto su una trave, si era messo a trangugiare a lunghi sorsi il contenuto. - Compare, - disse don Barrejo, che da qualche istante si dimenava come avesse il diavolo in corpo. - E noi assisteremo come due statue ad una simile festa? - Avete ragione, signor guascone, - rispose Mendoza. - Quella gente non si occupa che delle botti e siccome noi non siamo botti da spillare non verranno di certo ad importunarci. - Voi continuate coll'Alicante, io darò l'assaggio a qualche altro recipiente. Vedremo chi sarà piú fortunato. - Io, di certo. - Un doblone che troverò di meglio io, invece. - Vada! - disse Mendoza. - Già non pagherò nemmeno questo. I due compari, che ormai erano legati da una profonda amicizia, stavano per riprendere la bevuta, quando una sorda imprecazione li arrestò. Buttafuoco che aveva un udito finissimo e che era abituato a dormire con un solo occhio, si era lasciato scivolare giú dalle botti, chiedendo con voce sommessa: - Che cosa succede? Perché avete spenta la fiaccola? - Gli spagnuoli ci cercano - aveva risposto Mendoza. - Sono già discesi? - Sí, ma pare che cerchino piú le botti che noi, - disse il guascone. - Potevate continuare il vostro sonno. E poi non vegliamo forse noi? - Parlavate di dar l'assalto anche voi al buon vino. - Tanto per scacciare la noia e l'umidità, signor Buttafuoco, - rispose Mendoza. - Per ora lasciate in pace le botti, - rispose il bucaniere. - Sono troppo pericolose in certi momenti. Vi rifarete piú tardi. - E questo è parlare da saggio, capitano, - disse quel volpone di guascone. Buttafuoco si accostò alla porticina e guardò a lungo, - La marchesa li ha giuocati, - disse finalmente. - Possiamo aspettare tranquillamente che quei soldati abbiano bevuto. La bevuta degli archibugieri del governatore di San Domingo durò una buona mezz'ora, poi tutti se ne andarono, piú o meno malfermi in gambe, e le cantine ridiventarono silenziose e tenebrose. - Possiamo attaccare? - chiese Mendoza. - Che cosa? - chiese Buttafuoco. - Le botti anche noi? - Andate al diavolo! ... Io riprendo il mio sonno. - E noi la guardia, - rispose il guascone. - Badate di non addormentarvi davvero di fronte al nemico. - Oh! ... Mai, signore. E mentre il bucaniere, ormai pienamente rassicurato di non rivedere piú gli spagnuoli nelle cantine, riprendeva il suo sonno, i due compari, non meno tranquilli di non correre piú alcun pericolo, ricominciavano i loro assaggi dei vini della marchesa di Montelimar.

. - Se ne sono andati, ma che abbiano lasciato i dintorni io ne dubito. - Che m'impediscano di partire? - chiese il conte. - La mia fregata mi aspetta e potrebbe, rimanendo ancora al capo Tiburon, attirarsi addosso qualche tremenda bufera. - Avete fretta di lasciarmi? - chiese la marchesa con voce triste. - Vorrei rimanere qui delle settimane e anche dei mesi, signora - rispose il conte con vivacità. - Disgraziatamente ho troppi impegni e devo difendere la vita dei miei duecento uomini. - Vi stimo, conte; io spero peraltro che non sia questa l'ultima volta che ci incontriamo nel golfo del Messico. - Sarò il piú felice degli uomini il giorno in cui vi potrò rivedere, marchesa - rispose il gentiluomo con voce grave. - I debiti di riconoscenza che ho con voi non li dimenticherò mai ... mi capite, signora? mai! - Voi mi scorterete fino ai bagni del capo Tiburon: ho laggiú, sulla spiaggia, un piccolo padiglione. - Scortarvi! - esclamò il conte, con sorpresa. - Sarà necessario, se vorrete passare attraverso le cinquantine e salvare la vostra nave. - Che cosa dite, marchesa? - Dai comandanti delle cinquantine ho appreso che si sa dove si trova la vostra fregata e che il governatore ha dato l'ordine di fare dei grandi preparativi per assalirla di sorpresa, se sarà possibile. Il conte era diventato pallidissimo. - Assalire la Nuova Castiglia, o meglio, la mia Folgore, perché questo è il suo vero nome! ... Vivaddio! ... La raggiungerò prima che l'attacco cominci, dovessi sfidare la morte cinquanta volte. - E perciò, conte, voi mi scorterete, ve lo ripeto. Dovrete però, al pari dei vostri compagni, indossare la divisa della mia casa e passare per un servo. - Se fosse necessario mi lascerei anche dipingere come un negro. - Non ve ne sarà bisogno ... Marto! L'africano, che in quel momento doveva sostituire l'intendente, fu pronto ad accorrere alla chiamata della marchesa. - È pronto tutto? - Sí, padrona. - L'amaca e gli schiavi? - Anche. - La scorta? - Già armata. - Numerosa? - Dodici uomini fra negri e bianchi. - Conduci questi signori a vestirsi. Poi, volgendosi verso il signor di Ventimiglia, il quale stava vuotando una tazza di cioccolata, - fate presto, conte - gli disse. - Temo che l'assalto alla vostra fregata sia fissato per il tramonto. - Forza, signor guascone! - disse Mendoza a don Barrejo. - Avremo bisogno della vostra terribile draghinassa. Mentre Marto guidava i quattro uomini in una stanza a pianterreno, per far loro scegliere dei vestiti con i colori della casa dei Montelimar, la marchesa si era voltata verso un uomo dalla pelle assai bruna, il quale fino allora si era sempre tenuto in disparte, appoggiato ad una colonna del porticato. - Hai fatto esplorare attentamente la via che conduce al capo Tiburon, Azevedo? - gli chiese. - Sí, padrona. - Le cinquantine la percorrono, non è vero? - Vi sono almeno duecento uomini al di là del villaggio di San Josè. - Sono gli stessi che sono venuti qui? - Li ho perfettamente riconosciuti. - Benissimo, Azevedo. Vedremo se oseranno fermare una Montelimar nipote di un grande ammiraglio e cognata d'un ex governatore! Si era alzata, gettandosi sulla capigliatura corvina una leggerissima mantiglia di seta, mentre scendevano nel cortile quattro robusti africani, sfarzosamente vestiti, i quali sorreggevano, per mezzo di un lunghissimo palo, un'amaca sormontata da un largo ombrello rosso e fornita d'un soffice cuscino per appoggiarvi il capo. Otto uomini, quattro bianchi e quattro negri, armati tutti di archibugi e di spadoni, li seguivano. Si erano appena fermati sotto il porticato, quando comparvero anche il conte, Buttafuoco, il guascone e Mendoza, i quali indossavano la divisa della casa, bianca ed azzurra a strisce alternate ed uno stemma ricamato in mezzo al petto che rappresentava una montagna sorgente dal mare con un leone rampante in alto. Vedendoli la marchesa non potè trattenere uno scoppio di risa. - Pare che facciamo una brutta figura - brontolò Mendoza. - Di servi - rispose sottovoce il guascone, arricciandosi i baffi e posando fieramente la sinistra sulla guardia della sua draghinassa, per far comprendere agli altri che era un uomo d'armi anche sotto quelle spoglie. - Siamo buffi, non è vero, marchesa? - chiese il conte. - Tutt'altro! ma avrei preferito di essere scortata da voi vestiti dei vostri abiti. - O entro il mio vestito rosso? - Meglio ancora - rispose la marchesa, con un sospiro represso. - Lo indosserò quando sarò sul ponte della mia fregata ed udrò a tuonare il cannone. La marchesa fissò sul fiero corsaro i suoi profondi occhi; poi, scuotendo il capo, disse bruscamente: - Partiamo. Aiutata dal conte, salí nell'amaca posando il capo sul cuscino di seta color rosa, ed il drappello si mise in marcia preceduto da Buttafuoco e dal conte, i quali non avevano lasciati i loro archibugi. Attraversata la piantagione di banani senza aver incontrato nessuna cinquantina, presero un sentiero aperto fra i boschi, evitando la borgatella di San Josè che si trovava a breve distanza dalla fattoria della marchesa. Marciavano da un paio d'ore, seguendo un sentieruzzo aperto fra le splendide palme, quando alcuni archibugieri, che si tenevano imboscati fra le macchie, balzarono fuori, gridando: - Ferma! Buttafuoco si fece avanti dicendo: - È la signora marchesa di Montelimar che si reca ai bagni del capo Tiburon. Che cosa volete? - Passate - rispose il capo del piccolo drappello, inchinandosi. Gli archibugieri proseguirono la loro marcia, mentre la marchesa salutava i soldati con un gesto grazioso. - Ecco un nome portentoso che ci aprirà la via fino sul ponte della fregata - disse Mendoza al Guascone. - Io preferirei che si riaprisse invece la via delle cantine - rispose don Barrejo, con un sospiro. - Ah, quell'Alicante! ... - Tacete, o mi farete venire una sete rabbiosa. - Io l'ho di già, basco! - E pensare che non metteremo mai piú i piedi là dentro, signor guascone! - Volete farmi piangere? - Siete crudele, basco! Un altro "alto là", piú minaccioso del primo, troncò bruscamente la loro chiacchierata. - Largo alla marchesa di Montelimar! - gridò nuovamente Buttafuoco con accento pure minaccioso. Altri archibugieri erano balzati fuori dai cespugli che costeggiavano il sentiero, puntando le armi. Udendo Buttafuoco, che scambiavano probabilmente per l'intendente della marchesa, rispondere su quel tono, si erano pure affrettati, dopo un cordiale saluto, a scomparire. - Marchesa, - disse il conte che camminava di fianco all'amaca - noi vi dobbiamo la vita. Senza la vostra bella trovata, noi non saremmo certamente mai riusciti a giungere al capo Tiburon. - Signor conte, dovevo ben pensare a condurre in salvo i miei ospiti! - rispose la marchesa. - E non è la prima volta che gioco qualche brutto tiro ai miei compatrioti. Non è già d'altronde la prima volta che giuoco qualche brutto tiro ai miei compatriotti. Che cosa volete? mi diverto a far arrabbiare il governatore di San Domingo! - Il quale sarà probabilmente un cannibale o poco meno - mormorò Mendoza che camminava dall'altro lato dell'amaca. La marcia continuò senza alcun incontro, ma nessuno era persuaso che nei boschi che costeggiavano il sentiero non si trovassero altri archibugieri ed altri alabardieri in agguato, con la speranza di sorprendere il figlio del Corsaro Rosso. A mezzodì il drappello, che aveva marciato sempre rapidamente, giungeva in vista del mare. Il capo Tiburon, che formava una specie di penisola coperta di boschi foltissimi fino quasi alla sua punta estrema, si allungava verso il sud, in un semicerchio che si spiegava verso la spiaggia, formando una darsena abbastanza sicura contro l'irrompere delle onde. Nel mezzo del bacino giganteggiava superbamente la Nuova Castiglia, trattenuta da due âncore gettate a prora ed a poppa e con le vele solamente semimbrogliate, per essere pronta a prendere il largo in brevissimo tempo, in caso di pericolo. - La mia fregata! - esclamò il conte. - Finalmente! Ritorno padrone del Golfo! - Tacete, signor di Ventimiglia, - disse la marchesa - voi non sapete dove sono imboscati gli spagnuoli che hanno ricevuto l'ordine di assalire la vostra nave. Non fidatevi di questa calma che deve essere piú apparente che reale ed agite con prudenza. Forse delle centinaia d'occhi spiano attentamente tutte le nostre mosse. Quindi, volgendosi verso i negri che reggevano il lungo palo a cui era appesa l'amaca, disse loro: - Nel mio padiglione dei bagni! Fate presto! I quattro portatori partirono di corsa e, dopo aver superato una piccola altura, scesero verso la spiaggia larga e sabbiosa, cosparsa d'un numero infinito di gusci d'ostriche e di testuggini. In mezzo ad un gruppo di alberi di cocco e di palme, a circa duecento passi dal mare, si alzava un grazioso padiglione costruito tutto in legno, anche quello di stile moresco, con una graziosa torricella sulla quale sventolava la bandiera di Montelimar, e circondato da un piccolo giardino. Due giovani meticce, udendo le voci dei portatori e della scorta, erano subito uscite per aiutare la marchesa a scendere; il conte di Ventimiglia fu però piú svelto e la trasse giú dall'amaca. - È giunto il mio corriere? - chiese la bella andalusa alle due donne. - Sí, padrona. - Entrate, amici. Io vi precedo. Attraversò il giardinetto e condusse il conte, Buttafuoco ed i due avventurieri in una saletta a pianterreno, adorna di pochi mobili leggeri e graziosi, quasi tutti di bambú, e di molti vasi di terracotta che reggevano enormi mazzi di fiori della passione che spandevano all'intorno un delizioso profumo. La marchesa si sedette dinanzi ad una tavola di acagiú, filettata in argento e scolpita con molto buon gusto, facendo cenno al conte ed ai suoi amici di fare altrettanto, poi, rivolgendosi alle due meticcie che l'avevano seguita, disse loro: - Fate venire il corriere. Un momento dopo un mulatto, alto, molto abbronzato, di forme muscolose e d'aspetto fiero, entrava facendo un profondo inchino. - Hai fatto quanto ti ho detto? - chiese la marchesa. - Sí, padrona. - Hai potuto accostare la fregata senza destare sospetti? - - Sono andato a bordo ad offrire i pesci che avevo pescato stamane. - Hai conferito col luogotenente? - Sí, padrona. - L'hai avvertito del pericolo che corre e che il conte sta per giungere? - Il luogotenente è pronto a tutto e aspetta l'imbarco. Ha preso tutte le sue misure per non lasciarsi sorprendere. - Puoi andare. - Signora, - disse il conte vivamente commosso - io non mi attendevo un simile servigio da parte d'una donna che dovrebbe essere acerrima nemica dei filibustieri. - Difendo e proteggo i miei ospiti! - rispose la marchesa sorridendo. - Nel mio caso voi avreste fatto certamente altrettanto. - Mi sarei fatto uccidere per voi - rispose il conte con un entusiasmo che fece nuovamente sorridere e anche sospirare la bella spagnuola. - Non ne dubito! - rispose la giovane vedova, passandosi una mano sulla fronte. Poi chiese: - Quando vi imbarcherete, conte? - Subito, se fosse possibile. - Ho una scialuppa sulla spiaggia. È a vostra disposizione. D'altronde comprendo la vostra impazienza. Fingete di recarvi alla pesca insieme con i miei negri e al momento opportuno abborderete la fregata. Cercate di non farvi notare dai miei compatrioti. Io sono piú che sicura che veglieranno attentamente, e che nelle foreste del capo Tiburon hanno già collocato delle artiglierie. Si era alzata in preda ad una visibile emozione, e mentre Mendoza, Buttafuoco ed il guascone vuotavano altre tazze di cioccolata, che le due meticce avevano portate, condusse il conte nel giardinetto che circondava la graziosa casetta. - Signor conte, - disse traendolo sotto l'ombra d'una gigantesca palma - non ci vedremo mai piú? La voce della marchesa era cosí alterata, che il signor di Ventimiglia ne fu profondamente colpito. - Io spero, signora, - le rispose - di trovarvi ancora, prima che io lasci il golfo del Messico. Non posso dimenticare una gentildonna alla quale per ben due volte devo la vita. - E quando? - Chi può dirlo, marchesa? Finché non avrò terminato la mia missione non ritornerò a San Domingo. - E dove andrete ora? - A trovare vostro cognato ed i filibustieri che ancora imperano di qua e di là dell'istmo di Panama. La marchesa rimase un momento silenziosa, guardando a terra; poi strappò con molto nervoso un'orchidea e la porse al conte, dicendogli: - Conservatela per mio ricordo. - Quando la morte mi minaccerà, marchesa, questo fiore, datomi da voi, si troverà sul mio cuore - rispose il corsaro. - Sarà per me come un prezioso talismano. La marchesa aveva alzato il capo, e il conte s'avvide subito che gli occhi bruni e profondi della bella andalusa erano umidi. In quel momento comparve Buttafuoco. - Signor conte, - disse - la scialuppa è pronta ed è giunto il momento di separarci. Io ritorno il bucaniere della savana. - Mi lasciate? - chiese il signor di Ventimiglia con doloroso stupore. - Credevo che mi avreste seguito. - Ho laggiú, nella mia povera dimora, il mio arruolato, il quale forse corre gravi pericoli - rispose il cacciatore. - Chissà forse un giorno in qualche città dell'America centrale non ci rivedremo. Come ho combattuto fra i filibustieri di vostro zio, il Corsaro Nero, non mi rincrescerebbe sfidare il fuoco a fianco del nipote. Uscirono dal giardino seguiti da Mendoza, dal guascone e da quattro negri, i quali erano carichi di reti per far credere alle cinquantine spagnuole, probabilmente imboscate, che si recavano a pescare per preparare alla marchesa la cena. Giunti presso il cancello, la bella andalusa si fermò, fissando il conte con gli occhi umidi. - Addio, signore - gli disse, porgendogli la mano. - Io pregherò Iddio che vi preservi dai cannoni e dagli archibugi dei miei compatrioti. Rammentatevi sempre di me, e non dimenticate che se avrete bisogno di una protezione da parte mia, sarò sempre pronta a salvarvi un'altra volta. Il conte, il quale appariva non meno commosso, le baciò galantemente la mano, mentre Buttafuoco si era appoggiato al suo archibugio e incrociava le mani sulla cima della canna. Anch'egli fissava intensamente il conte. - Amico, - gli disse il signor di Ventimiglia, porgendogli la destra - grazie di quanto avete fatto per me ... ed ora ditemi il vostro vero nome. Me l'avete promesso. Una rapida emozione alterò i lineamenti del bucaniere. - A quale scopo? - disse poi, con voce rauca. - L'ho lasciato cadere e per sempre in fondo ai baratri dell'Atlantico, nel momento in cui passavo la linea equatoriale ... Chi si ricorda ormai di me in Francia? Io sono morto per la mia patria ... e anche per mia sorella e per ... Un singhiozzo spense la sua voce, mentre due lacrime scendevano lentamente sulle sue brune gote. - Tutto deve essere finito! - disse poi. - No, signor ... - Barone de Rouvres - disse la marchesa. - Perché tradire il mio segreto, signora? - chiese Buttafuoco. - Io oggi non sono che un miserabile bucaniere; non ho piú il diritto di portare lo stemma della mia casa che ho disonorato. - Per me siete sempre un gentiluomo - disse il signor di Ventimiglia, commosso dall'intenso dolore che traspariva sul suo viso abbronzato. - Qua la mano, Barone de Rouvres. Il bucaniere della savana ebbe un'ultima esitazione, poi con un movimento rapido gliela porse, dicendo: - Quando voi, signor conte, avrete bisogno della vita d'un uomo, ricordatevi che quella del barone de Rouvres è sempre a vostra disposizione. - Non della vostra vita, bensí del vostro braccio e del vostro archibugio avrò bisogno - rispose il conte. - Non sarà questa l'ultima volta che ci siamo incontrati ... Addio, marchesa; addio, barone: vado a compiere la mia impresa. Scese rapidamente la spiaggia e balzò nella scialuppa. I quattro negri avevano subito dato dentro ai remi, mentre Mendoza aveva preso con mano salda la barra del timone. - Verso il capo, prima! - aveva detto il conte. - Cerchiamo d'ingannare gli spagnuoli per non compromettere maggiormente la marchesa, ormai troppo sospettata di proteggerci. Mentre la scialuppa partiva rapida come una freccia, sotto la spinta poderosa degli erculei africani, il conte si era alzato e guardava verso la spiaggia. Presso il cancello del padiglione stava la bellissima andalusa, appoggiata ad un pilastro, tenendo in mano un fazzoletto che di quando in quando agitava in segno di addio; a pochi passi si trovava il bucaniere, con le braccia incrociate ed appoggiate sulla canna del suo archibugio. - Li rivedrò? - si chiese il conte con un sospiro. - Certo, se le palle spagnuole non mi uccideranno. Fece con la destra un rapido saluto, poi si sedette accanto al guascone, il quale stava contando e ricontando i suoi dobloni. - Che cosa fate, don Barrejo? - chiese il conte. - Stavo calcolando quanta aguardiente avrebbero potuto comprare gli spagnuoli se mi avessero ucciso e si fossero impadroniti di questo piccolo tesoro - esclamò serio il guascone. - Al diavolo! esclamò il conte. - No, perché non mi ha voluto e credo che abbia fatto bene, perché i guasconi non si trovano bene nemmeno all'inferno e potrebbero tagliare le code ai figli di Belzebú. Diamine! Siamo gente pericolosa noi! - Ha fatto tre volte bene, - disse Mendoza, prorompendo in una risata, - perché saremo noi a bere quei dobloni. - Oh! Me ne dovete uno, compare, ricordatevelo. - Lo prenderete agli spagnuoli. - Fa lo stesso, - rispose il guascone, sempre serio. Il conte non si occupava più dei due burloni. Ora guardava il padiglione della marchesa che stava per scomparire e dinanzi al quale spiccavano ancora due macchie oscure, ed ora la sua superba fregata che si dondolava graziosamente nella rada, tendendo le catene delle due âncore, come se fosse impaziente di prendere il largo dopo tanto riposo. La scialuppa, giunta presso il capo Tiburon che era coperto di boscaglie, in mezzo alle quali probabilmente stavano sempre nascosti gli spagnuoli in attesa del segnale d'attacco, virò a ponente ed i quattro negri, deposti i remi, gettarono le reti. - Che ci prendano per pescatori autentici? - chiese Mendoza al conte. - Giriamo al largo, capitano, prima che nasca nell'animo degli spagnuoli qualche sospetto e che ci salutino con qualche colpo di cannone. Avete udito la marchesa dire che sospetta vi sia dell'artiglieria nemica nascosta in quelle boscaglie? - Sí - rispose il conte, il quale sembrava un po' inquieto. - Vi è anche altro, Mendoza. - Che cosa, capitano? - Scorgo alcune grosse scialuppe seminascoste fra i paletuvieri della costa. Non possono appartenere a pescatori, perché qui non v'è alcun villaggio. - Ventre di pescecane! - esclamò il lupo di mare. - Che abbiano intenzione d'abbordare la fregata? - Lo temo, Mendoza. - Li ricacceremo in mare! - disse il guascone, il quale non cessava di contare e ricontare i suoi dobloni. - Che il luogotenente si sia già accorto che stanno preparandogli un agguato? - chiese Mendoza. - Il signor Verra è un uomo che non dorme, quando sa di navigare in acque pericolose - rispose il conte. - Scommetterei cento piastre contro una che egli ha già fatto i suoi preparativi per il combattimento. - Quando l'abborderemo la fregata? - Aspettiamo che il sole sia tramontato. Non voglio compromettere maggiormente la marchesa. Peschiamo e fingiamo di non occuparci della mia nave, benché abbia sempre in alto il vessillo spagnuolo. I quattro negri ritiravano in quel momento le reti ben cariche di pesci. La scialuppa riprese poco dopo la corsa sotto la direzione di Mendoza, allontanandosi sempre piú dal capo Tiburon per evitare qualche brutta sorpresa e manovrando in modo da descrivere un ampio semicerchio dinanzi alla prora della fregata. Altre due volte le reti furono gettate e ritirate sempre ben provviste di pesci, poi, cominciando il sole a tuffarsi in mare, la scialuppa si diresse lentamente verso la fregata che aveva già acceso sull'altissimo cassero i suoi due grossi fanali. Mendoza, il quale teneva sempre il timone, la dirigeva in modo da far credere agli spagnuoli che volesse passare al largo della nave per tentare un'ultima pescata, prima di far ritorno al padiglione dei bagni della marchesa di Montelimar. Il figlio del Corsaro Rosso osservava attentamente il veliero che le prime ombre cominciavano ad avvolgere. Una calma assoluta pareva regnare a bordo. Si era udito solo il rullare del tamburo che chiamava gli uomini a cena nel frapponte, poi piú nulla. - Signor conte, - disse il guascone, quando l'ultimo sprazzo di luce scomparve - abbordiamo? - Aspettate un po', impaziente guascone - rispose il signor di Ventimiglia. - Avete tanta fretta di menare le mani? - Non sarei un avventuriero! E poi la mia draghinassa è stanca di rimanere inoperosa. Tutte le mattine mi domanda di sbudellare qualcuno e non trovo mai l'occasione di accontentarla. - Non vi mancheranno, ve l'assicuro. - Sapete che noi guasconi ... - Sí, uccidete sempre, - rispose il conte, con un sorriso un po' ironico. - Non sarei un guascone, diavolo! - disse don Barrejo. - Mendoza! - Capitano? - Punta diritto sulla fregata. Ormai gli spagnuoli non possono piú scorgerci. - Date dentro ai remi, pagani! - gridò il lupo di mare agli africani. L'oscurità era piombata quasi improvvisamente sulla piccola rada, avvolgendo lo specchio d'acqua ed il capo Tiburon. La scialuppa attraversò velocemente la distanza che la separava dalla fregata ed abbordò il legno a bordo, ossia verso l'opposta parte occupata dagli spagnuoli, per non essere colpiti da qualche cannonata, fosse pure sparata a casaccio. Con suo profondo stupore il conte non udí gli uomini di guardia dare l'allarme, quantunque la prora dell'imbarcazione avesse urtato sonoramente il fianco del veliero. - Che cosa fanno i miei uomini? - si chiese aggrottando la fronte. - Si lasciano abbordare senza accorgersene? - Io credo, capitano, che voi abbiate torto di lamentarvi - disse Mendoza. - Sono troppo furbi i vostri marinai. Se sulla nostra barca vi fossero degli spagnuoli, scommetto che a quest'ora le granate scoppierebbero sulle nostre teste come gragnuola. Il signor Verra non è un marinaio da lasciarsi sorprendere. La scala di corda toccava l'acqua, permettendo una facile ascensione. Il conte l'afferrò e si issò fino sul ponte della fregata, gridando: - Si dorme qui? - No, signor di Ventimiglia, anzi si veglia attentamente e vi si aspettava - rispose una voce. Un uomo era improvvisamente apparso dinanzi al conte, smascherando una lanterna che fino allora aveva tenuta coperta con un pezzo di velaccio. Era un bel giovane di non ancora trent'anni, dai lineamenti piuttosto duri, con baffi e barba nerissimi, di statura alta e slanciata. - Voi, luogotenente! - esclamò il conte stupito. - Vi aspettavo da parecchie ore, capitano - rispose il giovane. Vi avevo già veduto col cannocchiale e mi ero immaginato che non avreste tardato a raggiungere la vostra nave. E poi ero stato avvertito dal pescatore d'una certa marchesa di Montelimar che eravate già giunto nei dintorni del capo Tiburon e anche che gli spagnuoli ci hanno preparato un agguato. - Ed è purtroppo vero, signor Verra! - rispose il conte. - Aspettano che noi salpiamo le âncore per darci addosso attraverso il Capo. - E noi siamo pronti a riceverli! - rispose il luogotenente. - I vostri uomini sono tutti ai loro posti di combattimento e le artiglierie non chiedono che di sparare. - Bene! - disse il conte. - È uscito nessun galeone da San Domingo? - Ne è passato uno dinanzi a noi, quattro o cinque ore or sono. Martin mi ha assicurato che doveva essere la Santa Maria. - Dove andava? - Verso ponente. - Sapremo raggiungerla. Sono troppo pesanti quei galeoni per competere con le fregate e soprattutto con la nostra. Prima di domani mattina noi l'abborderemo e avremo nelle nostre mani il segretario dell'ex governatore di Maracaibo. - Devo far salpare le âncore e spingere le vele, conte? - Un momento ancora, luogotenente - rispose il signor di Ventimiglia, il quale rispondeva a scatti. Si curvò sulla murata e gridò ai negri della scialuppa: - Tornate subito al padiglione dei bagni, se vi preme la vita. Portate alla marchesa vostra padrona e al bucaniere i miei ultimi saluti ... Martin! Il meticcio, che stava seduto su un barile chiacchierando con Mendoza e col terribile guascone, fu pronto ad accorrere. - La mia divisa rossa - disse il conte. - Il figlio del Corsaro Rosso non si batte sotto le vesti d'un pescatore. La mia spada di combattimento e la mia corazza. Signor Verra, fate spiegare le vele e date ordine agli artiglieri di non fare risparmio di mitraglia. Vedremo se sapranno arrestarmi attraverso il capo Tiburon e se la Santa Maria riuscirà a fuggire alla nostra caccia. Fate presto! Mentre il fischietto di Mendoza chiamava i marinai agli argani per salpare le âncore ed i gabbieri per spiegare completamente le vele, ed il luogotenente dava le ultime disposizioni per il combattimento imminente, il corsaro scese nel quadro di poppa seguito dal guascone e da Martin. Quando ricomparve era tutto vestito di rosso, come era comparso negli splendidi saloni della marchesa di Montelimar, con una nuova spada al fianco e le pistole di grosso calibro alla cintola. Salí sul ponte di comando, situato sul davanti dell'altissimo quadro, ed imboccato il portavoce, gridò: - Alla vela! Tutti al posto di combattimento! Il figlio e nipote dei tre grandi corsari vi guida e vi guarda!

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 8 occorrenze

Che da un momento all'altro abbiano imparato a fabbricarle? Quel pellegrino ha insegnato loro a compiere delle vere meraviglie! - Capitano Yanez, - disse Sambigliong. - La Marianna va di traverso. Devo far gettare un ancorotto? Il portoghese si volse guardando il veliero, il quale, non potendo avanzare, non obbediva più all'azione del timone e cominciava a virare sul tribordo, indietreggiando lentamente. - Cala un ancorotto da pennello e prepara la scialuppa, - disse al mastro. - È necessario tagliare quella catena. Il ferro fu rapidamente affondato, filando pochi metri di catena, non essendo molto profondo il fiume in quel luogo e la Marianna arrestò la sua marcia indietro, raddrizzandosi quasi subito colla prora alla corrente. La medesima voce di prima, più minacciosa, s'alzò fra le piante, ripetendo l'intimazione: - Arrendetevi o vi stermineremo tutti. - Per Giove! - esclamò Yanez. - Mi ero scordato di rispondere a quell'uomo! Fece colle mani porta-voce, gridando: - Se vuoi la mia nave vieni a prenderla: ti avverto solo che abbiamo abbondanza di polvere e di piombo. Ed ora non seccarmi più, che ho altro da fare in questo momento. - Il pellegrino della Mecca ti punirà. - Va' ad appiccarti insieme al tuo Maometto. Ti troverai bene in sua compagnia. Sambigliong, fa' calare la scialuppa e manda sei uomini a tagliare la catena: attenzione agli artiglieri di babordo e proteggete chi scende. La più piccola delle due imbarcazioni fu messa rapidamente in acqua, e sei malesi, armati di pesanti scuri e di fucili, si calarono dentro. - Picchiate sodo e fate presto soprattutto! - gridò loro il portoghese. Poi salì sulla murata, aggrappandosi ad un paterazzo e guardò attentamente verso la riva, su cui era echeggiata la voce del misterioso pellegrino. Attraverso la foresta scorse ancora passare dei punti luminosi, che si allontanavano con fantastica velocità. - Che cosa preparano quei furfanti? - si chiese, non senza un po' di preoccupazione. - Signor Yanez, - disse Tangusa, che aveva lasciato il timone, essendo diventato pel momento inutile. - Ho scorto dei fuochi anche sulla riva destra. - Che siano dayaki che radunano delle altre noci di cocco? È un bel po' che vediamo passare quelle luci. Ad un tratto mandò una sorda imprecazione. Trenta o quaranta lingue di fuoco si erano improvvisamente alzate fra i cespugli delle due rive, rompendo l'oscurità fittissima che regnava sotto gli alberi. - Mettono fuoco alle foreste! - gridò. - Miserabili! - E quello che è peggio, signore, - aggiunse il meticcio, con voce alterata dallo spavento, - tutti questi alberi sono avvolti da giunta wan satura di caucciù. - Pra-la! - gridò il portoghese, rivolgendosi all'uomo che comandava la scialuppa. - Potete resistere da soli? - Abbiamo le nostre carabine, signor Yanez. - Affrettatevi più che potete, poi raggiungeteci. Sambigliong, fa' salpare l'ancorotto. - Ridiscendiamo il fiume, capitano? - chiese il mastro. - Ed in fretta, mio caro. Non ho alcun desiderio di farmi arrostire vivo. Lesti Tigrotti. Tutto alla banda il timone, Tangusa! In un baleno il ferro fu strappato dal fondo e la Marianna, che aveva in quel momento il vento a mezza-nave, virò rapidamente di bordo, lasciandosi trasportare dalla corrente. Una dozzina d'uomini, muniti di lunghi remi, aiutavano l'azione del timone, che diventava poco efficace avendo l'acqua a seconda. I sei marinai della scialuppa, quantunque privi della protezione dei loro compagni, non avevano abbandonata la catena e continuavano a tempestarla di colpi furiosi non accennando i grossi anelli a cedere tanto facilmente. Intanto l'incendio avvampava con rapidità spaventevole e nuove lingue di fuoco s'alzavano qua e là, per propagarlo su una più vasta estensione. Le fiamme trovavano un ottimo elemento nelle giunta wan (urceola elastica), quelle grosse piante rampicanti dalle quali i malesi traggono una sostanza vischiosa, di cui si servono per prendere gli uccelli, nei gambir, nei colossali alberi della canfora e nelle piante gommifere che sono numerose in tutte le foreste del Borneo. Tutte quelle piante crepitavano, come se contenessero nelle loro fibre delle cartuccie di fucile o detonavano e dai loro squarci lasciavano colare la linfa più o meno satura di resina, la quale a sua volta prendeva fuoco allargando sempre più l'incendio. Una luce intensa era successa alle tenebre, mentre miriadi di scintille s'alzavano a grande altezza volteggiando fra turbini di fumo. La Marianna scendeva precipitosamente, aiutata dai remi per sottrarsi a quell'incendio, che si propagava ormai anche alle piante prossime alle due rive, ma non aveva percorso che cinquecento passi, quando un urto avvenne a prora, che si ripercosse in tutte le parti della carena. Urla furiose erano scoppiate sul castello di prora, dove eransi radunati la maggior parte dei malesi, temendo che da un momento all'altro comparissero le scialuppe e i pontoni dei dayaki. - Siamo presi! - Ci hanno tagliata la ritirata! Yanez era accorso, immaginandosi che cos'era accaduto. - Un'altra catena? - chiese, respingendo i suoi uomini per farsi largo. - Sì, capitano. - Allora l'hanno tesa pochi minuti fa. - Così deve essere, - disse Tangusa, che appariva esterrefatto. - Signor Yanez, non ci rimane che di prendere terra mentre l'incendio non è ancora attaccato dovunque. - Lasciare la Marianna! - esclamò il portoghese. - Oh mai! Sarebbe la fine di tutti, anche di Tremal-Naik e di Darma. - Devo mettere in acqua l'altra scialuppa? - chiese Sambigliong. Yanez non rispose. Ritto sulla prora, colle mani strette sulla scotta della trinchettina, la sigaretta spenta e compressa fra le labbra, guardava l'incendio che s'allargava sempre più. Anche verso il basso corso del fiume delle vampe cominciavano ad alzarsi. Fra poco la Marianna doveva trovarsi in mezzo ad un mare di fuoco e, siccome gli alberi quasi riunivano i loro rami sopra il fiume, l'equipaggio correva il pericolo di vedersi rovesciare addosso una pioggia di tizzoni ardenti e di cenere calda. - Capitano, - ripetè Sambigliong, - devo mettere in acqua la seconda scialuppa? Noi corriamo il pericolo di perdere la Marianna, se non fuggiamo. - Fuggire! E dove? - chiese Yanez, con voce pacata. - Abbiamo il fuoco dinanzi e di dietro e anche spezzando le catene la nostra situazione non migliorerebbe. - Ci lasceremo dunque arrostire, signor Yanez? - Non siamo ancora cucinati, - rispose il portoghese, colla sua calma meravigliosa. - Le tigri di Mompracem sono costolette un po' dure. Poi, cambiando bruscamente tono, gridò: - Stendete la tela sul ponte, abbassate le vele sui ferri di sostegno. In acqua le maniche delle pompe e affondate le àncore. Gli artiglieri a posto! L'equipaggio che attendeva con angoscia qualche decisione, in pochi momenti issò i ferri di sostegno e ammainò le due immense vele. La Marianna, come tutti gli yacht che intraprendono dei viaggi nelle regioni estremamente calde, era fornita d'una tela per riparare il ponte dagli ardenti raggi solari e dei relativi sostegni. In un baleno fu stesa all'altezza delle bome e le due vele vi furono gettate sopra, lasciando cadere i margini lungo le murate, in modo da coprire interamente la piccola nave. - Manovrate le pompe e inaffiate, - comandò Yanez, quando l'ordine fu eseguito. Riaccese poscia la sigaretta e si spinse verso la prora, mentre torrenti d'acqua venivano lanciati contro la tela inzuppandola completamente. Gli uomini incaricati di spezzare la catena, tornavano in quel momento a bordo, arrancando disperatamente. Sopra di loro fiammeggiavano i rami degli alberi, coprendoli di scintille. - Giungono a tempo, - mormorò il portoghese. - Che spettacolo magnifico! Che peccato non poterlo vedere un po' da lontano! Lo ammirerei meglio! Una vera tromba di fuoco si rovesciava sul fiume. Gli alberi delle due rive, composti per la maggior parte di piante gommifere, ardevano come zolfanelli, lanciando dovunque mostruose lingue di fuoco e turbini di fumo denso e pesante. I tronchi, carbonizzati, rovinavano al suolo, facendo crollare le piante vicine a cui erano collegati da piante parassite e gambir e spandendo torrenti di caucciù ardente. Alberi della canfora enormi, casuarine, sagu, arenghe saccarifere, dammar saturi di resina, banani, cocchi e durion fiammeggiavano come torce colossali, contorcendosi e tuonando; poi s'abbattevano, rovesciandosi nel fiume con fischi assordanti. L'aria diventava irrespirabile e le tende e le vele che coprivano la Marianna fumavano e si contraevano, nonostante i continui getti d'acqua che le innaffiavano. Il calore era diventato così intenso che i Tigrotti di Mompracem, malgrado la protezione delle vele, si sentivano mancare. Immense nuvole di fumo e nembi di scintille, che il vento spingeva, si cacciavano entro lo spazio racchiuso fra il ponte e le tele, avvolgendo gli uomini terrorizzati, mentre dall'alto cadevano senza interruzione rami fiammeggianti, che le pompe penavano a spegnere, quantunque energicamente manovrate. Una cupola di fuoco avvolgeva ogni cosa: la nave, le rive ed il fiume. I malesi ed i dayaki che formavano l'equipaggio, guardavano con spavento quelle cortine fiammeggianti, che non accennavano a scemare, chiedendosi angosciosamente se stava per suonare per loro l'ultima ora. Solo Yanez, l'uomo eternamente impassibile, pareva che non si occupasse affatto del tremendo pericolo che minacciava la Marianna. Seduto sull'affusto di uno dei due pezzi da caccia, fumava placidamente la sua sigaretta, come se fosse insensibile a quel calore spaventevole che cucinava i suoi uomini. - Signore! - gridò il meticcio, accorrendo presso di lui, col viso smorto e gli occhi dilatati pel terrore, - noi ci arrostiamo. Yanez alzò le spalle. - Non posso fare nulla io, - rispose poi, colla sua calma abituale. - L'aria diventa irrespirabile. - Accontentati di quella poca che scende nei tuoi polmoni. - Fuggiamo, signore. I nostri uomini hanno spezzata la catena che ci chiudeva il passo verso l'alto corso. - Lassù non farà più fresco di qui, mio caro. - Dovremo perire così? - Se così è scritto, - rispose Yanez, senza togliersi dalle labbra la sigaretta. Si rovesciò sull'affusto come se fosse su una comoda poltrona, aggiungendo dopo qualche istante: - Bah! Aspettiamo! Ad un tratto alcune scariche di fucili rimbombarono sul fiume, accompagnate da clamori assordanti. Yanez si era alzato. - Come diventano noiosi questi dayaki! - esclamò. Attraversò il ponte, senza curarsi dei torrenti d'acqua che gli cadevano addosso e, alzato un lembo dell'immensa tenda, guardò verso la riva. Attraverso le cortine di fuoco scorse degli uomini che parevano demoni, correre fra le ondate di fumo, sparando contro il veliero. Pareva che quei terribili selvaggi fossero insensibili, come le salamandre, perchè osavano, quantunque quasi nudi, cacciarsi fra le fiamme per sparare più da vicino. Yanez si era fatto torvo in viso. Una bella collera bianca si manifestava in quell'uomo, che pareva avesse dell'acqua agghiacciata nelle vene e che potesse gareggiare coi più flemmatici anglo-sassoni delle razze nordiche. - Ah! Miserabili! - gridò. - Nemmeno in mezzo al fuoco volete lasciarci un momento di tregua! Sambigliong, Tigrotti di Mompracem, bordate senza misericordia quei demoni! Fu un po' rialzata la tenda, le quattro spingarde furono riunite sul tribordo, e mentre l'incendio avvampava più che mai, divorando gli enormi vegetali, la mitraglia cominciò a fischiare attraverso le cortine di fuoco, tempestando i selvaggi con uragani di chiodi e di frammenti di ferro. Bastarono sette od otto scariche per decidere quei bricconi a mostrare i talloni. Parecchi erano caduti e arrostivano in mezzo alle erbe ed i cespugli crepitanti, continuando il fuoco a dilatarsi. - Potesse essere caduto anche il pellegrino! - mormorò Yanez. - Quel furbone si sarà purtroppo ben guardato dall'esporsi ai nostri tiri. Chiamò il malese che aveva guidata la scialuppa, che era tornata a bordo nel momento in cui gli alberi costeggianti il fiume prendevano pure fuoco. - L'hai spezzata la catena? - gli chiese. - Sì, capitano Yanez. - Sicchè il passo è libero. - Completamente. - Il fuoco scema verso l'alto corso del fiume, mentre tende ad aumentare verso il basso, - mormorò Yanez. - Sarebbe meglio andarcene, prima che quei birboni possano tendere altre catene o che le loro scialuppe giungano qui. Checchè debba succedere, partiamo. La volta di verzura che copriva in quel luogo il fiume, era stata distrutta dall'uragano di fuoco che l'aveva investita, e sulle due rive più non rimanevano in piedi che pochi enormi tronchi di alberi della canfora, semi-carbonizzati e qualche tronco di durion che fiammeggiava ancora come una immensa torcia. Il fuoco invece avvampava terribile verso ponente, dove le foreste erano fino allora rimaste intatte, ossia dietro la Marianna. Il pericolo quindi che il veliero s'incendiasse, era ormai evitato. - Approfittiamo, - disse Yanez. - L'aria comincia a diventare un po' più respirabile e la brezza è sempre favorevole. Fece togliere l'immensa tela che grondava acqua, poi fece levare e quindi inferire le vele ai pennoni. Quelle manovre furono compiute rapidamente, fra una vera pioggia di cenere che la brezza avventava contro il veliero, accecando e facendo tossire gli uomini. Regnava ancora un caldo infernale sul fiume, essendo le due rive coperte da un altissimo strato di carboni ancora ardenti, tuttavia non vi era più pericolo di morire asfissiati. Alle quattro del mattino le àncore furono issate e la Marianna riprese la navigazione con notevole velocità, senza essere stata disturbata. I dayaki, che dovevano aver subite delle perdite crudeli, non si erano più fatti vedere. Forse l'incendio, che aumentava sempre verso ponente, li aveva obbligati ad una precipitosa ritirata. - Non si scorgono più, - disse Yanez al meticcio, che osservava le due rive sulle quali ondeggiavano ancora dense colonne di fumo e nembi di scintille. - Se ci lasciassero tranquilli almeno fino a che possiamo raggiungere l'imbarcadero! Che non abbiano capito che noi siamo persone risolute a difendere estremamente la pelle? Dopo le due lezioni ricevute, dovrebbero essersi persuasi che non siamo gallette pei loro denti. - Hanno capito, signor Yanez, che noi accorriamo in aiuto del mio padrone. - Eppure nessuno glielo ha detto. - Io scommetto che lo sapevano, prima ancora del vostro arrivo. Qualche servo ha tradito il segreto o ha uditi gli ordini dati da Tremal-Naik all'uomo che vi fu mandato. - Che sia così? - Quel malese che voi avete raccolto e che si offerse come pilota devono averlo mandato essi incontro alla Marianna. - Per Giove! Non mi ricordavo più di quel furfante! - esclamò Yanez. - Giacchè i dayaki ci lasciano un po' di tregua e l'incendio si spegne più in su, potremmo occuparci un po' di lui. Chissà che riusciamo a strappargli qualche preziosa informazione su quel misterioso pellegrino. - Se parlerà! - Se si ostinerà a rimaner muto, m'incarico io di fargli passare un brutto quarto d'ora. Vieni, Tangusa. - Raccomandò a Sambigliong di mantenere gli uomini ai loro posti di combattimento, temendo sempre qualche nuova sorpresa da parte di quegli ostinati nemici e scese nel quadro, dove la lampada bruciava ancora. In una cabina attigua al salotto, su un tettuccio, giaceva il pilota, sempre immerso nel sonno profondo, procurategli dalle compressioni energiche di Sambigliong. Un sonno regolare veramente non lo era. Il respiro era leggerissimo, tanto che si avrebbe potuto scambiare il malese per un vero morto, essendo anche la sua tinta diventata quasi grigiastra, come quando gli uomini di colore diventano pallidi. Yanez, che era stato istruito da Sambigliong, strofinò violentemente le tempie ed il petto dell'addormentato, poi gli alzò le braccia ripiegandole all'indietro più che potè onde dilatargli i polmoni, eseguendo quel movimento parecchie volte. Alla nona o alla decima mossa il malese aprì finalmente gli occhi, fissandoli sul portoghese con un lampo di terrore. - Come stai, amico? - gli chiese Yanez con accento un po' ironico. - Mentre noi combattevamo contro i tuoi alleati, tu dormivi saporitamente. Diventano poltroni i malesi. Il pilota continuava a guardarlo senza rispondere, passandosi e ripassandosi una mano sulla fronte che s'imperlava di sudore. Pareva che cercasse di riordinare le sue idee e di mano in mano che la memoria gli ritornava, la sua pelle diventava sempre più smorta ed una espressione angosciosa gli si diffondeva sul viso. - Orsù, - disse Yanez, - quand'è che ci farai udire la tua voce? - Che cosa è avvenuto, signore? - chiese finalmente Padada. - Non riesco a spiegarmi come io mi sia addormentato di colpo, dopo la stretta datami dal vostro mastro. - È cosa tanto poco interessante che non vale la pena che io te la spieghi, - rispose Yanez. - Tu invece dovresti darmi qualche spiegazione che mi premerebbe. - Quale? - Sapere chi è che ti ha mandato verso di noi per far arenare la mia nave sui banchi. - Vi giuro, signore ... - Lascia andare i giuramenti: già non credo a quelle cose io, mio caro. È inutile che tu ti ostini a negare: ti sei tradito e ti tengo in mia mano. Chi ti ha pagato per rovinare la mia nave? Tu stavi per incendiarla. - È una vostra supposizione, - balbettò il malese. - Basta, - disse Yanez. - Vuoi farmi perdere la pazienza? Voglio sapere chi è quel maledetto pellegrino che ha messo in armi i dayaki e che domanda la testa di Tremal-Naik. - Voi potete uccidermi, signore, ma non obbligarmi a dire delle cose ch'io ignoro. - Sicchè tu affermi? - Ch'io non ho mai veduto alcun pellegrino. - E che anche non hai mai avuto rapporti coi dayaki che mi hanno assalito? - Non mi sono mai occupato di costoro, signore, ve lo giuro su Vairang kidul2 (La regina del sud). Io stavo seguendo la costa per visitare le caverne, entro le quali le rondini salangane costruiscono i loro nidi, avendo ricevuto l'incarico di fornirne ad un cinese che ne abbisognava, quando un colpo di vento mi trasportò al largo trascinandomi, assieme al canotto, verso ponente. Vi ho incontrati per un caso. - Perchè sei pallido allora? - Signore, mi avete sottoposto ad una compressione tale che credevo mi si volesse strozzare e non mi sono ancora rimesso dall'impressione provata, - rispose il pilota. - Tu menti come un ragazzo, - disse Yanez. - Non vuoi confessare? Sta bene: vedremo se resisterai. - Che cosa volete fare, signore? - chiese il miserabile con voce tremante. - Tangusa, - disse Yanez, volgendosi verso il meticcio. - Lega le mani a questo traditore, poi conducilo in coperta. Se cerca di resistere bruciagli le cervella. - La mia pistola è carica, - rispose l'intendente di Tremal-Naik. Yanez uscì dal quadro e salì sul ponte, mentre il meticcio metteva in esecuzione l'ordine ricevuto, senza che il malese avesse osato ribellarsi.

. - No, è impossibile che abbiano potuto vincere in così breve tempo Sandokan. Ha uomini di ferro e navi e cannoni e batterie formidabili. Le sole forze di Labuan non sarebbero sufficienti per una tale impresa. Fra un'ora sapremo che cosa sarà avvenuto. Si era messo, come era sua abitudine, quando un pensiero lo tormentava, a passeggiare pel castello, colle mani affondate nella tasca e la sigaretta spenta fra le labbra. Passarono quindici o venti minuti. Solo diciotto o venti miglia separavano la Nebraska da Mompracem. Ad un tratto, verso ponente, si udì un rombo lontano, che si propagò sul mare rumoreggiando sinistramente. Yanez aveva interrotta bruscamente la sua passeggiata, mentre l'americano scendeva precipitosamente la plancia di comando. - Un colpo di cannone! - aveva esclamato Yanez. - E viene da Mompracem, signor de Gomera, - disse l'americano, salendo il castello. - Il vento ci soffia di fronte. - Che gli inglesi abbiano assalito l'isola? - Ma ci siamo noi e vi mostrerò la potenza delle nostre artiglierie. Uomini di macchina! A tiraggio forzato e caricate le valvole più che potete. Uomini dei pezzi! Ai vostri posti! Una seconda detonazione rimbombò in quel momento, più distinta della prima, seguìta dopo qualche po' da una serie non interrotta di spari più o meno sonori. Non ci si poteva ingannare. All'orizzonte, in direzione di Mompracem, si combatteva un'aspra battaglia. Yanez e l'americano si erano slanciati sul ponte di comando, mentre gli artiglieri caricavano frettolosamente i pezzi della coperta e delle batterie e si raddoppiava il personale di macchina. - Siamo pronti? - chiese Brien all'ufficiale di quarto che aveva ispezionati rapidamente tutti i pezzi. - Sì, comandante. - Doppia riserva al timone ed in coperta la guardia franca. Le detonazioni continuavano con un fragore crescente. Si udivano quelle secche dei piccoli pezzi e quelle poderose e più prolungate delle artiglierie di grosso calibro. Yanez, un po' pallido per l'emozione, ma calmo, aveva puntato un cannocchiale verso ponente, mentre la nave correva come una rondine marina, lasciandosi dietro una interminabile scia spumeggiante. - Fumo all'orizzonte! - gridò ad un tratto il portoghese. - Vi sono delle navi a vapore laggiù. Sono navi inglesi, non ne dubito. Presto! Presto! - Corriamo il pericolo di saltare, signor de Gomera. Non possiamo forzare di più le caldaie. Un fumo biancastro, che la luce lunare mostrava perfettamente, si alzava verso Mompracem. I colpi spesseggiavano. Si combatteva furiosamente in quella direzione. Poi cominciarono a scorgersi i lampi delle artiglierie. Avvampavano su una vasta zona, come se un gran numero di navi combattessero. - I nostri prahos! - urlò d'improvviso Yanez, staccando dall'occhio il cannocchiale. - La Tigre della Malesia s'allontana al nord. Maledetti! Ancora una volta gli inglesi ci hanno vinti! L'americano gli aveva strappato di mano il cannocchiale. - Sì, i prahos - disse poi, - e cannoneggiati da cannoniere. Veleggiano al nord. - Cannonieri! - gridò Yanez. - Pronti pel fuoco di bordata! Massacrate quelle navi! Il Nebraska si avanzava rapido, in modo da frapporsi fra i velieri che fuggivano sempre sparando, colla Marianna di Sandokan in coda che avvampava come un vulcano e le piccole navi a vapore che li perseguitavano con scariche formidabili. - Eccoci in pieno ballo, - disse l'americano. - Giovanotti! Fuoco di bordata!

. - Che gli isolani ci abbiano veduti ad approdare? - È probabile. - Non avete pensato che potrebbero venire a farvi prigioniero per vendicarsi del carbone che avete loro preso? - Per Giove! - esclamò il portoghese. - Mi mettete addosso delle inquietudini, sir Moreland. Dovreste anzi chiamarli nella vostra qualità di suddito inglese e farmi arrestare. Sareste nel vostro diritto, essendo noi vostri nemici. L'anglo-indiano lo guardò senza rispondere, poi dopo qualche po' disse, quasi seccamente: - Non lo farò, signor Yanez. Oggi devo a voi della riconoscenza, che mi pesa assai forse, ma che io non debbo per ora dimenticare. - Un altro al vostro posto non si lascerebbe forse sfuggire una simile occasione. - Che avrebbe uno scarso successo, perchè il Re del Mare non tarderebbe a liberarvi o a vendicarvi. - Su ciò non dubito, - rispose il portoghese, ridendo. - Orsù, lasciamo questo discorso e cercate di riposarvi. Siete molto più stanchi di me e la notte sarà lunga. Darma e l'anglo-indiano ne avevano proprio bisogno, ed infatti nonostante i muggiti del mare e gli scrosci formidabili dei tuoni, non tardarono ad abbandonarsi sullo strato d'alghe. Yanez, più robusto e più abituato alle lunghe veglie, rimase di guardia. Di quando in quando anzi si alzava e, noncurante dei rovesci d'acqua e dei nembi di spuma che le onde avventavano contro la roccia, si spingeva fino sulla spiaggia per guardare il mare. Sperava certo di veder scintillare fra le tenebre i fanali del Re del Mare, speranza vana, però, poichè nessun punto luminoso appariva fra quel caos di flutti muggenti. L'orizzonte, quando i lampi non lo illuminavano, era sempre tenebroso, come se masse di catrame liquido calassero dalle nubi. Verso l'alba parve che la bufera accennasse ad allontanarsi verso l'est, ossia nella direzione presa dall'incrociatore. Il vento era scemato, quantunque lo si udisse a ruggire sempre sulla vetta del gigantesco scoglio. Anche le onde cominciavano un po' a spianarsi e non battevano più lo scoglio colla furia di prima. Yanez, credendo che Darma e l'anglo-indiano dormissero ancora, lasciò il rifugio per cercare la colazione. - Ci accontenteremo delle uova degli uccelli marini, - si era detto. - Dopo tutto non sono così cattive come si crede. Avendo scorto su una specie di piattaforma che si protendeva a quaranta metri d'altezza, numerosi uccellacci a nidificare, il portoghese cominciò a superare gli scaglioni e le piattaforme che da quella parte rendevano accessibile, almeno fino ad una certa altezza, il colossale scoglio. Si era già innalzato di una quindicina di metri, quando giunsero improvvisamente ai suoi orecchi delle grida. Yanez, assai inquieto, si era vivamente voltato tenendosi stretto alla punta d'una roccia. Una scialuppa dai fianchi larghissimi, entrava in quel momento nella minuscola rada, manovrata da una mezza dozzina di isolani. - Per Giove! - esclamò, lasciandosi scivolare rapidamente giù dalla roccia. - Ecco i nostri affari guastati! Che mi facciano pagare il carbone con qualche oncia di piombo nella testa? Giunto al piano si precipitò verso il rifugio, gridando: - In piedi, sir Moreland! - È giunto il Re del Mare? - chiesero ad una voce il capitano e Darma. - È giunto ben altro! - rispose Yanez. - Sono gli isolani che stanno per approdare. - Vi hanno veduto? - chiese sir Moreland. - Lo temo, trovandomi poco fa sulle roccie. - Dove sono? - chiese Darma. - Stanno girando le scogliere e fra poco saranno qui. - Che ci facciano prigionieri? - È probabile, - rispose l'anglo-indiano, mentre nei suoi sguardi brillava un lampo strano. - Vado a spiarli, - disse Yanez, gettandosi fra le dune di sabbia. - sir Moreland, - disse Darma, quando furon soli, vedendolo pensieroso. - Che quegli isolani si vendichino contro il signor Yanez? - Non ho alcun dubbio. Gli faranno pagare caro il carbone. - Voi che indossate la divisa britannica, potete salvarlo. - Io! - fece l'anglo-indiano, come stupito da quelle parole. - Non vi opporrete al suo arresto? Sir Moreland guardò Darma incrociando le braccia. La sua fronte si era annuvolata ed il suo viso aveva assunto una espressione dura, quasi selvaggia, mentre nei suoi occhi balenava una cupa fiamma. - Non lo farete, sir Moreland? - ripetè la fanciulla. - Non dimenticate che quell'uomo vi ha strappato alla morte e che vi ha trattato non come un nemico, bensì come ospite. Il capitano continuava a tacere. Pareva che nel suo cuore si combattesse un'aspra battaglia, dalle diverse espressioni del suo volto. - È un mio avversario, - disse poi con voce sorda. - sir Moreland! Non fatemi perdere la stima che nutro per voi. Anch'io al signor Yanez devo la vita mia e quella di mio padre. L'anglo-indiano aveva fatto un gesto come di collera, che subito represse. - Sia, - disse poi, - così non gli dovrò più nessuna riconoscenza. Poi uscì dal rifugio, in preda ad una viva agitazione, mormorando con accento tetro: - Saprò un giorno ritrovarlo. Gli uomini della scialuppa erano in quel momento sbarcati, dopo essersi armati di fucili. Erano tutti bianchi e fra di loro vi era uno dei consiglieri del governatore. Un uomo che doveva già aver scorto Yanez, aveva superata la duna, dietro la quale cercava di nascondersi il portoghese, gridando con voce minacciosa: - È inutile che ti nascondi, ladrone di mare! Mostrati! Il portoghese non si era fatto ripetere l'invito e si era alzato, dicendo con voce beffarda: - Buon giorno, signore, e grazie della vostra visita mattutina. - Avete un bel fegato, ladrone, - disse l'isolano. - Non siete voi uno di quelli che ci hanno portato via il carbone? - Un ladrone! Del carbone! - esclamò il portoghese. - Che cosa volete dire? Io non vi capisco. - Non facevate parte dell'equipaggio di quella nave di pirati? - Quali pirati! Io sono un naufrago, che non ho mai derubato nessuno. Sono un galantuomo io. - No, devi essere uno di quei ladroni! Una voce che pareva piena d'indignazione, si levò in quel momento dietro le dune. Era sir Moreland che giungeva a passo di corsa. - È a noi che date dei ladroni? - gridò. - Chi siete voi che osate offendere un capitano della flotta anglo-indiana e del rajah di Sarawak? L'isolano vedendo comparire quel nuovo personaggio che indossava la divisa di comandante, quantunque fosse ridotta in pessimo stato dopo il bagno fra le onde oleose, era rimasto muto. - Che cosa volete voi? Perchè minacciate? - chiese l'anglo-indiano affettando una superba collera. - Un capitano inglese! - aveva esclamato finalmente l'isolano. - Come va questa faccenda? Fece portavoce colle mani e volgendosi verso la spiaggia, si mise a gridare: - Ohe! Camerati! Venite! Altri cinque uomini, egualmente armati di vecchi fucili ad avancarica, avevano raggiunte le dune, prendendo un'attitudine minacciosa. Vedendo però sir Moreland, avevano subito abbassato le armi, levandosi i cappellacci di tela cerata. - Capitano, - riprese il capo. - Quando siete approdato? - Ieri sera assieme a mia sorella e a questo mio compagno. Siamo sfuggiti ad un tremendo naufragio, - disse sir Moreland. - Vi condurremo a Mangalum e vi offriremo larga ospitalità. D'altronde non rimarrete a lungo fra noi. - Deve approdare qualche nave? - Un piccolo legno da guerra che ci parve inglese, è stato segnalato sulle coste settentrionali dell'isola. L'uragano, però scoppiato subito dopo la partenza dei pirati, deve averlo respinto al largo. - Quando l'avete veduto? - Ieri sera, un po' prima del tramonto. Sarebbe il vostro? - No, perchè il mio è affondato a quaranta miglia da qui, parecchie ore prima che giungesse l'altro. - Davate la caccia al corsaro? - Lo cercavo. - Che disgrazia! Se foste giunto prima ... Quei ladroni non avrebbero osato importunarci. - Li riprenderemo più tardi. - Ma ... scusate capitano, voi dite che quest'uomo è vostro amico? - È vero, - disse sir Moreland. - Si è salvato insieme a me e a mia sorella. - Eppure somiglia ad uno di quei ladroni. - Quest'uomo è un onesto negoziante di Labuan. - Ah! - fece il capo della scialuppa. Darma in quel frattempo era giunta. Gli isolani, vedendola, la salutarono cortesemente e l'aiutarono ad imbarcarsi. Yanez che era rimasto impassibile, si era accomodato a prora tentando di accendere, senza riuscirvi, una delle sue sigarette. Era però una tranquillità fittizia, anzi era molto preoccupato dall'imminente arrivo di quella piccola nave da guerra annunciata dall'isolano. - Gli affari s'imbrogliano, - mormorava. - Quest'anglo-indiano si riprenderà senza dubbio la rivincita, conducendomi prigioniero su quella nave, se non mi accade di peggio. Questi isolani mi guardano con certi occhi! Dubito che abbiano bevuto la storiella di sir Moreland. La scialuppa si era frattanto scostata dalla spiaggia. Quattro uomini avevano presi i remi, il quinto si era messo a prora accanto a Yanez ed il capo alla barra del timone. Era quest'ultimo un bel vecchio molto barbuto e molto abbronzato, che ricordava a Yanez uno dei quattro consiglieri del governatore. Forse non s'ingannava, perchè l'isolano di quando in quando fissava i suoi occhi azzurri sul portoghese e con vera ostinazione. Nondimeno non aveva, almeno fino allora, manifestata apertamente alcuna diffidenza, nemmeno verso Darma, anzi le aveva offerto il posto d'onore a poppa e le aveva messa sulle spalle la sua casacca di tela cerata, onde difenderla dagli spruzzi delle onde. Fuori del bacino, il mare era ancora agitato. Frequenti cavalloni sollevavano bruscamente la scialuppa, scrollandola brutalmente e precipitandola improvvisamente in profondi avvallamenti. I rematori, però, tutti robustissimi e abituati a quelle lotte che durano quasi eterne intorno a quelle isole, sempre battute dai cavalloni e dai venti impetuosi del sud, lottavano vigorosamente, senza sgomentarsi per l'impeto dei marosi. Giunti al largo, fuori dalle scogliere, issarono una piccola vela triangolare e la scialuppa, meglio equilibrata, si mise a filare con velocità notevole verso Mangalum già non troppo lontana. Durante il viaggio, gli isolani non avevano pronunciata una sola parola. Di frequente però il capo guardava di sottecchi i tre pretesi naufraghi, fermando sempre lo sguardo su Yanez. La traversata fu compiuta felicemente, quantunque verso Mangalum le onde si mostrassero più violente che altrove, e dopo il mezzodì la scialuppa approdava all'estremità della piccola baia. - Scendete, - disse il capo, aiutando Darma. - Vi troverete meglio qui che sulle roccie dell'isolotto. Aveva pronunciato quelle parole con un accento quasi beffardo e che non era sfuggito a Yanez. - Questo vecchio volpone deve avermi riconosciuto, - mormorò il portoghese. - Se non torna presto il Re del Mare l'avventura non finirà certo bene per me. Sir Moreland si è messo in un bello imbarazzo. Anche l'anglo-indiano doveva essersi accorto di aver giuocato una pessima carta, poichè appariva molto preoccupato. Gli isolani tirarono sulla spiaggia la scialuppa onde non venisse guastata dalla risacca, la quale si faceva sentire violentissima anche dentro il bacino, si gettarono sulle spalle i fucili e raggiunsero sollecitamente i naufraghi, circondandoli. - Dove ci conducete? - chiese sir Moreland, il quale diventava sempre più inquieto. - A casa mia, - rispose il capo. Nessun isolano era uscito dalle abitazioni scaglionate lungo il declivio. Probabilmente non si erano accorti del ritorno della scialuppa o avevano preferito starsene nelle loro capanne, ricominciando a piovere. Il capo attraversò il piazzale e condusse i naufraghi in una casetta di bella apparenza, costruita parte in legno e parte in pietra, sul cui tetto a punta sventolava uno straccio rosso, l'avanzo di qualche bandiera inglese. Aprì la porta ed invitò l'inglese, Yanez e Darma ad entrare, poi, mentre i suoi uomini armavano precipitosamente i fucili, volgendosi verso un vecchio che stava fumando in un angolo, presso la finestra, gli chiese, indicandogli Yanez: - Signor governatore, conoscete quest'uomo? Guardatelo bene e ditemi se non è uno di quelli che ci rubarono la provvista di carbone affidataci dal governo inglese. - Ah! Briccone! - esclamò il portoghese, furioso. Il vecchio si era prontamente alzato guardando Yanez, il quale già colla sua invettiva si era tradito. - Sì, è lui che ci ha imposto la consegna del carbone! - gridò il governatore. - Ora non ci sfuggirai, mio caro, e ti faremo appiccare dai marinai inglesi e sull'albero più alto della loro nave. Pirata! - Io, pirata! - esclamò Yanez alzando il pugno. Sir Moreland fu pronto ad intervenire. - Nessuna violenza quando si trova qui un capitano di Sua Maestà la Regina d'Inghilterra. Il vecchio che pareva non si fosse nemmeno accorto, fino allora, della presenza dell'anglo-indiano, lo guardò con stupore. - Chi siete voi? - chiese. - Guardate l'abito che indosso ed i gradi che brillano ancora sulle mie maniche. - È approdata la vostra nave? - La mia è stata affondata dopo un terribile combattimento, al largo di Mangalum, dalle artiglierie del corsaro. - Non appartenete a quella che ci è stata segnalata ieri sera? - No, perchè sono stato raccolto sulle scogliere dell'isolotto. - Insieme a quest'uomo? - chiese il governatore, il cui stupore aumentava. - Sì, insieme a lui ed a questa miss, salvata da noi durante l'uragano. - E voi, capitano inglese, eravate insieme ai corsari! Là! là! Voi siete un ben abile commediante, ma io non sono così sciocco da credere alle vostre chiacchiere. - Ci aveva prima narrato di essere naufragato, - disse uno degli isolani. - Vi affermo, sul mio onore, che io sono James Moreland, capitano della marina anglo-indiana, ed ora ai servigi del rajah di Sarawak, - disse il giovane comandante. - Datemi le prove e allora vi crederò. - Non posso darvene alcuna per ora essendo la mia nave andata a picco. - E quest'uomo? Come si trova con voi, mentre due giorni or sono era con quei pirati? - Si è salvato con me in una scialuppa, durante l'abbordaggio, mentre la nave corsara veniva trascinata al largo dall'uragano e la mia affondava. - Sareste invece voi il capo di quei pirati nella pelle d'un inglese? - Vecchio! - urlò Yanez. - Finiscila di chiamarci pirati. Questo è un capitano anglo-indiano. - Siete dei pirati. - Che cosa ti ho preso io? - Il carbone. - Era del governo e non tuo. - E gli animali. - Che vi sono stati pagati, - ribattè Yanez che perdeva la sua solita flemma. - Avete ancora in tasca la tratta su Pontianak, ne sono sicuro, mentre avremmo potuto portarveli via tutti, senza pagare una sola sterlina. - E voi credete perciò che io vi lasci andare? - disse il governatore con un sorriso ironico. - La nave inglese non tarderà ad approdare e vedremo come ve la caverete con quel comandante. Io spero di vedervi ballare con un buon canapo al collo, l'ultima danza della morte. - Ed io vi dico che farete, per lo meno a me, le vostre scuse, - disse sir Moreland, il quale cominciava egli pure ad irritarsi. - Vi avverto intanto che se voi torcerete un capello a questa miss o a quest'uomo, farò bombardare il vostro villaggio dai cannoni inglesi, parola di James Moreland. - Bene, bene, - disse il governatore, sempre ridendo. - Soltanto rimarrete nostri prigionieri per diritto di guerra. Ah! Signori pirati, pagherete il carbone che il governo inglese ha affidato a noi e nuovamente le bestie. Non si prende a gabbo un uomo par mio. - Sia, lo vedremo, - disse sir Moreland. - Intanto segnalate alla nave da guerra, se è ancora in vista dell'isola, che avete delle comunicazioni importanti da fare. - Pare che abbiate molta fretta di farvi appiccare, - rispose il governatore. - Farò il possibile per accontentarvi. Si volse verso i suoi sudditi che avevano assistito al colloquio appoggiati ai loro moschetti, dicendo loro: - Ve li affido e badate che non vi fuggano. Ci sarà un premio da guadagnare oltre la riconoscenza del governo inglese. Nel magazzino e chiudete bene. - Andiamo, - disse il capo, spingendo ruvidamente Yanez verso la porta. - La commedia è finita per ora. L'anglo-indiano, il portoghese e Darma si lasciarono condurre via, senza tentare alcuna resistenza che sarebbe stata d'altronde inutile e pericolosa con quegli uomini rudi e brutali, e attraversata nuovamente la piazza, vennero introdotti in una massiccia costruzione di pietra che doveva servire di magazzino alla piccola colonia. Era uno stanzone lungo una cinquantina di metri quasi vuoto in quel momento, perchè non si vedevano che dei mucchi di pesce secco e dei barili contenenti forse dell'olio o della grassa, col tetto sostenuto da pilastri di pietra tenera estratta dalle colline dell'isola. - Avete fame? - chiese il capo. - Non mi spiacerebbe mangiare un boccone prima di venire appiccato, - disse Yanez, beffardemente. - A più tardi. Vi avverto intanto che al primo tentativo di fuga faremo fuoco contro di voi. Ciò detto rinchiusero la porta, sprangandola al di fuori. Sir Moreland, Yanez e Darma, meno spaventati di quanto si potrebbe supporre, si guardarono l'un l'altro, quasi sorridendo. - Che ne dite di quest'avventura, sir Moreland? - chiese finalmente la giovane. - Che se la nave inglese incrocia veramente nelle acque dell'isola finirà presto, - rispose il capitano. - Per voi, ma non per noi. - E perchè miss? - Quando i vostri apprenderanno che noi siamo corsari non ci appiccheranno? - O per lo meno ci condurranno a Labuan per essere giudicati, - disse Yanez. - Ciò farebbe certo piacere a quel governatore che ha dei vecchi rancori contro di me. - Cercherò di evitare che ciò possa succedere, - rispose il capitano. - Sarebbe pericoloso, specialmente pel signor de Gomera. - Vi metteremo in un grave imbarazzo, sir Moreland, - disse Darma. - Non lo credo, miss. E poi chi mi dice che il comandante di quella nave non sia un mio amico? In tal caso c'intenderemo facilmente. Il signor de Gomera si è comportato verso di me come un gentiluomo ed io non sarò da meno verso di lui. - Vi siete dimenticato l'avventura notturna a Redjang? - Astuzie di guerra, miss, e non ho serbato ràncore nè a voi, nè ai vostri protettori. - Siete troppo buono, sir Moreland. - Non sono nè migliore, nè peggiore degli altri. Ah! Un colpo di cannone era improvvisamente rimbombato al di fuori, facendo tremare le pareti del magazzino. - Una nave da guerra! - esclamò l'anglo-indiano. - È il Re del Mare o quella che attendono gli isolani? - si chiese Yanez. - Lo sapremo presto. Entrambi si erano slanciati verso la porta, percuotendola a calci e gridando: - Aprite! Vogliamo vedere gli inglesi a sbarcare! - Silenzio! - tuonò una voce minacciosa. - Se sforzate la porta faccio fuoco!

. - Che quei colpi di cannone abbiano segnata l'agonia della Marianna? - si chiedevano tutti, con crescente ansietà. Alla mezzanotte le coste orientali di Sedang cominciarono a delinearsi, nerissime per la massa imponente delle loro foreste secolari. Ad un tratto, quando il Re del Mare aveva già imboccato il canale che s'apriva dietro le scogliere, una voce risuonò sulla piattaforma del trinchetto. - Fumo dinanzi a noi! ... Yanez aveva puntato un cannocchiale nella direzione indicata. Un grosso punto nero, che emetteva una fitta colonna di fumo, filava fra la costa e le scogliere, fuggendo verso levante. - Una nave a vapore! - gridò il portoghese. - Duemila metri! ... Buon tiro per dei valenti artiglieri! Fermiamola! ... Cento rupie a chi la tocca! ... Non aveva ancora terminata la frase che il vecchio quartiermastro americano, che aveva già guadagnati i duecento dollari, era dietro al suo pezzo, sotto la torretta proviera di babordo. Vedeva perfettamente la nave che cercava di fuggire. La luna la illuminava in pieno. La distanza era ragguardevole, però il vecchio cannoniere aveva fiducia nei suoi occhi e nel suo pezzo. - Ora li accomodo io! - disse. - Le cento rupie balleranno nelle mie tasche in attesa di comperare una montagna di tabacco ed un barile di ginepro. Attese che la nave passasse attraverso la prora dell'incrociatore e fece fuoco rapidamente. Aveva colpito nel segno, causando all'avversario qualche grave danno o l'aveva mancato? Gli fu impossibile saperlo, perchè quasi nell'istesso momento la nave scompariva dietro un ostacolo, che la distanza non aveva permesso prima di distinguere, un isolotto o qualche scogliera. Il Re del Mare si era messo in caccia, rallentando però la corsa, perchè da un momento all'altro poteva trovarsi dinanzi a uno dei tanti numerosi banchi sabbiosi che si estendono dinanzi alle foci del Sedang. Giunto ad un chilometro dalle spiaggie, Sandokan aveva dato il comando di scandagliare. Non conosceva che imperfettamente quei paraggi e non osava avanzarsi alla cieca, per paura di arenare l'incrociatore. La nave però, contro la quale l'incrociatore aveva fatto fuoco, pareva che fosse scomparsa. Certo aveva approfittato delle scogliere che si vedevano numerose verso il nord, per cacciarsi in qualche canale e dileguarsi o cercare un rifugio entro qualche piccola baia. Il Re del Mare, nella sua seconda corsa, doveva essere rimontato molto verso il levante del Sedang, quindi Yanez e Sandokan presero il partito d'abbandonare il fuggiasco, che doveva essere troppo debole per osare di contrastargli il passo, e di tornare verso ponente per cercare la Marianna. Era sorto in loro il dubbio che il praho, per potersi sottrarre all'inseguimento, avesse cercato pure qualche nascondiglio o si fosse gettato alla costa. Marciava da un quarto d'ora, a velocità ridotta, continuando a perlustrare, quando presso un gruppo di scogliere apparve una massa nerastra fornita d'un'alberatura altissima, dove si vedevano delle vele ancora spiegate. - Nave alla costa! - gridarono in quel momento le vedette delle coffe. - Deve essere la nostra Marianna! - gridò Yanez. - Finalmente! ... Il Re del Mare aveva subito virato di bordo, avanzandosi lentamente verso quelle scogliere. Tutti si erano precipitati verso prora per meglio osservare quella nave, la cui immobilità però dava luogo a non poche inquietudini, tanto più che pareva si trovasse addossata alle rocce. Un fanale elettrico era stato subito volto verso di essa, illuminandola come in pieno giorno, eppure, cosa strana, pareva che nessuna persona si trovasse in coperta. - Accendete tre razzi, - comandò Yanez. - Se a bordo vi sono degli uomini risponderanno di certo. - Che sia proprio la Marianna? - chiese Tremal-Naik, il quale condivideva le apprensioni dei due comandanti. - Non te lo posso ancora dire, - rispose il portoghese, - quantunque le vele siano d'un grosso praho o per lo meno d'un giong. - Mi nasce un dubbio. - Che quella nave, per sfuggire alle cannonate dell'inglese si sia gettata addosso a quelle scogliere, arenandosi? È così Tremal-Naik? - Sì. - E temo che tu abbia indovinato. - E l'equipaggio? Non si vede nessuno? - E nessuno risponde, - disse Sandokan che si era accostato, mentre tre razzi lanciati da Kammamuri e da Sambigliong si spegnevano dopo di aver sparso in aria un nembo di scintille multicolori. - Allora gli inglesi hanno fatto prigioniero l'equipaggio, - disse Tremal-Naik. - E noi andremo a liberarli, dovessi inseguire quella nave fino entro il Sedang. Fa' calare in acqua una scialuppa e andiamo a vedere se si tratta veramente della Marianna. L'incrociatore aveva rallentata la marcia, sempre per tema di trovarsi improvvisamente dinanzi a dei bassifondi. Gli scandagli avevano già dati solamente dodici metri e pareva che il fondo si elevasse rapidamente. La gran barca a vapore fu calata e Sandokan, Yanez e Tremal-Naik, con venti malesi armati, vi entrarono, dirigendosi verso la scogliera. Il Re del Mare aveva virato di bordo tornando un po' al largo, essendo l'ondata piuttosto forte. La scogliera non distava che cinque o seicento metri. Era una lunga fila di rocce, di colore molto scuro, tagliate a mo' di sega, coi fianchi sventrati e corrosi dall'eterna azione delle onde. La nave si era arenata verso la punta settentrionale e nell'urto, che doveva essere stato violentissimo, si era piegata su un fianco, appoggiandosi colle bancazze ad una roccia elevata quanto l'alberatura. Temendo una sorpresa, Sandokan comandò a dieci uomini di armare i fucili, poi spinse la scialuppa contro una caletta formata da una cintura di scogli, dove l'acqua era tranquilla. Lasciati sei marinai a guardia dell'imbarcazione, cogli altri raggiunse la nave. - La Marianna! - gridò ad un tratto, con accento di dolore. Il disgraziato veliero, od in causa d'una falsa manovra, o spintovi appositamente, si era sventrato sulle punte delle scogliere in così malo modo, da ritenerlo per sempre perduto. Le rocce assai aguzze, gli avevano fracassata la carena, causandole uno squarcio così enorme, che le onde entravano liberamente nella stiva, rumoreggiando continuamente. - In che stato è ridotto quel povero legno! - esclamò Yanez, che pareva non meno commosso della Tigre della Malesia. - Che l'abbiano costretto a gettarsi su queste scogliere? E il suo equipaggio? - Vi è una scala di corda a babordo, - disse Tremal-Naik. - Saliamo. - Preparate le armi, - comandò Sandokan. - Vi possono essere degli inglesi a bordo. - Pronti! - disse Yanez. Salì pel primo, quindi Sandokan, poi gli altri, tenendo in mano i fucili e le pistole. Un silenzio di morte regnava sulla nave, ma che disordine sulla tolda! ... Si vedevano casse e barili sventrati per ogni dove, fucili e spingarde rovesciate, poi a prora un buco enorme che pareva fosse stato prodotto da qualche granata. Il boccaporto maestro era aperto e giù, nella profondità della stiva, si udiva l'acqua a muggire cupamente. - Non vi è nessuno qui, - disse Yanez. - Che cosa sarà successo dei miei uomini? - si chiese con ansietà Sandokan. - E del carico che aveva la nave? Mi pare che la stiva sia stata vuotata. In quell'istante sulla cima dello scoglio, contro cui s'appoggiava la Marianna, si udì una voce a gridare: - Il capitano! ... Sandokan e Yanez avevano alzata vivamente la testa, mentre i malesi, per precauzione, armavano rapidamente le carabine. Un uomo dalla pelle oscura e semi-nudo, scendeva rapidamente la roccia, tenendo in mano un parang, la cui larga lama scintillava vivamente ai raggi della luna. In pochi istanti raggiunse la murata di babordo e balzò in coperta, dicendo: - Vi aspettavo, capitano. - Tu, Sakkadana! - esclamarono ad una voce Yanez e Tremal-Naik, riconoscendo in lui il pilota della Marianna. - Che cosa è successo qui? - chiese Sandokan. - Siamo stati sorpresi ieri sera da una nave a vapore, che ci ha costretti a gettarci su queste scogliere, avendoci prodotto due squarci sotto la linea di galleggiamento. È fuggita vedendo giungere il vostro incrociatore. - Ha saccheggiato la Marianna il suo equipaggio? ... - Sì, Tigre della Malesia. Ha portato via armi e munizioni. - Ed i tuoi compagni dove sono? ... - Hanno guadagnato il Sedang. - E tu sei rimasto? - Non vi era più posto nella scialuppa, essendo stata l'altra spaccata da una palla di cannone. - Non vi siete abboccati coi capi dayaki? - Sì, - rispose il pilota, - otto giorni or sono, ma nulla abbiamo potuto concludere. Il rajah, sospettando di loro, ne ha fatto imprigionare per precauzione una buona parte ed altri li ha esiliati lontani dalle frontiere. - Maledizione! - esclamò Yanez. - Ecco una notizia che non m'aspettavo. Addio speranze! ... - Forse abbiamo tardato troppo, - disse Sandokan. - Il rajah ci ha prevenuti. - Che cosa faremo ora, Sandokan? ... - Non ci rimane che lottare sul mare, - rispose la Tigre della Malesia. - Ritorneremo verso il nord, giacchè il grosso degli alleati si trova nelle acque di Sarawak e riprenderemo la guerra contro le navi mercantili, arrecando alle linee di navigazione il maggior danno possibile. Se sarà necessario ci spingeremo fino nei mari della Cina. A bordo, amici! ... Non perdiamo tempo. Stavano per ridiscendere nella scialuppa, quando udirono un colpo di cannone rimbombare a bordo del Re del Mare. Sandokan aveva trasalito. - Che segnali la flotta degli alleati? - si chiese. - Lo suppongo, - rispose Yanez. - Vedo che si muove e che punta la prora verso di noi. - Guardate! - gridò Tremal-Naik. Verso l'ovest una luce vivissima illuminava l'orizzonte che poco prima era ancora tenebroso. La flotta degli alleati, composta d'una mezza dozzina di navi, muoveva velocemente per impedire all'incrociatore di prendere il largo. - Presto, a bordo! - gridò la Tigre della Malesia. Si lasciarono scivolare l'un dietro l'altro giù per la fune e la scialuppa mosse velocemente verso il Re del Mare, che dal canto suo le muoveva incontro. Le navi nemiche, quantunque fossero ancora lontane, avevano aperto il fuoco e le cannonate si succedevano alle cannonate e qualche proiettile s'inabissava a poche dozzine di metri dall'imbarcazione. Fra qualche minuto quelle masse metalliche dovevano giungere a destinazione. Il Re del Mare era però ormai a poche gomene. Manovrò in modo da coprire la scialuppa dai tiri delle artiglierie avversarie, opponendo ai proiettili i suoi poderosi fianchi, poi la scala fu abbassata d'un colpo solo. L'ingegnere Horward, Darma e Surama con Kammamuri erano usciti dalla torretta di poppa, gridando: - Presto! ... Presto! ... Salite! ... Alcuni marinai avevano già calati i paranchi per issare la scialuppa. Yanez, Sandokan, Tremal-Naik ed i loro compagni si slanciarono sulla scala, dopo d'aver assicurato i ganci. - Finalmente! - esclamò l'americano. - Credevo che non arrivaste in tempo. - A posto gli artiglieri! - gridò Sandokan. - Doppi timonieri alla ruota! ... - Avremo da fare per sbarazzarci della squadra; però siamo forti e veloci, - disse Yanez.

. - Che abbiano compreso che era inutile ostinarsi contro questo kampong? - Yanez, - disse Tremal-Naik, - che il pellegrino sia stato invece sconfitto e che abbia mandato qui qualche corriere per far ritirare gli assedianti? - O che cerchino di trarci in qualche agguato? - chiese invece il portoghese. - In qual modo? - Colla speranza che noi approfittiamo della loro ritirata per abbandonare il kampong e poi assalirci in piena foresta con tutte le loro forze. No, mio caro Tremal-Naik, non sarò così sciocco io, da abboccare all'amo. Finchè non sapremo la sorte toccata alla mia Marianna, noi non lasceremo questa fattoria dove potremo difenderci lungamente, nel caso che il mio equipaggio sia stato distrutto. Mettiamo qui una sentinella e pel momento non preoccupiamoci delle manovre insidiose di quei furfanti. - Signor Yanez, - disse Darma. - Venite a prendere un po' di riposo, intanto, ed a far colazione. Non udendo più alcun colpo di cannone, quantunque fossero tutti angosciati per la sorte che poteva essere toccata all'equipaggio della Marianna, scesero nella sala pianterrena dove i servi del kampong avevano preparata un'abbondante refezione all'inglese, con carne fredda, burro e thè con biscotti. Terminato il pasto e mandato il meticcio sulla torricella onde li avvertisse delle mosse degli assedianti, fecero una minuta ispezione alle cinte e alle opere di difesa, onde essere pronti a sostenere anche un lungo assedio. Erano trascorse già tre ore dallo scoppio, quando udirono Tangusa gridare dall'alto del minareto: - All'armi! E subito dopo rimbombarono alcuni spari. Yanez e Tremal-Naik si erano precipitati verso la piattaforma più alta della cinta, da cui potevano dominare buon tratto della pianura. Vi erano appena giunti, quando videro un piccolo drappello d'uomini uscire dalla foresta a corsa sfrenata, sparando sui dayaki che accorrevano da tutte le parti come per tagliare loro il passo. Due grida erano sfuggite alle labbra del portoghese e dell'indiano: - Le tigri di Mompracem! Sambigliong! Poi lanciarono due grida tuonanti: - Fuoco le spingarde! - Alzate la saracinesca ai nostri amici! I pirati che avevano scortato Yanez, vedendo i loro compagni alle prese cogli assedianti, si erano gettati sulle tre spingarde che difendevano la cinta dalla parte meridionale, scaricando quasi contemporaneamente. I dayaki, udendo quegli spari e vedendo cadere parecchi compagni, avevano aperte le file rifugiandosi precipitosamente nella foresta. Sambigliong e il suo drappello, trovando il passo libero, si erano slanciati verso il kampong a tutta corsa, non cessando di sparare. La saracinesca era stata alzata e parte della guarnigione era mossa incontro a loro per sostenerli nel caso che i dayaki tornassero alla riscossa e anche per guidarli attraverso il boschetto spinoso. I superstiti della Marianna non erano che una mezza dozzina. Erano neri di polvere, madidi di sudore, ansanti, colle vesti stracciate e insanguinate ed avevano la schiuma alle labbra per la lunga corsa che doveva essere durata non meno di tre ore. Il corriere, che conosceva la via, per fortuna era insieme a loro. - La mia nave? - gridò Yanez, correndo incontro a Sambigliong. - Saltata, capitano, - rispose il mastro con voce rantolante. - Da chi? - Da noi ... non potevamo più resistere ... erano centinaia e centinaia di selvaggi che ci piombavano addosso ... tutti i nostri compagni sono stati uccisi ... anche i feriti ... ho preferito dar fuoco alle polveri ... - Sei un valoroso, - gli disse Yanez, con voce profondamente commossa. - Capitano ... vengono ... sono molti ... preparatevi alla resistenza. - Ah! vengono! - esclamò Yanez con voce terribile. - Vendicheremo i nostri morti!

. - Sono più lieta che vi abbiano strappato alla morte. Il giovane capitano la guardò sorridendo, poi disse: - Grazie miss, ma ... - Che cosa volete dire, sir Moreland? - Che sarei stato più contento anch'io se avessero salvata anche la mia nave ed i miei marinai. Ah! Miss, non m'aspettavo di dover subire una così disastrosa sconfitta e da parte dei vostri protettori. Tuttavia, credetelo, non rimpiango la mia prigionia. - sir Moreland, - disse Sandokan, - sapete che questa notte le navi inglesi ci hanno quasi sorpresi? - La squadriglia di Labuan? - esclamò il ferito con emozione. - Suppongo che fosse quella, ma siamo riusciti ad ingannarla ed a sottrarci facilmente al pericolo. - Non illudetevi tuttavia di poter aver sempre una tale fortuna, - disse l'anglo-indiano. - Un giorno, quando meno lo supporrete, vi troverete dinanzi ad un uomo che forse non vi accorderà quartiere. - Volete alludere al figlio di Suyodhana? - chiese Sandokan. - Non posso spiegarmi di più. È un segreto che io non posso tradire, - rispose l'anglo-indiano. - Non può essere che lui, - disse Yanez, - quantunque voi abbiate affermato di non saper nulla su quel nostro ostinato e misterioso avversario. Sir Moreland pareva che non lo avesse nemmeno udito. Guardava Darma con un senso di profonda angoscia. Sandokan, Yanez e la giovane s'intrattennero alcuni minuti ancora nella cabina, scambiando qualche parola col dottore, poi si accommiatarono. Prima però che la giovane uscisse, sir Moreland le disse, guardandola con una certa tristezza: - Spero, miss, di rivedervi presto e che non vorrete considerarmi sempre come un nemico. Quando la giovane fu uscita, l'anglo-indiano rimase a lungo alzato, tenendo gli occhi fissi sulla porta della cabina e le braccia incrociate sul petto, in attitudine pensierosa, poi si riadagiò, dicendo al dottore, con un lungo sospiro: - Che triste cosa è la guerra. Getta l'odio perfino fra due cuori che potevano battere insieme col medesimo affetto. - Ed il vostro avrebbe battuto assai, è vero, sir Moreland? - disse l'americano sorridendo. - Sì, dottore, ve lo confesso. - Per miss Darma? - Perchè dovrei nascondetelo? - Una bella e coraggiosa giovane, degna di suo padre e di voi. - E che non sarà giammai mia, - disse sir Moreland, con accento strano. - Il destino ha scavato fra noi, senza nostra colpa, un abisso che nessuno potrà mai colmare. - Per quale motivo? - chiese Held, stupito dal tono che pareva avesse in sè dell'angoscia e dell'odio profondo. - Questi uomini sono nemici del rajah, e degli inglesi e non già vostri. Sir Moreland guardò l'americano senza rispondere. Il suo viso però in quel momento aveva assunto una espressione così terribile da colpire vivamente l'americano. - Si direbbe che vi è un segreto nella vostra vita, - disse il dottore. - Maledico il destino, ecco tutto, - rispose il giovane con voce sorda. Poi, cambiando bruscamente tono, chiese: - Dottore, dove ci conduce il comandante? - Va al nord-ovest, per ora. - A Sarawak forse? - Può darsi, Sir. - Che voglia sbarcarmi? - Vi rincrescerebbe? - Forse sì. - Per lasciare miss Darma? - Per altri motivi più gravi, - rispose l'anglo-indiano. - Quali, se è lecito saperlo? - Perchè il rajah mi lancerà nuovamente contro di voi e forse spetterà a me compiere il doloroso dovere di darvi il colpo mortale e di sommergere la donna che amo, - disse Moreland. - Quel giorno può essere molto lontano. - Io credo il contrario, perchè la vostra nave non potrà tenere eternamente il mare, nè rifornirsi sempre di viveri, di munizioni e di combustibile, senza avere un porto amico. - L'oceano è immenso, Sir. - Sì, è vero, ma quando dieci o venti navi solcheranno da tutte le parti quest'oceano e chiuderanno, come in un cerchio di ferro, il vostro incrociatore, quale speranza vi rimarrà? Ammiro l'audacia di questi pirati della Malesia, come ammiro la loro nave, un capolavoro dell'ingegneria navale, tuttavia permettetemi di dubitare sul buon esito della vostra crociera. Che gravi danni possiate recare alla marineria inglese e creare molti fastidi al rajah, non lo nego, essendo il vostro Re del Mare il vascello più rapido che ora esista e forse il meglio armato, nondimeno non la durerete a lungo. - Questi formidabili corsari non hanno la pretesa di tenere in iscacco, per molti anni, le squadre inglesi, sir Moreland. Sanno perfettamente la sorte che li attende e non ignorano che un giorno i loro cadaveri andranno a dormire il sonno eterno nelle tenebrose vallate del mar della Sonda o in fondo a qualche spaventevole baratro. - E anche miss Darma lo sa? - chiese l'anglo-indiano con un brivido. - Lo suppongo, sir Moreland. - Ah! Sbarcatela! Salvatela! - Qui combattono suo padre ed i suoi protettori, ai quali deve la vita, a quanto mi si disse, e non li lascerà, - rispose l'americano. Sir Moreland si passò una mano sulla fronte, poi disse come parlando fra sè: - Sarebbe meglio che domani le squadre riunite affondassero tutte, me compreso. Almeno sarebbe finita e non udrei più mai il grido del sangue che reclama vendetta!

Pare che non abbiano nessuna fretta, mio caro Sambigliong! - Aspettano che la notte scenda. - Prima che la luce se ne fugga vediamo che musi sono. - Prese il cannocchiale e lo puntò sul piccolo praho che precedeva sempre la flottiglia delle scialuppe. Vi erano quindici o venti uomini a bordo, che indossavano l'abito guerresco; pantaloni stretti, abbottonati all'anca e al collo dei piedi, sarong cortissimo, in testa il tudung, un curioso berretto con lunga visiera e molte piume. Alcuni erano armati di fucile; i più avevano invece dei kampilang, quelle pesanti sciabole a doccia d'un acciaio finissimo, dei pisau-raut, ossia specie di pugnali dalla lama larga e non serpeggiante come i kriss malesi, e avevano dei grandi scudi di pelle di bufalo di forma quadrata. - Bei tipi, - disse Yanez colla sua solita calma. - Sono molti, signore. - Ouff! Un centinaio e mezzo, mio caro Sambigliong. Si volse guardando la tolda della Marianna. I suoi quaranta uomini erano tutti ai loro posti di combattimento. Gli artiglieri dietro ai due cannoni da caccia e alle quattro spingarde, i fucilieri dietro alle murate i cui bordi erano coperti di fasci di spine acutissime e gli uomini di manovra, che pel momento non avevano nulla da fare essendo il veliero sempre arenato, sulle coffe muniti di bombe da lanciare a mano e armati di carabine indiane di lunga portata. - Vengano a trovarci! - mormorò, visibilmente soddisfatto degli ordini impartiti da Sambigliong. Il sole stava per scomparire, diffondendo i suoi ultimi raggi e bagnando di luce aurea o rossastra le coste dell'immensa isola e le scogliere contro cui si frangevano rumoreggiando le onde che venivano dal largo. Il grande globo incandescente calava superbamente in acqua, incendiando un gran ventaglio di nubi al di sopra delle quali s'innalzavano grandi zone d'oro e lembi ampi di porpora, smaglianti sull'azzurro chiaro del cielo. Finalmente s'immerse, quasi bruscamente, infiammando per alcuni istanti tutto l'orizzonte, poi quell'onda di luce si attenuò rapidamente, non essendovi crepuscoli sotto quelle latitudini, la grande fantasmagoria solare si estinse e le tenebre piombarono avvolgendo la baia, le isole e le coste bornesi. - Buona notte per gli altri e cattiva per noi, - disse Yanez, che non aveva potuto fare a meno di contemplare quello splendido tramonto. Guardò la flottiglia nemica. Il piccolo praho, le doppie scialuppe e quelle semplici affrettavano la corsa. - Siamo pronti? - chiese Yanez. - Sì, - rispose Sambigliong per tutti. - Allora, Tigrotti di Mompracem, non vi trattengo più. Il piccolo praho era a buon tiro e copriva le scialuppe che lo seguivano in fila, l'una dietro all'altra, per non esporsi al fuoco delle artiglierie della Marianna. Sambigliong si curvò su uno dei due pezzi da caccia piazzati sul cassero che erano montati su perni giranti onde potessero far fuoco in tutte le direzioni e, dopo aver mirato per qualche istante, fece fuoco, spezzando netto l'albero di trinchetto, il quale cadde sul ponte assieme all'immensa vela. A quel colpo veramente meraviglioso, urla furiose s'alzarono sulle scialuppe, poi la prora del legno mutilato a sua volta avvampò. Il mirim del piccolo veliero aveva risposto al fuoco della Marianna, ma la palla, male diretta, non aveva fatto altro danno che quello di forare il contro fiocco che Yanez non aveva fatto ammainare. - Quei bricconi tirano come i coscritti del mio paese, - disse Yanez, che continuava a fumare placidamente, appoggiato alla murata di prora. A quel secondo sparo tenne dietro una serie di detonazioni secche. Erano i lilà delle doppie scialuppe che appoggiavano il fuoco del piccolo praho. Quei cannoncini non erano fortunatamente ancora a buon tiro e tutto finì in molto baccano e molto fumo senza nessun danno per la Marianna. - Demolisci il praho, innanzi tutto, Sambigliong, - disse Yanez, - e cerca di smontare il mirim che è il solo che possa danneggiarci. Sei uomini ai due pezzi da caccia e accelerate il fuoco più ... Si era bruscamente interrotto ed aveva lanciato un rapido sguardo verso poppa. Ad un tratto trasalì e fece un gesto di sorpresa. - Sambigliong! - esclamò, impallidendo. - Non temete, signor Yanez, il praho fra due minuti sarà fracassato o per lo meno rasato come un pontone. - È il pilota che non vedo più. - Il pilota! - esclamò il malese lasciando il pezzo di caccia che era già puntato. - Dov'è quel briccone? Yanez aveva attraversata rapidamente la tolda, in preda ad una visibile emozione. - Cerca il pilota! - gridò. - Capitano, - disse un malese che era al servizio dei due pezzi di poppa, - l'ho veduto or ora scendere nel quadro. Sambigliong, che forse aveva avuto il medesimo sospetto del portoghese, si era già precipitato giù per la scaletta, impugnando una pistola. Yanez lo aveva subito seguìto mentre i due cannoni da caccia tuonavano contro la flottiglia, con un rimbombo assordante. - Ah! cane! - udì gridare. Sambigliong aveva afferrato il pilota che stava per uscire da una cabina, tenendo in mano un pezzo di corda incatramata accesa. - Che cosa facevi, miserabile? - urlò Yanez precipitandosi a sua volta sul malese che tentava di opporre resistenza al mastro. Il pilota, vedendo il comandante che aveva pure impugnata una pistola e che pareva pronto a fargli scoppiare la testa, era diventato grigiastro, ossia pallido, pure rispose con una certa calma: - Signore, sona disceso per cercare una miccia per le spingarde ... - Qui, le micce! - gridò Yanez. - Tu, briccone, cercavi d'incendiarci la nave! - Io! - Sambigliong, lega quest'uomo! - comandò il portoghese. - Quando avremo battuto i dayaki avrà da fare con noi. - Non occorrono corde, signor Yanez, - rispose il mastro. - Lo faremo dormire per una dozzina d'ore, senza che ci dia alcun fastidio. Afferrò brutalmente per le spalle il pilota che non cercava più di opporre resistenza, e gli compresse coi pollici tesi la nuca, poi gli affondò nel collo, un po' al disotto degli angoli mascellari, gli indici ed i medi in modo da stringergli le carotidi contro la colonna vertebrale. Allora si vide una cosa assolutamente strana. Padada stralunò gli occhi e spalancò la bocca come se si fosse manifestato un principio d'asfissia, la respirazione gli divenne improvvisamente affannosa, poi rovesciò il capo indietro e s'abbandonò fra le braccia del mastro, come se la morte lo avesse colto. - L'hai ucciso! - esclamò Yanez. - No, signore, - rispose Sambigliong. - L'ho addormentato e prima di dodici o quindici ore non si sveglierà.1 - Dici davvero? - Lo vedrete più tardi. - Gettalo su qualche branda e saliamo subito. Il cannoneggiamento diventa vivissimo. Sambigliong alzò il pilota, che pareva non desse più alcun segno di vita, e lo adagiò su un tappeto, poi tutti e due salirono rapidamente sulla tolda, nel momento in cui i due cannoni da caccia tornavano a tuonare con tale fragore da far tremare tutto il veliero. Il combattimento fra la Marianna e la flottiglia si era impegnato con grande ardore. Le scialuppe doppie, che, come abbiamo detto, erano armate di lilà, si erano disposte su una fronte piuttosto larga, a destra e a sinistra del praho, onde dividere maggiormente il fuoco del veliero e si erano impegnate risolutamente a proteggere le altre imbarcazioni che, quantunque più piccole, portavano equipaggi più numerosi, riserbati certamente per l'attacco finale. Gli spari si succedevano agli spari e le palle, quantunque tutte di piccolo calibro, fischiavano in gran numero sulla Marianna, smussando qualche pennone, forando le vele, maltrattando il sartiame e scheggiando le murate. Alcuni uomini erano stati già feriti e qualcuno ucciso, nondimeno gli artiglieri di Mompracem facevano freddamente il loro dovere, con una calma ed un sangue freddo meraviglioso. Le spingarde, essendo ormai la distanza diminuita, avevano pure cominciato a tuonare, lanciando sulla flottiglia bordate di mitraglia, composta per la maggior parte di chiodi, che si piantavano nella pelle dei dayaki, facendoli urlare come scimmie rosse. Nonostante quelle scariche formidabili, la flottiglia non cessava di avanzare. I dayaki, che sono generalmente coraggiosi non meno dei malesi e che non temono la morte, davano dentro ai remi furiosamente, mentre quelli che erano armati di fucile, mantenevano un fuoco vivissimo, quantunque poco efficace, non avendo molta pratica di quelle armi, che forse adoperavano per la prima volta. Erano già giunte le scialuppe a cinquecento passi, quando il praho su cui si era concentrato il fuoco dei pezzi da caccia della Marianna, si coricò su un fianco. Aveva ormai perduto i suoi due alberi, il bilanciere era stato fracassato di colpo da una palla tiratagli da Yanez e le sue murate erano state ridotte in così cattivo stato, che non esistevano quasi più. - Smonta il mirim, Sambigliong! - gridò Yanez, vedendo una doppia scialuppa accostarsi al praho coll'evidente intenzione d'impadronirsi del pezzo d'artiglieria, prima che il piccolo veliero affondasse. - Sì, comandante, - rispose il malese, che serviva al pezzo da caccia di babordo. - E voi altri mitragliate l'equipaggio prima che venga raccolto, - aggiunse il portoghese, che dall'alto del cassero seguiva attentamente le mosse della flottiglia, senza levarsi dalle labbra la sigaretta. Una bordata colpì il praho, bordata di pezzi da caccia e di spingarde, smontando il mirim il cui carrello fu fracassato di colpo e spazzando il ponte da prora a poppa, con un uragano di mitraglia che storpiò e ferì la maggior parte dell'equipaggio. - Bel colpo! - esclamò il portoghese, colla sua flemma abituale. - Eccone uno che non ci darà più fastidio. Il piccolo veliero non era ormai che un rottame che si empiva rapidamente d'acqua. Gli uomini che erano sfuggiti a quella tremenda bordata, si erano gettati in mare e nuotavano verso le scialuppe, mentre i pontoni tiravano furiosamente coi lilà con non troppa fortuna, quantunque la Marianna, colla sua mole ed immobilizzata come era, offrisse un ottimo bersaglio. Ad un tratto il legno si capovolse bruscamente, rovesciando in acqua morti e feriti e rimase colla chiglia in aria. Urla feroci s'alzarono dalle scialuppe, vedendo il praho andarsene alla deriva in quello stato. - Gridate come oche, - disse Yanez. - Ci vuole ben altro per vincere le tigri di Mompracem, miei cari. Fuoco sulle scialuppe! Avanti, fucilieri! L'affare diventa caldo. Sebbene privati del praho che col suo pezzo poteva contrabbattere i cannoni da caccia, la flottiglia aveva ripreso la corsa e s'avvicinava rapidamente alla Marianna. Le tigri di Mompracem non facevano economia nè di palle nè di polvere. Colpi di cannone e di spingarda si alternavano a nutrite scariche di fucileria che facevano dei larghi vuoti fra gli equipaggi delle scialuppe e dei pontoni. Quei vecchi guerrieri, che un giorno avevano fatto tremare gli inglesi di Labuan, che avevano vinto e rovesciato James Booke, il rajah di Sarawak, e che avevano distrutti, dopo formidabili combattimenti, i terribili thugs indiani, si difendevano con accanimento ammirabile, senza nemmeno prendersi la briga di ripararsi dietro i bordi. Anzi, sprezzanti d'ogni pericolo, nonostante i consigli del portoghese che ci teneva a conservare i suoi uomini, erano saliti tutti sulle murate per mirare meglio e di là, e anche dalle coffe, facevano un fuoco infernale sulle scialuppe, decimando crudelmente i loro equipaggi. Gli assalitori però erano così numerosi, che quelle gravi perdite non li scoraggiavano. Altre scialuppe, uscite dal fiume, avevano raggiunta la flottiglia e anche quelle cariche di guerrieri. Erano almeno trecento selvaggi, sufficientemente armati, che muovevano all'abbordaggio della Marianna, risoluti, a quanto pareva, ad espugnarla e massacrare i suoi difensori fino all'ultimo, non potendosi sperare quartiere da quei barbari sanguinari che non hanno che un solo desiderio: quello di fare raccolta di crani umani. - La faccenda minaccia di diventare seria, - mormorò Yanez, vedendo quelle nuove scialuppe. - Tigrotti miei, date dentro più che potete o noi finiremo per lasciare qui le nostre teste. Quel cane d'un pellegrino li ha fanatizzati per bene e li ha fatti diventare idrofobi. S'accostò al pezzo da caccia di tribordo, che in quel momento era stato scaricato e allontanò Sambigliong che stava pigliando la mira. - Lascia che mi scaldi un po' anch'io, - disse. - Se non sfasciamo i pontoni e mandiamo in acqua i loro lilà, fra tre minuti saranno qui. - Le spine li tratterranno, capitano. - Eh, non so, mio caro. I loro kampilang avranno buon gioco. - Ed i nostri gabbieri non ne avranno meno colle loro granate. - Sia, ma preferisco che non giungano qui. Diede fuoco al pezzo e, come al solito, non mancò il colpo. Uno dei pontoni, formati da due scialuppe riunite da un ponte, andò a catafascio. Le prore, spaccate a livello d'acqua, in un momento si riempirono ed il galleggiante affondò. Un secondo fu pure gravemente maltrattato, ma al terzo colpo di cannone sparato da Yanez le scialuppe erano già quasi sotto. - Impugnate i parangs e portate le spingarde a poppa! - gridò, abbandonando il pezzo che ormai diventava inutile. - Sgombrate la prora! In un baleno quei comandi furono eseguiti. I fucilieri si ammassarono sul cassero, lasciando soli i gabbieri nelle coffe, mentre Sambigliong con alcuni uomini sfondava a colpi di scure due casse lasciando scorrere per la coperta una infinità di pallottoline d'acciaio irte di punte sottilissime. I dayaki, resi furiosi dalle gravi perdite subite, avevano circondata la Marianna urlando spaventosamente e cercavano di arrampicarsi, aggrappandosi alle bancazze, alle sartie, ai paterazzi ed alla dolfiniera del bompresso. Yanez aveva impugnata una scimitarra e si era messo in mezzo ai suoi uomini. - Stringete le file attorno alle spingarde! - gridò. I fucilieri che stavano presso le murate non avevano cessato il fuoco, fulminando a bruciapelo i dayaki dei pontoni e quelli che cercavano di montare all'abbordaggio. Le canne dei fucili e delle carabine indiane erano diventate così ardenti che scottavano le mani dei tiratori. I dayaki arrivavano, inerpicandosi come scimmie. Ad un tratto atroci urla di dolore scoppiarono fra gli assalitori. Avevano posate le mani sui fasci di spine che coprivano le murate e che erano dissimulati dalle brande stese sopra i bastingaggi, straziandosi orribilmente le dita e non reggendo a così atroce dolore si erano lasciati cadere addosso ai compagni, travolgendoli nella loro caduta. Se non erano pel momento riusciti a scavalcare le murate di babordo e di tribordo, quelli che si erano issati sulle trinche del bompresso, erano stati invece più fortunati, avendo trovato subito un appoggio sull'albero istesso. Accortisi delle spine, a gran colpi di kampilang staccarono i fasci gettandoli in mare, ed in dieci o dodici irruppero sul castello di prora mandando urla di vittoria. - Dentro colle spingarde! - gridò Yanez che li aveva lasciati fare. Le quattro bocche da fuoco lanciarono una bordata di chiodi su quel gruppo, spazzando tutto il castello. Fu una scarica terribile. Nessuno degli assalitori era rimasto in piedi, quantunque non vi fosse nemmeno un morto. Quei disgraziati, che avevano ricevuto in pieno quella bordata, si rotolavano pel castello, dibattendosi e mandando urla spaventevoli e gemiti strazianti. I loro corpi, foracchiati in cento luoghi dai chiodi, parevano schiumarole gocciolanti sangue. La vittoria era nondimeno ancora ben lungi. Altri dayaki salivano da tutte le parti, disperdendo prima le spine coi kampilang e rovesciandosi in coperta, malgrado il fuoco vivissimo delle tigri di Mompracem. Là un altro ostacolo però, non meno duro delle spine, attendeva gli assalitori: erano le pallottole d'acciaio che coprivano tutta la tolda e le cui punte non si potevano sfidare senza i pesanti stivali di mare. Per di più, i gabbieri delle coffe avevano cominciato a lanciare le granate che scoppiavano con fragore, lanciando intorno frammenti di metallo. I dayaki, presi fra due fuochi, impossibilitati ad avanzare, si erano arrestati; poi un subitaneo terrore, accresciuto da un'altra bordata di mitraglia che ne gettò a terra parecchi, li prese e si precipitarono confusamente in acqua, nuotando disperatamente verso i pontoni e le scialuppe. - Pare che ne abbiano finalmente abbastanza, - disse Yanez, che durante la lotta non aveva perduto un atomo della sua flemma. - Ciò v'insegnerà a temere le vecchie tigri di Mompracem. La disfatta degli isolani era completa. Pontoni e scialuppe fuggivano a forza di remi verso le isolette che si estendevano dinanzi al fiume, senza più rispondere al fuoco del veliero, fuoco che ben presto fu fatto cessare dal portoghese, ripugnandogli di massacrare delle persone che ormai non si difendevano più. Dieci minuti dopo, la flottiglia, le cui scialuppe facevano per la maggior parte acqua, scompariva entro il fiume. - Se ne sono andati, - disse Yanez. - Speriamo che ci lascino tranquilli. - Ci aspetteranno nel fiume, signore, - disse Sambigliong. - E vi daranno nuovamente battaglia, - aggiunse Tangusa, che ai primi colpi di cannone era pure salito in coperta per prendere parte alla difesa, quantunque esausto di forze. - Lo credi? - chiese il portoghese. - Ne sono certo, signore. - Daremo loro un'altra lezione che leverà loro, e per sempre, la voglia d'importunarci. Troveremo acqua sufficiente per spingerci fino alle scale del kampong? - Il fiume è profondo per un tratto lunghissimo e purchè il vento sia favorevole non troverete difficoltà a salirlo. - Quanti uomini abbiamo perduto? - chiese Yanez a Kickatany, il malese che funzionava da medico a bordo. - Ve ne sono otto nell'infermeria, signore, fra cui due gravemente feriti e quattro morti. - Che il diavolo si porti quei maledetti selvaggi ed il loro pellegrino! - esclamò Yanez. - Orsù, così è la guerra, - aggiunse poi con un sospiro. Quindi volgendosi verso Sambigliong che pareva aspettasse qualche ordine: - La marea sta per raggiungere la sua massima altezza. Cerchiamo di trarci da questo maledetto banco.

- Che gli inglesi abbiano intenzione di farci sloggiare da Mompracem. È un po' di tempo che tutti gli atti di pirateria che succedono lungo le coste occidentali dell'isola li addebitano a noi, quantunque da molti anni i nostri prahos dormano sulle loro àncore. Dicono che la nostra presenza incoraggia i pirati costieri e che noi direttamente o indirettamente li aizziamo contro le navi che si recano a Labuan. Frottole, ma già tu conosci la doppiezza del leopardo inglese. - E anche la sua ingratitudine, - disse l'indiano. - Ecco come vorrebbero compensarci d'aver liberata l'India dalla setta dei thugs. E Sandokan cederebbe? - Lui! Ah! Quell'uomo è capace di gettare il guanto di sfida contro tutta l'Inghilterra e di ... Un lontano colpo di cannone gli aveva interrotta la frase. - Hai udito? - esclamò, balzando in piedi in preda ad una vivissima agitazione. - Sì, il cannone tuona verso il sud. - I dayaki attaccano la Marianna! - Seguimi sull'osservatorio, Yanez, - disse Tremal-Naik. - Di lassù potremo udire meglio da quale parte giungono gli spari.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 5 occorrenze

- Che abbiano condotto via i tuoi amici? - chiese lo sconosciuto, che era tornato allora sul ponte portando parecchi fucili. - E dove? - Se il Dalai-Lama di Lhassa, informato della discesa dal cielo di due figli di Buddha li avesse reclamati? - In tal caso - disse - sarebbero perduti. Chi oserebbe andarli a strappare a quel possente pontefice? Lhassa ha migliaia e migliaia d'abitanti, ha truppe cinesi e anche bastioni armati d'artiglierie. Ma no, è impossibile che in così breve tempo abbiano potuto condurli sino a quella città attraverso strade quasi impraticabili. Li raggiungeremo ancora in viaggio e daremo battaglia alla scorta. Andiamo ad assicurarci se sono stati condotti via. Guardò nuovamente, con maggior attenzione. - Eppure non vi è anima viva, né sulla penisola, né sulle rive vicine - disse. - Il monastero è deserto. Macchinista, aumenta la velocità più che puoi. Lo "Sparviero" precipitava la corsa. Con una volata fulminea superò la distanza e si librò sopra i tetti e le cupole del monastero, descrivendo un largo giro intorno a quell'ammasso di fabbricati. Cosa strana! Il più profondo silenzio regnava dappertutto e non si vedeva alcuno né alle finestre, né sulle terrazze, né sui poggioli delle torri, né sul piazzale. - Che siano fuggiti tutti? - si chiese il capitano, le cui apprensioni aumentavano di momento in momento. - È impossibile che un monastero così famoso, abitato da centinaia di monaci, sia stato da un istante all'altro abbandonato. - Che stiano pregando in quel tempio gigantesco? - chiese lo sconosciuto. - E i pellegrini? - Saranno tornati ai loro villaggi. - Non ne sono convinto, ma lo sapremo subito. Il capitano fece abbassare lo "Sparviero" dinanzi al piazzale, strappò la coperta di tela cerata che riparava la mitragliatrice e scaricò tutte le canne. Le detonazioni si ripercossero rumorosamente fra i fabbricati, ma nessun monaco comparve. - Se ve ne fosse qualcuno, si sarebbe mostrato - disse il capitano. - Come spieghi questa fuga? - chiese lo sconosciuto. - Che ci abbiano veduto giungere e che temendo che noi volessimo rapire i due prigionieri si siano rifugiati in qualche luogo? - Col mio cannocchiale li avrei veduti. - Ho scorto un villaggio entro terra. - L'ho osservato anch'io. - Andiamo a domandare a quegli abitanti dove sono andati i monaci. - Sì, ed a spiegare questa inesplicabile scomparsa di tanta gente - rispose il capitano. A un suo cenno il macchinista fece dopo aver descritto un altro giro intorno una roccia enorme, sulla quale sorgeva un piccolo gruppo di capannucce pietra e di fango seccato. In dieci minuti lo "Sparviero" raggiunse il villaggio, ma anche quello sembrava disabitato. Nessun montanaro si vedeva aggirarsi attorno alle capanne, né nei campicelli dissodati chissà con quali fatiche, su quell'altura. - Ciò è inesplicabile! - esclamò il capitano, nel momento in cui lo "Sparviero" toccava il suolo. - Che qui sia scoppiata la guerra o che delle bande di briganti devastino le rive del lago, fugando tutti gli abitanti? - Signore ... là ... un uomo che fugge! - esclamò in quel momento il macchinista. Il capitano, con una rapida mossa, aveva afferrato un fucile e si era slanciato fra le capanne, seguito dallo sconosciuto. Un uomo vestito di pelli, cercava di celarsi in mezzo ad alcune betulle, che crescevano dietro al villaggio. Il capitano in pochi salti lo raggiunse, afferrandolo pel collo. Il montanaro, un vecchio che zoppicava, non aveva osato opporre resistenza, anzi si era lasciato cadere in ginocchio, tendendo le mani con gesto supplichevole e balbettando alcune parole incomprensibili. - Conosci la lingua cinese? - chiese il capitano con voce minacciosa. - Sì, signore, la comprendo - rispose lo zoppo. - Non fatemi mangiare dalla vostra aquila; sono un vecchio che non ha mai fatto male ad alcuno. - Se ti è cara la vita, rispondimi. - Parlate - disse il vecchio, con voce tremante. - Perché sono fuggiti i monaci di Dorkia? - Non sono fuggiti, signore. - Dove sono andati? - Il vecchio additò un'alta montagna che giganteggiava verso il sud-ovest. - Lassù - disse. - A cosa fare? - Non so ... vi erano due uomini bianchi come voi ... che si dicevano figli di Buddha ... - Avanti. - Ignoro che cosa sia successo ... so però che dopo essere stati adorati, sono stati condannati ... - A morte? - chiese il capitano, impallidendo. - A essere mangiati vivi dalle aquile. - Dove? - Sulla cima di quella montagna. - Quando sono stati condotti lassù? - Stamane. - Dai monaci? - E da migliaia di pellegrini - rispose il tibetano. - Ah! Canaglie! Me la pagheranno! - gridò il capitano. - Che siano già giunti sulla cima? - La via è lunga ... lo ignoro. - Giurami che hai detto la verità. - Sul grande Buddha. - Partiamo senza perdere un istante - disse il capitano. - Forse giungeremo in tempo per salvarli. Si era lanciato verso lo "Sparviero", seguito dallo sconosciuto. Un momento dopo la macchina s'innalzava volando verso la montagna segnata dal tibetano, la quale sorgeva a circa mezza dozzina di miglia verso l'ovest. Era una piramide enorme, che doveva toccare i tremila metri e che sorgeva isolata fra un gruppo di monti minori. Tutti i suoi fianchi erano coperti di neve; solamente alla base si vedeva un po' di vegetazione, dei gruppi di pini e di abeti. Lo "Sparviero" si elevava rapidamente, battendo poderosamente e precipitosamente le ali per raggiungere quell'altezza considerevole. Anche le eliche orizzontali turbinavano vertiginosamente, imprimendo al fuso un fremito sonoro. L'aria diventava di momento in momento più rarefatta, rendendo la respirazione degli aeronauti assai penosa. Si trattava di raggiungere i settemilanovecento e forse gli ottomila metri d'elevazione, trovandosi già il lago a quattromilaseicentotrenta sul livello del mare. Solamente i tibetani, abituati a quell'atmosfera, potevano resistere senza provare alcun disturbo. Perfino il capitano si sentiva ronzare gli orecchi e girare il capo come se fosse ubriaco. Lo sconosciuto poi si era lasciato cadere su una cassa tenendosi la testa stretta fra le mani e respirando affannosamente. Raggiunti i settemila metri, lo "Sparviero" prese la corsa verso l'enorme montagna, provocando una fortissima corrente d'aria. Ora il freddo era così intenso a quell'altezza, che le balaustrate di metallo si erano coperte quasi istantaneamente di ghiaccioli e che l'alito degli aeronauti, appena uscito dalle loro labbra, si convertiva in nevischio. Il capitano, dopo essersi avvolto in coperte di lana di molto spessore, si era messo in osservazione a prora, tenendo il cannocchiale puntato sulla vetta della piramide. Quantunque la distanza fosse ancora notevole, gli pareva d'aver veduto due punti oscuri ergersi sulla cima, fra il candidissimo strato nevoso. - Che siano Rokoff e Fedoro? - si era chiesto. - Se giungessimo troppo tardi? Macchinista, aumenta ancora, fino a far scoppiare la macchina! I due punti neri diventavano più distinti. Sembravano due esseri umani appesi a un palo o a una croce sormontata da alcuni stracci svolazzanti al vento. Dei punti più piccoli, che non si potevano ancora discernere, volteggiavano intorno, ora alzandosi e ora abbassandosi. Che cos'erano? Aquile forse, pronte a precipitarsi sulla preda a loro offerta dal miserabile Bogdo-Lama di Dorkia? Il capitano lo supponeva. - I fucili da caccia! - gridò. - Preparate i fucili da caccia e innalziamoci ancora! ... Rokoff e Fedoro sono lassù! Lo sconosciuto, strappato dal suo torpore da quei comandi, con uno sforzo supremo si era alzato, barcollando come un ebbro. - Perché i fucili?- chiese. - E le bombe? - Le aquile! Le aquile! Stanno per dilaniarli! - gridò il capitano. - Guardate! Ah! I miserabili! Lo "Sparviero"" aveva raggiunto la piramide, ma si trovava ancora troppo basso per raggiungere il vertice. Interruppe bruscamente la sua marcia orizzontale e ricominciò ad elevarsi, inclinandosi verso poppa per avere maggior slancio. Sulla cima della piramide, proprio sulla vetta, si vedevano Fedoro e Rokoff a dibattersi disperatamente e si udivano a urlare colla speranza di spaventare le aquile che giravano intorno a loro, pronte a dilaniarli coi robusti rostri e coi poderosi artigli. I due disgraziati, che indossavano ancora le tonache dei monaci, erano legati a una specie di croce, l'uno accanto all'altro, sormontati da una bandiera di feltro bianco, su cui si vedevano dipinte delle lettere. Quindici o venti aquile volteggiavano ora sopra e ora intorno a loro mandando acute grida, sfiorandoli colle loro poderose ali per stordirli prima di cominciare a farli a pezzi vivi. Entrambi si dibattevano disperatamente, cercando di far cadere la croce, ma erano legati così solidamente da non poter liberare né le mani né i piedi. Già un'aquila, più ardita delle altre, si era posata sulla cima della croce, pronta a spaccare il cranio del cosacco, che si trovava più vicino, quando comparve lo "Sparviero", il quale aveva finalmente superato l'orlo della piramide tronca. Contemporaneamente rimbombarono due spari e il vorace volatile, colpito in pieno, capitombolava al suolo. Due grida era sfuggite ai disgraziati, che già credevano di sentirsi dilaniare, due grida di gioia suprema: - Lo "Sparviero"! Il capitano! Poi seguirono una serie di detonazioni: era la mitragliatrice che tempestava le altre aquile, fracassando le loro ali o fulminandole sul colpo. Lo "Sparviero" si era adagiato sulla cima della montagna e il capitano e lo sconosciuto, quantunque storditi, si erano slanciati a terra. - Rokoff! Fedoro! - gridò il comandante, mentre il macchinista continuava a far tuonare la mitragliatrice per fugare i volatili sopravvissuti alla prima scarica e che non volevano decidersi ad abbandonare le prede. - Per le steppe del Don e anche dell'inferno! - urlò Rokoff. - Liberateci, signore! Le canaglie! I miserabili! Andiamo a sterminarli tutti! Urrà per lo "Sparviero"! Il capitano, che aveva portato un coltello, s'arrampicò sulla croce e liberò entrambi dalle corde che li avvincevano. Fedoro, assiderato, istupidito, mezzo asfissiato, si era subito abbandonato fra le braccia dello sconosciuto, borbottando con voce appena intelligibile: - Grazie ... Aveva il sangue al naso e anche agli orecchi in causa dell'estrema rarefazione dell'aria. Lo si dovette portare sullo "Sparviero", perché non si reggeva più. Rokoff invece, appena liberato, si era messo a correre verso l'estremità opposta del piccolo altipiano, coi pugni chiusi, gli occhi scintillanti d'ira. - Signor Rokoff! - gridò il capitano. - Dove correte? Siete impazzito? Il cosacco pareva che non lo udisse nemmeno e che non provasse lo stordimento che s'impadroniva sempre più dei suoi compagni. Quando giunse sul margine estremo, un urlo selvaggio gli sfuggì. - Eccoli! Cane d'un lama, avrò la tua pelle! Il capitano lo aveva raggiunto. - Venite ... lo "Sparviero" ci attende ... è pericoloso fermarci quassù ... la rarefazione ... - Guardateli! - gridò Rokoff, furioso. - Scendono la montagna. - Ma chi? - I buddisti ... i monaci ... gli assassini ... Il capitano guardò abbasso. Sotto di lui, sei o settecento metri più giù, una lunga fila di persone, composta di monaci e di montanari, scendeva i fianchi della montagna, fermandosi di quando in quando per guardare verso la cima. Erano almeno tre o quattromila persone e buona parte di esse armate di moschettoni e di lance. - Eccoli quelli che volevano fare delle nostre ossa delle pillole da dare da mangiare ai cani - disse Rokoff. - Lasciate che vadano ad appiccarsi altrove - rispose il capitano. - Promettetemi di passarvi sopra. - Sì, ma fuori di portata dei loro fucili. - Andiamo allo "Sparviero". Ripresero la corsa e raggiunsero il fuso, dove il macchinista stava facendo sorseggiare a Fedoro un bicchiere di vecchio ginepro, per rimetterlo un po' dalle emozioni provate e per riscaldarlo. - Partiamo! - disse il capitano. - Non è prudente fermarsi troppo a simili altezze. Si erano imbarcati tutti. Lo "Sparviero" attraversò il piccolo altipiano e scese il versante opposto, dirigendosi là dove i pellegrini e i monaci calavano. Questi si erano subito accorti della presenza di quel mostruoso uccello che piombava dalle cime del nevoso colosso con rapidità fulminea, come se volesse schiacciarli. Un immenso urlo di terrore si era alzato fra quelle centinaia e centinaia d'uomini, ripercuotendosi lungamente nelle vallate, poi era subentrato un profondo silenzio. Pareva che tutti, monaci e pellegrini, fossero impietriti dallo spavento. Alcuni si erano lasciati cadere al suolo, nascondendosi il viso fra le cappe villose dei loro mantelloni. Rokoff si era curvato sulla prora del fuso, per farsi meglio vedere e agitava le braccia come se scagliasse sui suoi assassini delle maledizioni. D'un tratto si slanciò verso la macchina, afferrò una cassa di zinco ripiena d'acqua e la precipitò in mezzo alla folla terrorizzata, urlando: - Prendete! Ecco il saluto dei Buddha viventi! Quante persone avesse accoppate o storpiate, non lo poté sapere perché già lo "Sparviero" era lontano, volando in direzione del Tengri-Nor.

. - Che questi signori monaci abbiano l'intenzione di tenerci prigionieri? - Lo temo, mio povero Rokoff. Saranno orgogliosi di possedere due figli di Buddha viventi. È ben vero che ne hanno degli altri, ma non discendono dal cielo, né sono mai stati veduti volare sul dorso d'un uccello. - E noi ci lasceremo sequestrare tranquillamente? - Pel momento ci conviene adattarci alle circostanze e fare buon viso alla cattiva fortuna. - Io mi ribellerò e farò un massacro di tutti i monaci di Dorkia - disse Rokoff. - Un figlio di Buddha che ammazza gli adoratori del padre! Tutto sarebbe finito e la nostra santità, che per ora ci protegge, sfumerebbe subito. Non scherziamo coi tibetani, Rokoff. Se avessero il più piccolo sospetto che noi siamo degli europei, chissà quanti orribili tormenti ci farebbero soffrire. No, manteniamoci tranquilli, fingiamo di essere veramente figli del cielo e aspettiamo il ritorno del capitano. - Che cosa potrà fare lui se i Lama ci tengono prigionieri? - Dispone di mezzi potenti colla sua aria liquida, lo hai già veduto. - E se fosse morto? Fedoro non osò rispondere. Il drappello intanto continuava a costeggiare il lago, galoppando rapidamente. La via era orribile, cosparsa di macigni, di crepacci, di pezzi di valanghe e saliva sempre fiancheggiando talora degli abissi spaventevoli, in fondo ai quali muggivano o scrosciavano le onde del Tengri-Nor. I cavalli però non si arrestavano un solo istante e superavano, con un'abilità e una sicurezza straordinaria, tutti quegli ostacoli. Non interrompevano la loro corsa nemmeno quando il sentiero diventava così stretto da permettere appena il passaggio a un solo cavaliere per volta. Eppure il vento, in certi passaggi, soffiava con tale furore, che Fedoro e Rokoff temevano di venire strappati dalla sella e scaraventati in fondo a quei paurosi baratri. Che magnifici cavalieri erano quei tibetani! Saldi sulle loro selle, pareva che formassero un solo corpo coi loro destrieri e non esitavano mai, anche quando dovevano scendere entro profondi avvallamenti o dovevano saltare dei crepacci che mettevano le vertigini. Quella corsa indiavolata fra abissi e burroni, fra i muggiti delle acque da un lato, i ruggiti del vento dall'altro, durò tre lunghe ore. Cominciavano a diradarsi le tenebre, quando il capo della scorta mandò un grido stridente. I cavalli s'arrestarono un momento, grondanti di sudore e di spuma, poi si cacciarono uno dietro l'altro su uno stretto ponte gettato sopra un profondo burrone. Giunti dall'altra parte, agli occhi di Fedoro e di Rokoff apparve un enorme edificio che s'innalzava maestosamente su una vasta piattaforma scendente verso il Tengri-Nor. - Dorkia - disse il capo della scorta, accostandosi ai due europei. - Il Bogdo- Lama vi attende.

Non credo che ci abbiano veduti calare su questo isolotto. - Non abbiamo percorso molte miglia, capitano. - Una mezza dozzina. - Siamo ancora troppo vicini. - Li consiglierei a non venire qui - disse il capitano. - Abbiamo una mitragliera che tira stupendamente. Signori, in caccia!

. - Che i monaci ci abbiano veduto approdare e vengano a cercarci? - si chiese. - O che ci abbiano anche veduto a cadere nel lago? Mi ricordo d'aver notato degli uomini, un momento prima che la folgore avvolgesse lo "Sparviero". Gridavano e alzavano le braccia verso di noi. Cosa fare? Attenderli o fuggire? Fuggire? E dove, se questa parete è tagliata a picco? Stette un momento esitante, non sapendo a quale partito appigliarsi, poi decise di raggiungere Fedoro, onde avvertirlo del pericolo che li minacciava. - Lui conoscerà i tibetani meglio di me - disse. I punti luminosi o meglio le lanterne continuavano ad avanzarsi, seguendo ora la parete rocciosa e ora la spiaggia. Pareva che gli uomini che le portavano cercassero qualche cosa, perché ora si fermavano e abbassavano le lampade, ora si disperdevano e ora si raggruppavano di nuovo. - Fedoro - disse Rokoff, quando fu vicino all'amico. - Stiamo per venire scoperti e non sono riuscito a trovare alcun nascondiglio. - Ho notato anch'io quei punti luminosi - rispose il russo. - Che quegli uomini cerchino noi? - Non ho alcun dubbio. Siamo stati veduti cadere dallo "Sparviero" o approdare. - Chi saranno costoro? - Dei monaci, suppongo. Mi hai detto d'aver veduto un'enorme costruzione. - Sì, Fedoro, ma poteva essere anche una fortezza. - Non ne esistono su questo lago; qui non vi sono che monasteri. - Sono cattivi i preti di questo paese? - Non credo, però avrei preferito non essere scoperto. - Bah! Se sono monaci, non ci faranno paura - disse Rokoff, mostrando i suoi pugni. - Mi sento in forza per affrontarne cinquanta. - Non vi è alcun modo di fuggire? - Ricacciarci nel lago. - Non pensiamoci; la tempesta invece di scemare aumenta sempre e le onde cominciano a giungere anche qui. Vediamo quale accoglienza ci faranno questi buddisti; se si mostrano ostili daremo battaglia. - Le mie braccia sono pronte a grandinare pugni santissimi che faranno loro vedere le stelle e anche il sole. Fedoro si era alzato. I monaci non erano lontani che cinquanta o sessanta passi e continuavano ad esplorare la spiaggia. Erano una mezza dozzina, non vi era quindi da temere con un uomo della forza di Rokoff. - Andiamo ad incontrarli - disse Fedoro risolutamente. - Anche rimanendo qui ci troverebbero egualmente. - Ti seguo - disse il cosacco, rimboccandosi le maniche della camicia. Avevano percorso mezza distanza, quando videro le lanterne fermarsi, proiettando la luce innanzi. Delle esclamazioni che parevano di stupore, sfuggirono agli uomini che le portavano. - Ci hanno veduto - disse Fedoro. - Chi sono, dunque? - chiese Rokoff. - Monaci, che portano delle tonache di grosso feltro con un manto bianco? - Sì, e che dà loro l'aspetto di fantasmi, specialmente fra questa oscurità. Fedoro mosse incontro a loro alzando le mani e dicendo in cinese: - Pace! ... Pace! ... I sei monaci stettero un momento immobili, col più vivo stupore impresso sui loro volti giallognoli, poi deposero le lanterne e si inginocchiarono dinanzi ai due naufraghi coi segni del più profondo rispetto, pronunciando delle parole che né il russo, né il cosacco riuscivano a comprendere. - Eh! che cosa ne dici, Fedoro? - chiese Rokoff. - Che questi uomini ci adorano. - Che ci prendano per figli della luna o delle tempeste? - Per i figli del grande Buddha, amico mio. Devono averci veduto cadere dallo "Sparviero". - Per le steppe del Don! Sapremo approfittare della loro ignoranza per farci regalare almeno una buona cena e un comodo letto. Spero che non saranno poi così stupidi da credere che i figlioli di Buddha vivano d'aria. Alzatevi, reverendi, basta colle adorazioni: abbiamo fame ed anche freddo. E siccome i monaci non accennavano a levare la fronte che tenevano posata al suolo, ne prese uno e lo sollevò come fosse un pupattolo, mettendolo in piedi. Gli altri s'affrettarono a rialzarsi, cacciando fuori le lingue lunghe una buona spanna e dimenandole in tutti i sensi. - Abbiamo capito, ci salutate - disse Rokoff. - Ma basta; conduceteci con voi. I monaci si guardarono l'un l'altro cercando probabilmente di comprendere ciò che chiedeva il cosacco, poi uno di loro, che portava al collo un grosso monile formato di pietruzze traforate e molto trasparenti, fece alcuni segni, indicando replicatamente la cima della roccia. - Che c'invitino a salire lassù? - chiese Rokoff. - Mi sembra - rispose Fedoro. - Non puoi farti capire da costoro? - Non comprendono il cinese. Nel loro monastero ci sarà, spero, qualcuno che lo parlerà, essendo i tibetani tributari della Cina. Sì, Rokoff, c'invitano a seguirli. - Andiamo - rispose il cosacco. - Mi sento gelare il sangue e desidererei un buon fuoco. Tre monaci si misero dinanzi, illuminando la spiaggia colle loro lampade e levando i ciottoli che potevano far cadere i due aeronauti, gli altri seguivano. - Molto gentili - disse Rokoff. - Mi pare che questa avventura debba finire meglio di quello che credevo. Purché lo "Sparviero" torni presto! ... Non si sa mai quello che può accadere, anche ai figli di Buddha, in questo paese che gode poco buona fama. Seguirono la parete per tre o quattrocento passi, poi salirono una stretta gradinata e raggiunsero il piano superiore, su cui giganteggiava una enorme costruzione, con alti tetti arcuati e doppi e due torri di stile cinese. - Che siamo caduti presso il monastero di Dorkia? - disse Fedoro. - È uno dei più belli? - chiese Rokoff. - Non solo, ma anche il più celebre del Tengri-Nor, visitato ogni anno da migliaia e migliaia di pellegrini e perfino dal Dalai-Lama. - Saranno ricchissimi questi monaci? - Prodigiosamente, Rokoff. - Allora siamo certi di trovare una buona tavola.

. - Pare che ne abbiano l'intenzione - rispose il capitano. - Dovranno però percorrere almeno una quarantina di miglia prima di giungere là dove declinano e poi altrettante e anche più per raggiungerci. - I loro cavalli non potranno di certo percorrere d'un fiato un centinaio e mezzo di chilometri - disse Fedoro. - Sono già esausti. - Mi rincresce - disse Rokoff. - Questa caccia emozionante m'interessava. - E se fossimo caduti? - chiese il capitano. - I mongoli non ci avrebbero risparmiati, ve lo assicuro, essendo assai vendicativi. - Il vostro "Sparviero" è troppo ben costruito per fare un capitombolo. - Un guasto poteva avvenire nella macchina. Meglio che la sia finita così, signor Rokoff. - Ed ora dove andiamo? - chiese Fedoro. - A gettare le nostre reti nei laghi del Caracoruzn - rispose il capitano con uno strano sorriso. - Tanto ci tenete alle trote di quei laghi, signore? - domandò Rokoff. - Si dice che siano così eccellenti? - Le avete assaggiate ancora? - No, me l'ha detto un mio amico. - Le giudicheremo - concluse Rokoff, quantunque non credesse affatto che lo scopo di quella corsa fossero veramente le trote. Lo "Sparviero" aveva allora superata anche la seconda catena di rocce e ridiscendeva verso il deserto piegando un po' verso l'ovest. Lo Sciamo, al di là di quelle colline, perdeva molto della sua aridità. Se vi era maggior copia di neve su quelle immense pianure si vedevano anche molte erbe altissime e gruppi di betulle e di pini i quali formavano dei graziosi boschetti popolati dai nidi di falchi, di pernici da neve, di lepri e di ermellini. Era quella la regione abitata dai Chalkas, tribù di nomadi ospitali, che si dedicano all'allevamento del bestiame e che vivono sotto vaste tende di feltro che piantano qua e là, secondo che li spinge il capriccio. In quel luogo, in quel momento non si vedeva alcun attendamento. Probabilmente il freddo li aveva ricacciati verso l'est per cercare pascoli più abbondanti sui pendii dei Grandi Chingan o sulle rive del Kerulene della Chalka. Poco dopo il mezzodì lo "Sparviero" che aveva incontrata una corrente d'aria favorevole che spirava dal sud-est, si librava a poca distanza da un laghetto, le cui rive erano coperte da una vegetazione abbondante, composta di abeti giganteschi, di betulle, di larici, di lauri, di cespugli, di rose canine, di pomi selvatici e di noccioli. - Possiamo scendere - disse il capitano, facendo cenno al macchinista di arrestare le eliche. - Le nostre trote ci aspettano. - Ci fermeremo molto qui? - chiese Rokoff. - Finché il macchinista avrà riparata l'ala in modo da garantirmi che non si spezzi più. Avete forse fretta di tornare in Europa? - Nessuna, signore - rispose il cosacco. - Ah! Il telegramma! - Quale, capitano? - Quello del vostro compagno. Signor Fedoro, volete scriverlo? Il russo guardò il capitano, il quale sorrideva. - Vi è qui qualche ufficio telegrafico? - chiese Fedoro. - Qui no, ma non è molto lontano. - Se siamo nel cuore del Gobi? - E perciò? Badate a me, preparate il telegramma per la vostra casa. Ah? Signor Rokoff, voi non avete paura degli orsi, è vero? Vi avverto che qui non sono rari. Io vi farò assaggiare le trote; voi uno zampone di plantigrado. Vi piace? - Farò il possibile per soddisfarvi, capitano - rispose il cosacco. - Eccoci a terra: facciamo colazione, poi a me le reti ed a voi i fucili. Passeremo qui una bella giornata. Poi balzò verso la riva del lago, mentre Rokoff e Fedoro, sempre più sorpresi si guardavano l'un l'altro, chiedendosi: - Chi capirà quest'uomo?

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 5 occorrenze

Che abbiano il loro asilo sotto la jungla, questi esseri misteriosi? - Così deve essere, Kammamuri. - Cosa facciamo, padrone? - Rimarremo qui: qualche persona uscirà da qualche parte. - Tykora! - gridò una voce. I due indiani balzarono simultaneamente in piedi. Cosa strana, incrediblle: quella voce era stata pronunciata così vicina a loro, da credere che la persona che l'aveva emessa fosse dietro le loro spalle. - Tykora! - mormorò Tremal-Naik. - Chi pronunciò questo nome? Guardò attorno, ma non vide alcuno; guardò in alto, ma non scorse che i rami del banian, confusi fra le tenebre. - Che ci sia qualcuno nascosto fra i rami? - Ma no, - disse Kammamuri, tremando. - La voce si udì dietro di noi. - È strano. - Tykora! - esclamò la medesima voce misteriosa. I due indiani tornarono a guardarsi intorno. Non era più possibile ingannarsi; qualcuno stava a loro vicino, ma con loro sorpresa e diciamolo pure, terrore, non era visibile. - Padrone, - mormorò Kammamuri, - abbiamo da fare con qualche spirito. - Non credo agli spiriti, io, - rispose Tremal-Naik. - Quest'essere che si diverte a spaventarci lo scopriremo. - Oh! ... - esclamò il maharatto, facendo tre o quattro passi indietro, come un ubriaco. - Cosa vedi Kammamuri? - Guarda lassù ... padrone! Guarda! ... Tremal-Naik alzò gli occhi sul banian e scorse un fascio di luce uscire dal tronco mozzato. Malgrado il suo straordinario coraggio, si sentì agghiacciare il sangue nelle vene. - Della luce! - balbettò, sgomentato. - Scappiamo, padrone! - supplicò Kammamuri. Sotto terra si udì per la terza volta il misterioso boato e dal tronco del banian uscì la squillante nota del ramsinga. In lontananza echeggiarono altre note simili. - Fuggiamo, padrone! - ripeté Kammamuri, pazzo di terrore. - Mai! - esclamò Tremal-Naik, risolutamente. Aveva messo il pugnale fra i denti e afferrato la carabina per la canna per servirsene come d'una mazza. D'un tratto cambiò idea. - Vieni, Kammamuri, - diss'egli. - Prima d'incominciare la pugna, sarà meglio vedere con chi dobbiamo lottare. Egli trascinò il maharatto ad un duecento passi dal tronco del banian e si nascosero dietro a tre o quattro colonne riunite che permettevano ai due indiani di vedere senza essere scoperti. - Non una parola, ora, - disse. - Al momento opportuno agiremo. Dal colossale tronco del banian uscì un'ultima nota acutissima che svegliò tutti gli echi delle Sunderbunds. Il fascio di luce che usciva dalla sommità dell'albero si spense e in sua vece apparve una testa umana, coperta da una specie di turbante giallo. Essa girò all'intorno qualche istante, come per assicurarsi che alcuna persona trovavasi al disotto del gigantesco albero, poi si alzò, ed un uomo, un indiano a giudicarlo dalla tinta, uscì, aggrappandosi ad uno dei rami. Dietro di lui uscirono quaranta altri indiani, i quali si lasciarono scivolare giù pei colonnati, fino a terra. Erano tutti quasi nudi. Un solo dubgah, specie di sottanino, d'un giallo sporco, copriva i loro fianchi e sui loro petti scorgevansi dei tatuaggi strani che volevano essere lettere del sanscrito e proprio nel mezzo vedevasi un serpente colla testa di donna. Un sottile cordone di seta, che pareva un laccio ma che aveva una palla di piombo all'estremità, girava più volte attorno al dubgah ed un pugnale era passato in quella strana cintura. Quegli esseri misteriosi, si assisero silenziosamente per terra, formando un circolo attorno ad un vecchio indiano dalle braccia smisurate, e lo sguardo brillante come quello d'un gatto. - Figli miei, - disse questi con voce grave. - La nostra possente mano ha colpito lo sciagurato che ardì calcare questo suolo consacrato ai thugs ed inviolabile a qualsiasi straniero. È una vittima di più da aggiungere alle altre cadute sotto il nostro pugnale, ma la dea non è ancora soddisfatta. - Lo sappiamo, - risposero in coro gl'indiani. - Sì, figli liberi dell'India, la nostra dea domanda altri sacrifici. - Che il nostro grande capo comandi e noi tutti partiremo. - Lo so, che voi siete bravi figli, - disse il vecchio indiano. - Ma il tempo non è ancora venuto. - Cosa s'aspetta adunque? - Un gran pericolo ci minaccia, figli. Un uomo ha gettato gli occhi sulla Vergine, che veglia la pagoda della dea. - Orrore! - esclamarono gl'indiani. - Sì, figli miei, un uomo audace osò guardare in volto la vaga Vergine, ma quell'uomo se non cadrà sotto la folgore della dea, perirà sotto il nostro infallibile laccio. - Chi è quest'uomo? - A suo tempo lo saprete. Portatemi la vittima. Due indiani si alzarono e si diressero verso il luogo dove giaceva il cadavere del povero Hurti. Tremal-Naik, che aveva assistito senza batter ciglio a quella strana scena, alla vista di quei due uomini che afferravano il morto per le braccia trascinandolo verso il tronco del banian, si era alzato di scatto colla carabina in mano. - Ah! maledetti! - esclamò egli con voce sorda togliendoli di mira. - Cosa fai, padrone? - bisbigliò Kammamuri, prendendogli l'arma ed abbassandola. - Lascia che li accoppi, Kammamuri, - disse il cacciatore di serpenti. - Essi hanno ucciso Hurti, è giusto che io lo vendichi. - Vuoi perderci tutti e due. Sono quaranta. - Hai ragione, Kammamuri. Li colpiremo tutti in una sola volta. Riabbassò la carabina e tornò a coricarsi mordendosi le labbra per frenare la collera. I due indiani avevano allora trascinato Hurti nel mezzo del circolo e l'avevano lasciato cadere ai piedi del vecchio. - Kâlì! - esclamò egli, alzando gli occhi verso il cielo. Trasse il pugnale dalla cintura e lo cacciò nel petto di Hurti. - Miserabile! - urlò Tremal-Naik. - È troppo! Egli s'era slanciato fuori dal nascondiglio. Un lampo squarciò le tenebre seguito da una strepitosa detonazione ed il vecchio, colpito in pieno petto dalla palla del cacciatore di serpenti, cadde sul corpo di Hurti.

. - È il nemico più spietato che abbiano i thugs. - Comprendo. - Noi facciamo a loro la guerra - La farò anch'io. Odio quei miserabili. - Un uomo coraggioso come te, non è da rifiutarsi. Verrai con noi quando batteremo la jungla, anzi ti metterò a guardia di uno strangolatore che è caduto in nostra mano. - Ah! - esclamò Tremal-Naik, che non riuscì a frenare il lampo di gioia che balenò negli occhi. - Avete un thug prigioniero? - Sì, ed è uno dei capi. - Come si chiama? - Negapatnan. - E io veglierò su di lui? - Sì, veglierai su di lui. Tu sei forte e coraggioso e a te non scapperà. - Sono persuaso. Basterà un pugno per ridurlo all'impotenza, - disse Tremal- Naik. - Vieni sulla terrazza. Tra poco vedrai Negapatnan e forse avremo bisogno del tuo coraggio. - Per che farne? - chiese Tremal-Naik con inquietudine. - Il capitano ricorrerà a qualche mezzo violento per farlo parlare. - Capisco. Diventerò carceriere ed all'occorrenza torturatore. - Sei molto perspicace. Vieni, mio bravo Saranguy. Entrarono nel bengalow e salirono sulla terrazza. Il capitano Macpherson vi era di già, fumando una sigaretta, sdraiato indolentemente in una piccola amaca di fibre di cocco. - Mi rechi qualche novità, Bhârata? - chiese egli. - No, capitano. Vi conduco invece un nemico acerrimo dei thugs. - Sei tu, Saranguy, questo nemico? - Sì, capitano, - rispose Tremal-Naik, con accento d'odio naturalissimo. - Sii allora il benvenuto. Sarai anche tu dei nostri. - Lo spero. - Ti avverto che si arrischia la pelle. - Se la giuoco contro le tigri, posso giuocarla contro gli uomini. - Sei un brav'uomo, Saranguy. - Me ne vanto, capitano. - Come ha passato la notte Negapatnan? - chiese Macpherson, rivolgendosi al sergente. - Ha dormito come uno che ha la coscienza tranquilla. Quel diavolo d'uomo è di ferro. - Ma si piegherà. Va' a prenderlo; comincieremo subito l'interrogatorio. Il sergente fece un mezzo giro sui talloni e poco dopo ritornava conducendo Negapatnan, solidamente legato. Il thug era tranquillissimo, anzi un sorriso sfiorava le sue labbra. Il suo sguardo si posò subito, con curiosità, su Tremal-Naik, il quale si era messo dietro al capitano. - Ebbene, mio caro, - disse Macpherson con accento sarcastico, - come hai passata la notte? - Credo di averla passata meglio di te, - rispose lo strangolatore. - E cos'hai deciso? - Che non parlerò. La mano del capitano corse all'impugnatura della sciabola. - Che sieno tutti eguali, questi rettili? - gridò egli. - Pare che sia così, - disse lo strangolatore. - Non dirlo così presto, però. Ti dissi che posseggo dei mezzi terribili. - Non abbastanza terribili pei thugs. - Dei mezzi che martirizzano al punto da invocare la morte. - Mezzi che non valgono i nostri. - Lo vedremo quando ti contorcerai fra gli spasimi più tremendi. - Puoi cominciare subito. Il capitano impallidì, poi un'ondata di sangue gli salì al volto. - Non vuoi proprio parlare, adunque? - gli chiese con voce strozzata dall'ira. - No, non parlerò. - È la tua ultima risposta? Bada ... - L'ultima. - Sta bene, ora agiremo. Bhârata? Il sergente s'avvicinò. - C'è un palo nel sotterraneo? - Sì, capitano. - Legherai solidamente quell'uomo. - Bene, capitano. - Quando il sonno lo vincerà, lo terrai desto a colpi di spillo. Se fra tre giorni non parlerà, farai macerare le sue carni a colpi di frusta. Se si ostina ancora, verserai dell'olio bollente, goccia a goccia, sulle sue ferite. - Fidatevi di me, capitano. Aiutami, Saranguy. Il sergente e Tremal-Naik trascinarono via lo strangolatore, il quale aveva ascoltato la sentenza senza che un muscolo del suo volto trasalisse. Discesero una scala a chiocciola molto profonda ed entrarono in una specie di cantina molto vasta, sostenuta da volte, ed illuminata da una feritoia aperta a fior di terra, difesa da solide sbarre di ferro. Nel mezzo ergevasi un palo, a cui fu legato lo strangolatore. Bhârata vi pose accanto tre o quattro spilli lunghi e colla punta acutissima. - Chi veglierà? - chiese Tremal-Naik. - Tu, fino a questa sera. Poi un sipai ti darà il cambio. - Va bene. - Se il nostro uomo chiude gli occhi, pungi forte. - Ti obbedirò, - rispose Tremal-Naik con calma glaciale. Il sergente risalì la scala. Tremal-Naik lo seguì con lo sguardo fino che poté, poi, quando ogni rumore cessò, si sedette di fronte allo strangolatore che lo fissava tranquillamente. - Ascoltami, - disse Tremal-Naik abbassando la voce. - Hai anche tu qualche cosa da dire? - chiese Negapatnan, beffardamente. - Conosci Kougli? Lo strangolatore udendo quel nome trasalì. - Kougli!- esclamò. - Non so chi sia. - Sei prudente, sta bene. Conosci Suyodhana? - Chi sei tu? - chiese Negapatnan, con manifesto terrore. - Uno strangolatore come lo sei tu, come lo è Kougli, come lo è Suyodhana. - Tu menti. - Ti do una prova che dico il vero. La nostra sede non è nella jungla, né a Calcutta, né sulle rive del sacro fiume, ma nei sotterranei di Raimangal. Il prigioniero rattenne a gran pena un grido, che stavagli per uscire dalle labbra. - Che sia vero che tu sei dei nostri? - chiese egli. - Non ti ho dato le prove? - È vero. Ma perché sei venuto qui? - Per salvarti. - Per salvare me? - Sì. - Ma come? Con qual mezzo? - Lascia fare a me e prima di mezzanotte sarai libero. - E fuggiremo assieme. - No, io rimango qui. Ho un'altra missione da compiere. - Una qualche vendetta? - Forse, - disse Tremal-Naik con aria tetra. - Ora silenzio e aspettiamo le tenebre. Lasciò il prigioniero ed andò a sedersi ai piedi della scala, aspettando pazientemente la notte. La giornata lentamente passò. Il sole scomparve dietro l'orizzonte e l'oscurità divenne profonda nella cantina. Era il momento opportuno per agire. Fra un'ora e forse meno, il sipai doveva scendere. - All'opera, - disse Tremal-Naik, alzandosi bruscamente e traendo dalla cintola due lime inglesi. - C'è da fare? - chiese Negapatnan, con emozione. - Devi aiutarmi, - rispose Tremal-Naik. Taglieremo le sbarre della feritoia. - Non s'accorgeranno che tu mi hai aiutato a fuggire? - Non s'accorgeranno di nulla. Sciolse i legami che stringevano il corpo, le braccia ed entrambi i piedi del prigioniero, e assalirono vigorosamente i ferri, cercando di non fare rumore. Tre sbarre erano state di già divelte e non ne rimaneva che una, quando Tremal- Naik avvertì uno scalpiccìo che veniva dalla scala. - Fermati! - diss'egli rapidamente. Qualcuno scende. - Il sipai forse? - Certo è lui. - Allora siamo perduti. - Non ancora. Sai gettare il laccio? - Giammai fallii il colpo. Tremal-Naik sciolse il laccio che portava stretto attorno al corpo, nascosto dal dubgah e glielo diede. - Mettiti presso alla porta - gli disse, estraendo il pugnale. - Il primo che appare, uccidilo. Negapatnan ubbidì prendendo il laccio nella mano dritta. Tremal-Naik si mise di fronte a lui, dietro allo stipite della porta, col pugnale alzato. Il rumore andava avvicinandosi. D'un tratto un lume rischiarò la scala e apparve un sipai, con una scimitarra sguainata. - Attento, Negapatnan, - bisbigliò Tremal-Naik. La faccia del thug divenne terribile. Gli occhi mandavano sinistri bagliori. Le labbra lasciavano a nudo i denti, le nari si dilatavano. Pareva una bestia assetata di sangue. Il sipai si arrestò sull'ultimo pianerottolo. - Saranguy! - chiamò. - Scendi, - disse Tremal-Naik. - Non ci si vede più. - Va bene, - rispose, e varcò la soglia della cantina. Negapatnan era lì. Il laccio fischiò nell'aria e si strinse così fortemente attorno al collo, che il sipai cadde al suolo senza emettere un lamento. - Devo strozzarlo? - chiese il thug, ponendo un piede sul petto del caduto. - È necessario, disse Tremal-Naik, freddamente. Negapatnan tirò a sé il laccio. La lingua del sipai uscì un palmo dalle labbra, gli occhi schizzarono dalle orbite e la pelle da bronzina divenne nera. Agitò per qualche istante le braccia, poi si irrigidì. Era morto. - Che la dea Kâlì abbia il suo sangue, - disse il fanatico, sciogliendo il laccio. - Spicciamoci, prima che scenda qualche altro. La feritoia fu nuovamente assalita e la quarta sbarra fu spezzata. - Passerai? - chiese Tremal-Naik. - Passerei per una feritoia molto più stretta. - Sta bene. Ora legami solidamente e imbavagliami. - Il thug lo guardò con sorpresa. - Io legarti? E perché? - chiese. - Perché non si sospetti che io sono uno dei tuoi. - Ti capisco. Sei più astuto di me. Tremal-Naik si gettò in terra presso al cadavere del sipai, e Negapatnan lo legò e lo imbavagliò. - Sei un brav'uomo, - disse il thug. - Se un giorno avrai bisogno di un amico fedele, ricordati di me. Addio. Si slanciò verso la feritoia, dopo di essersi armato delle pistole del sipai, vi si issò e scomparve. Non erano trascorsi ancora dieci secondi, che s'udì un colpo di fucile ed una voce gridare: - All'armi! Un uomo fugge!

Che mi abbiano ubbriacato con qualche bevanda a me sconosciuta? Fece uno sforzo per alzarsi, ma subito ricadde; aveva udito aprirsi una porta. - Chi scende qui? - chiese. - Io, Bhârata, - rispose il sergente avanzandosi. - Finalmente - esclamò Tremal-Naik. - Mi spiegherai ora per quale motivo lo mi trovo qui prigioniero. - Perché ormai sappiamo che tu sei un thug. - Io! ... Un thug! ... - Sì, Saranguy. - Tu menti! ... - No, hai parlato, hai tutto confessato. - Quando? - Poco fa. - Tu sei pazzo, Bhârata. - No, Saranguy, ti abbiamo dato da bere la youma e tu hai confessato ogni cosa. Tremal-Naik lo guardò con ispavento. Si ricordava della limonata che il capitano gli aveva fatto bere. - Miserabili! - esclamò con disperazione. - Vuoi salvarti? - disse Bhârata, dopo un breve silenzio. - Parla, - disse Tremal-Naik con voce rotta. - Confessa tutto e forse il capitano ti farà grazia della vita. - Non lo posso: ucciderebbero la donna che io amo. - Chi? - I thugs. - Quale storia narri tu? Parla. - È impossibile! - esclamò Tremal-Naik con accento selvaggio. - Sian tutti maledetti! - Ascoltami, Saranguy. Ormai noi sappiamo che i thugs hanno la loro sede a Raimangal, ma ignoriamo e quanti siano e dove vivano. Se tu lo dici, chissà, forse non morrai. - E cosa farete di tutti quei thugs? - chiese Tremal-Naik con voce strozzata. - Li fucileremo tutti. - Anche se fra essi vi fossero delle donne? - Esse prima di tutti. - Perché? ... Quale colpa hanno? - Sono più terribili degli uomini. Rappresentano la dea Kâlì. - T'inganni, Bhârata! T'inganni! - Tanto peggio. - Tremal-Naik si prese la fronte fra le mani, conficcandosi le unghie nella pelle. I suoi occhi erravano smarriti, il suo volto era pallidissimo, quasi cinereo, ed il petto gli si sollevava impetuosamente. - Se si concedesse la vita ad una di quelle donne ... forse parlerei. - È impossibile, poiché prenderli vivi costerebbero torrenti di sangue. Li soffocheremo tutti, come bestie feroci, nei loro sotterranei. - Ma ho una donna, una fidanzata! - esclamò Tremal-Naik con un accento disperato. - Vuoi tu, tigre, farla morire! ... No, no, non parlerò. Uccidetemi, tormentatemi consegnatemi alle autorità inglesi, fate di me quello che volete, non parlerò.. I thugs sono numerosi e potenti, si difenderanno e forse salveranno colei che io tanto ho amato e che amo ancora. - Una domanda ancora. Chi è questa donna? - Non posso dirlo. - Saranguy, - disse con voce alterata, - vuoi dirmi chi è quella donna? - Mai. - È bianca o abbronzata? - Non te lo dirò. - Sarà una fanatica come le altre. Tremal-Naik non rispose. - Sta bene, - ripeté il sergente. - Fra tre o quattro giorni ti condurremo a Calcutta. Una viva commozione alterò i lineamenti del prigioniero, il quale guardò il sergente che usciva e la feritoia. - Questa notte bisogna fuggire, - mormorò, - o tutto è perduto. La giornata trascorse senza che qualche cosa di nuovo accadesse. A mezzodì e al tramonto fu portata al prigioniero un'ampia scodella di carri e una coppa di tody. Appena il sole tramontò dietro le foreste e l'oscurità nella cantina divenne fitta, Tremal-Naik respirò. Stette cheto per tre lunghe ore, temendo che qualcuno improvvisamente entrasse, poi si mise alacremente all'opera per tentare l'evasione. Gli indiani sono famosi nel legare le persone ed occorre una lunga pratica per sciogliere i loro nodi complicatissimi. Tremal-Naik per fortuna possedeva una forza prodigiosa e buoni denti. Con una scossa allentò una corda che gl'impediva di curvare la testa poi, pazientemente, non badando al dolore, avvicinò uno dei polsi alla bocca e si mise a lavorare coi denti, tagliando, segando, sfilacciando. Riuscito a tagliare la corda, sbarazzarsi degli altri legami fu per lui l'affare d'un sol momento. S'alzò stiracchiandosi le membra indolenzite, s'avvicinò poscia alla feritoia e guardò fuori. La luna non era ancora sorta, ma il cielo era splendidamente stellato. Buffi d'aria fresca e imbalsamata dal profumo di mille diversi fiori, entravano per la feritoia. Nessun rumore veniva dal di fuori, né persona umana scorgevasi sulla fosca linea dell'orizzonte. Il prigioniero afferrò una delle sbarre e la scosse furiosamente; la curvò ma non la spezzò. - La fuga per di qui è impossibile, - mormorò. Si guardò attorno cercando un oggetto qualsiasi che potesse aiutarlo a svellere le spranghe, ma non ne trovò alcuno. - Sono perduto, - mormorò, con ispavento. - Eppure non voglio morire, non voglio scendere nella tomba ora che la felicità è vicina. S'avvicinò alla porta, ma s'arrestò di botto. Un sordo mugolìo, che veniva dal di fuori, era giunto improvvisamente fino a lui. Volse la testa verso la feritoia e la vide occupata da una massa oscura in mezzo alla quale brillavano due punti luminosi, verdognoli. Una speranza gli attraversò il cervello. - Darma! ... Darma! ... - mormorò con voce tremante per l'emozione. La tigre emise un secondo brontolìo, scuotendo le spranghe di ferro. Il prigioniero s'avventò verso la feritoia, afferrando le zampe della fedele bestia. - Sono salvo! - esclamò egli. - Brava Darma, lo sapevo che tu saresti venuta a trovare il tuo padrone. Ora non temo più il capitano né il suo sergente. Lasciò la feritoia e corse in un angolo dove aveva visto un brano di carta. Lo pulì accuratamente, si morse un dito facendo uscire alcune goccie di sangue e con una scheggia strappata al palo scrisse rapidamente e come lo permettevano le tenebre, le seguenti righe: Sono stato tradito e rinchiuso nella prigione di Negapatnan. Soccorretemi prontamente o tutto è perduto. Tremal-Naik Arrotolò la cartolina, tornò alla feritoia, la legò con una cordicella al collo della tigre. - Corri, Darma, ritorna dai thugs, - le disse: - Il tuo padrone corre un gran pericolo. La fiera scosse la testa e partì colla rapidità di una freccia. - Va', - diceva l'indiano, seguendola cogli occhi.- Essi comprenderanno quale pericolo io corro e verranno a salvarmi o mi daranno almeno un mezzo qualsiasi per evadere. Passò una lunga ora. Tremal-Naik aggrappato convulsivarnente alle sbarre, attendeva ansiosamente il ritorno, in preda a mille timori. D'un tratto nel fondo della pianura scorse la tigre che s'avvicinava con balzi giganteschi. - Se la scoprissero? mormorò, tremando. Fortunatamente Darma poté giungere fino alla feritoia senza essere stata scoperta dalle sentinelle. Al collo portava un grosso involto che Tremal-Naik, con gran pena, riuscì a far passare tra le sbarre. L'aperse. Conteneva una lettera, una rivoltella, un pugnale, delle munizioni, un laccio e due mazzolini di fiori accuratamente rinchiusi in due vasi di cristallo. - Cosa significano questi fiori? - si domandò, sorpreso. Aprì la lettera, la espose ad un raggio di luna che penetrava per la feritoia e lesse: Siamo circondati da alcune compagnie di sipai, ma uno dei nostri segue Darma. Grandi pericoli ci minacciano e la tua evasione è necessaria. Unisco alle armi due mazzi di fiori. I bianchi addormentano, i rossi combattono l'efficacia dei bianchi. Addormenta le sentinelle e tieni ben appresso i rossi. Una volta libero, espugna l'abitazione e tronca la testa del capitano. Nagor segnalerà la sua presenza col noto fischio e ti presterà man forte. Affrettati. Kougli Forse qualche altro si sarebbe spaventato nel leggere quella lettera, ma non così Tremal-Naik. In quel momento supremo si sentiva tanto forte da espugnare la casa anche senza l'aiuto di Nagor. - L'amore mi darà la forza e il coraggio per operare il miracolo, - aveva detto egli. Nascose le armi e le munizioni sotto un mucchio di terra e tornò alla feritoia. - Vattene, Darma, - le disse. - Tu corri un gran pericolo. La tigre s'allontanò, ma non aveva fatto venti passi che s'udì una delle sentinelle gridare: - La tigre! ... La tigre! ... Vi tenne dietro un colpo di fucile. Un'altra detonazione rimbombò, ma la brava bestia aveva raddoppiata corsa e in breve tempo fu fuori di vista. S'udì un rumore di passi precipitati ed alcuni uomini s'arrestarono dinanzi alla feritoia. - Ehi! - esclamò una voce che Tremal-Naik riconobbe per quella di Bhârata. - Dov'è la tigre? - È scappata, - rispose la sentinella che stava nella veranda. - Dov'era? - Presso la feritoia. - Scommetterei cento rupie contro una, che è un'amica di Saranguy. Presto, due uomini nella cantina o il briccone ci sfugge. Tremal-Naik aveva udito tutto. Prese i due vasi, li spezzò, gettò i fiori bianchi nell'angolo più oscuro, nascose i rossi in seno e si sdraiò addosso al palo, accomodandosi attorno al corpo le corde e stringendole meglio che poté. Era tempo! Due sipai armati e muniti d'una torcia resinosa entrarono. - Ah! - esclamò uno. - Ci sei ancora, Saranguy? - Chiudi il becco che io voglio dormire, - disse Tremal-Naik fingendosi di cattivo umore. - Puoi dormire, mio caro, e con tutta tranquillità poiché noi veglieremo. Tremal-Naik alzò le spalle, s'appoggiò al palo e chiuse gli occhi. I due sipai, piantata la fiaccola in una spaccatura della parete, si sedettero per terra colle carabine fra le ginocchia. Erano trascorsi appena pochi minuti quando Tremal-Naik avvertì un acuto profumo che davagli alla testa, malgrado i fiori rossi che tramandavano un profumo non meno acuto e affatto speciale. Guardò i due sipai: sbadigliavano in modo tale da temere che si slogassero le mascelle. - Provi nulla tu? - chiese il soldato più giovane, dopo qualche tempo. - Sì, - rispose il compagno. - Mi pare d'essere ... - Ubbriaco, vuoi dire. - Proprio così, e mi sento prendere da una voglia irresistibile di chiudere gli occhi. - Da cosa provenga ciò? - Non lo saprei. - Che ci sia qualche manzanillo presso di noi? - Non ne ho veduto nel parco. La conversazione cadde lì. Tremal-Naik, che stava attento, li vide chiudere a poco a poco gli occhi, riaprirli tre o quattro volte, poi richiuderli. Lottarono ancora per qualche minuto, poi caddero pesantemente a terra, russando sonoramente. Era il momento d'agire. Tremal-Naik si strappò di dosso i legami e silenziosamente s'alzò. - La libertà ... ! esclamò. Andò a prendere le armi, legò solidamente i due addormentati e slanciossi verso la scala.

. - Dove supponi che abbiano le loro capanne? - L'ignoro, ma oserei dire che ogni notte si radunano sotto la fosca ombra del banian sacro. - Sta bene, - disse Tremal-Naik. - Kammamuri, prendi i remi. - Cosa vuoi fare, padrone? - chiese il maharatto. - Recarmi al banian. - Oh! Non farlo, padrone! - gridarono a un tempo i due indiani. - Perché? - Ti ammazzeranno come hanno ammazzato il povero Hurti. Tremal-Naik li guardò con due occhi che mandavano fiamme. - Il cacciatore di serpenti non tremò mai in sua vita, né tremerà questa sera. Al canotto, Kammamuri! - esclamò egli, con un tono di voce da non ammettere replica. - Ma, padrone! ... - Hai paura forse? - chiese sdegnosamente Tremal-Naik. - Sono maharatto! - disse l'indiano con fierezza. - Va' allora. Questa notte io saprò chi sono quegli esseri misteriosi che mi hanno dichiarato la guerra: e chi è colei che mi ha stregato. Kammamuri prese un paio di remi e si diresse verso la riva. Tremal-Naik entrò nella capanna, staccò da un chiodo una lunga carabina dalla canna rabescata, si munì di una gran fiasca di polvere e si passò nella cintola un largo coltellaccio. - Aghur, tu rimarrai qui, - diss'egli, uscendo. Se fra due giorni non saremo ritornati, verrai a raggiungerci a Raimangal colla tigre o con Punthy. - Ah! padrone ... - Non ti senti il coraggio bastante per venire laggiù? - Del coraggio ne ho, padrone. Volevo dire che fai male a recarti in quell'isola maledetta. - Tremal-Naik non si lascia assassinare, Aghur. - Prendi con te Darma. Potrebbe esserti utile. - Tradirebbe la mia presenza ed io voglio sbarcare senza esser veduto, né udito. Addio, Aghur. Si gettò la carabina ad armacollo e raggiunse Kammamuri, che lo attendeva presso ad un piccolo gonga, rozzo e pesante battello, scavato nel tronco di un albero. - Partiamo, disse. Saltarono nel battello e presero il largo, remando lentamente ed in silenzio. Un'oscurità profonda, resa densa da una nebbia pestilenziale che ondeggiava sopra i canali, le isole e le isolette, copriva le Sunderbunds e la corrente del Mangal. A destra ed a sinistra si estendevano masse enormi di bambù spinosi, di cespugli fitti, sotto i quali si udivano brontolare le tigri e sibilare i serpenti, di erbe lunghe e taglienti, confuse, amalgamate, strette le une alle altre in modo da impedire il passo. In lontananza però, sulla fosca linea dell'orizzonte, spiccavano qua e là alcuni alberi, dei manghi carichi di frutta squisite, dei palmizi tara, dei latania e dei cocchi dall'aspetto maestoso, con lunghe foglie disposte a cupola. Un silenzio funebre, misterioso, regnava ovunque, rotto appena appena dal mormorìo delle acque giallastre che radevano i rami arcuati dei paletuvieri e le foglie del loto e dal fruscio dei bambù scossi da un soffio di aria calda, soffocante, avvelenata. Tremal-Naik, sdraiato a poppa, col fucile sottomano, taceva e teneva aperti gli occhi fissandoli ora sull'una e ora sull'altra riva, dove udivansi sempre rauchi brontolii e sibili lamentevoli. Kammamuri, invece, seduto nel mezzo, faceva volare il piccolo gonga il quale lasciavasi dietro una scia di una fosforescenza ammirabile, da far quasi credere che quelle acque corrotte fossero sature di fosforo. Ogni qual tratto, però, cessava di remare, ratteneva il respiro e stava alcuni istanti in ascolto, chiedendo di poi al cacciatore di serpenti se nulla avesse udito o veduto. Era di già mezz'ora che navigavano, quando il silenzio fu rotto dal ramsinga, che si fece udire sulla riva destra, ma così vicino, da sospettare che il suonatore si trovasse a un centinaio di passi di distanza. - Alto! - mormorò Tremal-Naik. Non aveva ancora terminata la parola, che un secondo ramsinga rispose al primo, ma ad una distanza maggiore, intuonando una melodia malinconica, quanto era brillante e viva l'altra. La musica indiana si basa su quattro sistemi che hanno un'intima relazione colle quattro stagioni dell'anno ed a ciascuno di essi viene applicato un tono e modo particolare. È malinconica nella stagione fredda, viva ed allegra nel ringiovanire della stagione, languida nei grandi calori d'estate e brillante nell'autunno. Perché mai quei due istrumenti suonavano così contrariamente? Era forse un segnale? Kammamuri lo temeva. - Padrone - diss'egli, - siamo stati scoperti. - È probabile, - rispose Tremal-Naik, che ascoltava attentamente. - Se ritornassimo? Questa notte non fa per noi. - Tremal-Naik non ritorna mai. Arranca e lascia che i ramsinga suonino a loro piacimento. Il maharatto riprese i remi spingendo innanzi il gonga, il quale non tardò a giungere in un luogo dove il fiume stringevasi a mo' di collo di bottiglia. Un buffo d'aria tiepida, soffocante, carica d'esalazioni pestifere, giunse al naso dei due indiani. Dinanzi a loro, ad un tre o quattrocento passi, apparvero molte fiammelle che vagolavano bizzarramente sulla nera superficie del fiume. Alcune, come fossero attirate da una forza misteriosa, vennero a danzare dinanzi alla prua del gonga, allontanandosi dipoi con fantastica rapidità. - Eccoci al cimitero galleggiante, - disse Tremal-Naik. - Fra dieci minuti arriveremo al banian. - Passeremo col gonga? - chiese Kammamuri. - Con un po' di pazienza si passerà. - È male, padrone, offendere i morti. - Brahma e Visnù ci perdoneranno. Arranca, Kammamuri. Il gonga, con pochi colpi di remo raggiunse la stretta del fiume e sboccò in una specie di bacino, sul quale si intrecciavano i lunghi rami di colossali tamarindi, formando una fitta volta di verzura. Colà galleggiavano parecchi cadaveri che i canali del Gange avevano trascinato fino al Mangal. - Avanti! - disse il cacciatore di serpenti. Kammamuri stava per ripigliare i remi, quando la volta di verzura, che copriva quel cimitero galleggiante, s'aprì per dar passaggio a uno stormo di strani esseri dalle ali nere, i trampoli lunghissimi, i becchi aguzzi e smisurati. - Cosa c'è di nuovo? - esclamò Kammamuri sorpreso. - I marabù, - disse Tremal-Naik. Infatti un centinaio di quei funebri uccelli del sacro fiume, calavano, starnazzando giocondamente le ali, posandosi sui cadaveri. - Avanti, Kammamuri, - ripeté Tremal-Naik. Il gonga spinto innanzi, e dopo una buona mezz'ora, attraversato il cimitero, trovossi in un bacino assai più ampio, completamente sgombro, che veniva diviso in due bracci da una aguzza punta di terra, sulla quale spiccava un grandissimo e singolare albero. - Il banian! - disse Tremal-Naik. Kammamuri a quel nome fremette. - Padrone! - mormorò, coi denti stretti. - Non temere, maharatto. Deponi i remi e lascia che il gonga s'areni da sé sull'isola. Forse c'è qualcuno nei dintorni. Il maharatto ubbidì sdraiandosi sul fondo del canotto, mentre Tremal-Naik, armata per ogni precauzione la carabina, faceva altrettanto. Il gonga, trasportato dalla corrente che facevasi lievemente sentire, si diresse, girando su se stesso, verso la punta settentrionale dell'isola Raimangal, sede degli esseri misteriosi che avevano assassinato il povero Hurti. Un silenzio profondo regnava in quel luogo. Non si udiva nemmeno lo stormire dei giganteschi bambù, essendo cessato il venticello notturno, né le note dei ramsingo. Il fiume stesso pareva che fosse diventato d'olio. Tremal-Naik di quando in quando, però, alzava con precauzione la testa e scrutava attentamente le rive, per nulla rassicurato da quel silenzio. Il gonga si arenò, con un lieve strofinìo, a un centinaio di passi appena dal banian, ma i due indiani non si mossero. Passarono dieci minuti d'angosciosa aspettativa, poi Tremal-Naik ardì alzarsi. Prima cosa che gli diede nell'occhio, fu una forma nera, confusa, distesa fra le erbe, ad una ventina di metri dalla riva. - Kammamuri, - mormorò. - Alzati ed arma le tue pistole. Il maharatto non se lo fece dire due volte. - Cosa vedi, padrone? - chiese egli con un filo di voce. - Guarda laggiù. - Eh! ... - fe' il maharatto, sbarrando gli occhi. - Un uomo! - Zitto! Tremal-Naik alzò la carabina prendendo di mira quella massa nera che aveva l'apparenza d'un essere umano sdraiato, ma l'abbassò senza scaricarla. - Andiamo a vedere cos'è, Kammamuri, - diss'egli.- Quell'uomo non è vivo. - E se fingesse d'essere morto? - Peggio per lui. I due indiani sbarcarono, dirigendosi quatti quatti verso quell'individuo che non dava segno di vita. Erano giunti ad una diecina di passi, quando un marabù si alzò rumorosamente volando verso il fiume. - È un uomo morto, - mormorò Tremai-Naik. - Se fosse ... Non terminò la frase. In quattro salti raggiunse quel cadavere; una sorda esclamazione gli uscì dalle labbra contorte per l'ira. - Hurti! - esclamò. Infatti quel cadavere era Hurti, il compagno dell'indiano Aghur. L'infelice era disteso sul dorso, colle gambe e le braccia raggrinzate, probabilmente per lo spasimo, la faccia spaventosamente scomposta e gli occhi aperti, schizzanti dalle orbite. Le ginocchia erano rotte e insanguinate ed egualmente i piedi, segno evidente che era stato trascinato per qualche tratto sul terreno, forse quando era ancora agonizzante, e dalla bocca sbarrata uscivagli d'un buon palmo la lingua. Tremal-Naik sollevò lo sventurato indiano per vedere in qual luogo era stato colpito, ma non trovò sul corpo di lui alcuna ferita. Esaminandolo però meglio, vide attorno al collo una lividura assai marcata e dietro il cranio una contusione, che pareva prodotta da una grossa palla o da un sasso arrotondato. - L'hanno stordito prima e poi strangolato, diss'egli, con voce sorda. - Povero Hurti, - mormorò il maharatto.- Ma perché assassinarlo e in questo modo? - Lo sapremo, Kammamuri, e ti giuro che Tremal-Naik non lascierà impunito il delitto. - Ma temo, padrone, che gli assassini siano molto potenti. - Tremal-Naik sarà più potente di loro. Orsù, ritorna al canotto. - E Hurti? Lo lascieremo qui? - Lo getterò nelle sacre acque del Gange domani mattina. - Ma le tigri, questa notte lo divoreranno. - Sul cadavere di Hurti veglia il cacciatore di serpenti. - Ma come? Non ritorni tu? - No, Kammamuri, io rimango qui. Quando avrò sbrigato le mie faccende, abbandonerò quest'isola. - Ma tu vuoi farti assassinare. - Un sorriso sdegnoso sfiorò le labbra del fiero indiano. - Tremal-Naik è un figlio della jungla! Ritorna al canotto, Kammamuri. - Oh mai, padrone! - Perché? - Se ti accade una disgrazia, chi ti aiuterà? Lascia che t'accompagni e ti giuro che ti seguirò dove tu andrai. - Anche se io mi recassi a trovare la visione? - Sì, padrone. - Rimani con me, prode maharatto, e vedrai che noi due faremo per dieci. Seguimi! Tremal-Naik si diresse verso la riva, afferrò il gonga a tribordo e con una violenta scossa lo rovesciò, calando a picco. - Cosa fai? - chiese Kammamuri, sorpreso. - Nessuno deve sapere che noi siamo qui giunti. E ora, a noi lo svelare il mistero. Cambiarono la polvere alle carabine ed alle pistole, onde essere sicuri di non mancare al colpo, e si diressero verso il banian, la cui imponente massa spiccava fieramente nella profonda tenebra.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Che abbiano fatto una visita alla nostra slitta - terminò il tenente. - Se fosse vero, guai a loro! - Bah! Sarà un pò difficile il raggiungerli, tanto più che si dirigono verso est. - Verso est? Io ho udito gli abbaiamenti dei loro cani verso ovest, signor Hostrup. - Verso ovest! Sei propri sicuro? - Sicurissimo. - Allora gatta ci cova. Io temo di aver avuto da fare con uno scaltro briccone, e non sono più sorpreso se ci ha giocato questo brutto tiro. Affrettiamoci a raggiungere il fiume; ho fretta di arrivare alla slitta. - Ma vi giuro fin d'ora, signor Hostrup, che se quel birbante ci ha derubati io lo inseguirò e lo raggiungerò per quanto lontano fugga. - Se saremo capaci di raggiungerlo. I Tanana avevano dei cani attaccati alle loro slitte e chissà mai dove saranno a quest'ora. Si posero in marcia senza prendersi il disturbo di portare con loro la tenda essendo tutta bucata e si diressero verso il Porcupine. Alcuni lupi che ronzavano sotto il bosco, si provarono a seguirli gettando lugubri urla, ma un colpo di fucile, che atterrò il più feroce, li costrinse a ritornare più che in fretta sotto gli alberi. Due ore dopo i due balenieri giungevano sulla riva del fiume. Stavano per scenderla, quando Koninson incespicò in un oggetto che cadde con rumore rimbalzando e correndo sulla superficie gelata. - Bestia o cosa? - chiese egli curvandosi innanzi ed firmando precipitosamente il fucile. - Mi è sembrato un barilotto - disse il tenente. - Uhm! Brutto segno! In quell'istante sulla riva opposta si videro alcune ombre muoversi rapidamente, poi sparire sotto un gruppo di cespugli. - Chi vive? - gridò il fiociniere imbracciando il fucile. Nessuno rispose, ma poco dopo udì un acuto stridio che rapidamente si allontanava verso ovest e un po' più tardi dei lontani latrati. - Temo che siano i Tanana - disse il tenente che ascoltava attentamente. - Corriamo alla slitta, signor Hostrup - suggerì il fiociniere. - Forse arriveremo in tempo per far pagar caro il tradimento. Si slanciarono giù dalla sponda attraversarono correndo il fiume e rimontarono la riva opposta guadagnando una piccola altura da cui potevano dominare il paese circostante per un gran fratto. Alla loro destra avevano il bosco battuto il giorno innanzi; alla sinistra una pianura sull'orlo della quale scorsero una massa confusa che doveva essere la slitta. Nè da una parte nè dall'altra videro alcun uomo; però in distanza si udiva ancora l'acuto stridio che doveva essere prodotto dallo scivolio di una slitta tutta a gran galoppo. Lasciarono l'altura e si diressero verso la slitta la quale rizzava ancora il lungo albero a cui si vedeva sospesa e imbrogliata la vela. Quando furono vicini scorsero a terra casse e barili, aperte le une, sfondati gli altri, e parecchi altri oggetti che facevano parte dell'equipaggiamento. - Ah, miserabili! - esclamò Koninson. - Ci hanno derubati! E pur troppo era vero. I Tanana, approfittando senza dubbio del sonno dei due balenieri, si erano recati colà ed avevano tutto saccheggiato. Viveri, accette, provvista di polvere e di palle, vesti di ricambio, tutto era stato portato via. Non restava che la sola slitta, ma fortunatamente in buono stato e ancora provveduta della sua vela che forse i Tanana non avevano toccata per mancanza di tempo. - Hanno fatto bene a fuggire così presto - disse il tenente, che perdeva un pò della sua calma abituale. - Se li avessi colti sul fatto, qualcuno l'avrebbe pagata cara, questa bricconata. Mio caro Koninson, siamo stati corbellati come due ragazzi. - Ma li ritroveremo forse un giorno, signor Hostrup - rispose il fiociniere tendendo minacciosamente il pugno verso l'ovest. - Anche noi andiamo da quella parte e chissà! ... - Buon per noi che ci hanno lasciata la vela. - Ma non ci hanno lasciato nemmeno un granello di polvere, e voi sapete che in questo dannato paese non si vive se non si adopera il fucile. Non so il perchè non si sia mai pensato ad aprire delle trattorie. - Perchè gli orsi mangerebbero la dispensa e anche i trattori, amico Koninson. Orsù, quante cariche ti rimangono? - Una sessantina e niente di più! - Io ne ho altrettanto. Bah! Con centoventi colpi di fucile possiamo andare fino sulle rive del Makenzie e anche più lontano. - Ma non abbiamo intanto un briciolo di pane da mettere sotto i denti e non vedo nessun animale intorno a noi. - Per ora stringerai la cinghia dei tuoi calzoni, poi vedremo. Aiutami a spiegare la vela e rimettiamoci in viaggio, giacchè qui più nulla abbiamo da fare. Ad oriente cominciava a biancheggiare quando si rimisero in viaggio, favoriti da un vento abbastanza forte che soffiava da sud-sud-est. La slitta, vigorosamente cacciata innanzi dalla grande vela che era così gonfia da temere che scoppiasse, si rimise a scivolare sulla pianura con un lungo stridio e con una velocità che fu stimata non inferiore ai nove nodi all'ora. Il tenente, che stava a timone, la spinse al di là del bosco lasciando alla sua destra il fiume che accennava a piegare verso sud, poi la lanciò dritta dinanzi a sè, sapendo bene che in qualunque punto avrebbe incontrato sul suo passaggio il Makenzie, il quale taglia quella desolata regione fino alle rive dell'oceano artico. Il paese era sempre piano e disabitato. Solamente a nord, alcune catene di monti, assai lontane, apparivano semi-nascoste fra un fitto nebbione e verso sud dei grandi boschi di pini e di abeti costeggianti il corso del Porcupine. Di quando in quando da quegli alberi uscivano correndo torme di lupi affamati, i quali si davano a inseguire la slitta colla speranza di raggiungerla, ma ben presto desistevano riconoscendo l'inutilità dei loro sforzi; talvolta invece delle renne dalle corna ramose apparivano fra i cespugli e, dopo aver guardato quello strano veicolo che doveva sembrare ai loro occhi un immenso uccello, fuggivano spaventate senza lasciar tempo al fiociniere di prendere il fucile. Dei Tanana nessuna traccia, quantunque i due balenieri si guardassero ben bene d'attorno e porgessero attento ascolto ai rumori del largo. A mezzogiorno, dopo aver percorso molte miglia sotto un sole che cominciava già a diventare caldo ed a sciogliere i ghiacci, Koninson additò al tenente una specie di battello sospeso ad alcuni piuoli alti un paio di metri da terra e che si trovava sull'orlo della foresta. - Cos'è quella roba là? - chiese. - Indica la presenza di qualche tribù di indiani, o la vicinanza di qualche villaggio abbandonato? - Nè l'uno, nè l'altro - rispose il tenente. - Se non m'inganno, quella è una tomba. - Che non ci potrà certamente giovare. - Anzi, troveremo qualche cosa che farà per noi. Ammaina la vela e andiamo a vedere. Il fiociniere s'affrettò ad ubbidire e la slitta, trasportata dal proprio slancio, andò a fermarsi a poca distanza da quella strana tomba. Il tenente e il fiociniere vi si diressero e la esaminarono con curiosità. Consisteva in un vero canotto indiano di corteccia di betulla e armatura di salice, lungo circa otto piedi, solido e leggero ad un tempo. Era sospeso a circa due metri da terra con alcuni piuoli e sotto di esso la neve appariva smossa di recente e vi si vedeva un certo rigonfiamento come se nascondesse qualche cosa. - Il morto è nel canotto? - chiese Koninson. - No, giace sepolto sotto la neve. Il canotto conterrà invece le armi, le scarpe, le reti e le lenze appartenenti all'estinto. - E dei viveri? - Forse, ghiottone. Sali nel canotto e guarda dentro. Il fiociniere si alzò sui piuoli e salito nella leggera imbarcazione gettò giù due fiocine di corno di narvalo diligentemente aguzzate, un paio di scarpe assai malandate, alcune reti e una lenza di pelle di foca lunga una trentina di metri. - Non valeva la pena di venire fin qui - diss'egli di assai cattivo umore. - Ci avessero messo almeno qualche sacchetto di quell'eccellente "pemmican" che sanno fare gli indiani di questa regione! - Sanno bene che i morti non mangiano, ragazzo mio, - disse il tenente. - Ma perchè mettono sulle tombe le armi e le reti? - Perchè se ne servano nell'altra vita. - Ah! Credono che i morti risuscitino. - Tutti gli indiani ne sono convinti. Ora scendi e cerchiamo di procurarci la colazione. Tò! Ecco dei lupi che urlano nel bosco. La loro carne è pessima, ma chi non ha di meglio può accontentarsi. - Voi v'ingannate, signor Hostrup, poichè ho qualche cosa di più appetitoso da offrirvi. Guardate in alto. Il tenente alzò il capo e vide un grossissimo uccello il quale volava pesantemente come se facesse molta fatica a mantenersi in aria. Imbracciò rapidamente il fucile, mirò alcuni istanti con molta attenzione, poi premette lentamente il grilletto. Il grosso volatile colpito dall'infallibile palla del cacciatore, rotolò due volte su sè stesso mandando una nota che parve emessa da una tromba, poi piombò a terra con sordo rumore rimanendo immobile. - È un cigno - disse Koninson precipitandovisi sopra. - Trenta libbre di carne eccellente! - rispose il tenente. - Ma come mai questo uccello si trova qui? - In estate i cigni vengono a visitare questa regione. La presenza di questo uccello indica che lo sgelo dei fiumi non è molto lontano. - Brutta nuova per chi non ha che una slitta a vela. - Bah! Fra poco non avremo più bisogno di questo veicolo, poichè il Makenzie non deve essere molto lontano. Koninson si affrettò a spennare il volatile il cui peso, come aveva detto il tenente, superava le trenta libbre, poi ne mise un grosso pezzo al fuoco che in quel frattempo era stato acceso con legna morta raccolta nella vicina foresta. Calmata la fame, i due naufraghi tornarono a imbarcarsi, e la slitta, favorita ancora da un buon vento, ripartì costeggiando sempre la foresta. L'indomani, dopo una ventina di miglia, il terreno che fino allora si era mostrato molto favorevole cominciò a cambiare. La gran pianura era spesso interrotta da ondulazioni, da salite, da larghi crepacci e da ruscelletti, le cui rive assai più alte dei corsi d'acqua facevano trabalzare disordinatamente il veicolo, minacciando spesso di mandarlo in pezzi. Anche un largo fiume che il tenente suppose fosse il Peel, uno degli affluenti al Porcupine, e che sbocca a breve distanza dal Makenzie, venne ad interrompere la corsa. I due naufraghi furono costretti a calare la slitta dalla riva e attraversare il ghiaccio per poi issarla sulla sponda opposta. In quella traversata poco mancò che affondassero nel fiume poichè il ghiaccio, corroso dall'azione delle acque e dal sole, più volte crepitò e tremò sotto il peso della slitta. II 14 maggio il vento improvvisamente mancò e così pure per altri tre giorni durante i quali il sole, che rapidamente diventava caldo, sciolse gran parte dello strato di neve rendendo così la marcia della slitta assai penosa. Il 18 dovettero rinunciare a partire di giorno, quantunque il vento fosse propizio, anzi molto forte. La neve, eccessivamente rammollita, non permetteva più lo scivolamento. La gran pianura, percossa da una vera pioggia di raggi caldissimi, presentava un sublime spettacolo. Pareva che un immenso incendio la divorasse, estendosi fino agli estremi limiti dell'orizzonte. La neve, i massi di ghiaccio, gli "hummoks", si fondevano a vista d'occhio e fitte masse di vapori ondeggiavano in tutti i versi, sbattute dagli impetuosi soffi del vento meridionale. Di quando in quando, però, fasci di luce scaturivano da quelle masse, e così abbaglianti che gli occhi dei due balenieri non ci potevano resistere. Le acque pullulavano dappertutto correndo in tutte le direzioni, radunandosi nelle bassure, formando torrentelli e stagni, e producendo un ronzio che, di mano in mano che il sole si alzava sempre più splendido e sempre più caldo, diventava più forte. - Corpo di una balenottera! - esclamò Koninson che si era affrettato a tirarsi i capelli sugli occhi per non rimanere cieco. - Si direbbe che oggi messer Febo si è avvicinato alla terra di qualche milione di miriametri. - Se non ci affrettiamo, la nostra vela ci sarà affatto inutile. Fra un paio di giorni la pianura rimarrà scoperta - disse il tenente. - E quando partiremo? - Stasera farà ancora un pò di freddo e tutta quest'acqua e questa neve geleranno. Il tenente non si era ingannato. Verso le 11 di sera, quantunque il sole fosse ancora sull'orizzonte, la temperatura precipitò quasi improvvisamente di parecchi gradi, fino a toccare i tre sotto lo zero e la vasta pianura gelò. I balenieri spiegarono la vela e ripartirono con una velocità notevolissima, essendosi il vento mantenuto assai forte. Alle tre del mattino avevano già percorso trenta e più miglia, ora scendendo ed ora salendo. Ad un tratto l'orecchio di Koninson fu ferito da uno strano muggito che veniva da est. - Abbiamo qualche branco d'alci dinanzi a noi? - chiese egli prendendo il fucile. - Lo spero - rispose il tenente, prendendo la sua arma. Di mano in mano che la slitta procedeva il muggito cresceva sempre, ma sulla pianura non si vedeva alcun essere vivente, per quanto i balenieri aprissero gli occhi. Koninson, che cominciava a diventare inquieto, s'alzò in piedi e si issò sull'albero. Un grido gli sfuggì tosto: - Lasciate la scotta. Abbiamo un fiume dinanzi! - È il Makenzie! - esclamò il tenente. In un baleno, lasciò andare la fune, ma ormai era troppo tardi per arrestare la slitta che divorava la via con una celerità di quindici nodi all'ora. In men che lo si dica, giunse al fiume che correva incassato fra due alte muraglie, barellò un istante nel vuoto, poi precipitò giù inabissandosi nei gorghi del Makenzie.

. - Un gran brutto navigare è il nostro, con tutti questi ghiacci che pare abbiano una voglia matta di fare del "Danebrog" una frittata. Vedete la costa americana, signor Hostrup? - No, Koninson, e anche quella costa mi dà assai da pensare. Possiamo trovarci da un istante all'altro dinanzi a una delle numerose isole o scogliere che la cingono.. In quell'istante, tra i fischi del vento e i muggiti delle onde, si udì mastro Widdeak gridare con accento di terrore: - Abbiamo un "iceberg" a prua! Il capitano, il tenente e Koninson, malgrado i violentissimi beccheggiamenti del vascello, si slanciarono colà. A mezza gomena appena, attraverso il nebbione, si vedeva scintillare una gran montagna di ghiaccio la quale, urtata da tutte le parti dalle onde, pareva fosse lì lì per capovolgersi. - Vira, timoniere! - urlò il capitano. - Tutti ai bracci delle manovre! Il "Danebrog", che non era più che a venti o a trenta passi dall'"iceberg", virò prontamente sul posto, ma ricevette sul fianco tale colpo di mare che lo fece quasi rovesciare sul tribordo. Quasi nel medesimo istante si udì ancora mastro Widdeak urlare: - Bada, timoniere! Un altro "iceberg" dinanzi la prua! Infatti, dritto l'asta di prua, era improvvisamente apparso un altro "iceberg" e questo ancora più grande del primo. Era una specie di colonna alta almeno cento metri e grossa quasi altrettanto. - Siamo proprio circondati? - gridò il capitano con ira. Si slanciò alla ruota del timone, e mentre i marinai, ad un comando del tenente, si portavano tutti a prua armati dei buttafuori, diresse la nave in modo da passare fra le due montagne che erano distanti appena due gomene l'una dall'altra, manovra quanto mai pericolosa, poichè potevano proprio in quel momento perdere l'equilibrio e sfracellare il "Danebrog" assieme a tutti quelli che lo montavano. - State in guardia, capitano! - gridò il tenente, appena vide la nuova direzione presa dalla nave. - Gli "icebergs" non mi sembrano bene equilibrati. - Non temete, tenente! - rispose il capitano con voce ferma. - Che nessuno abbandoni i buttafuori! Il "Danebrog", spinto dal vento e dalle onde e guidato dalla ferrea mano del capitano Weimar, si avvicinò rapidamente alle due montagne le quali, violentemente urtate dalle acque che muggivano e rimuggivano, balzando e rimbalzando, oscillavano spaventosamente minacciando di urtarsi e di capovolgersi. Non mancavano più che poche decine di metri, perchè il "Danebrog" giungesse al pericoloso passo, quando dall'"iceberg" più grande caddero in mare parecchie centinaia di ghiacciuoli, ciò che indicava che stava per perdere l'equilibrio. Un urlo di terrore si alzò sul ponte della nave; i marinai che si erano raggruppati a prua, lasciarono il posto precipitosamente, gettando via i buttafuori. Alcuni si slanciarono verso le baleniere, ritenendo ormai imminente una catastrofe. Il tenente, che era rimasto intrepidamente sul castello di prua, si gettò in mezzo ai fuggiaschi alzando minacciosamente il buttafuori che teneva in mano. - Ai vostri posti! - urlò. - Il primo che pone una mano sulle baleniere lo ammazzo come un cane! - tuonò dal canto suo il capitano, che si teneva aggrappato alla ruota del timone. - Tutti a prua o siamo perduti! Koninson primo, mastro Widdeak secondo, poi tutti gli altri riguadagnarono i posti assegnati. Era tempo! Il "Danebrog" si era cacciato fra le due montagne di ghiaccio e una di queste, portata innanzi da un'onda, minacciava di spezzare i pennoni e le murate. I marinai, quantunque il terrore li agghiacciasse, ubbidirono di comune accordo. L'"iceberg" che avanzava sempre rollando spaventosamente, tutto d'un tratto s'inclinò verso la nave che gli passava di fianco ratta ratta e sfracellò i buttafuori mandando a terra gli uomini che li stringevano. Per la seconda volta i marinai abbandonarono i loro posti fuggendo a tribordo. Il capitano Weimar gettò un vero ruggito e il tenente, malgrado tutto il suo coraggio, impallidì. Entrambi credettero che questa volta pel "Danebrog" fosse proprio finita. Un'altra onda avvicinò di più la montagna di ghiaccio. Un pennone, quello di maestra, che sporgeva assai fuori dal bordo, fu smussato da un blocco di ghiaccio staccatosi dalla cima dell'"iceberg" - Si salvi chi può! - urlarono alcuni marinai, che avevano perduto completamente la testa. - Fermi! Fermi! Passiamo! - tuonò il capitano Weimar sempre ritto dietro la ruota del timone. Il "Danebrog", trasportato dal vento che soffiava con forza irresistibile, filava come una rondine marina quasi strisciando sul fianco della montagna. Due volte toccò, ma finalmente uscì dal pericoloso passo e si slanciò sulle onde furenti lasciandosi addietro i due "icebergs", i quali in brevi istanti scomparvero nel nebbione. Un grido di gioia s'alzò fra l'equipaggio, unito al grido di: "Viva il capitano"! Ma quel grido cessò quasi subito. Uno strano e formidabile fragore si era improvvisamente udito verso sud-est. Pareva che l'oceano si rompesse contro una costa che il nebbione non permetteva di vedere. - Tenente Hostrup! - gridò il capitano che aveva pure udito quel lungo muggito. - Cosa abbiamo dinanzi a noi? La costa americana forse? Il tenente salì sul castello di prua e guardò attentamente dinanzi, a babordo e a tribordo, ma altro non vide che furiosi marosi i quali trascinavano nei loro disordinati movimenti ghiacci di ogni dimensione, sfracellandoli gli uni contro gli altri. Si curvò più che potè verso l'acqua e tese attentamente gli orecchi. Fra i fischi del vento e i cozzi dei ghiacci udì distintamente un sordo muggito. - Sì, capitano - gridò. - Noi abbiamo vicina la costa o una scogliera. - Tutti ai bracci delle vele pronti a virare! - comandò il capitano, Il "Danebrog" per dieci minuti tirò innanzi, sempre orribilmente sballottato dalle onde, che saltavano sopra le murate inondando la tolda da prua a poppa. Ad un tratto, a breve distanza apparve una spuma biancastra e il muggito poco prima udito divenne così intenso da credere che la costa o le scogliere fossero a poche gomene. Il capitano Weimar stava per dare il comando di virare, quando avvenne un leggero cozzo che arrestò subito la marcia del "Danebrog". Il tenente e Koninson corsero a prua e si issarono, per meglio vedere, sul bompresso. Quasi subito avvenne un secondo urto e questa volta così forte da rovesciare tutto l'equipaggio. Una montagna d'acqua, varcate le murate, si precipitò sulla tolda atterrando tutto ciò che incontrava. Tra i fischi del vento ed i muggiti delle onde s'udirono due grida d'aiuto, poi più nulla. Quando i caduti si rialzarono, il "Danebrog" galleggiava ancora, ma due uomini mancavano. Il tenente Hostrup e il fiociniere Koninson, che al momento dell'urto si trovavano sull'albero di bompresso, erano stati trascinati via dal colpo di mare!

I PIRATI DELLA MALESIA

682400
Salgari, Emilio 3 occorrenze

Che quelli della città abbiano segnalato a questi uomini la mia fuga? Si rannicchiò in mezzo al fogliame, per non essere scorto da quelli che passavano pel sentiero, e attese, in preda ad una viva ansietà. Un'ora dopo i due inglesi risalivano verso il fortino, seguiti da un ufficiale delle guardie e da un europeo vestito di tela bianca, il quale aveva una scatoletta nera appesa alla cintura. - Che sia un medico? - si chiese Kammamuri diventando pallido. - Che qualcuno sia ammalato? Là dentro c'è il mio padrone! ... Signore Yanez, venite, fate presto! - Si lasciò scivolare fino a terra e strisciò verso il sentiero, risoluto ad interrogare qualcuno. Fortunatamente batterono le dodici, poi l'una, le due, le tre, senza che alcun marinaio o alcuna guardia passassero di là. Verso le cinque, però, un uomo con un largo cappellaccio di paglia e un paio di pistole alla cintura apparve ad una svolta del sentiero. Kammamuri lo riconobbe subito. - Padron Yanez! - esclamò. Il portoghese, che saliva con passo lento guardando attentamente a destra e a sinistra come se cercasse qualcuno, a quella chiamata si arrestò. Scorgendo Kammamuri, affrettò il passo e, quando l'ebbe raggiunto, lo spinse nel fitto di un macchione dicendogli: - Se qualche guardia ti scorgeva, eri spacciato e questa volta per sempre; bisogna essere prudenti, mio caro. - È successo qualche cosa di grave al fortino, padron Yanez - disse il maharatto. - Un sospetto mi è balenato alla mente e ho lasciato il mio nascondiglio. - Un sospetto! ... E quale? - Che il mio padrone sia rinchiuso là dentro e che sia moribondo. Ho visto un bianco recarsi lassù e mi è sembrato un medico. - È proprio il tuo padrone che ha messo in moto i soldati del fortino. - Il mio padrone! ... - Sì, mio caro. - E sta male? - È morto. - Morto! - esclamò il maharatto traballando - Non spaventarti, piccino mio. Lo credono morto, ma invece è vivo. - Ah! padron Yanez, quale paura mi avete fatto provare! Gli avete dato da bere qualche potente narcotico? - Gli ho dato delle pillole che sospendono la vita per trentasei ore. - E lo crederanno morto? - Fulminato. - E come faremo a salvarlo? - Questa sera, se non m'inganno, lo seppelliranno. - Capisco - disse il maharatto. - Seppellito che sia, noi lo disseppelliremo e lo porteremo al sicuro. Ma dove lo porteranno? - Lo sapremo. - E come? - Quando usciranno dal forte noi li seguiremo. - E quando faremo il colpo? - Questa notte. - Noi due? - Tu e Sandokan. - Dovrò avvertirlo dunque. - Certamente. - E voi non verrete con noi? - Non posso. - Perché? - Il rajah questa sera dà un ballo in onore dell'ambasciatore olandese e, come capirai, non posso mancare senza destare dei sospetti. - Aho! - esclamò il maharatto, alzando vivamente la testa verso il fortino. - Che hai? - Degli uomini escono dal forte. - Per Giove! Scostò con le mani i rami del fitto cespuglio e guardò la cima della collina. Due marinai erano usciti portando sopra una barella un corpo umano chiuso in una specie di amaca. Dietro a loro uscirono altri due marinai armati di zappe e di vanghe, e una guardia del rajah. - Prepariamoci a partire - disse Yanez. - Che strada prendono? - chiese Kammamuri, con viva ansietà. - Scendono il colle dal lato opposto. - Vanno a seppellirlo nel cimitero! - Non lo so. Giriamo il bosco, ma bada di non far rumore. Uscirono dalla macchia e si cacciarono sotto la boscaglia che copriva quasi tutta la collina. Scavalcando tronchi atterrati, sfondando intricati cespugli e tagliando lunghe radici, girarono attorno al forte e si trovarono sul versante opposto. Yanez si arrestò. - Dove sono? - si chiese. - Eccoli laggiù - disse il maharatto. Il drappello infatti era in vista. Scendeva uno stretto sentiero che menava ad una piccola prateria circondata da superbi alberi. Nel mezzo, cinto da una bassa palizzata, c'era uno spazio irto di cippi e di tavolette di legno. - Quello dev'essere il cimitero - disse Yanez. - Si dirigono verso quel luogo? - chiese Kammamuri. - Sì. - Respiro, padron Yanez. Temevo che gettassero il mio povero padrone nel fiume. - Anche a me era venuto questo pensiero. I marinai erano entrati nel cimitero e si erano arrestati nel mezzo, deponendo a terra Tremal-Naik. Yanez li vide girare per qualche istante fra i Cippi, come se cercassero qualche cosa, poi uno di essi alzò la zappa e cominciò a scavare. - E là che lo sotterreranno - disse il portoghese al maharatto. - La terra smossa di fresco vi indicherà il luogo dove è sepolto - C'è pericolo che il mio padrone muoia asfissiato? - chiese Kammamuri. - No, amico mio. Ora corri subito da Sandokan, ordinagli di radunare i suoi, di venire qui e dissotterrare il tuo padrone. - E poi? - Poi tornerete nel bosco e domani verrò a raggiungervi. Domani sera potremo lasciare questi luoghi per sempre. Va', amico, va'. Il maharatto non se lo fece dire due volte. Impugnò la pistola e scomparve sotto gli alberi con la rapidità di un daino.

- Che abbiano rapito Ada. - Sarebbe un colpo terribile! - Taci! - Ancora un rumore? ... - Sì, capitano Yanez - confermarono i pirati impugnando le armi. Si vedevano i rami di un macchione di cespugli agitarsi a cento passi dalla spiaggia. - Chi vive? - gridò Sandokan. - Mompracem - rispose una voce. Poco dopo un pirata usciva dai cespugli. Era ansante e sudato, come se avesse fatto una lunga corsa, e stringeva un fucile. - Viva la Tigre! - esclamò scorgendo il capo. - Da dove vieni? - chiese Sandokan. - Dalla foresta, capitano. - Dov'è la Vergine? - Nel fortino. - Sei certo? ... - L'ho lasciata due ore or sono sotto la guardia di Koty. Sandokan respirò liberamente. - Cominciavo a temere - disse. - Come sta? - Benissimo. - Che cosa faceva? - Quando la lasciai dormiva. - Hai veduto qualcuno nei boschi? - Io no, ma Koty stamane ha visto un uomo passare lungo la sponda e guardare con viva curiosità il fortino. Vedendosi osservato si affrettò a scomparire. - E l'hai veduto quell'uomo? - L'ho cercato, ma non sono riuscito a scoprirlo. - Che sia una spia del rajah? - chiese Yanez. - È probabile - rispose Sandokan che pareva preoccupato. - Che vengano ad assalirci qui? ... - Chi può dirlo? - Che cosa conti di fare? ... - Lasciare questo posto al più presto. Imbarchiamoci. I due capi e i loro uomini salirono nella scialuppa, attraversarono il braccio di mare che era largo due o trecento metri e sbarcarono ai piedi della fortezza ove li attendeva Koty. - Dorme ancora la vergine? - gli chiese Sandokan. - Sì, capitano. - È accaduto nulla di straordinario? - No. - Andiamo a vederla - disse Yanez. Sandokan gli additò Tremal-Naik che era stato deposto su di uno strato di erbe e di foglie verdi. - Mancano pochi minuti a mezzodì - disse. - Aspetta che si svegli. Ordinò ai suoi uomini di entrare nel fortino e si sedette accanto all'indiano che non dava ancora segno di vita. Yanez si accese una sigaretta e si sdraiò vicino a lui. - Ci vorrà molto, prima che apra gli occhi? - chiese dopo alcune fumate a Sandokan che guardava attentamente il viso dell'indiano. - No, Yanez. Vedo che la sua pelle a poco a poco riacquista il colore naturale. È segno che il suo sangue ricomincia a circolare. - Gli farai subito vedere la sua Ada? - Subito no, ma prima di questa sera sì. - E se non lo riconoscesse? Se ella non riacquistasse la ragione? - La riacquisterà. - Io dubito, fratello mio. - Ebbene, tenteremo una prova. - E quale? - A suo tempo te lo dirò. - E perché? ... - Taci! ... Un debole respiro aveva improvvisamente sollevato l'ampio petto di Tremal-Naik e aveva mosso leggermente le sue labbra. - Si sveglia, - mormorò Yanez. Sandokan si curvò sull'indiano e gli posò una mano sulla fronte. - Si sveglia - disse. - Subito? - Subito. - Senza fargli alcuna puntura? - Non ce n'è bisogno, Yanez. Un secondo respiro, più forte del primo, sollevò nuovamente il petto di Tremal- Naik e le sue labbra tornarono a muoversi. Poi le sue mani, che erano aperte, lentamente si chiusero, le sue gambe pure lentamente si piegarono e infine i suoi occhi si aprirono dilatandosi assai e si arrestarono su Sandokan. Rimase così alcuni istanti, come se fosse sorpreso di trovarsi tuttora in vita, poi, con uno sforzo violento, si alzò a sedere esclamando: - Vivo! ... Ancora vivo! - E libero - disse Yanez. L'indiano guardò il portoghese. Lo riconobbe subito. - Voi! ... Voi! ... - esclamò. - Ma che cosa è successo? Come mi trovo qui? Ho dormito io? - Per Bacco! - esclamò Yanez ridendo. - Non vi ricordate di quella pillola che vi diedi nel fortino? - Ah! ... Sì, sì ... ora ricordo ... voi eravate venuto a trovarmi ... Signore, signore, quanto vi ringrazio di avermi liberato! ... Così dicendo Tremal-Naik si era precipitato ai piedi di Yanez. Questi lo rialzò e lo strinse affettuosamente al petto. - Come siete buono, signore! - esclamò l'indiano che pareva avesse subito ricuperato le sue forze, e che era fuori di sé dalla gioia. - Libero! Sono libero! ... Vi ringrazio, signore, vi ringrazio! ... - Ringraziate quest'uomo, Tremal-Naik - disse Yanez additandogli Sandokan che, con le braccia incrociate sul petto, guardava con occhio commosso l'indiano. - È a quest'uomo, alla Tigre della Malesia, che voi dovete la vostra libertà. Tremal-Naik si precipitò verso Sandokan che lo accolse fra le sue braccia dicendo: - Sei mio amico! In quell'istante un urlo di gioia risuonò alle loro spalle. Kammamuri, che era allora uscito dal forte, correva loro incontro urlando: - Padrone! mio buon padrone! ... Tremal-Naik si slanciò verso il fedele maharatto che pareva fosse diventato pazzo. I due indiani si abbracciarono a più riprese, senz'essere capaci di scambiarsi una sola parola. - Kammamuri, mio buon Kammamuri! - esclamò finalmente Tremal-Naik. - Credevo di non rivederti mai più su questa terra. Ma come sei qui? Non ti hanno ucciso i thugs, dunque? - No, padrone, no. Io sono fuggito per cercare te. - Per cercare me! Ma sapevi che ero in questo luogo? - Sì, padrone, l'avevo saputo. Ah! padrone! quanto ti ho pianto dopo quella notte fatale. Io ti stringo fra le braccia, ti sento, eppure stento a credere che tu sia ancora vivo e libero. Non ci lasceremo più, è vero? - No, Kammamuri, mai più. - Vivremo assieme al signor Yanez e alla Tigre della Malesia. Quali nobili uomini, padrone! Se tu sapessi quanto hanno fatto per te, se tu sapessi quante lotte ... - Alto là, Kammamuri - disse Yanez. - Altri uomini avrebbero fatto quello che abbiamo fatto noi. - Non è vero, padrone. Nessun uomo potrà mai fare ciò che hanno fatto la Tigre della Malesia e il signor Yanez. - Ma perché interessarsi tanto di me? - chiese Tremal-Naik. - Eppure non vi ho mai veduti, signori. - Perché foste un giorno il fidanzato di Ada Corishant - disse Sandokan, e mia moglie era cugina di Ada Corishant. A quel nome l'indiano aveva fatto un passo indietro, barcollando come se avesse ricevuto una pugnalata in mezzo al petto. Poi si coprì con le mani il viso, mormorando con voce straziante: - Ada! ... o mia adorata Ada! ... Un singhiozzo sollevò il suo petto e due lacrime, forse le prime che stillavano da quegli occhi, gli rotolarono più per le gote abbronzate. Sandokan gli si avvicinò e, abbassandogli le mani, disse con dolcezza: - Perché piangete, mio povero Tremal-Naik? Questo è un giorno di gioia. - Ah, signore! ... - mormorò l'indiano. - Se voi sapeste quanto ho amato quella donna! ... Ada! ... oh mia Ada! ... Un secondo singhiozzo lacerò il petto dell'indiano e nuove lacrime gli spuntarono sulle ciglia. - Calmatevi, Tremal-Naik - disse Sandokan. - La vostra Ada non è perduta. L'indiano risollevò il capo che teneva curvo sul petto. Un lampo di speranza balenava nei suoi occhi neri. - Ella è salva? - Salva! ... - disse Sandokan. - Ed è qui, in quest'isolotto. Un urlo inumano irruppe dalle labbra di Tremal-Naik. - Ella è qui ... qui! ... - gridò gettando all'intorno sguardi smarriti. - Dov'è? ... Io voglio vederla, io voglio vederla! ... Ada! ... Ada! ... Oh mia adorata Ada! ... Fece l'atto di slanciarsi verso il fortino, ma Sandokan lo afferrò per i polsi e con tale forza da fargli crocchiare i polsi. - Calmatevi - gli disse. - Ella è pazza. - Pazza! ... la mia Ada pazza! ... - gridò l'indiano. - Ah! ... Ma io voglio vederla, signore, io voglio vederla fosse pure per un solo momento. - La vedrete, ve lo prometto. - Quando? - Fra pochi minuti. - Grazie, signore! grazie! - Sambigliong! - gridò Yanez. Il dayaco, che ronzava attorno al fortino esaminando attentamente le palizzate per assicurarsi se erano abbastanza solide per sostenere un assalto, alla chiamata del portoghese accorse. - Dorme la vergine della pagoda? - chiese Sandokan. - No, capitano - rispose il pirata. - È uscita alcuni minuti fa coi suoi guardiani. - Dove si è diretta? - Verso la costa. - Venite, Tremal-Naik - disse Sandokan prendendogli una mano. Ma vi raccomando di essere calmo: ricordate che è pazza.

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 8 occorrenze

"Che i negri, più furbi di noi, abbiano nascosto le loro imbarcazioni fra i canneti delle rive." "Ma tu sei un uccello di cattivo augurio," disse Rocco. "Conosco la caparbietà di questi negri," rispose il moro. "Mi pare impossibile che abbiano rinunciato così presto a prenderci." "Avranno mandato a casa del diavolo il sultano ed i suoi kissuri, ecco tutto." "Andiamocene," disse il marchese. I barcaiuoli stavano per spingere al largo la scialuppa, quando in mezzo agli alberi che circondavano il piccolo seno si udì echeggiare un urlo lugubre e prolungato. "Uno sciacallo?" interrogò il marchese, un po' inquieto. "Ben imitato," rispose El-Haggar. "Tu vuoi dire?" "Che non è stato uno di quegli animali a mandar questo urlo." "Che vi siano dei negri nascosti nella foresta?" chiese Ben. "Ragione di più per andarcene subito," disse Rocco. La scialuppa, spinta dai suoi quattro remi poderosamente manovrati, attraversò velocemente il bacino. Stava per rientrare nel fiume quando si udirono in aria alcuni sibili acuti, mentre in mezzo agli alberi tornava a echeggiare il lugubre urlo dello sciacallo. "Sono frecce," disse El-Haggar. "Abbassate la testa!" Il marchese invece di curvarsi si era alzato col fucile in mano, tentando di scoprire, attraverso i folti vegetali, quei misteriosi arceri. Vedendo un'ombra umana emergere fra le canne della riva, puntò l'arma e fece rapidamente fuoco. Si udì un grido, poi un tonfo. L'uomo era caduto e si dibatteva nell'acqua, a pochi passi dalla scialuppa. Rocco con un poderoso colpo di remo lo sommerse e probabilmente per sempre, perché l'acqua tornò tranquilla e nessun rumore più si udì. Nondimeno la situazione dei fuggiaschi non era migliorata dopo quel fortunato colpo di fucile. Di quando in quando qualche freccia, scagliata forse a caso, passava sibilando sopra la scialuppa che si era impegnata nello stretto passaggio che serviva di comunicazione fra la piccola cala ed il fiume. "Ben," disse il marchese, il quale aveva ricaricato prontamente l'arma, "voi sorvegliate la riva destra mentre io guardo quella sinistra e se scorgete qualcuno fate fuoco." "Ed io?" chiese Esther. "Rimanete coricata fra le casse, per ora. Noi due basteremo." Rocco, il moro ed i due battellieri arrancavano con furore per superare lo stretto, che era fiancheggiato da foltissime piante dove i negri potevano imboscarsi e lanciare i loro dardi con piena sicurezza. Per la terza volta l'urlo dello sciacallo ruppe il silenzio che regnava nella foresta. "Ah! Questo urlo!" esclamò il marchese, le cui inquietudini aumentavano. "Che significherà? Che sia un segnale di raccolta?" Un colpo secco sul bordo lo fece balzare indietro ... Una piccola lancia, uno di quei giavellotti che i negri usano lanciare a mano, si era piantato nel fianco della scialuppa, a pochi centimetri da Rocco. Il marchese udendo le canne muoversi stava per far fuoco quando una scarica di tamburi rintronò in mezzo agli alberi, seguita da vociferazioni spaventevoli. Quasi nel medesimo istante vide delle strisce di fuoco serpeggiare velocemente fra i festoni di liane ed in mezzo ai cespugli. "Per le colonne d'Ercole!" esclamò. "S'incendia la foresta? Rocco, El-Haggar! Alle armi!" Una turba di negri, muniti di rami resinosi, si era precipitata attraverso le piante incendiando i cespugli resinosi, poi si era rovesciata sulle rive della piccola cala, urlando come una legione di demoni. Erano più di cento, armati di lance, di archi e di mazze, di scimitarre e di coltellacci. Alcuni, più audaci, vedendo la scialuppa già in procinto di entrare nel Niger, si erano gettati coraggiosamente in acqua sperando di raggiungerla. "Ben," disse il marchese, "noi occupiamoci dei nuotatori e voi altri fate delle scariche verso la riva. Tirate con calma e non impressionatevi. Questi negri valgono ben poco e li arresteremo subito." L'incendio della foresta si era propagato con rapidità incredibile. I cespugli si torcevano e scoppiettavano, mentre le fronde delle piante giganti fiammeggiavano come torce colossali. Una luce intensa illuminava tutta la cala, proiettandosi fino sulle acque del Niger, le quali pareva che si fossero tramutate in bronzo fuso. Una prima scarica arrestò, poi volse in fuga i nuotatori ed una seconda calmò lo slancio dei negri assiepati sulle rive. Le palle dei fucili a retrocarica avevano gettato a terra o calato a fondo parecchi uomini e quella dura lezione aveva raffreddato il furore degli assalitori. "Approfittiamo di questo momento di sosta," disse il marchese. "Rocco, El- Haggar, ai remi!" Mentre Ben ed Esther continuavano a sparare contro ambe le rive, la scialuppa superò velocemente lo stretto e si slanciò nelle acque del Niger, allontanandosi dalla sponda. Il pericolo non era cessato, tutt'altro! Attirati dai rulli dei noggara e più di tutto da quella luce intensa che si propagava sulla riva del fiume gigante, numerose scialuppe si erano staccate da Koromeh, montate da equipaggi armati. "Stiamo per venir presi," disse Ben, gettando uno sguardo disperato verso Esther. "Quelle scialuppe accorrono per tagliarci il passo." "E sono una ventina," mormorò il marchese, tormentando il grilletto del fucile. Le scialuppe di Koromeh avevano attraversato il fiume ed avevano formato una linea che si estendeva quasi da una riva all'altra, onde chiudere completamente il passo. Erano montate da un centinaio e mezzo di negri armati per la maggior parte d'archi e di coltellacci, però alcuni possedevano anche dei fucili. Continuando la foresta a bruciare, si distinguevano perfettamente e si vedeva anche che si preparavano a dare battaglia ai fuggiaschi. "Amici," disse il marchese. "Non perdiamo un colpo. Dalla rapidità del nostro fuoco e dall'esattezza dei nostri tiri dipende la nostra salvezza. "Quando saremo addosso alle scialuppe, tu, Rocco, e tu, El-Haggar, lasciate i remi e prendete i fucili ... Mille cannonate! I kissuri!" "Dove sono?" chiesero tutti. "Là, guardateli! Hanno lasciato or ora la riva sinistra e corrono in aiuto dei negri su due imbarcazioni!" "Maledizione!" ruggì Rocco. "Verranno a guastare la nostra vittoria." "Marchese," disse Esther. "Voi e Ben occupatevi dei negri; io apro il fuoco sui kissuri. La mia carabina ha una portata straordinaria e prima che quei bricconi si avvicinino, ne abbatterò parecchi." Il marchese e Ben aprirono tosto un terribile fuoco accelerato, mentre Esther, coricata fra le casse, sparava sulle due imbarcazioni montate dai kissuri lanciando le sue palle a sei o settecento metri. Intanto i due battellieri, Rocco ed El-Haggar, arrancavano con furore, risoluti a sfondare la linea di battaglia e passare addosso ai negri. Il fuoco accelerato del marchese, di Ben e della giovane ebrea, diventava più terribile a mano a mano che la distanza scemava. I negri cadevano in buon numero e anche i kissuri subivano perdite gravissime, perché ben poche palle andavano perdute. Erano tre formidabili bersaglieri e mancava ancora Rocco, un tiratore che forse superava gli altri. I nemici nondimeno non aprivano la loro linea, anzi le scialuppe più lontane accorrevano per ingrossarla onde opporre maggiore resistenza ed intanto rispondevano scaricando i loro moschettoni e lanciando frecce in gran numero. Né le palle, né i dardi ancora giungevano fino alla scialuppa, tuttavia il marchese cominciava a diventare assai preoccupato per l'abbondanza straordinaria di quei proiettili. "Eleviamo una barricata!" esclamò ad un tratto. "Abbiamo le casse e anche delle panche. Ben, Esther, continuate il fuoco, voi! Non domando che due minuti." Lasciò il fucile, afferrò uno ad uno i forzieri e li accumulò a prora legandoli insieme con una fune. Essendo pieni d'oro, potevano arrestare le palle dei moschettoni, anche a breve distanza. "Esther, qui voi," disse quand'ebbe finito. "La barricata è solida e non correte pericolo alcuno. Vi ho lasciato uno spazio sufficiente per la canna della vostra carabina." Accumulò poi a poppa le casse contenenti i loro effetti, formando una seconda barricata, e alzò le panche a babordo ed a tribordo in modo da riparare anche i rematori dai tiri trasversali. I negri accortisi subito di quei ripari che rendevano quasi inutili le loro frecce e anche le loro palle, avevano rotto la loro linea di combattimento per assalire la scialuppa sui due fianchi, ma le prime barche che si erano avanzate avevano dovuto retrocedere frettolosamente cogli equipaggi decimati. Il marchese ed i suoi compagni le avevano accolte con un fuoco così terribile, da rendere impossibile un nuovo attacco. "Coraggio, amici!" gridò il marchese. "La via è aperta!" Si volse e guardò le scialuppe montate dai kissuri del sultano. Si trovavano allora a quattrocento metri e manovravano in modo da abbordare l'imbarcazione a poppa. "Tre salve su costoro!" gridò il marchese. "Sono i più pericolosi!" Nove colpi di fucile rimbombarono. Cinque kissuri della prima scialuppa caddero e uno della seconda. "Eccoli calmati," disse il marchese vedendo le due imbarcazioni arrestarsi. "Avanti ora!" Una scialuppa si era messa attraverso la rotta seguita dai fuggiaschi. Era montata da otto negri fra i quali alcuni possedevano dei fucili. "Animo!" gridò Rocco. "All'abbordaggio!" Arrancando con lena disperata investono furiosamente la scialuppa, le fracassano il bordo e la capovolgono, mentre il marchese, Ben ed Esther fucilano a bruciapelo i negri. "Urrah! Avanti!" tuona il marchese. L'imbarcazione passa fra gli assalitori colla velocità d'un dardo e supera la linea, ma i negri non si danno ancora per vinti. Incoraggiati dai kissuri i quali si sono rimessi in caccia e forti del numero, si riordinano prontamente ed inseguono vigorosamente i fuggiaschi, mentre altre scialuppe si staccano dalle due rive. La battaglia diventa terribile. Anche Rocco ed El-Haggar hanno impugnati i fucili e dopo aver rinforzato la barricata di poppa con quella di prora, diventata ormai inutile, bruciano le loro cartucce senza economia. Le canne dei retrocarica sono diventate così ardenti, che il marchese, Ben ed Esther sono costretti a bagnarle nel fiume onde non bruciarsi le dita. È un miracolo se i fuggiaschi non hanno ricevuto ancora delle ferite. La lotta non può durare a lungo, malgrado il fuoco infernale dei due isolani, dei due ebrei e del moro. I negri s'accostano da tutte le parti urlando come demoni, decisi a venire all'abbordaggio. Il Niger sembra in fiamme, perché l'incendio della foresta avvampa sempre. Le sue acque sembrano di fuoco. Il marchese e Ben si scambiano uno sguardo pieno d'angoscia. Comprendono che la lotta sta per finire e che stanno per cadere vivi nelle mani dei negri e dei kissuri. "È finita," mormora il marchese, con voce strozzata. "Sì," risponde Ben, facendo un gesto disperato ... "Ci lasceremo prendere?" "No. Vi è una scure sotto il banco. Quando i negri monteranno all'assalto, sfonderemo la scialuppa." "Sì, Ben." Riprendono il fuoco, fulminando i negri più vicini. Esther pallida ma sempre risoluta, li appoggia vigorosamente, mentre Rocco si prepara a martellare i nemici col calcio del fucile. Il cerchio si restringe. I negri non si trovano che a poche diecine di passi ed impugnano le lance e le mazze mentre i kissuri urlano a piena gola "Addosso ai kafir! Ordine del sultano." Ad un tratto un fischio acuto assordante lacera l'aria e copre il rombo delle fucilate, poi delle scariche regolari, stridenti, come eseguite da una mitragliatrice, si seguono. I negri si arrestano stupiti e anche spaventati, mentre parecchi cadono fulminati sul fondo delle piroghe. Il marchese, a rischio di ricevere una palla nel cranio, balza a prora. Un urlo gli sfugge "Siamo salvi! Coraggio! Alcune scariche ancora!" Una grossa scialuppa a vapore, fornita di ponte, sbucata non si sa da dove, fende rapidamente le scintillanti acque del fiume, fischiando e fumando. A prora balenano dei lampi e risuonano delle detonazioni. È una mitragliatrice che prende d'infilata le scialuppe dei negri. Chi sono quei salvatori che giungono in così buon punto? Nessuno si cura di saperlo pel momento. Il marchese e tutti gli altri, vedendo la scialuppa avanzarsi a tutto vapore, raddoppiano il fuoco, bruciando il muso ai negri più vicini. Il cerchio si è allargato, perché la mitragliatrice comincia a far strage. Le palle fioccano sulle scialuppe, decimando crudelmente gli equipaggi. Un uomo di alta statura, con una lunga barba bionda, vestito interamente di bianco, con in capo un elmetto da esploratore, sale sulla prora della scialuppa a vapore già vicinissima, gridando: "Vorwaerts! Pronti ad imbarcarvi! Passeremo addosso ai negri!" "Dei tedeschi!" esclama il marchese, corrugando la fronte. "Bah! In Africa tutti gli europei sono fratelli. Siano i benvenuti! Amici, abbordiamo!" La scialuppa a vapore ha rallentato la sua marcia, ma la sua mitragliatrice continua a spazzare il fiume con scariche sempre più formidabili. I due battellieri con pochi colpi di remo l'abbordano sul babordo, mentre una scala di corda viene gettata. "Presto, salite!" grida l'uomo biondo. Il marchese afferra Esther e la porge all'uomo biondo, il comandante di certo, a giudicare dai gradi d'oro che gli ornano le maniche. Questi la solleva sopra la bordatura e la depone sulla tolda, quindi, levandosi galantemente l'elmo, le dice in francese: "Signora, siete fra amici: ora daremo a quei bricconi di negri la paga." Il marchese, Rocco, Ben, il moro ed i battellieri salgono precipitosamente, portando i forzieri che i marinai della scialuppa subito prendono, deponendoli dietro la murata. "Signore," dice il marchese, volgendosi verso il comandante e salutandolo militarmente, "grazie, a nome di tutti." Il tedesco gli porge la destra, gli dà una vigorosa stretta, poi grida: "A tutto vapore!" I negri ed i kissuri, furiosi di vedersi rapire la preda, quando credevano ormai di tenerla, si stringono addosso alla scialuppa a vapore tentando di montare all'abbordaggio. Urlando spaventosamente, scaricano i loro moschettoni e lanciano dovunque dardi e giavellotti. "Ah! briganti!" brontola il comandante. "Non volete lasciare andare? Ebbene, la vedremo!" Mentre la mitragliatrice continua a tuonare, lanciando i suoi proiettili a ventaglio, ed i quindici marinai, aiutati dal marchese, da Ben, da Rocco e da El-Haggar, respingono gli assalitori a colpi di fucile e di baionetta, la scialuppa indietreggia di cinquanta passi, poi si slancia innanzi a tutto vapore. La sua elica morde furiosamente le acque facendole spumeggiare. "Avanti!" tuona il comandante. "Fuoco di bordata!" La piccola cannoniera ha preso lo slancio. Si avanza fischiando, fracassa due scialuppe, passa in mezzo alle altre e scompare fra una nuvola di fumo, mentre i negri urlano a piena gola bruciando le loro ultime cariche. La sconfitta dei sudditi del sultano di Tombuctu è completa. Il fiume è ingombro di pezzi di scialuppe e di corpi umani che la corrente travolge, e la scialuppa a vapore continua la sua veloce fuga, lasciandosi indietro le piroghe sulle quali i negri sfogano la loro rabbia impotente con minacce atroci. Il marchese lascia il fucile e s'avvicina al comandante, il quale, munito d'un cannocchiale, guarda sorridendo tranquillamente i negri che fanno sforzi indicibili per dare la caccia alla scialuppa. "Signore," dice, "vi dobbiamo la vita. I negri stavano per prenderci." "Sono ben lieto, signore, di esser giunto in così buon momento. Siete francese?" "Il signor marchese di Sartena, un valoroso corso che ha attraversato il deserto per cercare il colonnello Flatters," disse Ben, avanzandosi. "Wilhelm von Orthen," rispose il tedesco, inchinandosi dinanzi all'isolano e porgendogli per la seconda volta la destra. "Avete trovato lo sfortunato colonnello, signor marchese? Sarei stato ben contento se avessi potuto salvare anche lui." "È morto, signor von Orthen." "Ne ero quasi certo." "Ma come vi trovate qui, voi, signore?" "Avevo appreso che il tenente Caron era salito fino qui colla sua cannoniera ed ero stato incaricato, dal mio governo, d'accertarmi della navigabilità del Niger." "E ne avete avuto una prova," disse il marchese, sorridendo. "Sì," rispose il tedesco. "Signor marchese, la mia scialuppa è interamente a vostra disposizione. Io ritorno verso la costa." "E noi vi seguiremo, signor von Orthen, perché la nostra missione è ormai finita." Conclusione Quindici giorni dopo, la scialuppa a vapore giungeva indisturbata alle bocche del Niger e del vecchio Calabar, e sboccava in mare arrestandosi ad Akassa, una graziosa ma anche assai insalubre cittadina del possedimento inglese. Il marchese ed i suoi compagni, dopo aver fatto degli splendidi regali ai marinai della piccola cannoniera, ai quali dovevano la loro salvezza, e dopo aver ringraziato il valoroso comandante, s'imbarcarono su un piroscafo inglese in rotta per la libera colonia di Liberia. Tutti avevano fretta di ritornare al Marocco, soprattutto il marchese, il quale ormai aveva dato il suo cuore alla bella Esther. Il 25 febbraio del 1880 sbarcarono a Monrovia, la capitale della repubblica negra, prendendo tosto imbarco su un piroscafo della Woermann Linie che faceva il servizio fra Liberia, isole Canarie, Mogador e Tangeri. Quindici giorni più tardi il marchese di Sartena, nella casa di Ben Nartico, impalmava la valorosa ebrea, che aveva imparato ad apprezzare nel deserto del Sahara, fra i mille pericoli dei feroci scorridori del deserto e fra i kissurì del sultano di Tombuctu. Il giovane marchese non ha rinunziato alle sue spalline. Egli è ancora uno dei più brillanti ufficiali della guarnigione corsa e Rocco ed El-Haggar, il fedele moro, sono le sue ordinanze, come Esther è la più bella e la più invidiabile sposa dell'isola. 1 Tombuctu fu poi conquistata dai francesi. Fu presa con un audace colpo di mano, da scialuppe a vapore che avevano rimontato il Niger. 2 Letti molto primitivi formati d'una pelle tesa su un telaio.

"Si direbbe che abbiano paura." "O che vogliano invece attaccare contemporaneamente noi e la carovana?" chiese il marchese. "Avanti, amici! Tagliamo la via alla prima banda che gira al largo dell'oasi." Giunti a circa mezzo chilometro dalle prime palme, i banditi si erano divisi in due drappelli egualmente numerosi. Mentre uno muoveva direttamente verso l'oasi, coll'intenzione di dare battaglia e trattenere i tre cavalieri, l'altro s'era spinto verso l'est per girare intorno a quell'isolotto di verzura e sorprendere la carovana nella sua ritirata. "Rocco," disse il marchese, "va' ad unirti ad Esther e non lasciarla fino al nostro arrivo." "E voi, signore?" chiese il sardo. "Copriremo la ritirata meglio che potremo." Il sardo lanciò il mehari in mezzo alle palme, scomparendo dietro i folti cespugli. "Ed ora a noi, Ben," disse il marchese. Si volse e vide, a circa un chilometro, la carovana. Aveva già lasciato l'oasi e s'inoltrava nel deserto rapidamente, muovendo verso il sud. "A chi daremo battaglia?" chiese Ben. "Al drappello che cerca di girare l'oasi," rispose il marchese. Spronarono i cavalli attraversando l'oasi da occidente ad oriente e raggiunsero la punta estrema. nel momento in cui un primo drappello, composto di sedici predoni, passava a corsa sfrenata a circa duecentocinquanta metri. Fermarono i cavalli, scesero da sella, si appoggiarono al tronco d'una grossa palma e fecero fuoco simultaneamente. Un mehari ed un Tuareg, caddero fra le urla furibonde della banda. A quella prima scarica ne seguì una seconda, poi una terza che fecero cadere un altro uomo e altri due animali. "Cinque colpiti su sei palle! Un bel tiro!" gridò il marchese. I banditi, arrestati in piena corsa da quelle scariche terribili, si gettarono in mezzo alle dune, abbandonando i loro corridori. "Come li abbiamo fermati!" esclamò Ben. "Questi, ma non gli altri," rispose il marchese. "Stanno per piombarci alle spalle." Il secondo drappello, trovando la via sgombra, s'era spinto velocemente innanzi, occupando il margine dell'oasi. Alcuni spari rimbombarono, senza offendere i due coraggiosi europei, i quali si slanciarono sui loro cavalli e partirono al galoppo, salutati da una seconda scarica dei pari inoffensiva. "Che pessimi bersaglieri," disse il marchese. "Sono i loro fucili che valgono poco," rispose Ben. Vedendoli fuggire, i predoni si erano messi ad inseguirli vigorosamente, eccitandosi con alte grida e sparando di quando in quando qualche colpo di fucile, i cui proiettili non potevano certo giungere a buona destinazione a causa delle scosse disordinate dei mehari. Il marchese e Ben, attraversata; l'oasi in tutta la sua lunghezza, si slanciarono fra le dune di sabbia. La carovana aveva già percorso due miglia e continuava la fuga. Rocco ed Esther, la quale aveva fatto abbassare la tenda per essere più libera, stavano alla retroguardia, coi fucili in mano. "Cerchiamo di mantenere la distanza," disse il marchese, rallentando la corsa del cavallo. I predoni si erano nuovamente riuniti, vista l'impossibilità di sorprendere la carovana, ed eccitavano i loro mehari per guadagnare via. Quattro o cinque, meglio montati, in pochi minuti si trovarono a soli quattrocento passi dai fuggiaschi. "Ben," disse il marchese. "Arrestiamoli.". "Gli uomini od i mehari?" Si fermarono dietro una duna e incominciarono il fuoco. Bastarono dieci secondi a quei valenti bersaglieri per smontare tre uomini. I tre mehari, gravemente feriti, erano caduti a poca distanza l'uno dall'altro. Il marchese stava per ricominciare il fuoco, quando il suo cavallo s'impennò bruscamente mandando un nitrito di dolore, poi cadde sulle ginocchia posteriori, sbalzando di sella il cavaliere. "Marchese!" esclamò Ben, spaventato. "Un semplice capitombolo," rispose il corso, risollevandosi prontamente. "Hanno colpito solamente il cavallo." Gettò uno sguardo furioso sui Tuareg. Il predone che gli aveva mandato quella palla stava ritto sul suo mehari, col fucile fumante ancora teso. "Me la pagherai, briccone!" gridò il corso. Le parole furono seguite da uno sparo, ma non fu l'animale che cadde, bensì il cavaliere. Poi il corso guardò il suo cavallo. Il povero animale, colpito fra le zampe anteriori da un grosso proiettile, rantolava disteso sulla sabbia. "È perduto!" esclamò egli con rammarico. "Salite dietro di me e raggiungiamo la carovana," disse Ben. "Presto, i Tuareg arrivano al galoppo!" Il corso si slanciò sul cavallo, s'aggrappò a Ben ed entrambi partirono a corsa sfrenata, mentre i predoni, furiosi di vedersi sfuggire ancora una volta la preda, si sfogavano con imprecazioni e minacce senza fine.

"Che abbiano avuto cieca fiducia nella giustizia del governatore?" "Uhm! Ne dubito," rispose il marchese. "Ed anch'io, signore," aggiunse l'ebreo. Mentre attraversavano le vie, in tutti i cortili interni delle case si udivano grida, canti e suoni e sulle terrazze brillavano migliaia di lumicini variopinti. Anche udendo il galoppo della scorta, nessuno compariva né alle strette finestre, né ai parapetti, né sulle logge, né alle porte. Tutti erano occupati a divertirsi ed a rimpinzarsi di cibi e di bevande, essendo la fine del Ramadan, come da noi la Pasqua, giorno destinato a passarsi in famiglia dinanzi ad una buona tavola. In meno di venti minuti la scorta giunse alle mura della città, vecchi bastioni merlati, mezzi in rovina, e dopo aver dato alle sentinelle la parola d'ordine, uscì nella campagna. La luna era appena sorta e splendeva in un cielo purissimo, d'una trasparenza ammirabile, illuminando l'immensa pianura come fosse giorno. La campagna era pure deserta, non vedendosi cavaliere, né pedone in luogo alcuno. Non era però ancora il deserto, perché qua e là si vedevano delinearsi graziosamente dei gruppi di aloé dalle foglie rigide; dei cespi di fichi d'India di dimensioni gigantesche, delle acace e delle palme colle bellissime foglie disposte a ventaglio. Anche qualche gruppo di tende, duar, si vedeva nelle bassure, e per l'aria tranquilla si espandevano i dolcissimi suoni della tiorba ed il monotono rullio dì qualche tamburello. Anche gli arabi del deserto festeggiavano la fine del Ramadan. La scorta galoppava da una mezz'ora, attraversando terreni sterili, quasi sabbiosi, interrotti solo di quando in quando da tratti erbosi, quando il capo si volse verso il marchese e indicandogli una piccola moschea, il cui esile minareto spiccava netto e candido sul cielo trasparente, gli disse: "Signore, la tua carovana è là!" "Benissimo," disse il marchese, respirando. "Ora possiamo dire di essere al sicuro." Poi curvandosi verso Rocco: "Se il colonnello è nel deserto e ancora vivo, noi lo ritroveremo, è vero, mio bravo amico?" "Sì, marchese." "Di quale colonnello parlate, signor di Sartena?" chiese l'ebreo, a cui non erano sfuggite quelle parole. "Del colonnello Flatters," rispose il marchese con un filo di voce. "Noi andiamo a cercarlo." Poi senza attendere risposta spronò vivamente il cavallo, galoppando verso la moschea.

"Che i Tuareg abbiano i loro duar molto lontani?" chiese il marchese. "Vi ripeterò ciò che vi ha detto il vecchio Hassan: le distanze non si calcolano nel deserto ed i Tuareg non si spaventano a scorrazzare anche a cinque o seicento miglia dalle loro oasi." "Dove saranno andati? A levante, ad occidente o al sud? Temo di trovarli sulla nostra via." "Dio ci guardi da un tale incontro, marchese. Quei ladroni non ci risparmierebbero, soprattutto voi e Rocco che siete per loro degli infedeli." Accertatisi che pel momento nessun pericolo li minacciava, ridiscesero la collinetta e rientrarono nel campo dove li attendeva la cena. Mezz'ora dopo tutti dormivano sotto la guardia di El-Haggar a cui spettava il primo quarto.

"Che i negri abbiano condotto là Esther? Che cosa ne dite, Ben?" "Che preferirei andare innanzi, piuttosto che tornare," rispose l'ebreo. Le grida erano cessate; i fuochi invece continuavano ad ardere, lanciando in aria nuvoloni di fumo dai riflessi rossastri, e nembi di scintille che il venticello notturno spingeva fin sopra la pianura pantanosa. Che un villaggio dovesse trovarsi in quella direzione, non vi era alcun dubbio. Anzi, forse quelle grida salutavano il ritorno dei rapitori. "Avanti," disse il marchese con tono risoluto. "Il cuore mi dice che Esther è là." Gettarono un ultimo sguardo verso i canneti per vedere se il negro si mostrava, poi ripresero le mosse, tastando prima il suolo pel timore di sentirselo improvvisamente mancare sotto i piedi. Ogni dieci passi però Rocco, vendicativo come tutti i suoi compatrioti, si voltava indietro, maledicendo al traditore. Il sentiero non accennava a cessare. Di quando in quando però, quella costa di roccia diventava così stretta che i tre uomini erano obbligati a reggersi l'un l'altro per non cadere. Era vero che non vi erano più pantani pericolosi. A destra ed a sinistra i due stagni si prolungavano e pareva che fossero abitati da animali acquatici. Infatti di quando in quando si udivano dei tonfi e anche la coda d'un coccodrillo era stata scorta da Rocco che era sempre dinanzi a tutti. Una mezz'ora dopo videro il sentiero allargarsi improvvisamente, poi si trovarono su di un terreno solido, cosparso di gruppi di banani, e di cespugli foltissimi. I fuochi si trovavano lontani soltanto qualche miglio, e sullo sfondo illuminato si vedevano delinearsi certe cupole assai aguzze, che dovevano essere tetti di capanne. "Il villaggio," disse Rocco. "Dobbiamo andare innanzi o attendere l'alba?" "Domani potrebbe essere troppo tardi," rispose il marchese. "I kissuri non devono essere lontani, e potrebbero giungere prima che spunti il sole." "Sarà popolato quel villaggio?" chiese Ben. "Non siamo che in tre, marchese." "Ci avvicineremo con precauzione e non lo assaliremo se non quando ci saremo assicurati della probabilità della vittoria." "Silenzio, signore," disse in quel momento Rocco. "Che cosa c'è ancora?" Rocco aveva fatto un salto innanzi, verso lo stagno. "Dove corri, Rocco?" chiese il marchese. "Eccolo! Fugge! A me, signore!" Un'ombra era sorta fra le canne che coprivano la riva dello Stagno e fuggiva disperatamente in direzione del villaggio. "Il nostro negro!" esclamò Ben. "Addosso, Rocco," gridò il marchese mettendosi pure a correre. L'ombra fuggiva con fantastica rapidità, saltando a destra ed a manca per impedire che lo prendessero di mira. Rocco, risoluto ad impedirgli di giungere al villaggio, onde non spargesse l'allarme, aveva alzato il fucile. "Non sparare, Rocco!" gridò il marchese. Troppo tardi. Una detonazione aveva rotto il silenzio che regnava sulla riva dello stagno ed il negro, dopo aver spiccato tre o quattro salti, era caduto come un albero sradicato dall'uragano. "Ecco pagato il conto," aveva detto il vendicativo sardo. "Ora non tradirai più nessuno!"

Un fracasso assordante di tamburelli e di urla, che pare non abbiano più nulla di umano, li annuncia. Hanno già lasciata la moschea e stanno per cominciare la loro corsa sanguinosa attraverso le vie. I pochi europei che abitano la città, trafficando colle carovane del deserto, fuggono da tutte le parti, mentre gli ebrei si barricano, tremanti di spavento, nelle loro case, mettendosi a guardia dei loro forzieri colmi d'oro. Gli uni e gli altri sono in pericolo. Se l'europeo è un infedele, l'ebreo è un cane, che qualunque fanatico può percuotere impunemente e anche uccidere. I primi sono forse temuti; i secondi no perché non hanno consoli che li proteggano. All'estremità della via, montato su un bianco cavallo, compare il mukkadem, capo degli hamduca, una setta religiosa che fornisce in ogni festa un bel numero di vittime. È avvolto maestosamente in un ampio caic candidissimo e fa volteggiare sopra il suo immenso turbante lo stendardo verde del Profeta colla sua luna d'argento. Intorno a lui, urlano e saltano o girano vorticosamente, come i dervis saltatori della Turchia, una ventina di aisaua, appartenenti alla setta degli incantatori di serpenti. Sono quasi nudi, non avendo che un turbante in testa e un pezzo di tela legato ai fianchi. Mentre alcuni battono i tamburelli e cavano dai loro flauti note acute e stridenti, altri fanno guizzare in aria, invocando a piena gola il loro santo patrono, serpenti pericolosissimi, dal morso mortale. Ma gli aisaua non li temono; essi sono immuni dal veleno perché sono devoti al santone. Scherzano coi rettili, li irritano, poi li stringono coi denti, ne masticano con una sensualità da cannibali le code, e finiscono per trangugiarli come fossero semplici anguille! ... E non muoiono. Il perché non si avvelenino è un mistero che nessuno è mai riuscito a spiegare. Eppure basta un morso di quei rettili per fulminare un pollo, un cane, un montone e mandare all'altro mondo un uomo che non appartenga alla setta. Ma ecco i fanatici, i santoni. Sono una cinquantina e tutti in preda ad un vero furore religioso: appartengono tutti alla setta degli hamandukas, la più fanatica di quante ne esistono nel Marocco. Hanno gli sguardi torvi, i lineamenti alterati, la schiuma alla bocca ed il corpo già imbrattato di sangue. Urlano come belve feroci, saltano come se i loro piedi toccassero delle braci ardenti e si dimenano come ossessi, storditi dalle grida degli ammiratori, che li seguono come una fiumana, dalle note acute dei flauti e dal rombo assordante dei tamburi. Alcuni si squarciano il petto adoperando una corta spada sormontata da una palla di rame e adorna di catenelle e di piastrine luccicanti; altri, armati di piccoli spiedi acutissimi, si trapassano le gote senza dimostrare alcun dolore o si forano la lingua o trangugiano scorpioni o divorano le foglie ramose dei fichi d'India irte di spine. Dalle loro gole escono senza posa le grida di "Allah ... la ... la ... lah ... [Dio!.. Dio!..]" Ma non sono grida: sono ruggiti che sembrano uscire da gole di leoni o di tigri. Hanno preso la corsa; sorpassano il loro capo, seguiti dagli aisaua e dai loro seguaci. È una corsa pazza, furiosa, che finirà certo tragicamente perché quei poveri allucinati hanno ormai raggiunto l'ultimo limite del fanatismo. Guai se in quel momento incontrassero un infedele! ... Ma se tutti gli ebrei e gli europei sono fuggiti, non mancano i cani, i montoni, gli asini. Si gettano ferocemente su quei poveri animali, se hanno la disgrazia di farsi sorprendere, e li mordono crudelmente, strappando pezzi di carne viva che trangugiano ancora palpitante. Un disgraziato cane che fuggendo va a cacciarsi fra le loro gambe, viene subito preso e divorato ancora vivo; un misero asino, che è fermo sull'angolo d'una via, subisce tali morsi che cade moribondo. Due montoni seguono l'eguale sorte, poi i fanatici riprendono la loro corsa verso i bastioni della città, sempre urlando come belve ed invocando Allah. Già hanno attraversato la piazza del bazar, quando si vedono attraversare la via da un uomo. Un urlo terribile sfugge dalle loro gole. "A morte il kafir ... " Il vestito nero che indossava quel disgraziato, livrea disprezzata dal marocchino il quale non ama che il bianco ed i colori smaglianti, aveva subito fatto conoscere a quegli esaltati che si trovavano dinanzi ad un infedele, peggio ancora ad un ebreo, ad un essere odiato, che potevano uccidere senza che le autorità avessero nulla a che dire. Il povero uomo, che non aveva avuto il tempo di salvarsi nella sua casa, vedendosi scoperto, si era gettato da un lato, rifugiandosi sotto la volta d'un portone. Era un giovane di venticinque o ventisei anni, di statura slanciata e bellissimo, caso molto raro fra gli ebrei del Marocco, i quali generalmente sono d'una bruttezza ripugnante, mentre le loro donne hanno conservato in tutta la purezza l'antico tipo semitico. Quel giovane, vedendosi piombare addosso i fanatici, si era levato dalla cintura un pugnale ed una pistola col calcio incrostato d'argento e madreperla e si era messo risolutamente sulla difensiva, gridando "Chi mi tocca, è un uomo morto!" Una minaccia simile in bocca ad un ebreo era così inaudita, che i fanatici si erano arrestati. L'ebreo del Marocco non può difendersi. Deve lasciarsi scannare come un montone dal primo mussulmano che lo incontra durante una festa religiosa e senza protestare. E poi non ne ha quasi il coraggio perché sa che anche difendendosi, verrebbe egualmente condannato a morte dalla giustizia imperiale e il più delle volte bruciato vivo su una pubblica piazza. L'esitazione dei fanatici non doveva durare a lungo; ben presto urlarono: "Addosso al kafir! ... " La folla stava per raggiungerli, pronta a spalleggiarli, e li incoraggiava urlando "Scanna l'infedele! ... A morte l'ebreo! Allah e Maometto vi saranno riconoscenti! ... " L'israelita, quantunque si vedesse ormai perduto, non abbassava il braccio armato. Teneva la pistola sempre puntata, deciso, a quanto pareva, a scaricare contro i suoi nemici i due colpi e poi a far uso anche del pugnale. I suoi occhi neri, pieni di splendore come quelli delle donne ebree, mandavano lampi, ma il suo volto bianchissimo era diventato così pallido da far paura. "Indietro!" ripeté, con voce angosciata. I fanatici, incoraggiati dalla folla, avevano invece impugnato le corte scimitarre e gli spilloni, mandando urla feroci. Stavano per precipitarsi su di lui e farlo a brani, quando due altri uomini, vestiti di bianco come gli europei che soggiornano nel Marocco e nei paesi caldi, si scagliarono dinanzi ai fanatici, tuonando: "Fermi!" Uno era un uomo di trent'anni, alto, bruno, con baffi neri, gli occhi vivi e mobilissimi, elegante; l'altro invece era un vero gigante, alto quanto un granatiere, con un corpo erculeo e con braccia grosse come colonne, un uomo insomma da far paura e da tener testa, da solo, ad un drappello d'avversari. Era bruno come un meticcio, con una selva di capelli più neri delle penne dei corvi, con baffi grossi che gli davano un aspetto brigantesco, coi tratti del volto angolosi, il naso diritto e le labbra rosse come ciliege mature. Vestiva un costume bianco come il compagno, però invece dell'elmo di tela portava una specie di tocco di panno nero, cinto da un drappo rosso e adorno d'un fiocco d'egual colore. Era più vecchio dell'altro di cinque o sei anni, ma quale vigore doveva possedere quell'ercole di fronte a cui i magrissimi marocchini facevano una ben meschina figura! Vedendo slanciarsi quei due uomini, per la seconda volta i fanatici si erano arrestati. Non si trattava più di scannare un cane d'ebreo. Quei due sconosciuti erano due europei, forse due inglesi, due francesi o italiani, due uomini insomma che potevano chiedere l'aiuto del governatore, far accorrere delle corazzate dinanzi a Tangeri e disturbare seriamente la quiete dell'Imperatore. "Levatevi!" aveva gridato, con tono minaccioso, uno dei fanatici "L'ebreo è nostro!" Il giovane bruno invece di rispondere aveva levato rapidamente da una tasca una rivoltella, puntandola contro i marocchini. "Rocco, preparati," disse volgendosi verso il compagno. "Sono pronto a fare una carneficina di questi cretini," rispose il gigante. "I miei pugni basteranno, marchese." La folla, che giungeva coll'impeto d'una fiumana che rompe gli argini, urlava a piena gola: "A morte gl'infedeli!" "Sì, a morte!" vociferarono gli allucinati. Si precipitarono innanzi agitando le scimitarre, i pugnali ed i punteruoli grondanti sangue che avevano levato dalle ferite e si prepararono a fare a pezzi l'ebreo e anche i due europei. "Indietro, bricconi!" gridò ancora, con voce più minacciosa, il compagno del gigante, gettandosi dinanzi all'ebreo. "Voi non toccherete quest'uomo." "A morte i cani d'Europa!" urlarono invece i fanatici. "Ah! Non volete lasciarci in pace?" riprese l'europeo con ira. "Ebbene, prendete!". Un colpo di rivoltella echeggiò ed un marocchino, il primo della banda, cadde morto. Nel medesimo istante il colosso piombò in mezzo all'orda e con due pugni formidabili fulminò altri due uomini. "Bravo Rocco!" esclamò il giovane dai baffi neri. "Tu vali meglio della mia rivoltella." Dinanzi a quell'inaspettata resistenza, i fanatici si erano arrestati, guardando con terrore quel colosso che sapeva così bene servirsi dei suoi pugni e che pareva disposto a ricominciare quella terribile manovra. L'ebreo approfittò per accostarsi ai due europei. "Signori," disse in un italiano fantastico, "grazie del vostro aiuto, ma se vi preme la vita, fuggite." "Me ne andrei molto volentieri," rispose il compagno del colosso, "se trovassi una casa. Noi non l'abbiamo una casa, è vero, Rocco?" "No, signor marchese. Non ne ho trovata ancora una." "Venite da me, signore," disse l'ebreo. "È lontana la vostra?" "Nel ghetto." "Andiamo." "E presto," disse Rocco. "La folla si arma e si prepara a farci passare un brutto quarto d'ora." Alcuni uomini avevano invaso le case vicine ed erano usciti tenendo nei pugni moschetti, scimitarre, jatagan e coltellacci. "La faccenda diventa seria," disse il marchese. "In ritirata!" Preceduti dall'ebreo il quale correva come un cervo, si slanciarono verso la piazza del Mercato, salutati da alcuni colpi di fucile, le cui palle, per loro fortuna, si perdettero altrove. I fanatici ed i loro ammiratori si erano gettati sulle loro tracce urlando ed imprecando: "A morte i kafir!" "Vendetta! Vendetta!" Se i marocchini correvano, anche il marchese ed i suoi compagni mostravano di possedere garetti d'acciaio, perché non perdevano un passo. Però la loro posizione diventava di momento in momento più minacciata, tanto anzi che il marchese cominciava a dubitare di poter sfuggire a quel furioso inseguimento. La folla si era rapidamente ingrossata e dalle strette viuzze sbucavano altri abitanti, mori, arabi, negri, e non inermi. La notizia che degli stranieri avevano assassinato tre fanatici doveva essersi propagata colla rapidità del lampo e l'intera popolazione di Tafilelt accorreva per fare giustizia sommaria dei kafir che avevano osato tanto. "Non credevo di scatenare una burrasca così grossa," disse il marchese, sempre correndo. "Se non sopraggiungono i soldati del governatore, la mia missione finirà qui." Avevano già attraversato la piazza e stavano per imboccare una via laterale, quando si videro sbarrare il passo da una truppa di mori armati di scimitarre e di qualche moschetto. Quella banda doveva aver fatto il giro del mercato per cercare di prenderli fra due fuochi e come si vede era riuscita nel suo intento. "Rocco," disse il marchese, arrestandosi, "siamo presi!" "La via ci è tagliata, signore," disse l'ebreo con angoscia. "Mi rincresce per voi; il vostro aiuto vi ha perduti!" "Non lo siamo ancora," rispose il gigante. "Ho cinque palle e il marchese ne ha altre sei. Cerchiamo di barricarci in qualche luogo." "E dove?" chiese il marchese. "Vedo un caffè laggiù." "Ci assedieranno." "Resisteremo fino all'arrivo delle guardie. Il governatore ci penserà tre volte prima di lasciarci scannare. Siamo europei e rappresentiamo due nazioni che possono creare serie noie all'Imperatore. Orsù, non perdiamo tempo. Si preparano a fucilarci." Due spari rimbombarono sulla piazza e una palla attraversò l'alto berretto del colosso. All'estremità della piazza sorgeva isolato un piccolo edificio di forma quadrata, sormontato da una terrazza, colle pareti bianchissime e prive di finestre. Dinanzi alla porta vi erano certe specie di gabbie che servono da sedili ai consumatori di caffè. I tre uomini si slanciarono in quella direzione, giungendo dinanzi alla porta nel momento in cui il proprietario, un vecchio arabo, attratto da quelle urla e da quegli spari, stava per uscire. "Sgombra!" gridò il marchese in lingua araba. "E prendi!" Gli gettò addosso una manata di monete d'oro, lo spinse contro il muro e si precipitò nell'interno seguito da Rocco e dall'ebreo, mentre la folla, maggiormente inferocita, urlava sempre "A morte i kafir."

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

682527
Serao, Matilde 2 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Sia, sia anzi tutto, l'onore: anzi tutto che coloro i quali saranno i prescelti, per sedere sulle cose del Comune e che, prescelti, saranno additati al voto popolare, abbiano per insegna del loro nome, la specchiatezza del loro carattere: anzi tutto che, dinnanzi all'Italia, dinnanzi all'Europa, ovunque il nome di Napoli sia pronunciato, sia, oramai, per il decoro, per la coscienza di chi la rappresenta, unito a quello della più bella dignità civile: anzitutto che, per convinzione, giammai più il sospetto, l'accusa, la delazione possa colpirla: anzitutto che ovunque esso sia, l'uomo onesto, intelligente, attivo, fattivo, sia il suo lavoro dato a Napoli, giovandole con tutte le sue forze. Quando ciò sia organizzato, con sapienza, con larghezza, prendendo coloro che dovranno essere i futuri amministratori, dovunque si trovino galantuomini e uomini capaci, senza fare viete questioni di partito, di colore, roba vecchia, roba distrutta: quando ciò sia un fatto compiuto, l'onore di Napoli, che si va lentamente ricostruendo, ma con sicurezza, questo onore di Napoli servirà anche a batter moneta,. Quando i capitalisti dell'estero, del nord, sapranno che, contro ogni ostacolo, Napoli ha voluto per suoi magistrati, comunali, i migliori suoi cittadini, quando gli uomini di finanze di tutti i paesi, di tutte le regioni, sapranno che, quì, il sentimento della probità sociale si è rifatto, nelle persone, nelle cose e nei costumi: quando gli industriali di ogni dove, comprenderanno di poter avere fiducia; allora, sì, che ogni piccola o grande pianta della fortuna pubblica, nascerà, germoglierà, fruttificherà in questo suolo fecondo, in questa terra di anime belle. Tutto si farà, quì, dal momento che il buon nome napoletano, che, il decoro della sua cittadinanza, che, tutto il suo onore, infine, sia esaltato: tutto sarà così facile, così semplice, così naturale che il mondo si stupirà. E nell'onore, in questa potenza tutta morale, in questo elemento più puro e, diciamo, più etereo della coscienza sociale, Napoli ritroverà la sua vita, la sua fortuna, la sua ricchezza!

Il nuovo progetto dunque in cui pare, quasi, che abbiano concorso Raffaello da Urbino, Michelangelo Buonarroti, Vanvitelli e Dante Gabriele Rossetti, è questo: invece di tredici caserme, esse saranno undici e saranno divise da vie più larghette, con file di alberi lungo le vie, simili a quelli da cui è contristato il Rettifilo e che, certamente, verso il mare, saranno distrutti dalle brezze marine, come si dice, sieno stati distrutti quelli della Villa. Questi undici edificî avranno, anche, attorno, un poco di verdura, una piccola fascia, verso il mare. E basta. Ma questa è dunque, la peregrina idea per cui il rione Santa Lucia, sarà chiamato il rione della Bellezza? E il progettista, diciamo cosi, sarà paragonato a Arnolfo di Lapo o a Lenôtre, architetto di Versailles? Nossignore. Nel centro del nuovo rione, verso il mare, gli edifici si divideranno in semicerchio e lasceranno uno spazio, in mezzo, di ottomila metri quadrati non t'illudere, amico lettore, ottomila metri quadrati non sono gran che - ove vi sarà un giardino, e, in mezzo, pare impossibile, una fontana. Attorno, attorno al semicerchio sorgerà un porticato, di stile greco-romano, dove sarà fabbricato solo un primo piano, ad uso di caffè, di birrarie, di cafè chantant , forse, sempre in istile greco. E basta. Questo è il rione della Bellezza: non oltre: non altro. Un giardinetto, cioè, poco più grande di quelli di piazza Cavour, diletto ritrovo di pezzenti di San Gennaro, di cabalisti, di piccoli pensionati del governo: un giardinetto che sarà due o tre volte grande come quello di piazza Municipio, ritrovo, questi, di persone che è inutile quì menzionare, sotto i paterni occhi chiusi dei consiglieri comunali, un giardinetto, con una fontana, dove, probabilmente, vi sarà uno zampillo, basso nei giorni di lavoro e alto nei giorni di festa: e, infine, questo porticato, per rammentare nella vita moderna, l'origine di Partenope, per rifare un poco Pompei, dice il progettista. Anzi, egli voleva far tutta una passeggiata pompeiana , lì, ma questa idea parve tanto barocca, tanto sciocca, che se ne accorsero tutte le anime buone e distratte degli assessori e protestarono. Non vi sarà la passeggiata pompeiana ma un pezzetto di Pompei, col porticato, l'avremo. Chi si metterà sotto questi portici: s'ignora: neppure è certissimo che vi si costruisca il primo piano. Il rione della Bellezza, or dunque, si riassume in un giardino, con fontana e con un portico. Il suo nome, allora, non ti sembra un poco esagerato, amico lettore? Non ti pare che la parola bellezza abbia un senso diverso e profondo? E che applicarlo a sì esigua e ambigua cosa, sia una grande audacia? E che il progetto e il progettista debbano soccombere sotto il ridicolo di quest'audacia? Per aver questo giardino, con la fontanella e il porticato, ecco che cosa deve spendere il Municipio di Napoli. Anzitutto deve dare alla Cassa sovvenzioni di Genova la egregia somma di settecentomila lire: è vero che si pagano in trent'anni, queste settecentomila lire, ma un debito è un debito, anche se si paghi a piccole rate. Non vorrei affermare che il Comune debba corrispondere anche l'interesse, perchè non lo so: ma è probabile che per avere la fontanella nel giardinetto e il porticato, intorno, per aver ciò a credito, qualche interesse si dovrà pagare. Inoltre, il Comune concede alla società, di costruire un sesto piano a tutti gli undici edifici: calcolato, così, a occhio e croce, un piano di più, sovra undici immensi palazzi, può rendere alla società da novanta a centomila lire di maggior reddito, cioè un regaluccio di oltre due milioni di capitale, sempre per aver quel che sapete. Quanto saranno più belli, più accoglienti, più estetici questi palazzi di sei piani, invece che di cinque, lo sa il Signore! Vi è dell'altro: la società ha il diritto di non lastricare più con pietre le vie fra i suoi palazzoni, poichè questo lastricamento costa molto: allo scopo di facilitarle ancora più la posizione, il Comune le permette di adoperare il macadam , col risultato di aver del fango in inverno, fango che macchia i vestiti e li rode; e la polvere più acre, in estate. Non basta ancora: la società ha la concessione della sorgente di acqua solfurea: non sarà gran che; ma è qualche altra cosa. Non vi pare che, per un giardino, una fontana e un porticato ciò costi molto, troppo, immensamente? E con tanti denari, tante concessioni, tante facilitazioni, il risultato sarà questo: e il rione presunto della Bellezza, sarà mortalmente brutto, se si arriva a compiere col suo anacronisma di Pompei, fra edifici di sei piani come in America; che il prezzo dei suoli, restando sempre forte e le difficoltà di costruzione essendo sempre grandi, la Cassa Sovvenzioni, seguiterà a non vendere e seguiterà a non costruire e che alla fine del salmo il rione della Bellezza consisterà in un piccolo giardino, in una fontana e in un porticato vuoto, fra un vasto deserto arido e polveroso. La società si sarà rifatta in parte dei suoi guai, con quelle settecentomila lire; il Comune dovrà pagarle e passando per Santa Lucia nuova, il cittadino inconscio creperà dal ridere, a veder quella buffonata, e tu amico lettore e io, cronista scettico e pessimista, tu ed io che non siamo inconsci, rimpiangeremo quei venticinque o cinquanta centesimi, parte tua e parte mia delle settecentomila lire!