Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbia

Numero di risultati: 74 in 2 pagine

  • Pagina 2 di 2

D'Ambra, Lucio

220681
Il Re, le Torri, gli Alfieri 4 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

C'è oramai una tal ressa da per tutto e un tale culto universale delle incompetenze che un uomo il quale abbia bisogno di collocarsi pone ugualmente la sua candidatura così a un seggio mell'Olimpo come a un posto di portinaio. Ma gli Dei, che non avevano intenzione d'andarsene, ritornarono: il poeta aveva, nella fretta, scambiato per una partenza quella che non era altro che una passeggiata per isgranchire le gambe. Ritornarono. E poichè non trovarono più i loro posti, occupati oramai da uomini politici e da giornalisti in voga, da avvocati di grido e da tenori di cartello, da giuocolieri di circo equestre e da segretari delle Camere del Lavoro, gli Dei espulsi rimasero così, fuori organico, in soprannumero. Tra le piacevoli commedie alle quali, procul nègotiis divini, è stato loro da noi concesso d'assistere, nessuna dove avere divertito il loro spirito, indulgente e beffardo insieme, più di quella che sul palcoscenico del regno di Fantasia ebbe, quando sembrava esaurita, una di quelle riprese d'interesse, una di quelle complicazioni di situazione che sono il segreto dei commediografi veramente esperti nell'arte dei colpi di scena. La sera stessa del Consiglio di ministri antelucano due righe in testa alle «Informazioni» dei giornali di Effemeris annunziarono al popolo di Fantasia che Sua Eccellenza il duca don Alvaro di Frondosa, ministro plenipotenziario a disposizione, era stato nominato ministro plenipotenziario a Zarzuelopoli, e che dentro brevissimi giorni l'illustre diplomatico, accompagnato dalla duchessa, avrebbe raggiunto la sua nuova residenza. I più pacifici borghesi di Fantasia, perfino i membri più autorevoli delle leghe propagandiste per il raggiungimento e il mantenimento della pace universale, letta quella notizia, dormirono ugualmente quella notte i loro sonni tranquilli. Io solo ebbi, nella mia notte, qualche agitazione. Ma nel breve periodo della mia carriera m'ero sentito dire più volte che io avevo la sensibilità diplomatica: sensibilità specialissima che consiste nell'udire le parole che non si dicono e nell'avvertire i gesti che non si fanno. La sensibilità diplomatica è come un sismografo intuitivo, il quale registrerebbe una scossa di terremoto sei mesi prima del più leggero moto tellurico. Così quella notte io previdi — profetica anima mia! — quello che sei mesi dopo tutti dovevano proclamare assolutamente imprevedibile. Previdi, cioè, la guerra. La guerra solamente. Ci fu, come si vedrà, ben altro. Ma il mio sismografo, giunse fin lì, poichè v'è un imprevedibile e un imprevisto anche per i previdenti, e anche per i profeti il futuro ha le sue pagine chiuse. Di natura modesto e sempre pronto a riconoscere col mio anche il merito degli altri, devo convenire che non fui in realtà io solo a prevedere la guerra. Anche i ministri militari, e perfino il ministro degli Esteri, previdero che la politica estera di Fantasia era sul punto di guastarsi dal momento che il duca di Frondosa, uomo logico e uomo di carattere, ci metteva sventuratamente le mani. Con la sua logica e col suo carattere il duca di Frondosa si trovava a dover proprio dirigere i rapporti tra Fantasia e Silistria, rapporti che erano quanto mai illogici e senza carattere poichè a furia di averne troppi non ne avevano più nessuno. Non aveva, il duca, raggiunto da un mese la sua residenza e presentato al Sovrano di Silistria le sue credenziali che già il castello di carte dell'amicizia politica fra i due stati confinanti cominciava a traballare su le sue esili fondamenta. Sei mesi dopo il castello intero era a terra. Aveva creduto, il duca di Frondosa, che amicizia politica volesse e dovesse significare scambio reciproco di procedimenti amichevoli; aveva creduto che il riconoscimento del dovere e la rivendicazione del diritto non dovessero essere il primo tutto da una parte e la seconda tutta dall'altra; aveva creduto che non fosse quello di lasciarsi intimidire il miglior sistema per non essere intimiditi; aveva creduto; infine, che intendersi non dovesse significare la coniugazione del verbo pretendere da una parte sola della contesa frontiera; aveva creduto sopratutto che la sua missione fosse quella di fare ad ogni costo rispettare il suo paese e non quella di rispettare ad ogni prezzo il paese altrui: credeva, il duca di Frondosa, tutte queste sciocchezze e molte altre ancora. E poichè quando credeva a qualche cosa il duca aveva la perniciosa abitudine di crederci veramente, di passo in passo, di negoziato in negoziato, di nota in nota, si trovò un bel giorno d'innanzi alla nota da liquidare della più dispendiosa fra tutte le rotture: la rottura diplomatica. In tempi di questi più leggiadri non sempre la rottura diplomatica era sinonimo di dichiarazione di guerra. Ma erano quelli i tempi sanguinari e medioevali quando ancora il mite spirito degli uomini non aveva cristianamente parlato di pace universale, quando ancora la conferenza internazionale dell'Aja non era stata inventata per mettere ogni cinque minuti l'Aja nell'imbarazzo a dover scegliere tra la pace e la guerra. Ora i tempi sono mutati e lo spirito di contraddizione, il quale a il solo in cui tutti gli uomini si trovan d'accordo, non può che rendere inevitabile la guerra quando tutti proclamano desiderabile la pace. Come nel duello fra due gentiluomini pacifici i quattro secondi fanno sovente battere due primi i quali preferirebbero un processo verbale di reciproche scuse, così nella guerra due nazioni che non si vorrebbero torcere un capello hanno le nazioni amiche che le rappresentano per sospingerle per forza su quel campo di battaglia dove per amore non si sarebbero mai fatte vedere. Poichè è provato che quando gli amici intervengono per comporre un incidente questo incidente entra veramente in una fase d'estrema gravità, è ugualmente evidente che la guerra fra Fantasia e Silistria era decisa dal momento istesso in cui le Cancellerie amiche dell'una e dell'altra parte si mettevano in mezzo per far da pacieri. Ho già raccontato, al principio di queste memorie, la proclamazione della guerra di Fantasia e la partenza delle prime truppe mobilitate. Ho anche detto come Sua Maestà Rolando II non avesse nessuna parte attiva in questa prima fase della guerra, costretto a rimanersene disteso d'un tappeto mal cucito in cui il piede regale era andato malauguratamente ad inciampare. Ho già detto anche come il popolo di Fantasia si avviasse alla suprema prova della guerra con spensierata festevolezza. Ora riprendo il racconto, per chiuderlo, là dove l'avevo incominciato, da quel primo capitolo, cioè, in cui aleggia il ricordo offenbachiano della Belle Héléne e al quale faranno bene a ritornare le memorie labili in cui le parole di questi miei «documenti» non si fossero incise con indelebili segni. Una risata omerica senza una troppo facile all'Iliade — dovette accogliere, da parte degli Dei onnipresenti, l'incontro fra Sua Maestà e me all'indomani della proclamazione di guerra, quando il giovane Sovrano, disteso sopra un canapè, con una mano occupata a sfogliare un fascicolo della Vie Heureuse e con un dito dell'altra impiegato a scuoter la cenere della più sottile sigaretta russa, sorrise allegramente vedendomi entrare e mi disse con l'aria più serena di questo mondo : «Gliel'avevo detto io, d'Apre? Siamo alla guerra». Il ricordo omerico seguì quell'esclamazione. «E vede? Per una donna. Come nell'Iliade». Ed io, non per ironia ma per disdegno dell'alta cultura, aggiunsi con un mite sorriso: «E come nella Belle Hélène». Ma, il ricordo offenbachiano non parve irriverente a Sua Maestà pur se messo lì a due passi dal suo ricordo omerico. Parve, anzi, convenirgli più di questo. «Gia, esclamò infatti, anche meglio: come nella Belle Hélène». Non bisogna giudicare da questo Rolando II troppo severamente: non era irriverenza. Non bisogna neppure giudicarlo troppo ottimisticamente: non era ironia. Era una cosa molto più semplice: che egli aveva, cioè, una famigliarità molto più grande con le operate di Offenbach che non con i poemi d'Omero. L'ottimismo non è, come superficialmente si crede, la dottrina filosofica che insegna la bontà delle cose e degli uomini. L'ottimismo è la teoria filosofica la quale insegna che ogni medaglia ha due facce e che se da una la vita piange dall'altra la vita sorride. Ogni caso umano ha, per l'ottimista, due effetti: uno malefico ed uno benefico; e l'arte di saper vivere è tutta riposta nel segreto di dar la minima importanza al maleficio e la massima importanza al beneficio. Così la guerra scoppiata fra Fantasia e Silistria se minacciava di mille pericoli la sovranità di Rolando II, se metteva su le sue spalle abituate a pesi più leggeri il grave pondo d'una responsabilità di quelle in cui la caducità delle cose umane deve fare i conti con l'immortalità e l'incancellabilità della storia, aveva d'altra parte una conseguenza immediata che, nella sua letizia, aveva il potere di dissipare tutte le più gravi preoccupazioni del monarca come il sole ritornando nel chiaro mattino apre con mani d'oro tutte le nebbie d'un cielo antelucano: la guerra aveva infatti costretto immediatamente il duca e la duchessa di Frondosa a fare ritorno in patria e a rioccupare il loro palazzo nel più aristocratico quartiere di Effemeris; La soluzione di continuità che per sei mesi s'era prodotta eliminava la situazione imbarazzante di dover richiamare il duca e la duchessa a riprendere a Corte le loro funzioni di gentiluomo e di dama d'onore. Ma, se non era a Corte, Isabella era ad Effemeris, e le capitali più sono grandi più racchiudono la loro vita mondana in un raggio di poche centinaia metri. La guerra inoltre creava per Rolando II mille piccole occasione d'incontrare Isabella senza avere affatto l'aria di cercarla. Caritatevole e sensibile, persuasa anch'essa di essere involontariamente la causa della guerra, poichè una sua amabile condiscendenza avrebbe radicalmente mutato il corso della storia del regno di Fantasia, ella prodigava la sua attività negli ospedali, nei comitati, nelle organizzazioni in cui la pietà delle donne preparava conforti e ristori per gli uomini che si battevano alla frontiera. Non appena la sua frattura gli permise di far due passi senza essere grottesco, Rolando II cominciò a visitare anche lui ospedali, comitati e sotto-comitati. Aveva l'aria d'interessarsi di tutto: tornava due giorni di seguito a un ospedale per confortare un ferito guaribile in sette giorni senza riserva, mattina e sera correva ad un sotto-comitato per vedere un nuovo tipo di bottoni infrangibili per le ghette dei soldati. I giornali esaltavano con degne parole la patriottica pietà del Re. La folla, all'uscita dagli ospedali e dai comitati, lo applaudiva, quando, compiuto il suo dovere, incontrando la duchessa Isabella, risaliva nella sua limousine, in cui, seduto di fronte al suo aiutante di campo, io continuavo a compiere le mie funzioni d'aiutante di camera. Di tanta gloria regale io, imperturbabile, non sorridevo. M'interessavo invece al ferito guaribile in sette giorni e alla scatola di bottoni infrangibili con quella gravità e quella compunzione che fra noi dovevan servire a salvare apparentemente le apparenze. Il primo incontro fra la duchessa di Frondosa reduce da Zarzuelopoli e Rolando II reduce dalla sua frattura avvenne nella sala operatoria d'un ospedale, mentre un esercito di dottori informava Sua Maestà di tutt'i particolari d'una perfetta organizzazione sapientemente raggiunta. Un gruppo di dame era in un angolo della sala, ed io avevo già scoperto in quel gruppo il visino arguto della duchessa Isabella che da lontano, quietamente, mi sorrideva. Il Re ascoltava le spiegazioni dei medici come in quel periodo egli era solito ascoltare: con gli orecchi zelantemente offerti ai suoi interlocutori, ma con gli occhi altrove. Ricordo anzi che un insigne medico col quale Sua Maestà aveva lungamente conferito e che avvicinava Sua Maestà per la prima volta, ritenendo opportuno di comunicare a me le sue impression su l'incontro regale, esclamò: «Sua Maestà è molto affabile. Ma ha, se posso osare di segnalare questo piccolo difetto, ha il difetto di non guardarvi mai in faccia quando vi parla. Sembra che i suoi occhi vi sfuggano». Sfuggivano, sì. E cercavano. Cercavano e finalmente trovarono. Lo vidi diventar tutto rosso, poichè aveva ancora l'ingenuità giovanile di colorirsi il viso con le sue emozioni. Al primo momento ebbe una breve incertezza e si volse a me con lo sguardo come per domandarmi: «È lei?» Con un impercettibile moto del mio volto io risposi, dalla mia impassibilità: «Sì, Maestà, è proprio lei». Si vide allora Rolando II interrompere a metà il racconto d'una meravigliosa operazione, aprirsi la strada in quella muraglia di redingotes, di camici bianchi e d'uniformi e muovere verso il gruppo delle dame che sùbito s'apri a scoprire la duchessa di Frondosa come se tutte le altre diciannove dame sapessero che tra venti Sua Maestà non poteva desiderare d'avvicinarsi che a quella. Non appena fu giunto presso la duchessa e non appena le ebbe baciato la mano, con una rapida occhiata chiamò me in suo soccorso. Abituato a intendere i suoi desideri senza che questi avessero mai bisogno d'essere formulati, capii che Sua Maestà chiedeva a me di reggere e dirigere la conversazione: il che non era evidentemente protocollare, ma il protocollo non prevede il caso in cui un re debba trovarsi a riconversare per la prima volta con una dama dal cui marito egli abbia ricevuto un energico richiamo alla limitazione dei poteri regali. Le altre dame avevano intanto fatto circolo attorno a noi tre. Rolando II aveva, con un saluto collettivo, risposto all'ossequiosa riverenza delle altre signore. Ed ora, estatico, silenzioso, ascoltava me che parlavo e guardava Isabella che taceva. Era irrequieto su le gambe nervosamente tese e distese, come sempre gli accadeva di fare quando era molto contento. Ad un tratto lo vidi riaccendersi in volto, erigersi su le gambe tese ed immobili: segno evidente che la contentezza di Sua Maestà aveva avuto una brusca fermata. Seguii con lo sguardo e vidi, dalla porta ch'era dietro le spalle della duchessa di Frondosa e proprio di fronte al Re; apparire l'elegante e sorridente figura del duca don Alvaro. Era ormai troppo tardi per tornare indietro, e l'infallibile signorilità del gentiluomo sentì ch'era assolutamente il caso d'andare avanti, d'avvicinarsi alla duchessa, d'inchinarsi a Sua Maestà e di stringere rispettosamente la mano leggermente agitata che Sua Maestà, desolata di non poterne fare a meno, gli tendeva con regale urbanità. Ma per evitare di dar la mano due volte Sua Maestà volle che quel saluto fosse anche la fine della conversazione, di modo che una sola stretta di mano potesse servire così per l'incontro come per la separazione. Baciò la mano della duchessa, s'inchinò di nuovo alle altre dame e, tornato fra i medici, lasciò che il suo interlocutore, riprendesse il suo racconto senza neppur pensare, tanto era turbato, a chiedergli scusa d'averlo interrotto. Solo osservai che alla ripresa non prestava, il Re, solo l'attenzione degli orecchi ma anche quella degli occhi, poichè d'incontrare lo sguardo del duca di Frondosa non sentiva, povero re, niente affatto il bisogno. Aveva, però, il bisogno di sfogarsi e di manifestare il suo malumore. Difatti, non appena usciti dall'ospedale e non appena seduti nella limousine tra la folla che acclamava, Rolando II si volse a me di scatto ed esclamò: «II mio trisavolo avrebbe potuto far tagliare a quell'uomo la testa. Io devo invece stringergli la mano». Osservai che purtroppo i tempi erano mutati e che non sempre mutamento è sinonimo di miglioramento. E mentre, inchinando il capo a destra e a sinistra, rispondeva agli applausi del suo popolo, Sua Maestà sospirò con profonda nostalgia d'assolutismo: «La libertà dei popoli è la schiavitù dei re!» Ma anche la schiavitù dei re ha i suoi accomodamenti avec le Ciel. Così, a togliere Sua Maestà dall'anfibia situazione di dover ricercare gl'incontri con la moglie del duca e di dover evitare quelli con il marito della duchessa, pensò quella benedetta abitudine di don Alvaro d'essere e di voler essere uomo di carattere. Poichè i suoi quarantacinque anni erano sani e robusti quanto i venti anni di tutti i bravi ragazzi che andavano soldati alla frontiera, il duca don Alvaro non vide per quale ragione questi quarantacinque anni dovevano dispensarlo dal compiere un dovere per l'adempimento del quale gli avevano garbatamente lasciate fresche e vegete tutte le facoltà. Buon cavaliere, gli parve di poter benissimo seguire a cavallo, come soleva fare per le caccie alla volpe e i paper-hunt, anche le cariche d'un bello squadrone d'usseri di Fantasia. E poichè tra tante stravaganze il duca aveva anche quella di non lasciare tra il dire e il fare nessun mare di mezzo, in mese dopo la dichiarazione di guerra, nominato in virtù di leggi eccezionali luogotenente degli usseri, don Alvaro partiva per la frontiera, stretta l'elegante e ancor giovanile persona nella bella uniforme azzurra dalla triplice bottoniera d'argento e dagli alamari d'oro. Vidi allora svolgersi sotto i miei occhi, nel tranquillo andamento delle cose solite, tutt'un tenebroso dramma d'amore e di vendetta. Saputo che il duca di Frondosa aveva chiesto l'onore di servire nell'esercito di Fantasia, chiamato a palazzo il ministro della Guerra, Sua Maestà lo pregò di non ostacolare in alcun modo il desiderio nobilmente patriottico e veramente esemplare del duca, di dargli anti corso il più rapidamente possibile e magari anche, se fosse stato necessario, un corso forzoso, con la creazione impromptue di qualche disposizione o di qualche legge eccezionale atta a far sì che il duca potesse dare per l'amata patria il suo sangue come lo dànno gli eroi: senza badare ai pericoli. Poichè è oramai stabilito dal destino che, finchè vivrà Rolando II o colui che fu Rolando II e finchè io avrò l'onore d'essergli amico toccheranno a me tutte le situazioni difficili, fu anche questa volta affidato alla mia sapiente arte diplomatica l'arduo còmpito di preparare il delitto senza aver l'aria che nessuno volesse commetterlo. Avendo infatti il ministro della Guerra, dopo ricevuti gli ordini di Sua Maestà fatto sapere a Sua Maestà d'essere molto perplesso poichè quegli ordini avevano qualche penombra in cui era necessario portare un po' di luce, io fui mandato dal ministro per vedere di quali penombre potesse mai esser questione. Le perplessità del ministro furono con me, naturalmente, molto meno perplesse. Difatti, dopo un breve preambolo in cui la circonlocuzione fu ancora in onore, il ministro della Guerra mi si piantò davanti con l'imponenza d'un esercito intero e in termini espliciti domandò: «Deve insomma il duca di Frondosa morire come tutti noi soldati per la grandezza della Patria o deve solamente aver l'aria di voler morire?» Poichè mi vedevo d'innanzi, a parlare intrepidamente di morte, quell'omettino lindo e pinto nella più pacifica redingote io risposi di non saper che rispondere: non sapevo infatti di che morte il ministro della Guerra volesse parlare e non potevo quindi che riferire a Sua Maestà il dubbio espostomi così drammaticamente dal suo ministro. Riaccompagnandomi alla porta del suo gabinetto il ministro della Guerra approvò la mia proposta sospensiva. «Bisogna prima conoscere chiaramente attraverso gli ordini di Sua Maestà le intenzioni del duca di Frondosa, chè, mio caro Marchese, io ministro della Guerra vedo tutt'i giorni che altro è parlar di morte altro è morire». E lo vidi quel giorno anch'io, guardandolo. La perifrasi, la metafora, la circonlocuzione, tutte le forme rettoriche per cui l'arte di dire è quella di non dire, furono con infallibile istinto adoperate da Sua Maestà, quando, quella stessa sera, si trovò a dover rispondere al dubbio esposto per mio mezzo dal ministro della Guerra. Se è vero, come Machiavelli affermava, che la parola è data all'uomo per nascondere il pensiero, Sua Maestà doveva avere in fatto di parole un inestimabile patrimonio tanto alla fine del nostro lungo discorso il suo pensiero mi apparve meravigliosamente nascosto. Ma un confidente perfetto sa cercare e trovare sopratutto nei nascondigli. Si stabilisce così tra il confidente intelligente e colui che si confida con cautela una specie di giuoco che assai in onore tra le fanciulle borghesi nei lunghi pomeriggi di villeggiatura. Il confidente, che deve penetrare la segreta intenzione d'un lungo discorso che gli è stato confidato, comincia a esporre con garbo e con ordine tutte le più varie interpretazioni che al misterioso discorso si possono dare. Il sorriso di colui che s'è confidato avverte il confidente se si avvicinta al pensiero nascosto o se ne allontana. Il volto di colui che s'è confidato si oscura? Acqua, acqua, ci si allontana. Il volto di colui che s'è confidato s'illumina? Fuoco, fuoco, ci si avvicina. — Ho inteso benissimo, — dissi infatti, — le intenzioni di Vostra Maestà le quali evidentemente non sono che le intenzioni del duca di Frondosa, principale interessato nell'interessante problema che ci preoccupa. Evidentemente al desiderio di don Alvaro di Frondosa si può rispondere in tre modi: prendendolo alla lettera, avendo l'aria di prenderlo ma non prendendolo assolutamente alla lettera o, finalmente, non avendo l'aria di prenderlo e non prendendolo affatto alla lettera. Cominciamo da questa terza ipotesi. Sua Eccellenza il ministro mostra d'interessarsi alla domanda del duca e dopo avere lungamente studiato il problema ringrazia il duca della patriottica offerta e promette di tenerla presente alla prima occasione, a quella prima occasione che appunto perchè è la prima, timida com'è, non si presenta mai. (Volto nero di Sua Maestà: acqua acqua..) È evidente che questa ipotesi è immediatamente da scartarsi. Il duca di Frondosa non è uomo da offrire col desiderio segreto che l'offerta non venga accettata. La seconda ipotesi è più temperata: presuppone da parte del duca la sincerità dell'offerta e da parte del ministro l'intenzione di non accettarla o almeno di non accettarla così come il duca la presenta. In altri termini il ministro della Guerra potrebbe nominare il duca luogotenente degli usseri ma, senza esporlo a rischi maggiori di quelli di un'insolazione o un acquazzone, non mandarlo alla guerra ma tenerlo alla capitale o in un'altra qualsiasi città ad istruire coloro che alla guerra devono andare. (Su la faccia del re, buio profondo: acqua acqua, non ci siamo....) Anche questa seconda ipotesi è, senza dubbio, da scartare. Se sbaglio, Vostra Maestà voglia degnarsi di correggermi. (Il Re sorride. Ci avviciniamo). Rimane la terza ipotesi: voglio dire che il duca sia nominato luogotenente degli usseri e mandato a combattere dove e come combattono tutti gli altri luogotenenti degli usseri. (Il Re sorride ancora di più. Ci avviciniamo sempre più). È l'ipotesi più logica, la soluzione del problema più consigliabile. Non risponde alla dignità del duca prestarsi ad una specie di mascheratura militare, a un travestimento da eroe, ma da eroe di guarnigione. E c'è di più: la personalità eminente del duca farà del suo volontariato militare un esempio che sarà mònito, consiglio, stimolo per tanti altri. Ma quale stimolo, quale consiglio, quale mònito sarebbero nel fatto di vedere il duca di Frondosa, in virtù di eccezionali privilegi, aver la gloria senza il rischio, il premio senza la virtù, l'onore senza l'onere, in un tempo specialmente in cui ogni privilegio è soppresso ed in cui di fronte al pericolo della patria ogni cittadino è uguale? (Come, come sorride il Re! Fuoco, fuoco....) Ma c'è ancora di più. Non è il duca di Frondosa l'uomo che ha creduto necessario al decoro e all'avvenire del regno di Fantasia la guerra che oggi il regno di Fantasia così valorosamente combatte? Converrebbe, dopo tutto questo, converrebbe al duca di rimanere indietro e d'aver fatto la guerra con la carta quando gli altri la fanno, per lui, con le armi? Io non lo credo. (Il Re sorride). Credo che convenga al duca andare, come soldato, avanti.... Re sorride ancor più....) Molto avanti.... (Il Re è tutt'una festa di sorrisi). Anzi, quanto più avanti è possibile.... (II sorriso del Re è infinito. Fuoco, fuoco, fuoco.... Ci siamo!) Quindi, se Vostra Maestà non giudica errate le mie conclusioni, io riferirò queste conclusioni a Sua Eccellenza il ministro della Guerra il quale non attende che gli ordini di Vostra Maestà per operare immediatamente in conseguenza. Presi fiato, finalmente. Di fronte a me, fumando, Rolando II continuava a sorridere, a sorridere, a sorridere.... Sentii che m'adorava. — Mio caro d'Aprè, — disse finalmente, — io non avevo il coraggio di essere così inesorabilmente logico. Si espone risolutamente la vita collettiva d'un esercito quando ciò sia necessario, ma è duro al cuore esporre, deliberatamente, la vita d'un uomo, d'un singolo soldato. Lei ha avuto la forza di dire quello che io non osavo neppure pensare. Me ne rimetto alla sua saggezza. Faccia lei. E mi rimise così, tranquillamente, anche la responsabilità ed il rimorso. Mi parve in quel punto che, fra tutti i mestieri che l'amicizia di Rolando II mi aveva affidati, ci fosse da quel momento anche quello del sicario. Ma il mandatario che non vuol fallire il colpo non lascia all'arbitrio del sicario lo svolgimento dell'agguato. Ne intesse egli stesso la fila. Così Rolando II concluse: — Solo mi permetto di farle notare che non si può mandare il duca a comandare un plotone come un luogotenente di carriera. Occorre trovargli un posto adeguato ai suoi meriti e più rispondente all'autorità della sua persona. Il maresciallo Paolo de Gonzales è senza aiutante di campo. Il duca di Frondosa farebbe, io credo, al caso suo. Mi giudichino i contemporanei come più tardi mi giudicherà la storia. Levandomi su quel consiglio ch'era un ordine non battei ciglio, tanto il senso della criminalità era ottenebrato nel mio spirito dall'impersonalità curiosa dello spettatore. Sul momento agii. Non fu che dopo, uscendo nuovamente dal gabinetto del ministro della Guerra, che avvertii dentro di me un sordo logorìo di rimorso in minore, di rimorso sottovoce, il rimorso del complice. Poichè il maresciallo Paolo de Gonzales aveva il comando delle truppe più esposte alla furia delle armi asturiane e poichè già due suoi aiutanti di campo avevamo avuto morte gloriosa per portare sotto il fuoco delle mitragliatrici nemiche ordini agli estremi avamposti, era quasi matematicamente certo che il duca di Frondosa partiva per non ritornare. Nel ritrovar quella sera Rolando II tranquillamente sorridente, sentii sotto quella tranquillità e in quel sorriso la bieca crudeltà degli avi lontanissimi, autocrati e despoti, massacratori e avvelenatori. Sentivo che quel sorriso vendicava, sette od otto mesi dopo, l'offesa d'un colpo di cravache che sembrava dileguato sott'un po' di cipria rosea e che ora invece chiedeva, per essere cancellato, il rosso sangue della vita d'un uomo. Un ultimo senso di pietà parlò nell'anima del complice e dissi a Sua Maestà la mia angoscia: — Credo, Maestà, il duca di Frondosa troppo esposto. Il maresciallo Paolo de Gonzales è un rompicollo. Dov'è lui si muore. — Ma dove è lui si vince, — ribattè il Re, sorridendo. — Legga i «comunicati». E poichè mi vedeva silenzioso e mortificato si levò, sorrise, mi battè su la spalla: — Del resto il duca di Frondosa, — disse, — sarà veramente al suo posto. Nel coraggio il duca è uomo prudente e calcolatore. Accanto al maresciallo servirà da freno. Il suo calcolo limiterà l'impeto dell'altro. Vedrà. La presenza del duca di Frondosa avrà questo risultato: in quel settore si morrà molto meno e si vincerà ugualmente. E, per mettere definitivamente in regola con gli Dei spettatori la sua migliore coscienza, Rolando II concluse: — E val la pena, del resto, d'esporre una vita sola quando una sola può salvarne migliaia! Non seppi che cosa rispondere. Mi giudichi la Storia. Mentre aspettava di giudicarmi, la Storia intanto elaborava le preparazioni d'un capitolo su cui fra cinquant'anni, se ancora non si sarà compreso che l'autodidattisino è il solo modo per imparare qualche cosa e non si sarà ancora deciso d'adibire gli edificii scolastici a un più pratico uso, gli scolari dovranno passare lunghe ore di gravi meditazioni. Questo capitolo della storia universale avrà nome, allora, la rivoluzione antidinastica di Fantasia. Se ne cercheranno le origini, dagli Ippoliti Taine dell'epoca, nel regime, nello svolgersi della lotta di classe, negli eccessi del militarismo sopratutto. Io che la rivoluzione di Fantasia l'ho vista nascere, se oso esprimermi così, su le mie ginocchia, posso affermare invece che la rivoluzione di Fantasia non ebbe origine negli eccessi del militarismo ma sopratutto, al contrario, nel difetto delle istituzioni militari. Tra i notevoli difetti già rilevati in lui il duca don Alvaro di Frondosa aveva anche quello di credere ai discorsi che i ministri sogliono pronunziare nei Parlamenti: difetto tanto più deplorevole quando questa fiducia era accordata ai discorsi che i ministri della Guerra e della Marina, una volta all'anno, in occasione della discussione dei rispettivi bilanci al Congresso, pronunziavano per assicurare alla popolazione di Fantasia ch'essa poteva dormire pacificamente i suoi sonni tra due guanciali, uno del quali era il suo forte esercito e l'altro la sua invidiabile marina. In politica come in amore non si bada alle promesse: l'essenziale è di raggiungere lo scopo, lo scopo immediato, così nelle Camere dove le leggi si fanno come in quelle dove alle leggi si contravviene. La così detta politica degli armamenti è, per molti paesi, non quella di armarsi ma quella di farsi credere armati. Senonchè, quando la politica passa dalle parole alle azioni, l'essenziale non è più di farsi credere armati, ma bensì di essere armati veramente quanto meno gli altri se l'aspettano. Il duca di Frondosa, fidando nelle perentorie affermazioni dei ministri incompetenti per cui l'esercito di Fantasia, era meravigliosamente inquadrato, equipaggiato, preparato e ammaestrato, e per cui la marina del medesimo regno era in grado di sbarazzarsi in tre quarti d'ora — appena il tempo d'una passeggiatina in alto mare — di qualsiasi flotta avversaria, credette possibile levar la voce per la dignità del regno di Fantasia anche se levar la voce dovesse voler dire andare incontro alla guerra. Gli avvenimenti non tardarono a provare che la perfezione dell'esercito di Fantasia aveva molte lacune e che tre quarti d'ora l'alto mare erano per la flotta di Fantasia una prova assolutamente superiore alla forza dei suoi cannoni, che, abituati a sparare in bianco alle grandi manovre, perseveravano a non colpire il bersaglio come se continuassero a sparare in bianco, anche quando, venuta la guerra, si sparava non a polvere ma a palle. Così, dopo appena mezz'ora, la flotta di Fantasia dovette ritirarsi. E le sirene, che in piu miti tempi adescavano col loro canto i navigatori, ora inseguivano coi loro sibili, da tutte le navi avversarie, la bella flotta sventurata e incompresa che si ritirava come ci si avvia ad ogni ritirata: con la massima fretta. Nè più liete volsero, per terra, le sorti della guerra. Si stabilì tra l'esercito di Fantasia e quello di Silistria una specie di figura di quadriglia per cui ora andava avanti l'uno e ora andava avanti l'altro. Ma, a furia d'andare e venire, l'esercito di Silistria era sempre un po' più avanti e quello di Fantasia era sempre un po' indietro. Intanto, a mano a mano che le notizie della guerra giungevano, prima pessimiste, poi allarmanti, finalmente catastrofiche, il popolo di Fantasia cominciò a rivedere le volate liriche dei primi giorni. Per le nazioni lo stato d'animo lirico e come una scala molto ripida, salita troppo in fretta: ci si ferma a metà strada, per mancanza di fiato. Così il popolo di Fantasia, fermatosi sul pianerottolo del senso comune, cominciò a guardare se veramente la guerra era necessaria e se, essendovi la possibilità di evitarla, sovrano, governo e diplomazia non avevano l'obbligo di vedere il vero stato delle cose di fronte all'eventualità della guerra prima che l'eventualità della guerra sconvolgesse tutte le cose dello Stato. E, poichè la saggezza popolare e abituata a ricercare sempre dietro le idee fallite gli uomini in fallimento, responsabili dell'errore che trascinava il regno di Fantasia alla disfatta furono riconosciuti il governo, presieduto da don Pedro de Aldana, la cricca di Corte e la piccola banda di generali che faceva la pioggia e il bel tempo attorno al ministro della Guerra agente di cambio. Queste tre responsabilità assommavano, naturalmente, nella responsabilità di Rolando II, il quale cominciò a diventare rapidamente impopolare. Chè la popolarità, con la sua coda di stelle satelliti, non segue gli astri sconfitti che si spengono ma gli astri vittoriosi che si formano. Come il firmamento, l'opinione pubblica è in continua evoluzione: mondi antichi si spengono e mondi nuovi si formano nel mistero delle nebulose impenetrabili. E se l'astronomo non è mai sicuro di ritrovar stasera nel fuoco del suo telescopio il pulviscolo d'oro che vi lasciò ieri sera, l'uomo pubblico non è mai certo di ritrovar stamattina nell'anima della folla il posto che vi occupava ancora ieri mattina. Popolarità, il tuo nome è fragilità! Se gli astronomi della vita sociale fossero, come quelli della vita siderale, provveduti di telescopi a lunga portata, sarebbe stato possibile avvertire, nei contraccolpi che la guerra sfortunata aveva sul popolo di Fantasia, i primi rombi precorritori d'un nembo per la violenza del quale gli avvenimenti dovevano, in breve tempo, precipitare in tal modo che, prima che fosse riuscito a mandare il marito d'Isabella al fronte, Rolando II si doveva veder costretto a raggiunger lui la frontiera. È inutile che io ricordi il succedersi di questi avvenimenti i quali non sono ancora molto lontani, talchè posso affidarne la cronologica ricostruzione alla memoria dei lettori benigni che hanno seguito fin qui questa veridica storia. Non ebbe, la rivoluzione che doveva deporre Rolando II dal trono dei suoi avi, la grandiosità di linee di quella che dovette proclamare i Diritti dell'Uomo. Mancò intanto, ad essa, il patetico elemento della deposizione e dell'esecuzione di Maria Antonietta. Poichè Maria Antonietta, non avendo a lodarsi della condotta coniugale del regale consorte, aveva già da tempo ripreso la via della Corte paterna col pretesto d'una malattia nervosa che consigliava alla Regina di Fantasia un lungo periodo di assoluto riposo morale e materiale. Mancò anche ad essa la tragicità d'una fuga a Varennes o d'un internamento nella Torre del Tempio, poichè il popolo di Fantasia non ebbe per il Re violenze d'odii rancori e, purchè se ne andasse, lo lasciò libero d'andare come voleva e dove voleva. Mancò ad essa, finalmente, l'elemento suggestivo d'un fanciullo imprigionato e proclamato re nella prigione dai principi emigrati, e il romanzesco d'una morte controversa e d'una probabile sostituzione di persone, perchè Rolando II, così assiduamente occupato a inseguire l'inafferrabile felicità che la duchessa di Frondosa rappresentava per lui, aveva completamente trascurato la necessità di dare al suo regno un erede e alla sua rivoluzione un Delfino. Ho vissuto a fianco di Rolando II gli ultimi giorni del suo regno, quelli durante i quali ogni nuovo avvenimento non faceva che ripetere a Sua Maesta il saggio consiglio di cominciare a preparar le valigie. Confesso modestamente che quelle ore non ebbero nulla di singolarmente terribile, se non una terribile nevralgia dentaria che affliggeva Rolando II e che lo faceva soffrire assai più dell'idea di dover perdere il trono. Assolutamente refrattaria a resistere al più modesto segno di dolore fisico, Sua Maestà si trovò a ricevere la notizia che il Congresso aveva compiuto il colpo di Stato e proclamato la Repubblica, proprio nel momento in cui l'insigne odontoiatra, al quale erano affidati, con congruo stipendio annuo, i denti di Sua Maestà, s'nchinava al re che pallido e abbandonato su la poltrona lo guardava con la bocca ancora spalancata, e gli annunziava che la misura più urgente da premiere per ridare a Sua Maestà il benessere fisico era quella di strappare il dente malato. Fra l'insigne odontoiatra che rispettosamente chiedeva con un sorriso a Sua Maestà se era il caso d'armare i ferri del mestiere e di passare all'estirpazione del dente cariato, e don Pedro de Aldana il quale, con aria desolata, attendeva di sapere dal re deposto com'egli intendesse regolarsi di fronte al Presidente della Repubblica che le Camere avrebbero certamente eletto nella serata, Rolando II se ne rimaneva lì, su la poltrona, sempre a bocca aperta, con l'aria di chiedere un miracolo così alla scienza dell'insigne odontoiatra come alla politica del suo primo ministro: ed il miracolo non era quello di fargli, finchè s'era ancora in tempo, restituire il trono, ma quello di fargli passare il dolor di denti senza che dovesse subire il tremendo dolore dell'estirpazione proclamata imperiosamente necessaria. Compresi in quel momento che a Rolando II doleva solamente di aver dovuto perdere il regno senza avere avuto almeno il tempo di barattarlo. Chè se un suo illustre e remoto collega aveva offerto di barattarlo per un cavallo, egli l'avrebbe, senza pensarci un solo minuto, barattato volentieri col mezzo di farsi passare il mal di denti senza doversi lasciar strappare l'iniquo molare ch'era causa di tanto male. Senonchè l'dontoiatria e la filosofia della storia hanno la medesima inesorabilità e Rolando II dovette, nella stessa mezz'ora, lasciarsi strappare un dente di bocca e la corona dalla fronte. La coincidenza dei due dolori fu, del resto, probabilmente preparata con benignità verso Rolando II dai misteriosi dottori in fisio-psicologia che reggono e governano il nostro destino. Se, prima che il dente gli fosse strappato, Rolando II non si preoccupò che di questo dolore, dopo che il dente fu avulso dalla delicata gengiva regale la gioia del Sovrano fu tale che l'aiutò a considerare con occhio sorridente qualsiasi altra avversità. Tuttavia al pensiero di questa avversità Rolando II fu chiamato dal brusìo lontano, poi dal vocìo vicino d'una dimostrazione popolare la quale veniva sotto le finestre del palazzo reale a confermare a Sua Maestà ch'era veramente il caso di disporre che le valigie fossero preparate. Guardai dalla finestra la grande piazza esagonale su la quale aprivano le duecento finestre del palazzo reale: era gremita di popolo. Ma non era l'orda terribile e incendiaria dei Sanculotti. Era una Pacifica popolazione domenicale d'onesti borghesi e di padri di famiglia la quale non aveva l'aria di venire ad avvertire il Monarca che il popolo aveva deciso di cambiar di regime e che la Repubblica era stata proclamata, ma piuttosto quella di venire garbatamente ad augurare al re un ottimo viaggio verso la frontiera. Rolando II, intanto, mentre giù nella piazza la folla, tanto per aver l'aria di fare qualche cosa, cantava un inno rivoluzionario, guardava con occhi esterrefatti l'insigne dottore in odontoiatria che preparava i ferri per la terribile operazione. Ebbe appena, Rolando II, quando il canto giù n ella piazza si fece più alto, la curiosità di volgersi a me per domandarmi di che cosa si trattava. Informato sommariamente da me di quanto avveniva, sorrise amaramente come per dire: «Beata tutta questa gente che può pensare a far la rivoluzione! Se soffrisse coi denti come soffro io!...» E si volse di nuovo, con occhi sempre più esterrefatti, all'insigne dottore in odontoiatria il quale prese rispettosamente con due dita il re per il naso e per il mento e nella bocca violentemente spalancata introdusse il ferro liberatore. Con azione fulminea l'insigne dottore in odontoiatria afferrò il dente regale e lo strappò con un dolce moto della mano. Ma, dolce a vederlo, il moto non dovette essere dolce a sentire, poichè dalla gola del re partì un grido straziante che scompigliò il mio essere sin nelle viscere più profonde. Poi, dalla bocca regale, versandosi nel vaso di cristallo che l'insigne dottore in odontoiatria offriva a Sua Maestà, uscì un mezzo bicchiere di sangue: il solo sangue che resti per me legato al ricordo dell'esangue rivoluzione di Fantasia. Dolore e piacere, avvertiva Platone, sono cosi saldamente uniti che non si sa dove l'uno cominci e dove l'altro finisca. Questa mancanza d'una linea di demarcazione fra sofferenza e voluttà è fortunatamente solo filosofica e non ha niente a che vedere con la estirpazione d'un dente cariato. Se nell'astrazione del filosofo non si sa dove il piacere cominci e dove finisca il dolore, sotto le mani d'un insigne dottore in odontoiatria si sa benissimo che dopo cinque minuti di stupimento finisce il grande dolore d'avere un dente cariato e comincia il grande piacere di non averlo più. Così Rolando II, dopo che ebbe con un ultimo colluttorio calmante sedato anche l'ultimo nervo doloroso delle sue regali gengive, levandosi dalla poltrona ove aveva tanto sofferto, si volse a me con un sorriso beato. Ed era così lieto di non soffrire più, manifestava la sua gioia fisica in una tale esuberanza di gesti e di parole, che parve a me delittuoso troncare sul nascere quella gioia commovente ricordando a Sua Maestà che giù la rivoluzione aspettava che lui se ne andasse. Ma, poichè non tutti gli uomini hanno la stessa delicata sensibilità, don Pedro de Aldana ebbe il cuor ch'io non ebbi, e vibrò nell'estasi di Sua Maestà il colpo brutale d'un improvviso richiamo agli avvenimenti. Don Pedro mise rapidamente al corrente il Re di quanto avveniva: il colpo di Stato avvenuto al Congresso, la Repubblica proclamata, le Camere convocate per la sera per eleggere il primo magistrato della Repubblica, la sommossa popolare scatenata per le vie e le piazze di Effemeris, la guarnigione divisa, metà già passata armi e bagagli alla Rivoluzione; metà ancora fedele al Re per usargli la cortesia di presentargli un'ultima volta le armi al momento della sua partenza. Sopratutto di questa partenza don Pedro de Aldana si preoccupava. E la sua preoccupazione non era del tutto ingiustificata poichè se dalla piazza esagonale gremita di folla non saliva un solo grido ostile alla personalità di Rolando II, giungeva sonante nelle nostre stanze il grido di: «Morte a don Pedro! Don Pedro alla lanterna!» Formula fuori luogo, in verità, ma anche le rivoluzioni hanno il loro tradizionalismo, e nessun rivoluzionario saprebbe rinunziare al dovere di impiccare un aristocrate alla lanterna anche quando si tratti d'un ministro democratico e quando le lanterne della rivoluzione francese sono state sostituite da globi elettrici situati a tale altezza che a volervi impiccare qualcuno il rischio non sarebbe meno grave per l'impiccatore che per l'impiccato. Nelle ore delle grandi prove si misurano i grandi caratteri. Lo stoicismo che Rolando II rivelò in quell'occasione fu, o mi parve, veramente insuperabile. Poichè la gioia d'essersi liberato d'un dente cariato non saprebbe essere eterna, Rolando II degnò di occuparsi anche della Rivoluzione, e, saputo quanto avveniva, domandò se nessuna resistenza fosse possibile. Informato che pensar di resistere sarebbe stato semplicemente follia, si passò la mano su la fronte, vi raccolse un'idea, prendendo uno di quei fieri e teatrali atteggiamenti che la storia deve ricordare e che per la storia sono opportunamente preparati, guardò me, guardò don Pedro de Aldana impaziente di correre alla stazione, guardò l'insigne dottore in odontoiatria che puliva e riponeva i suoi piccoli strumenti, ed esclamò: — C'è, o signori, qualche cosa di più potente della Volontà del Sovrano: ed la sovrana volontà del popolo! Salendo a palazzo reale, don Pedro de Aldana doveva avere una sola preoccupazione: quella che al giovane re dovesse mai saltare in mente l'idea di ostinarsi a resistere e di volersi fare uccidere, assieme al suo Primo Ministro, sui gradini del trono. Così, quando nella storica frase di Rolando II trove tanta rassicurante remissività, don Pedro de Aldana trasse dal largo petto carico d'onori e d'oneri il respire d'un uomo che dopo aver veduto la morte sicura ritorna inopinatamente alla vita. Ma, poichè la felicità dell'attimo fuggente è pavida e teme sempre che l'attimo che fuggirà immediatamente dopo debba minacciarla, don Pedro tentò d'indurre Sua Maestà ad una partenza immediata, prima cioè che potesse venire a Sua Maestà l'idea di tornare su la sua prima, prudente e ragionevole deliberazione. Ma Rolando II che s'era intanto avvicinato alla finestra ed aveva veduto che la Rivoluzione non aveva un aspetto terribile — poichè in mezzo alla lavagna nera d'una densa folla pacifica un paio di compagnie della Guardia Reale disegnavano alcune mobili «esse» di corazze d'argento mentre nel silenzio d'una folla che aveva l'aria d'assistere ad uno spettacolo alcune dozzine di tenori volontari cantavano qualche canzone proibita che non faceva male a nessuno — Rolando II non vide la necessità d'una partenza precipitosa. Ma, don Pedro de Aldana ch'era prudente avendo opinato che le cose potevano guastarsi da un momento all'altro e che l'ombra della notte favorisce intemperanze delle folle rivoluzionarie, Sua Maestà mise il suo Primo Ministro in libertà e lo autorizzò a partire senza attendere che anche lui fosse pronto alla partenza. Così don Pedro e l'insigne dottore in odontoiatria si ritirarono simultaneamente e frettolosamente, dopo avere confermato a Sua Maestà, con telegrafiche parole, una devozione la quale non chiedeva che d'essere messa alla prova quando la prova non fosse per riuscire troppo pericolosa. Quando rimanemmo soli, Rolando II si mise a sedere e accese una sigaretta, con una certa sprezzante bravura e con l'aria d'un uomo che non ha nessuna ragione d'aver fretta a cambiare di residenza. Stimai quella tranquillità ammirevole ma eccessiva e non mi sottrassi al dovere di avvertirne Sua Maestà: — Vostra Maestà, — dissi, — ricorderà che il poeta di una commedia famosa, la quale fu la fanfara d'allarme di un'altra memorabile Rivoluzione, avvertiva che tout finit par des chansons. Nella Rivoluzione che sconvolge oggi l'ordine delle cose nel regno di Fantasia, invece che finire con le canzoni, con le canzoni si comincia. Ma non c'è da fidare eccessivamente nell'innocua temperanza di questi preludi musicali. Del resto, se vogliamo rimanere nella musica, anche nella sinfonia i tempi si seguono e non si rassomigliano; e se dopo l'«allegretto» viene l' «andante», dopo «l'andante» viene l'«appassionato». Però io consiglio rispettosamente a Vostra Maestà di scegliere per sè in questa musica, e finchè siamo in grado di farlo comodamente, il tempo più consigliabile in questo momento: intendo dire: la «fuga». Gli avvenimenti che ho raccontati fin qui hanno provato che il temperamento di Rolando II, pur senza giungere ad avere l'inclinazione precisamente contraria, non aveva certo l'inclinazione eroica. È quindi quasi superfluo all'economia del racconto avvertire che Sua Maestà accolse con docilità il mio consiglio, talchè non erano trascorsi venti minuti che egli aveva già mutata la sua uniforme militare col più leggiadro abito da viaggio che sia mai stato confezionato dai grandi sarti di Fantasia. Intanto il telefono aveva annunziato che una folla in atteggiamento minaccioso stazionava attorno alla stazione nella speranza di poter dare un rumoroso saluto agli alti papaveri della monarchia che si sarebbero certo affrettati a partire per l'esilio. Ma un gentiluomo di Corte sopraggiunto in quel mentre comunicò che infatti gli alti papaveri già partivano tutti ma che avevano tutti preferito di partire in automobile. E già a quell'ora le automobili in partenza s'inseguivano in lunga fila per le strade che conducevano alle porte della città. La modernità dei mezzi toglieva, mi parve, a questa fuga ogni carattere veramente drammatico, e gliene dava in ricambio uno ch'era piuttosto sportivo, poichè tutta quella fila di eleganti limousines, più che d'una tragica fuga negli orrori della rivoluzione, dava idea d'un placido ritorno da una giornata di corse in un pomeriggio di bel tempo. Rolando II non esitò a scegliere anche lui questo sistema di partenza, pur conciliandolo col proposito di prendere un treno alla prima stazione dopo la capitale. Intanto il più fidato cameriere di Sua Maestà preparava una valigia per le necessità immediate, mentre gli altri domestici riempivano, con uno zelo inconsueto, che rivelava l'ansia di mandarla via presto, i grossi bauli in cui Sua Maestà aveva dato ordine di chiudere il suo guardaroba, la sua biancheria; le sue carte politiche e il magazzino variopinto delle sue decorazioni. Bisogna non aver mai veduto partire un re per l'esilio per credere che l'addio di un Sovrano alla sua Corte abbia la medesima povertà di commozione dell'addio di un sottosegretario di Stato ai suoi uscieri all'indomani d'una crisi ministeriale. Sparsasi la notizia che Sua Maestà partiva, dame e gentiluomini, vecchi uomini politici fedeli al Sovrano, erano accorsi per inchinarsi l'ultima volta alla Maestà di Rolando II. Vidi così tra coloro che affollavano le sale per cui il Re, andandandosene, passava e distribuiva strette di mano copiose e sorrisi commoventi, anche il duca e la duchessa di Frondosa, vecchia nobilta monarchica, ligia al regime, e, non ostante tutte le cose profane che avevano potuto dividde momentaneamente i due coniugi da Sua Maestà, profondamente compresa di quarto di sacro era nell'ora storica in cui la Corte cedeva alla sopraffazione della piazza. Non c'era più sul volto del duca di Frondosa traccia alcuna degli antichi sentimenti. Al ricordo della corte che Rolando II aveva fatta a sua moglie, s'era adesso sostituito il pensiero della Corte da cui Rolando II esciva per sempre. Vidi il grande gentiluomo stringere devotamente la mano del re e baciarla con profonda commozione. E vidi la duchessa Isabella inchinarsi sin quasi a inginocchiarsi d'innanzi a Rolando II, il quale le si fermò davanti e le baciò la mano guardandola un momento negli occhi con suprema rassegnazione come a dire: «Mi è grato salire anche l'ultima stazione di questo calvario per amor tuo». Il momento fa, in verità, singolarmente patetico, e se Rolando II mormorò a fior di labbra: «Arrivederci!», a me parve che gli occhi della duchessa e del Re, lucidi di lacrime, si dicessero invece malinconicamente: «Addio!». Un poeta ha detto quale sia la suggestione d'un muro derrière lequel se passe quelque chose. Io conobbi quella notte la suggestione che esercita la porta di una cabina di sleeping-car nella quale sia chiuso un re che, deposto, parta involontariamente per l'esilio. Rolando II vi si era chiuso non appena fummo saliti nel direttissimo diretto al confine, il quale ci aveva raggiunti nella quieta stazione secondaria che cento chilometri appena separavano dalla capitale ma che secoli interi sembravano separare invece dalla Rivoluzione. Spettatore per lunghi anni dell'amabile commedia, io mi sentivo ora preso dal patetico afflato dell'improvvisa situazione tragica inseritasi nell'ultimo atto dell'azione che ho raccontata. Se l'insonnia di un re è legittima, in una notte come quella non apparirà meno legittima, io credo, l'insonnia d'un cortigiano che il re ha invitato ad accompagnarlo per l'ultima volta fin oltre la frontiera. Da una parte e dall'altra della porta della cabina regale le nostre due insonnie si cercavano senza avere tuttavia il coraggio d'aprir la porta e di trovarsi di fronte. Intuivo che l'orgogliosa spavalderia del re durante i preparativi della partenza doveva ora, nella solitudine, aver dato luogo alla tragica angoscia della tremenda catastrofe. Imaginavo Rolando II intento ad arrampicarsi, per risalirlo, su per l'albero genealogico della regale famiglia, con lo scopo di ritrovare attraverso i secoli e i costumi le glorie insigni della dinastia. Che tanto splendor di glorie dovesse spegnersi prematuramente con lui, era certo per Rolando pensiero intollerabile. Trascorsi la notte in queste mie inquietudini senza osare di portare sollievo e conforto alla inquietudine di Sua Maestà. Vedevo, intanto, dalle finestre del corridoio, le stazioni notturne ingombre di soldati, di feriti, di carri militari, di tutta la congestion ferroviaria d'un esercito in ritirata. Lo spettacolo della guerra perduta e della rivoluzione già scoppiata era squallido. Dal finestrino opposto Rolando II doveva vederlo come io lo vedevo, e quella contemplazione del sanguinoso epilogo in cui la sua corona cadeva spezzata non poteva non indurlo in desolate e disperate meditazioni. La mia ansia giunse anzi a tal segno che, spuntata in cielo l'alba, non seppi reggere più a lungo e aprii la porta della cabina regale. Se vi sono gradi di scetticismo che preparario ad affrontare impavidi ogni spettacolo vi sono però spettacoli che impavidamente superano, col loro impreveduto, qualsiasi grado di scetticismo. Tale fu quello che mi si offrì appena ebbi aperta la cabina regale e appena mi vidi davanti Rolando II stretto nella seta d'un pigiamino changeant, col volto fresco di chi ha riposato tranquillamente la notte intera e intento a radersi, con un rasoio di sicurezza d'innanzi a uno specchio a due luci aperto su un tavolinetto ch'era ai piedi della cuccetta ancora calda del quieto sonno regale. Se Rolando II lavorava così a non aver più peli su la faccia, non era ancora lecito a me di non avere con lui finalmente peli su la lingua. Ma confesso che ne ebbi, per la prima volta, violentemente la tentazione. Sui suoi confini nord-occidentali il regno di Fantasia è diviso dal limitrofo regno d'Asturia da un lungo tunnel sotto cui i direttissimi internazionali corrono per quaranta minuti senza prendere una boccata d'aria o un filo di luce. Passato il tunnel, il direttissimo si ferma, esausto, a fare un po' d'acqua prima di riprendere la sua corsa. A quella stazione Rolando II aveva deciso di scendere dal treno per prendere congedo da me, pernottarvi e riprendere in automobile l'indomani il suo viaggio verso Parigi. Era una stazioncina solitaria, e sorridente, tutta rosea e fiorita, a varii chilometri dal paesello inerpicato lassù su la montagna. Accanto alla stazioncina una piccola trattoria invitava i viaggiatori prendere qualche ristoro. E, poichè il mezzogiorno era ormai passato, vi entrammo anche noi per far colazione. Nelle commedie ben fatte, all'ultimo atto, quando tutto pare finito, entra un nuovo personaggio particolarmente adibito a riprendere l'interesse illanguidito che sta sul punto d'estinguersi. Questo nuovo personaggio, ch'era di sesso femminile e quanto mai grazioso, ce lo trovammo seduto a tavola, d'innanzi a noi, occupato a far colazione in compagnia d'un elegante adolescente che ostentava i modi estremamente disinvolti con cui gli efebi impegnati in una prima avventura cercano di nascondere agli esperti gli smarrimenti di un'inesperienza estremamente intimidita. Rolando II, che durante il viaggio non aveva degnato d'un solo sguardo lo spettacolo del suo regno insanguinato dalla disfatta e dalla sommossa, non ebbe occhi che per la giovane ed elegante viaggiatrice, la quale parlava francese e dalle parole che pronunziava ad alta voce dimostrava il desiderio di far sapere a noi ch'era di Parigi, ch'era chanteuse di caffè-concerto e che si chiamava Loulette Louly. Ma se Rolando non le levava gli occhi di dosso non bisogna ricercare in questo un altro segno della sua inguaribile vocazione per il commercio femminile, ma piuttosto un segno del suo non meno inguaribile e sventurato amore per la duchessa di Frondosa. Non appena c'eravamo seduti, Sua Maestà aveva infatti afferrato il mio braccio e, stritolandomelo quasi nel parossismo d'una improvvisa commozione, aveva esclamato: «Ma guardi, guardi.... Pare il ritratto, il ritratto parlante d'Isabella....» Ma se m'era facile convenire, nell'udirla rovesciare sul commensale adolescente un diluvio di parole, che Loulette Louly era anche troppo parlante, non potevo con eguale tranquillità di coscienza affermare ch'ella fosse veramente il ritratto della duchessa Isabella. Occorreva almeno stabilire se Sua Maestà intendeva parlare d'un ritratto eseguito da un fotografo o da un pittore, poichè è noto che i ritratti dei pittori sogliono essere discreti verso i moderni sino a non spingersi mai più oltre d'una somiglianza vagamente approssimativa. Ma gli innamorati hanno cosi vivo negli occhi l'oggetto amato che basta loro un qualsiasi pretesto appena tollerabile per trasportarlo sul volto di un'altra persona. È una disposizione che gl'innamorati hanno in comune, quando si tratti d'identificazione errata di persone, con gli uffici antropometrici della polizia. Ma non occorre che una somiglianza sia autentica perchè sia irresistibile: basta che sia semplicemente supposta. Così Rolando II guardò con tanta insistenza la giovane chanteuse che giovane efebo che l'accompagnava dimostrò a più riprese, con gesti di fastidio, di trovare assolutamente insopportabile l'insistenza contemplativa di quell'ignoto viaggiatore. Si dice che il destino degli uomini può essere legato ad un filo, ma in mancanza d'un filo esso può anche essere legato a un po' di cenere di sigaretta. Difatti, levatici per uscire, passando accanto alla giovane coppia che troppo occupata a discorrere non aveva ancora finito di far colazione, Sua Maestà lasciò cadere involontariamente la cenere della sua sigaretta, che, nell'estasi, s'era dimenticato di scuotere, su le spalle dell'elegante giovinetto. Il quale, irritato com'era, alle scuse di Sua Maestà si voltò irritatissimo, invitando il viaggiatore a badare meglio così alla sua sigaretta come ai fatti suoi. Nelle grandi catastrofi gli avvenimenti si succedono con rapidità fulminea. Così l'elegante giovinetto non aveva ancora terminato di rimproverare a Rolando II la sua sbadataggine che già la mano di Rolando II s'appoggiava su la guancia del giovinetto con assai minor leggerezza di quella con cui la cenere della sigaretta regale s'era appoggiata su la sua spalla. Ai grandi urti seguon, di solito, lunghi sbalordimenti. Così Rolando II ed io avemmo tutto il tempo d'uscire dalla piccola trattoria senza che alla via di fatto al singolare seguisse un pugilato al plurale. Quando fu fuori Sua Maestà mi fermò per un braccio e, col volto illuminato da un grande sorriso, mi disse: — Lo crederebbe? Sto meglio. Morivo di voglia anch'io di dare uno schiaffo a qualcuno. Poi si fermò a pensare e battendo le mani in segno di giubilo esclamò: — E questa volta, perdio, mi batto. Sono un borghese qualunque, finamente! Convenne trovare per questo borghese qualunque un nome, il che fu facile perchè, abituato a non far mai complimenti con me, decise sùbito, per l'occasione, di prendersi il mio. Convenne anche cercare un secondo padrino che avesse potuto assistere Sua Maestà nel duello inevitabile. Toccò naturalmente a me anche il còmpito di sbrogliare quest'ultima situazione difficile, tanto più difficile in quanto, a vista d'occhio, in un raggio di chilometri, non era possibile trovare altra forma umana che quella imberrettata del capostazione. Inoltre, a meno di farli battere con due coltelli da tavola, non era lecito pensare alla possibilità dello scontro in quel luogo. Ma conveniva essere comunque in due, pronti almeno a ricevere e ad accettare la sfida, per poi stabilire ad altra data e ad altro luogo la possibilità dello scontro. Ho avuto nella mia vita d'amico di Rolando II missioni difficili, ma nessuna mai che potesse essere paragonabile a quella di riuscire a decidere il piu pacifico dei capistazione del regno d'Asturia e d'ogni altro regno di questo mondo. Dio volle che riuscissi allo scopo; ma questa riuscita non fu possibile se non a patto di rivelare al capostazione la vera personalità di Rolando II, poichè la suggestione del diritto divino e tale che anche un re deposto induce in ogni umile mortale l'impressione che non sia assolutamente possibile disubbidirgli. Come tornai da Rolando II che passeggiava impaziente tra la stazione e la trattoria, la gioia del mio regale amico non conobbe più limiti. Poteva dunque battersi, poteva finalmente questa volta sbrigare una faccenda di questo genere come la sbrigano tutti gli uomini, e senza dovere una seconda volta rimetterci il trono, che del resto non aveva più. Le gioie che si fanno più lungamente aspettare sono quelle che meno hanno l'intenzione di venire. Così noi aspettammo per tre ore i padrini dell'elegante giovanetto. Cercato costui da ogni parte, non fu possibile ritrovarlo, e, solo al termine di lunghe peregrinazioni per le campagne circostanti, un piccolo telegrafista avvertì d'averlo veduto ripartire in uno dei treni che ogni mezz'ora eran venuti ad interrompere con la loro esposizione di facce ai finestrini la monotonia della lunghissima attesa. Mi fu facile ricostruire l'accaduto. Sebbene non ci fosse attorno, per così dire, anima viva e sebbene io avessi vivamente raccomandato al secondo testimonio la cautela del massimo segreto, il capostazione aveva dato alla notizia e alla vera personalità di Rolando II la massima diffusione compatibile con l'estremamente ridotta densità di popolazione in quelle amene contrade. Gli uomini che non hanno storia solo, si afferma, gli uomini felici. Ma questi uomini felici sono singolarmente più felici il giorno in cui possono raccontare di essere comunque partecipi d'un avvenimento che li dovrà far entrare, insalutati ospiti, nella storia. Le spiegazioni ulteriori le fornì, loquacemente, Loulette Louly sorpresa a sua volta dall'inopinata partenza che la lasciava sola in quel luogo perduto, e con su le spalle, per modo di dire, un'automobile noleggiata ad alto prezzo. E tra me e Loulette Louly fu facile ricostruire il dramma prospettatosi agli occhi d'un timido figlio di famiglia ch'era alla sua prima scappatella d'adolescente e che inopinatamente si trovava a doversi battere niente di meno che con un re. Di fronte alla certezza d'uno scandalo europeo il giovinetto aveva considerato opportuno conservare lo schiaffo, del resto augusto, di Rolando II, piuttosto che incorrere nella violenta sanzione dei piu sacrosanti scappellotti paterni. Se alla notizia che l'avversario era scomparso il capostazione riacquistò gli spiriti che gli s'erano ottenebrati nell'ansia delle misteriose responsabilità cui andava incontro, alla stessa notizia Rolando II perdette invece definitivamente i suoi. Gli vidi, con gli spiriti, cascare anche le braccia e col volto desolato d'un uomo che accetta, poichè non può più rifiutarvisi, un mostruoso destino, lo sentii dire: - Vede? Non c'è che fare. La mia cattiva stella vuole inesorabilmente così. Se prendo uno schiaffo, lo devo tenere, e ci perdo il trono. Se lo do io, se lo tengono gli altri, e ci perdo il treno. Partiva infatti in quel punto l'ultimo treno della sera che, attraverso il regno di Asturia, correva verso la Francia e Parigi. Rimaneva solo sul binario, in attesa di ripartire, l'ultimo treno della sera che, attraverso l'interminabile tunnel, riconduceva nel regno, pardon, nella repubblica di Fantasia. Disposi sùbito per la mia partenza. E, tornato indietro per salutare Rolando II, trovai che già Rolando II e Loulette Louly s'erano messi d'accordo per fare insieme il viaggio verso Parigi nell'automobile abbandonata, senza pagarla, dal'elegante giovinetto. Già sorrideva fra loro, nella sera che scendeva, nella notte che s'apriva, il primo quarto di luna di miele. Già Rolando II guardava estatico la sua compagna e più la guardava più diceva a me con gli occhi e coi sospiri: — È proprio lei, Isabella, proprio lei! La cocottina abbandonata e il re deposto filaron via così, verso Parigi, nella letizia degli incontri felici e predestinati. E, mentre Rolando II volava in quarta velocità verso il suo nuovo mestiere di roi en exil, io ripresi con filosofica malinconia il treno che doveva ricondurmi nell'amata patria, dove mi riattendeva lo spettacolo della disfatta e della sommossa, nate, come ho troppo lungamente raccontato, da un bacio di donna che senza aver fatto provvisoriamente felice un uomo aveva definitivamente perduto un re. FINE.

Crede forse che non abbia un paio di polmoni anch'io e che non possa anch'io raccontare com'ho scoperto la mia foresta.... Lui parla? Parlo anch'io. Fa una conferenza? Nè farò una anche io!» E, detto fatto, Sua Maestà il Re, informato, trovò naturalissimo che il suo intrepido figliuolo consolidasse con una conferenza il prestigio della Monarchia. Ma dove il Re riconosceva veramente intrepido il figliuolo non era nella esplorazione di cui non ignorava le segrete comodità ma a bensì nel coraggio di parlarne e nel tranquillo ardire con cui osava cimentarsi in una conferenza; poichè era tradizionale nella famiglia di Fantasia il poco culto delle discipline letterarie, e, come arte oratoria, non v'era sovrano di Fantasia che non avesse incespicato almeno dieci volte anche leggendo dieci righe d'un brindisi politico scritto dal ministro degli Esteri. Sua Altezza Reale, ch'era tutt'altro che un imbecille, si rese conto tuttavia che si può fare una conferenza sopra un'esplorazione anche senza che l'esplorazione ci sia stata, ma che è assolutamente inconcepibile redigere una conferenza tollerabile su una esplorazione che non ha avuto peripezie. Bisognava, dunque, inventare le peripezie. E, col suo più bel sorriso, per questo ufficio Sua Altezza benignamente si rivolse a me, raccomandandomi di trovarne quante più potevo, un po' nella mia immaginazione e il resto in qualche libro poco noto di qualche altro meno illustre esploratore. La vita diplomatica m'aveva fortunatamente addestrato nell'arte di dire bugie senza averne l'aria, e in una settimana la conferenza fu da me redatta in modo che poteva veramente illudere il popolo di Fantasia su gli oscuri eroismi del nostro pugno di prodi esploratori. Mentre io lavoravo nella biblioteca reale, Sua Altezza aveva ripreso attivamente il suo galante giuoco di scacchi; un fruscìo di gonnelle rispondeva spesso dal salotto vicino al fruscìo delle mie carte. Finalmente una sera potetti annunziare al principe che la conferenza era pronta e invitarlo ad ascoltarne l'indomani la lettura, anche per apprendergli su quale tono modesto e disinvolto gli eroi moderni devono narrare ai popoli le loro audaci avventure. E il giorno dopo, appena finito di far colazione, Sua Altezza ed io ci chiudemmo nella biblioteca armati di sigarette e di buona volontà. Sua Altezza mi ascoltava senza respiro e con lo stesso interesse con cui avrebbe seguito i feuilletons di un romanzo d'Eugenio Sue. A due o tre riprese manifestò la sua meraviglia nel vedere con quanta facilità io riuscivo a dar vita e colore non a quello che era stato ma a quello che avrebbe potato essere. Ma non eravamo ancora ad un terzo della conferenza che la porta s'apri e Sua Altezza fu avvertita che la duchessa di Villahermosa era nell'appartamento vicino. Il Principe mi sembrò assai lieto dell'interruzione. Mi spiegò che la duchessa veniva a vedere la sua collezione di medaglie, poichè la sera prima non aveva resistito all'invito di Sua Altezza quando aveva saputo che nella collezione erano alcune medaglie del Pisanello. Andava pazza pel Pisanello, l'eccellente duchessa! Sua Altezza mi chiese, d'aver pazienza. La visita non sarebbe stata lunga e, del resto, così sembrava al principe, c'era qualche cosa da alleggerire in quella prima parte che gli era apparsa eccellente ma forse un poco prolissa. E se n'andò, acceso in volto, impaziente; e sentii che, richiudendo, dava una mandata di chiave alla pesante porta che separava. Ma anche le porte pesanti non hanno soverchi segreti per gli uditi sottili. M'ero messo attentamente a rivedere le pagine già lette del mio manoscritto, qua sopprimendo un aggettivo, là sacrificando un particolare, per seguire il principe che per dire qualche cosa — come in generale avviene di tutt'i critici aveva trovato prolisso quello che cinque minuti prima gli era apparso stringato. Ma io non sono un autore ostinato a difendere l'intregrità del suo territorio prosastico ; e non c'era del resto pericolo, sopprimendo un episodio, di snaturare il racconto della nostra spedizione ch'era già quanto mai snaturato di per sè stesso. Ma i rumori che mi giungevano dalla stanza vicina non tardarono molto a distrarmi dal mio lavoro di revisione; e ad informarmi, meglio di un buco praticato nella pesante porta che ci separava, sul genere d'occupazioni cui Sua Altezza e la duchessa s'erano, dopo brevi preliminari collezionistici, assai calorosamente abbandonati. Ma la vita di Corte mi aveva già abituato a sentire ogni genere di rumori con la stessa tolleranza con cui ne vedevo di tutt'i colori. Era del resto evidente che, per quanto una dama possa andar pazza per le medaglie del Pisanello, un'ora e più è un limite di tempo veramente superiore ad ogni più esagerata e platonica ammirazione. Era trascorsa più di un'ora, infatti, quando Sua Altezza ricomparve nella biblioteca con l'aria più tranquilla e più innocente del mondo. Ma uno sguardo scambiato fra noi bastò a spiegarci reciprocamente la durata di quella visita ai medaglieri di Sua Altezza. Quando gli occhi si spiegano le parole sono inutili e fu quindi in silenzio che Sua Altezza tornò a sprofondarsi nella sua poltrona di marocchino rosso e, accesa una sigaretta, mi invitò con un cenno di mano a riprendere la lettura interrotta. Ricominciai imperterrito a leggere mentre Sua Altezza cedeva a poco a poco a quella sonnolenza soddisfatta e beata che segue i pasti abbondanti e gli amori felici. Ma era destino che la conferenza venutami giù di getto dovesse essere nota al principe per frammenti: chè leggevo appena da dieci altri minuti quando la porta s'apri di nuovo e Sua Altezza venne informata che la marchesa di Setteporte chiedeva anche essa di vedere la collezione di medaglie: non aveva, questa seconda dama, una spiccata preferenza per il Pisanello ma il suo interesse per il medagliere del principe non era meno vivace. Questa volta il principe si levò un po' meno vivacemente di prima e non m'invitò a rivedere quello che avevo letto: mi suggerì invece cortesemente di prendermi un breve riposo chè in dieci minuti al massimo avrebbe certamente sbrigato la gentile visitatrice. Ci volle invece un'ora e mezza. Questa volta ero disoccupato, e, disteso su un divano, fumando, potevo anche meglio della prima volta avere esatta nozione delle manifestazioni di riconoscenza cui giungeva l'ammirazione soddisfatta della marchesa per le collezioni di Sua Altezza. Il gran Condé dormiva placidamente e profondamente nella notte precedente alle sue più ardue battaglie. Io potevo quindi, con non minore forza d'animo, appisolarmi durante quelle scaramucce d'amore. I vecchi capitani pronti a tutto e, i vecchi testimoni a tutto abituati possiedono la medesima imperturbabilità. E, quando, un'ora e mezza dopo, Sua Altezza mi destò rientrando nella biblioteca, gli sguardi non bastarono più e ci vollero le parole per manifestarmi chiaramente il suo malumore. — Caro d'Apre, — mi disse, — la cosa comincia a diventare fastidiosa, e queste signore non mi dànno il tempo di respirare. Ho veduto iersera queste due signore all'Opera e le ho invitate, come invito tutte, a venire ad ammirare la mia collezione di medaglie a bere una tazza di te. Ed eccole qui oggi tutt'e due, una dopo l'altra. Decisamente qui bisogna cominciare a rovesciare le parti: poichè non si lascian pregare, sarà necessario che incominci io a farmi pregare! Non insistemmo e riprendemmo per la terza volta la lettura. Eravamo nel cuore della conferenza adesso, e Sua Altezza, non più sonnolenta, ma sostenuta invece da quell'eccitazione nervosa che segue i grandi strapazzi intellettuali, seguiva la mia narrazione col più vivo interesse e con frequenti cenni d'approvazione. Ma la porta si aprì una terza volta, e Sua Altezza venue informata che la principessa di Malaguena desiderava d'ammirare a sua volta collezione di medaglie. Vidi Sua Altezza levarsi in piedi d'un balzo stringendo i pugni e frenando la sua ira, finchè il maggiordomo non si fu allontanato e non ebbe richiusa la porta. Poi si volse verso di me che, levato il volto dal manoscritto sfortunato, guardavo Sua Altezza sorridendo: — Lei sorride! — esclamò Sua Altezza, con un tono irritato. — Lei sorride, eh? Ma vorrei un po' vederla al mio posto. L'invito alla principessa di Malaguena non l'avevo arrischiato che stamattina incontrandola a cavallo al Viale del Tigli. Ed eccola qui, sei ore dopo. È un'esagerazione.... E ci tenessi, almeno.... Ma niente affatto! Sparo a polvere tanto per rimanere in esercizio. Ma per loro basta. Sono uccellini che si contentano del rumore per potersi decentemente dare per morti. Feci rispettosamente osservare a Sua Altezza che, ingrato come tulti gli uomini si lamentava ingiustamente d'una troppo benigna fortuna. — Ma è la terza, sa, — rispose il principe, — e le ripeto che vorrei veder lei al mio posto. Non raccolsi quello che v'era di poco lusinghiero in questa ripetuta esclamazione che mi riguardava e approfittai invece del silenzio del principe, che camminava, con le mani in tasca e il naso verso terra, su e giù, furiosamente, per la biblioteca, per ricordargli che la principessa di Malaguena lo attendeva e che non era possibile farla più oltre aspettare; e che, date le circostanze, non gli rimaneva altro che sacrificarsi eroicamente e andarla sùbito a raggiungere. — Io? Ma lei è matto! — esclamò il principe fermandosi davanti alla mia scrivania e usando con me un linguaggio cosi confidenzialmente irriverente che era naturalmente giustificato dalla sua agitazione. — Lei è matto, caro d'Aprè! Scriverò a mio padre, stasera stessa, che Pulquerrima è una residenza inabitabile, e che qui non basta un principe ereditario ma ce ne vogliono dieci! E sa, intanto, che cosa faccio io? Mi faccia il piacere di cedermi il suo posto...._Grazie. Ecco. Mi siedo qui e la lettura della sua bella conferenza me la finisco per conto mio. E si mise a leggere, seduto al mio posto, coi pugni stretti alle due tempie. Osai ricordare a Sua Altezza la principessa che aspettava. — La principessa? — mi rispose senza levar gli occhi dal manoscritto. — La principessa, senta, me la sbrighi lei. Mi faccia questa cortesia. Le dica che sono uscito, che son malato, che non voglio essere seccato. Le dica che la collezione di medaglie non c'è più. È sparita, me l'hanno rubata, l'ho venduta, sono impazzito e in una crisi di follia l'ho gettata tutta dalle finestre. Lei saprà che cosa dire. Le situazioni difficili son fatte apposta per lei. Gli amici dispotici son come i sovrani assoluti: non discutono. E io che conoscevo Sua Altezza non tentai di ragionare e mi decisi sùbito a sbrogliare una volta di più una matassa intricata. Aggiustai la mia cravatta, spolverai la cenere delle sigarette sul mio vestito, presi un viso di circostanza, e mentre Sua Altezza, assorta, continuava a leggere le nostre avventure di terra e mare, m'avviai verso la mia impreveduta avventura di salotto. Aprii la porta ed entrai, guardingo, nella gabbia della leonessa. La quale leonessa era quanto mai addomesticata e leggiadra. Mi strinse la mano con cordialità e prese per buone tutte le spiegazioni che le davo per l'assenza del principe trattenuto quel giorno dalle sue gravi responsabilita al comando del Corpo d'Armata. Solo manifestò il suo profondo rammarico di non poter ammirare la collezione di medaglie. Le chiesi se anche la sua predilezione fosse per il Pisanello, ma la principessa ebbe l'aria di cadere un po' dalle nuvole. Per fortuna non si sbilanciò a domandarmi se il Pisanello aveva studio a Pulquerrima. E, tanto per tener viva la conversazione, mi scappò di bocca — giuro che fu senza malizia! — ch'ero collezionista anch'io: non di medaglie, ma d'una cosa assai più leggera, i ventagli. Gli eventi precipitarono. La principessa non tardò a dichiararmi che le collezioni di ventagli la interessavano in generale assai più di quelle di medaglie. Dovetti per cortesia dichiararle che sarei stato felice di mostrarle la mia. Accettò. Chiesi che mi fissasse una data e mi sentii rispondere ch'era pronta ad ammirarla anche sùbito. Tutto questo naturalmente con un'innocenza, con una semplicità, con una serietà impassibile come che si trattasse veramente di medaglie e di ventagli. Non c'era altro da fare che quello che feci: aiutare la principessa a indossar di nuovo il Mantello e offrirle la mia automobile per recarci a casa mia, scusandomi di non poterle mostrare, cosi all'improvviso, che una collezione incomplela e disordinata. Naturalmente in automobile non si parlò che di ventagli. In materia d'amore davvero la parola è fatta per nascondere il pensiero. Non parlavamo che di ventagli. Io risalivo a mano a mano fino alle fêtes galantes del secolo decimottavo. La principessa mi ascoltava con la più intensa attenzione come se non si fosse mai interessata d'altro in vita sua. E ne parlammo tanto, dei miei ventagli, che giunti a casa ci dimenticammo tutt'e due di guardarli. Era avvenuto lo stesso con Sua Altezza. I Pisanello, da sei mesi, non avevano visto altra luce oltre quella filtrante dagli spiragli delle loro inviolate custodie. Quando i fatti compiuti ci permisero di parlar d'altro che di ventagli, la seducente principessa mi costrinse a confessare che proprio quel giorno Sua Altezza non aveva avuto proprio nulla da fare al comando del Corpo d'Armata e che non s'era mosso da palazzo. Aveva infatti incontrate poco prima la duchessa di Villahermosa e la principessa di Setteporte che le avevano parlato con entusiasmo dei Pisanello. E, con una moina adorabile, la principessa di Malaguena mi chiese: — Spiegami un poco in due parole che cosa sono i Pisanello. Devo far credere di averli visti anch'io. Capirai, caro, che non posso essere da meno di loro. — E i miei ventagli? — chiesi. — I tuoi ventagli, no, caro. Non c'è bisogno di parlarne. Che c'entra? I ventagli son per il piacere. Ma le medaglie son per l'onore!

Sedendomi poco più tardi, con l'indifferenza di un uomo che vive a regime e ch'è bevitore di acqua, alla tavola da pranzo di casa Frondosa, non sospettavo neppur lontanamente di sedermi invece in una comoda poltrona per assistere alla più comica commedia che abbia mai veduta fuori di quelle del teatro le quali raccolgono, come sapete, in una sola d'un solo autore dieci commedie di altri autori perchè gli autori drammatici hanno memoria di ferro e, sentita una volta una scena, non se la dimenticano più. Era pranzo d'intimi, quella sera. Si doveva pranzare e poi accompagnare la duchessa all'Opera dove doveva aver luogo la prima rappresentazione del Boris Godounow di quel grande musicista russo che nel cognome per un paio di povere piccole vocali ha bisogno d'un mezzo squadrone di consonanti. Non eravamo che tre ospiti e i padroni di casa. Il pranzo volgeva alla fine quando il maggiordomo s'avanzò verso di noi, e rispettosamente avvertì che telefonavano da Palazzo, e che Sua Maestà desiderando di venire, a visitare la duchessa di Frondosa quella sera, voleva sapere se la duchessa poteva riceverlo. Guardai sùbito don Alvaro e, per la prima volta, vidi passare un'ombra di fastidio su quel volto impenetrabile e impassibile, mentre, tuttavia, con l'aria più naturale di questo mondo rispondeva al maggiordomo di far dire a Sua Maestà che la duchessa di Frondosa sarebbe stata felicissima di riceverla. Vidi sùbito la serata perduta. Addio, Opera! Addio, grand'uomo dalle troppe consonanti! Non mi disperai per questo, chè le commedie della vita m'interessano sempre più di quelle del teatro, e un presentimento mi avvertiva che, nella commedia dell'amor respinto recitata da Sua Maestà e dalla duchessa di Frondosa, stavamo per arrivare alla scena-madre. E anzi provai, poco più tardi, un vivo disappunto quando vidi che il re, senza tante cerimonie, proprio perchè presentiva che la scena-madre era vicina, licenziava gli spettatori. Ci levavamo infatti appena da tavola quando sentimmo sotto la vôlta del portone il rombo dell'automobile regale che entrava, quella piccola automobile dalle persianette chiuse con cui il mio regale amico s'abbandonava alle sue scappatelle notturne. Ed ecco poco dopo entrare il mio regale amico, irreprensibile nella sua marsina, col suo immancabile garofano rosso all'occhiello. Ed eccolo, appena entrato e scambiati i saluti, dirci che salendo le scale s'era ad un tratto ricordato che quella sera c'era all'Opera la prima rappresentazione del Boris Godounow, ch'era veramente desolato di questa dimenticanza, che chiedeva alla duchessa ed a noi di non privarci per questo d'una première così importante, poichè egli si sarebbe immediatamente ritirato. Vidi sùbito dove voleva andare a finire; e quello che egli desiderava avvenne infatti con la massima precisione. La duchessa, naturalmente, non volle permettere al re di ritirarsi, e questi allora ad insistere perchè al teatro andassimo almeno noi uomini! «Prego questi signori, egli disse, di non fare complimenti. E li prego vivamente di liberarmi, almeno per loro uomini, dal rimorso d'una serata perduta». Era, sotto la preghiera, un ordine, e non c'era che da inchinarsi, tanto più che già Frondosa s'era inchinato per primo ringraziando, già aveva baciato la mano di sua moglie, stretto quella del re e s'era diretto verso la porta. Noi lo seguimmo, io ultimo, con l'aria più mortificata di questo mondo. Proprio sul più bello, ahimè, mi toccava di andarmene. Un regno no perche non l'avevo, ma un anno di vita lo avrei dato certamente volentieri per poter rimanere dietro un paravento. Decisamente c'era una cattiva stella per quella première. Arrivati a teatro, la nostra automobile dovette tornarsene indietro. Il teatro era chiuso, la rappresentazione essendo rimandata per l'indisposizione d'un cantante. Vidi una seconda volta il viso di don Alvaro oscurarsi: un attimo. Eravamo all'ingresso dei palchi di Corte. Frondosa ed io eravamo scesi dall'automobile, e Frondosa domandava se quella sera Sua Maestà il Re avrebbe dovuto venire a teatro. Gli fu risposto di sì e che alle sette di sera era stato telefonato a Corte per avvertire del rinvio della rappresentazione. Mi sforzai di rimanere impassibile perchè don Alvaro non credesse che avevo rilevato la stranezza di queste circostanze. Ma vidi per la terza volta passare un'ombra sul volto del mio antico ministro. Tuttavia questi già risaliva in automobile e, ridendo del contrattempo, ordinava allo chauffeur d'andare al Circolo. Finimmo lì la serata. Cominciammo a giuocare. Frondosa a un pazzo chemin de fer, io a un tavolinetto di modesto, tranquillo e prudente écarté. Poi ci perdemmo di vista. Fui chiamato al telefono. Lessi i giornali. Alle undici già cascavo dal sonno e andai a dormire col rammarico d'uno spettatore che, dopo d'essersi annoiato ai primi due atti, trova le porte chiuse al terzo e non può rientrare in teatro mentre sente le omeriche risate degli spettatori che sono nella sala e che sono giunti finalmente al punto più bello della commedia. Questo spettatore ritardatario si farebbe, nel caso, raccontar la commedia da un amico, all'uscita dal teatro. All'uscita dal teatro io ebbi la fortuna di sentirmela raccontare dallo stesso protagonista. Dormivo già profondamente, a mezzanotte, quando sentii il mio domestico che gridava nel buio della mia stanza, cercando a tastoni la chiavetta della luce elettrica: «Signor marchese.....Sua Maestà! Sua Maestà!» Balzai sul letto, corsi all'idea d'un attentato ed ero per saltare giù, ma la luce elettrica s'era accesa, il domestico era scomparso e Sua Maestà entrava per la prima volta in casa mia, in camera mia, a mezzanotte, quand'io ero costretto a riceverla nella soverchia intimità d'un pijama. Aveva indosso la pelliccia aperta su lo sparato un po' spiegazzato e teneva la guancia sinistra coperta con un fazzoletto. E, dopo poche parole febbrili d'introduzione, mentre io cercavo di completare alla meglio la mia toilette troppo sommaria, mi raccontò quanto segue: — Amico mio, una tragedia! Una vera tragedia! Sono disonorato come re e come uomo! Ho commesso una vera pazzia, indegna d'un gentiluomo, del primo gentiluomo d'un nobile paese come il nostro. Ma la duchessa era cosi bella stasera, così indiavolatamente coquette! Per due ore ho continuato a parlarle d'amore, a dirle le mie pene, a invocare la sua pietà. Non avevo più fiato, non avevo più parole. E lei, niente, dura come un macigno. Quella donna non ha cuore! E, ad un tratto, è avvenuta la cosa terribile. Che vuole che le dica, caro d'Aprè? Ero fuori di me, ero pazzo, avevo la febbre, la volevo ad ogni costo. Mentre lei sorrideva, mentre lei si burlava di me con mezze paroline ch'erano altrettanti schiaffi per la mia vanità di uomo, io la guardavo.... Come era bella! E la mia passione, che durava oramai da tanti anni, non riusciva a piegarla. Mi sentii disperato. Mi tornarono in mente tante letture, tante scene di romanzo, tanti personaggi esaltati, le più drammatiche soluzioni dei drammi d'amore disperati come il mio. E poi, non so neppure io com'è stato. Ad un dato punto ho perduto la testa, una benda m'e caduta su gli occhi e.... Lei era su una larga dormeuse, era deliziosamente scollata, profumata squisitamente, irresistibilmente bella.... Ho sentito che quella donna che adoravo non sarebbe mai stata mia.... Il pensiero che in fondo io ero il re, il signore, il padrone, e che tuttavia quella donna mi respingeva, mi ha anche attraversato il cervello.... Insomma ho pensato cento bestialità e non so neppure più quali. Ricordo solo che a un dato punto mi sono gettato su lei, che l'ho afferrata per le braccia, che l'ho rovesciata indietro, che ho cercato affannosamente la sua bocca, la sua bocca che mi sfuggiva, senza neppure riuscire a raggiungerla.... L'avessi almeno raggiunta una volta sola!... È stata una lotta di trenta secondi, poi un grido di lei, una porta che si apre violentemente. Mi rialzo sùbito. Anche lei si solleva sui cuscini riaccomodandosi i capelli. Su la porta, pallidissimo, è don Alvaro, tornato a casa, forse insospettito dalla mia visita, in quel punto stesso. Sono rimasto al mio posto, inchiodato, esterrefatto. E Frondosa s'è avanzato verso di me. Aveva in mano una cravache presa in anticamera. Io lo guardavo avvicinarmisi, intontito, senza fare un gesto, senz'aver fiato Tier dire una parola. E, a un tratto, a due passi da me, Frondosa ha levato lo scudiscio, l'ha fatto ricadere violentemente sul mio volto, qui, su la guancia sinistra.... Guardi! E scoprì la guancia traversata dal lungo segno rosso del colpo di cravache. — E Vostra Maestà? — chiesi io febbrilmente, mentre il re ricopriva pudicamente col fazzoletto la sua ferita d'amore. — Io? E che potevo fare io? Dica lei. Reagire in casa sua?... Mettermi a fare a pugni come un facchino?... Nulla potevo fare, amico mio. Sembra strano, a prima vista, ma è cosi.... Intanto Frondosa s'era riavvicinato, sempre senza una parola, alla porta e l'aveva spalancata, rimanendo lì presso, per invitarmi ad uscire. Che potevo fare? Mi sono inchinato alla duchessa, sempre seduta, adesso pallidissima anche lei, con gli occhi chiusi, le labbra contratte, e mi sono avviato per uscire. Ho dovuto passare così, col volto segnato; d'innanzi a don Alvaro impassibile.... E avevo la ferita che mi bruciava, che mi bruciava, oh quanto mi bruciava.... Mi bruciava fuori e mi bruciava dentro!... E poi.. Poi ho ritrovata la mia automobile e sono corso da lei.... Durante il racconto Sua Maestà s'era a mano a mano calmata un poco. Adesso s'era levata, s'era tolta la pelliccia e sul mio tavolino da notte aveva preso una sigaretta. Io non sapevo che dire. Ero inebetito dall'ammirazione. La scena-madre superava decisamente ogni mia maggiore aspettativa. — Ebbene, lo crederà? — mi disse allora Sua Maestà accendendo la sigaretta. — Passando innanzi a Frondosa io non ho provato nessun sentimento d'ira o di rancore, nessun desiderio di vendetta.... E vuole che le dica tutto.... giacchè lei è lo specchio della mia coscienza?... Vuole che le dica tutto? Ho provato anzi, addirittura, un sentimento d'ammirazione. Caro d'Aprè, fra tante pedine, tante torri crollanti, tanti alfieri compiacenti, avevo trovato, finalmente, un uomo. — E dopo una pausa. — Tanto che, se non fosse stato per un sentimento di pudore, io gli avrei stretto la mano....

E mentre per scuotere l'impressione di ciò che quelle parole avevan di troppo personale mi dicevo che non era colpa mia se al re defunto non toccava che quell'elogio, dovevo anche riconoscere che quell'elogio era meritato e che un re il quale abbia un figliuolo impegnato in una galante avventura può, valendosi dei privilegiati rapporti col divino benefattore che l'ha fatto re per grazia celeste, ottenere, quando l'ora di morire sia giunta, almeno una proroga di cinque o sei giorni. Che per cinque o sei giorni non avuti a disposizione al momento buono c'è sempre il rischio di dovere poi aspettare una nuova occasione per cinque o sei mesi. Accadde così a Sua Maestà, la quale, pur tra le nuove gioie e i nuovi affanni del regno, non dimenticava la bella torre rimasta laggiù, su lo scacchiere di Pulquerrima, proprio alla vigilia di crollare finalmente anche lei. Ne parlava ogni giorno, quasi ogni ora. Per una via o per l'altra giungeva sempre a insinuare nella conversazione il nome della duchessa di Frondosa; e, quand'era coi ministri e della duchessa non c'era assolutamente modo di parlare, parlava del duca, chiedeva che uomo fosse, che valore avesse diplomaticamente, quale fosse attualmente la sua posizione politica. Anche a parlar del duca si sentiva in cuore un po' di duchessa. E il vantaggio, questo, dei mariti: che non solo vedono amata la loro metà ma si sentono amati anche loro, almeno per metà. Il teatro cinematografico ha un gesto quanto mai espressivo e quanto mai falso: e il gesto che fa un attore, movendo la mano, portandola alla fronte, raggruppando su questa perpendicolarmente le dita, quando vuole far comprendere al pubblico che gli è venuta improvvisamente un'idea. Il gesto è falso perchè le idee non vengono generalmente così, e perchè le idee prima di trovarle nella nostra testa noi le troviamo nella testa degli altri. Nulla nasce da nulla e però un'idea non sorge in un cervello d'improvviso e spontaneamente. Poichè tutto è derivazione, generazione, concatenazione, completamento e perfezionamento, mise au point come dicono i francesi, una idea nostra nasce da un'idea d'un altro, un pensiero che ci è manifestato ce ne suggerisce un altro che noi manifestiamo a nostra volta. Solo Adamo avrebbe avuto il diritto di fare il gesto caro agli attori cinematografici. Ebbe egli solo la prima idea da cui poi venne tutt'il resto. E in fondo anche Adamo, come generatore spontaneo d'idee, è sospettabile e discutibile dal momento che per dargli l'idea di che cosa poteva fare di Eva fu necessario l'intervento del serpente. Il serpente che suggerì a Sua Maestà, alcuni mesi dopo la sua ascesa ai trono, che cosa potesse fare della duchessa Isabella di Frondosa, aveva nome don Pedro de Aldana ed era presidente del Consiglio, press'a poco inamovibile, del dolce regno di Fantasia. Ebbi la fortuna d'assistere anche a quest'altra grande ora della storia d'una dinastia. Conseguentemente a quanto ho detto più sopra, era impossibile che un'idea sbocciasse nel cervello di don Pedro senza che un'altra idea nel cervello o su le labbra di un altro le offrisse il modo di venire al mondo. L'idea forcipe apparve su le labbra di Sua Maestà, in un grigio giorno d'inverno, nella solitudine del suo studio ov'egli non aveva mai nulla da studiare: era un'idea semplice, senza parole, molto aperta, un po' rumorosa: uno sbadiglio, uno sbadiglio che voleva dire: «Mi annoio!» E allora, nel desiderio d'alleviare la noia di Sua Maestà, don Pedro de Aldana trovò a sua volta la sua idea che manifestò con un garbato sorriso e con cinque semplici e timide parole: «Vostra Maestà dovrebbe prender moglie.» Se le idee sono concatenate, non e detto che questa concatenazione debba sempre essere immediata. Tra un'idea madre e un'idea figlia può correre uno spazio di tempo anche piu grande dei nove mesi necessarii alla funzione generativa. Così può accadere che l'idea madre sia madre senza saperlo, il che accade anche, nei primi tempi, in natura. I primi travagli della gestazione solo infatti misteriosi e impenetrabili, e i contraccolpi ch'essi dànno sono generalmente addebitati alle cause più innocentemente estranee a quelli effetti. Così Sua Maestà, quando si diede attivamente a cercar moglie per le più antiche Corti d'Europa, attribuiva quella sua improvvisa vocazione di marito al peso della sua solitudine di scapolo e alla necessità imperiosa della ragione di Stato. Credeva di dare retta alle esortazioni di don Pedro nel senso della necessità di mettersi a posto definitivamente, di dare al popolo di Fantasia il prestigio d'una nuova regina, di consolidare la posizione politica del suo regno in Europa imparentando due dinastie per creare fra due popoli quella cordialità di sentimenti che dura quanto durano i rapporti di famiglia: fin quando, cioè, l'interesse preciso dell'individuo non soverchia quello astratto del gruppo d'individui. Credeva insomma di cercare moglie, viaggiando l'Europa e raccogliendo in tutte le lingue, in tutte le capitali, i più eloquenti segni di simpatia universale per il suo vecchio regno e la sua annosa dinastia. In realtà, cercando sua moglie, cercava ancora la duchessa di Frondosa. Invano aveva tentato di dimenticarla, ignorando che se è lecito e possibile dimenticare il passato non si può dimenticare l'avvenire, il quale cammina sempre davanti a noi e non possiamo levargli gli occhi di dosso se non a patto di volgergli le spalle e di tornarcene indietro. Ma, poichè Sua Maestà. Rolando II cominciava appena il viaggio d'andata, non era assolutamente il caso di parlare di ritorno. Anzi il suo ardente entusiasmo, il suo amore della vita, gli facevano assolutamente escludere la possibilità d'un qualsiasi viaggio di ritorno. Sarebbe ritornato senza saperlo, come ritornano gli uomini che s'illudono di poter andare sempre avanti: con uno, cioè, di quei viaggi circolari che dopo aver girato mezzo mondo e mezza vita vi riportano infallibilmente al punto di partenza. Aveva riveduto la duchessa Isabella quanto più sovente gli era stato possibile. Se ricusava di andare ad inaugurare magari un'esposizione mondiale in una qualunque delle più insigni grandi città di Fantasia, non si lasciava mai sfuggire l'occasione d'inaugurare sia pure un asilo infantile nella dolce città di Pulquerrima dove la duchessa continuava, più virtuosamente che mai, a dimorare. Trovava così, almeno un paio di volte al mese, qualche cosa da inaugurare a Pulquerrima. E, quando i bilanci municipali della città non bastavano al collocamento di tante «prime pietre», quelle «prime pietre» erano fornite sottomano dalla cassetta privata di Sua Maestà. Poichè non è l'uso che i sovrani assistano anche al collocamento della seconda, della terza o della quarta pietra, posta la prima quelle altre pietre non venivano mai. Talchè Pulquerrima fu in capo a due anni di segno lastricata di «prime pietre», così come quelli che ci sono stati affermano che l'inferno sia lastricato di buone intenzioni. Ma per quante «prime pietre» collocasse, Sua Maestà non riusciva mai, ad ogni viaggio a Pulquerrima, che a collocare e a ricollocare nulla più che la «prima pietra» anche della sua felicità sentimentale. Riportava sempre indietro nella valigia tulle le altre pietre che la duchessa Isabella, fra un tè e un pranzo, rifiutava col suo più bel sorriso di donna fermamente decisa a non farsi costruire una nuova casa per far mutare di residenza alla sua onesta felicità. Partiva cosi, Sua Maestà, ogni quindici giorni, pieno di speranze, e ritornava sempre di pessimo umore. A tal segno che c'era da temere ogni volta, al suo ritorno, una crisi di gabinetto; e i ministri, non appena Sua Maesta metteva piede nel treno reale per Pulquerrima, s'affrettavano, per paura di non fare più a tempo, a distribuire tutte le onorificenze che coi loro nastri multicolori dovevano saldamente legare il loro avvenire politico al carro leggero della gratitudine nazionale. Dopo un anno di viaggi a Pulquerrima e all'estero, don Pedro de Aldana, senza averla mai veduta, fissò finalmente la sua scelta per la sposa del Re. Se l'idea figlia non era ancora venuta al mondo, già Rolando II sentiva nel sub-cosciente — si parla così in alto stile scientifico — che non valeva la pena di preferir come moglie questa o quella, visto che cercare moglie per sè voleva dire cercare il modo di raggiungere finalmente la moglie d'un altro. Aveva osservato, viaggiando, a titolo di pura curiosità, che le spose veramente affascinanti erano nelle Corti e negli Stati più modesti: e, se convenivano ai suoi gusti estetici, non potevano convenire ai gusti politici del suo primo ministro. Talchè, persuaso dell'inconciliabilità di questi gusti, lasciò che don Pedro de Aldana gli desse moglie a piacer suo, e dopo avere percorso l'Europa disse a don Pedro le grandi parole remissive con cui un uomo incerto fra due qualità di cioccolatine lascia al commesso del negozio la facoltà di decidere: «Faccia lei!» Cadde così la scelta di don Pedro su la principessa Alice di Cardun, figlia del Re di Asturia. Asturia e Fantasia essendo state poste dal capriccio della geografia politica porta a porta; conveniva oltremodo alla politica di Fantasia e di Asturia porre su l'armata frontiera un ramoscello di fiori d'arancio. Se non era bella la sposa, era bellissima la combinazione diplomatica e, poichè un re non ha il diritto di portare nel talamo coniugale la grazia d'una sposa ma ha dovere di portarvi la tranquilla garanzia d'un trattato di alleanza, conveniva a Rolando II di tacere, per la ragione di Stato, lo stato di qualsiasi sua altra ragione. Se è vero che si dà prova di maggiore generosità e di più larga benevolenza regalando la roba propria che non regalando quella, degli altri, la benignità celeste s'era dimostrata incomparabilmente generosa, accordando alla futura regina di Fantasia ogni sorta di beni, forse celesti, ma non certamente terreni. Sua Maesta aveva, nel cassetto della sua scrivania, il ritratto della regale fidanzata. Lo guardava di tanto in tanto, per abituarsi, e lo guardava sempre quando c'ero io, forse perchè io potessi al caso fargli coraggio. Vedevo allora sul suo volto disegnarsi, con un'ombra nera, un dubbio: il dubbio che la ragion di Stato esigesse troppo da lui, e che con la sola ragion di Stato non fosse possibile fare ciò che assicura attraverso i secoli, di rampollo in rampollo, la durata delle dinastie..Lo incoraggiavo affermandogli che bisogna far fronte al proprio destino, quando si e re, ad occhi chiusi. E lo sentii rispondere un giorno, con un sospiro ch'era di sollievo: « Ad occhi chiusi. È tutt'un programma coniugale questo, mio caro d'Aprè!» E finalmente un giorno, quando mancavano tre mesi alle nozze regali, Sua Maestà, guardata ancora una volta, con la solita ombra nera sul viso, la fotografia della sposa promessa, bella d'una bellezza forse invisibile a noi perchè non di questo mondo, Sua Maesta sentì nascere d'improvviso l'idea figlia. Poichè le sue labbra non erano abituate a serbare i segreti del suo cervello, l'idea figlia era appena nata nel mistero della scatola cranica che già si manifestava con queste parole: — Ma, ora che ci penso, bisognerà pensare alla Corte della Regina. Bisognerà nominar le sue dame d'onore. E, prima di tutte, naturalmente, Isabella. Poichè è fatica insopportabile anche quella di essere sinceri con noi stessi, Sua Maestà aggiunse sùbito: — La Regina non potrebbe trovare migliore amica. Poi si riprese e, levatosi dal tavolino, venutomi davanti, mi disse: — Senta: quando Isabella sarà qui.... Si resiste ad un principe, ma non ad un Re.... E poichè un po' della storia — reparto storia galante — somministratagli dal povero vecchio capitano dei dragoni gli era rimasta ancora nella memoria, sorrise e, gettando via leggermente assieme al fiammifero con cui aveva acceso la sigaretta anche tutte le piccole possibili differenze fra lui e Luigi decimo-quinto, esclamò: — La mia Pompadour!

Mitchell, Margaret

221925
Via col vento 18 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

. - Era la sola persona completamente buona che io abbia mai conosciuta. - Oh, Rhett! - esclamò disperata perché quelle parole le ricordavano troppo vivamente tutta la bontà che Melania aveva sempre avuto per lei. - Perché non sei entrato con me? È stato tremendo... e avevo tanto bisogno di te! - Non avrei potuto sopportarlo - replicò Rhett con semplicità. Tacque per un momento; poi riprese con sforzo ma dolcemente: - Una gran signora. Fissò lo sguardo scuro al di là di Rossella, ed ella vide nei suoi occhi la stessa espressione che vi aveva scorto alla luce d'incendio, nella notte in cui Atlanta era caduta, quando egli le aveva detto che andava a raggiungere l'esercito in ritirata; la sorpresa di un uomo che si conosce perfettamente, eppure scopre in se stesso inattese sorgenti d'emozione. E a questa scoperta prova un lieve senso di ridicolo. I suoi occhi pensosi guardarono al disopra delle spalle di lei, come se vedesse Melania passare silenziosamente nella stanza. Il suo viso non esprimeva, in quella specie di addio, dolore né tormento, ma solo una meraviglia di se stesso, solo un pungente risveglio di emozioni morte fin dall'infanzia; ed egli ripeté - Una gran signora. Rossella rabbrividí; dal suo cuore scomparvero il calore e la luce che le avevano messo le ali ai piedi per tornare a casa. Intuí parzialmente ciò che passava nella mente di Rhett mentre egli diceva addio alla sola persona che rispettasse al mondo; e si sentí nuovamente desolata, con un terribile senso di smarrimento che non era piú personale. Non comprendeva completamente né analizzava ciò che egli sentiva, ma le sembrava di essere stata lei pure sfiorata da una sottana frusciante, che l'aveva toccata in un'ultima soave carezza. Attraverso gli occhi di Rhett vedeva passare non una donna ma una leggenda: le donne dolci e mansuete, ma con l'animo di acciaio temprato, a cui il Sud aveva affidato le sue case durante la guerra e alle cui braccia fiere e amanti era tornato dopo la disfatta. Gli occhi di Rhett tornarono a lei; la sua voce era mutata. Ora era fredda e indifferente. - Dunque è morta. Questo deve facilitare le cose per te, no? - Oh, come puoi dire una cosa simile?! - esclamò punta; e le lagrime le vennero agli occhi. - Sai quanto le volevo bene! - No, veramente non lo so. Non lo supponevo; e veramente, considerando la tua simpatia per gli «straccioni bianchi», ti fa onore il fatto di averla saputa apprezzare. - Come fai a parlare cosí? Sicuro che l'apprezzavo! Tu no. Non potevi conoscerla come la conoscevo io. Non puoi comprendere... com'era buona... - Davvero? Forse no. - Pensava a tutti fuorché a se stessa... Le sue ultime parole sono state per te. Vi fu una fiamma di genuino sentimento nei suoi occhi mentre li volse verso di lei. - Che ha detto? - No, non adesso, Rhett! - Dimmelo. La sua voce era fredda; ma la mano che le posò sul polso le fece male. Ella non voleva parlare; non era cosí che aveva pensato di abbordare l'argomento del suo amore. Ma la mano di lui faceva pressione. - Ha detto... ha detto... «Sii buona col capitano Butler. Ti ama tanto». Egli la fissò e lasciò ricadere la mano. Abbassò le palpebre; il volto rimase indifferente. A un tratto si alzò e avvicinandosi alla finestra tirò le tendine e guardò fuori come se vi fosse qualche cosa di interessante da vedere. Non vi era che nebbia. - Ha detto altro? - chiese poi senza voltarsi. Mi ha chiesto di aver cura del piccolo Beau; le ho promesso di occuparmene come se fosse mio figlio. - E che altro? - Ha detto... Ashley... Mi ha chiesto di occuparmi anche di Ashley. Egli tacque per un momento; poi rise piano. - È comodo avere il permesso della prima moglie, no? - Che vuoi dire? Rhett si volse; e anche nella sua confusione, Rossella fu sorpresa nel vedere che non vi era scherno sul suo viso. Né vi era maggiore interessamento che nel volto di un uomo che assiste all'ultimo atto di una commedia non troppo attraente. - Mi pare che sia abbastanza chiaro. Miss Melly è morta. Tu hai certamente tutto il diritto di chiedere il divorzio contro di me; e non credo che alla tua reputazione un divorzio possa far danno. Né hai religione; quindi della chiesa non t'importa. Perciò... Ashley e i sogni diventano realtà, con la benedizione di miss Melly. - Divorzio?! No! No! - Dopo un attimo di stordimento balzò in piedi e corse ad afferrarlo per un braccio. - Ti sbagli! Terribilmente. Non voglio divorziare! Io... - Si interruppe come se non riuscisse a trovare le parole. Egli le pose una mano sotto il mento e le volse tranquillamente il viso verso la luce; per un momento la fissò intento negli occhi. Ella sostenne lo sguardo, fissandolo col cuore nelle pupille, con le labbra tremanti come se avesse tentato di parlare. Ma non riuscí a formulare una parola. Cercava di trovare in quel volto bruno un'emozione corrispondente alla sua, una luce di speranza, di gioia. Perché egli doveva aver compreso. Ma i suoi occhi non trovarono altro se non la calma insensibilità che cosí spesso l'aveva respinta. Egli lasciò il suo mento e, voltandosi, tornò al seggiolone; vi si gettò di nuovo, pesantemente, col mento sul petto; i suoi occhi continuarono a guardarla da sotto alle folte sopracciglia in maniera curiosa e impersonale. Ella lo seguí e rimase dinanzi a lui torcendosi le mani. - Hai torto- cominciò finalmente cercando le parole. - Rhett, stasera, quando ho saputo, ho corso come una pazza per venire a casa a dirtelo. Oh mio carissimo, io... - Sei stanca - la interruppe Rhett continuando a scrutarla. - Farai meglio ad andare a letto. - Ma debbo dirtelo! - Non voglio... sentir nulla, Rossella! - Non sai quello che ti voglio dire! - Gioia mia, è scritto chiaramente sul tuo viso. Qualcuno o qualche cosa ti ha fatto capire che il disgraziato signor Wilkes è un boccone troppo grosso dei frutti del Mar Morto, perché perfino tu lo possa inghiottire. E perciò i miei fascini ti sono improvvisamente apparsi in una nuova luce piú attraente. - Emise un leggero sospiro. - Ed è inutile parlarne. Ella trasse un grande respiro, stupita. Sapeva che egli aveva sempre letto in lei facilmente. In altri tempi ciò l'aveva irritata; ma ora, dopo il primo attimo di risentimento contro la propria trasparenza, si sentí il cuore pieno di gratitudine e di sollievo. Egli sapeva, comprendeva; il compito diventava infinitamente piú facile. Inutile parlarne! Naturalmente, egli era amareggiato per la sua lunga trascuratezza, diffidente per il suo improvviso voltafaccia. Ma lei lo colmerebbe di bontà, lo convincerebbe con ardenti effusioni d'amore; e che gioia sarebbe anche per lei! - Tesoro, ti dirò tutto! - Posò le mani sul bracciolo del seggiolone e si chinò sopra di lui. - Ho commesso tanti errori, sono stata una pazza stupida... - Non continuare, Rossella. Non ti umiliare dinanzi a me. Non posso sopportarlo. Conserviamo un po' di dignità, per avere almeno questo ricordo del nostro matrimonio. Evitiamo questa fine. Ella si raddrizzò bruscamente. Evitare questa fine? Che voleva dire «questa fine»? Fine? Se questo era il loro principio! - Ma voglio dirti - riprese rapidamente, quasi temendo che egli le ponesse la mano sulla bocca per farla tacere. - Ti amo tanto, Rhett! Devo averti sempre amato, da tanti anni; ma ero cosí sciocca che non lo sapevo. Devi credermi, Rhett! La guardò per un attimo, dritta dinanzi a lui; fu uno sguardo che la penetrò sino in fondo. Ella vide che in quegli occhi era persuasione, ma scarso interesse. Si mostrerebbe dunque perverso, proprio adesso? La tormenterebbe, ripagandola con la sua stessa moneta? - Ti credo - disse finalmente. - Ma la storia di Ashley Wilkes? - Ashley! - E fece un gesto d'impazienza. - Non... non credo di avergli mai voluto bene. Era una specie di abitudine a cui ero attaccata fin da bambina. E credo che non me ne sarei mai interessata se lo avessi veramente conosciuto. È una creatura cosí bisognosa d'assistenza, cosí povera di spirito, con tutte le sue ciance di verità e di onore... - No - la interruppe Rhett. - Devi vederlo com'è in realtà. È un gentiluomo che si trova in un mondo che non è il suo, e cerca di fare del suo meglio applicando le regole di un mondo scomparso. - Oh Rhett, non parliamo di lui! Che ce ne importa ora? Non sei contento di sapere... ora che io... Incontrò il suo sguardo stanco e tacque imbarazzata, intimidita come una bimba col suo primo corteggiatore. Perché non le facilitava la cosa? Se l'avesse presa fra le braccia, ella si sarebbe accoccolata riconoscente sulle sue ginocchia e gli avrebbe posato il capo sul petto. Le sue labbra posate su quelle di lui si sarebbero spiegate meglio che non potessero farlo le sue parole interrotte. Ma nel guardarlo, comprese che non per cattiveria egli non l'abbracciava. Sembrava esaurito; e come se nulla di ciò che ella diceva lo interessasse. - Contento? - disse poi. - Una volta avrei ringraziato Dio devotamente, se tu mi avessi detto questo. Ma ora non importa. - Non importa? Che dici? Sí che importa! Non mi vuoi bene forse? Melly ha detto di sí. - Aveva ragione, per quel che sapeva. Ma hai mai pensato, Rossella, che anche l'amore piú immortale si può esaurire? Lo guardò ammutolita, a bocca aperta. - Il mio si è logorato - proseguí Rhett - contro Ashley Wilkes, contro la tua pazza ostinazione che ti fa azzannare come un bulldog quello che desideri... Si è logorato. - L'amore non si può logorare! - Il tuo per Ashley si è stancato. - Ma non l'ho mai amato davvero! - Allora ne hai dato un'ottima imitazione... fino a stasera. Non voglio rimproverarti, Rossella, accusarti, rinfacciarti nulla. È passato il tempo di queste cose. Risparmiami quindi le tue difese e le tue spiegazioni. Se sei capace di ascoltarmi per qualche minuto senza interrompermi, ti spiegherò ciò che voglio dire. Quantunque non ne veda il bisogno. La verità è tanto semplice! Ella sedette, sotto la luce dura del gas che le illuminava il pallido viso attonito. Fissava gli occhi che conosceva cosí bene - eppure cosí poco - e ascoltava la voce tranquilla dirle parole che da principio furono senza significato per lei. Era la prima volta che egli le parlava in quel modo, come un essere umano a un altro; che parlava come tutti quanti, senza scherno, senza enigmi, senza volubilità. - Non hai mai pensato che ti amavo tanto quanto è possibile a un uomo amare una donna? Che ti ho amato per degli anni finché sono riuscito ad averti? Durante la guerra volli andarmene per cercare di dimenticarti; ma non potetti; e perciò ritornavo sempre. Dopo la guerra ho arrischiato di essere arrestato, per tornare indietro e trovarti. Ti amavo tanto che credo che avrei finito con l'uccidere Franco Kennedy, se non fosse morto. Ti amavo, ma non potevo fartelo sapere. Eri troppo brutale con quelli che ti amavano, Rossella. Prendevi il loro amore e lo agitavi come uno scudiscio sulle loro teste. Di tutto ciò che diceva, una sola cosa era importante: che egli l'amava. Alla debole eco di passione che era nella sua voce, ella sentí serpeggiare nelle sue vene gioia ed eccitazione. Tratteneva il respiro, ascoltava, aspettava. - Sapevo che non mi amavi quando ti sposai. Sapevo di Ashley. Ma, sciocco che ero, credevo di riuscire a farmi voler bene. Ridi, se vuoi; ma io provavo il bisogno di aver cura di te, di viziarti, di coccolarti, di darti tutto ciò che desideravi. Volli sposarti per proteggerti e darti piena libertà in tutto ciò che poteva farti felice... come feci piú tardi con Diletta. Avrei lottato tanto: nessuno sapeva meglio di me quali pene avevi attraversato, ed io volevo farti cessar di combattere e combattere io per te. Avrei voluto vederti giuocare come una bimba... perché eri una bimba, coraggiosa, spaventata, caparbia; ma una bimba. E credo che tu lo sia ancora. Solo una bimba può essere cosí cocciuta e insensibile. La sua voce era calma e stanca; ma vi era in essa qualche cosa che richiamò alla memoria di Rossella un fantasma scomparso. Quando, in quale crisi della sua vita aveva udito una voce come quella? La voce di un uomo che si trova di fronte a sé e al suo mondo, senza sentimento, senza titubanze, senza speranza. Sicuro... era stato Ashley, nel freddo frutteto di Tara battuto dal vento; aveva parlato della vita e dello spettacolo delle ombre con una calma stanchezza che aveva nel suo timbro un'amarezza disperata. E come la voce di Ashley, allora, l'aveva fatta rabbrividire con la minaccia di cose che ella non poteva comprendere, cosí ora la voce di Rhett le faceva cadere il cuore. La sua voce, i suoi modi, piú ancora che il contenuto delle sue parole, la turbavano, le facevano comprendere che la sua eccitazione di pochi istanti prima era stata intempestiva. Vi era qualche cosa che non andava bene. Non sapeva che cosa; ma ascoltava disperatamente, con gli occhi fissi sul suo viso bruno, sperando di udire parole che dissipassero i suoi terrori. - Eravamo fatti l'uno per l'altra. Questo era cosí ovvio, che io ero il solo uomo fra i tuoi conoscenti che poteva amarti conoscendoti com'eri realmente... dura, avida, senza scrupoli, come me. Ti amavo e tentai la ventura. Pensai che Ashley sarebbe svanito dalla tua mente. Ma - e si strinse nelle spalle - tutti i miei tentativi non valsero a nulla. E ti amavo tanto, Rossella. Se tu me lo avessi consentito, ti avrei dato tutta la tenerezza e tutto il fervore che un uomo può dare a una donna. Ma non potevo fartelo capire, perché mi avresti creduto debole e ti saresti servita del mio amore contro di me. E poi... c'era sempre Ashley. Mi faceva impazzire. Non potevo sedere a tavola di faccia a te la sera, perché sapevo che tu desideravi che al mio posto vi fosse lui. E non potevo tenerti fra le braccia la notte sapendo che... beh, lasciamo andare, adesso. Ora mi domando perché ne ho sofferto. Fu questo che mi fece andare da Bella. Vi è una certa consolazione grossolana nello stare con una donna che vi ama senza restrizione e vi rispetta come un gentiluomo... anche se è una prostituta analfabeta. Questo lusingava la mia vanità. Tu non mi hai mai blandito molto, mia cara. - Oh Rhett... - cominciò disperata solo nell'udire menzionare il nome di Bella. Ma egli le fece cenno di tacere e proseguí. - La notte che ti portai sopra... credetti... sperai... sperai tanto che non ebbi il coraggio di guardarti in faccia l'indomani mattina, per paura di essermi ingannato e che tu non mi amassi. Avevo paura che tu ridessi di me; perciò uscii e andai ad ubbriacarmi. Quando tornai tremavo come una foglia; e se tu mi fossi venuta incontro, se mi avessi fatto il piú piccolo cenno, credo che ti avrei baciato i piedi. Ma tu rimanesti impassibile. - Eppure ti desideravo, Rhett; ma tu fosti cosí villano! Come ti desideravo! Credo... sí, deve essere stata allora la prima volta che ho capito che ti volevo bene. Ashley... dopo di allora il suo pensiero non mi diede piú alcuna gioia; ma tu eri stato cosí villano che io... - Insomma, pare che eravamo in contrasto, non è vero? Ma ora non importa. Te lo dico soltanto perché tu non ti stupisca di nulla. Quando sei stata male per colpa mia, sono stato fuori della tua porta, sperando che tu mi chiamassi; ma tu non mi chiamasti mai; e allora compresi che ero stato un imbecille e che tutto era finito. Si fermò e guardò attraverso lei e al di là, come aveva fatto tante volte Ashley, vedendo qualche cosa che ella non poteva vedere. E Rossella continuò a fissare senza parlare il suo volto tetro. - Ma vi era Diletta; ed io mi dissi che, dopo tutto, qualche cosa rimaneva. Mi piaceva pensare che Diletta eri tu, nuovamente bambina, prima che la guerra e la povertà ti avessero indurita. Ti somigliava tanto, era cosí volitiva, cosí gaia e coraggiosa e piena di spirito; e potevo accarezzarla e viziarla... come desideravo accarezzare e viziare te. Ma lei non era come te... lei mi voleva bene. Era una fortuna che io potessi prendere tutto l'amore che tu non desideravi e darlo a lei... E quando se ne andò, portò via tutto con sé. Improvvisamente ella provò un'immensa pena per lui, una pena che cancellò il suo dolore e lo sgomento che le sue parole le avevano fatto provare. Era la prima volta in vita sua che sentiva compassione per qualcuno senza provare contemporaneamente un senso di disprezzo, perché era la prima volta che si avvicinava con comprensione ad un altro essere umano. E comprendeva l'orgoglio ostinato simile al suo che gli aveva impedito di rivelare il suo amore per timore di una ripulsa. - Amore mio - esclamò avvicinandosi di nuovo, sperando che egli stendesse le braccia e la traesse sulle sue ginocchia - tesoro, ho tanta pena, ma ti farò felice... Ora che sappiamo la verità... Guardami, Rhett! Avremo altri bambini... non come Diletta, ma... - Grazie, no - fece Rhett come se rifiutasse un pezzo di pane. - Non voglio arrischiare il mio cuore per la terza volta. - Non parlare cosí, Rhett! Che cosa posso dire per farti comprendere? Ti ho detto che sono cosí addolorata... - Mia cara, sei proprio una bambina. Credi che col dire «mi dispiace» si possa rimediare a tutti gli errori e le offese degli anni passati, cancellarli dalla mente, togliere tutto il veleno dalle vecchie ferite... Prendi il mio fazzoletto, Rossella. In nessuna crisi della tua vita ti ho mai vista con un fazzoletto. Prese il fazzoletto, si soffiò il naso e sedette. Era evidente che egli non l'avrebbe presa fra le braccia. E cominciava ad essere evidente che tutto quel discorso sull'amore che aveva avuto per lei non significava nulla. Era un racconto del tempo passato; e pareva che non fosse neanche accaduto a lui. E questo era spaventoso. Egli la guardava in modo affettuoso, con occhi riflessivi. - Quanti anni hai, cara? Non hai voluto dirmelo. - Ventotto - rispose triste, soffocando la voce nel fazzoletto. - Non sono molti. Anzi son pochi per avere conquistato tutto il mondo e perduto la propria anima, non è vero? Non aver paura; non alludo alle fiamme dell'inferno per la tua storia con Ashley. Parlo metaforicamente. Da quando ti conosco, tu hai sempre desiderato due cose: Ashley, ed essere abbastanza ricca per poter mandare tutti quanti all'inferno. Ora sei abbastanza ricca; hai mostrato i denti al mondo; e se vuoi avere Ashley, è a tua disposizione. Ma pare che tutto questo non ti basti piú. Era sgomenta, ma non al pensiero delle fiamme dell'inferno. Pensava: «La mia anima è Rhett, e lo sto perdendo. E se lo perdo, non c'è piú nulla che mi interessi! Né amici né denaro né... nulla.. Se avessi lui, non m'importerebbe di essere nuovamente povera. Non m'importerebbe di aver di nuovo freddo e fame. Ma non può essere che egli voglia... No, non può essere!» Si asciugò gli occhi e parlò con disperazione. - Rhett, se una volta mi hai amata tanto, deve pur essere rimasto qualche cosa nel tuo cuore per me! - Trovo soltanto due cose, e sono quelle che tu detesti di piú: pietà e uno strano senso di bontà. «Pietà! Bontà! Dio mio» pensò disperata «solo pietà e bontà...» Ogni volta che ella aveva provato per qualcuno questi sentimenti, erano stati accompagnati da disprezzo. Possibile che egli la disprezzasse? Tutto sarebbe preferibile a questo. Anche la cinica freddezza dei giorni della guerra, la folle ubriachezza che lo possedeva la notte in cui la portò su per le scale, le parole ironiche e pungenti che nascondevano - ora lo sapeva - un disperato amore. Tutto, piuttosto che quella bontà indifferente che era scritta cosí chiaramente sul suo volto. - Allora... vuol dire che io ho sciupato tutto... e che non mi ami piú? - Precisamente. Ostinata come una bambina che crede ancora che la manifestazione di un desiderio basti per ottenerne l'adempimento, esclamò: - Ma io ti amo! - Questa è la tua disgrazia. Lo guardò per vedere se dietro a quelle parole si nascondeva lo scherzo; ma non vide nulla. Egli si limitava a constatare un fatto. Ma era un fatto che ella non poteva, non voleva credere. Lo fissò con occhi in cui ardeva una disperata ostinazione; e la linea della mascella che improvvisamente si disegnò sotto la sua guancia morbida era quella di Geraldo. - Non essere sciocco, Rhett! Io posso fare... Egli tese in avanti la mano aperta con orrore beffardo; le sue sopracciglia nere si inarcarono con la vecchia espressione sardonica. - Non avere quell'aria cosí risoluta, Rossella! Mi spaventi. Vedo che stai pensando di trasferire la tua tempestosa passione da Ashley a me; ed io temo per la mia libertà e per la pace del mio spirito. No, Rossella, non voglio essere perseguitato come quell'infelice Ashley. Del resto, sto per partire. Ella sentí che la sua mascella tremava; e strinse i denti per fermarla. Partire? No! Tutto, ma non questo! Come poteva vivere senza di lui? Tutti l'avevano lasciata, tutti coloro a cui aveva voluto bene; era rimasto solo lui. Non poteva andarsene. Come trattenerlo? Si sentiva impotente contro la sua freddezza. - Parto. Avevo l'intenzione di dirtelo al tuo ritorno da Marietta. - Mi lasci? - Non fare la moglie abbandonata, Rossella. La parte drammatica non è adatta per te. Mi par di capire che non desideri un divorzio e neanche una separazione. Va bene; vuol dire che ornerò abbastanza spesso per impedire i pettegolezzi. - Che me ne importa delle chiacchiere! - esclamò con impeto. - Voglio te. Portami con te. - No. - E nella sua voce era una nota decisiva. Per un attimo stette per scoppiare in lagrime come una bambina. Ebbe voglia di gettarsi a terra, di imprecare, di urlare, di battere i piedi. Ma un rimasuglio di orgoglio la trattenne. Pensò che se lo avesse fatto egli avrebbe riso. «Non devo urlare; non debbo piangere. Non debbo far nulla che possa suscitare il suo disprezzo. Deve rispettarmi anche... anche se non mi ama. Levò il capo e cercò di chiedere con calma. - Dove vuoi andare? - Forse in Inghilterra... o a Parigi. Forse a Charleston a cercare di far la pace coi miei. - Ma li detesti! Ti ho sentito ridere tante volte quando... Egli alzò le spalle. - Rido ancora, Rossella; ma ho finito di vagabondare. Ho quarantacinque anni; l'età in cui un uomo comincia a valutare quello che ha gettato via leggermente in gioventú; l'unione familiare, l'onore, la solidarietà, tutte cose che hanno radici profonde... Oh, non mi pento, non rimpiango nulla di ciò che ho fatto. Mi sono divertito; tanto che ora comincio ad averne abbastanza e a desiderare qualche cosa di diverso. Desidero la parvenza della rispettabilità - da parte degli altri, cara, non mia - la calma dignità che la vita può avere tra persone perbene, grazia gentile dei giorni passati. Allora, ne realizzavo il fascino dolce e lento... Nuovamente Rossella ebbe l'impressione di trovarsi nel frutteto di Tara; negli occhi di Rhett era la stessa espressione che aveva visto quel giorno in quelli di Ashley. Erano le stesse parole; come se fossero pronunciate da Ashley e non da Rhett. Frammenti di frasi le ritornarono, ed ella citò, pappagallescamente: - Un fascino... una perfezione, una simmetria, come nell'arte greca. Rhett chiese bruscamente: - Perché dici questo? È proprio il mio pensiero. - Lo ha detto Ashley una volta... a proposito degli antichi tempi. Egli si strinse nelle spalle e la fiamma scomparve dai suoi occhi. - Sempre Ashley - disse; e per un attimo rimase in silenzio. - Quando avrai quarantacinque anni, Rossella - riprese - forse comprenderai quello che ti dico adesso; e forse allora sarai stanca anche tu di falsa aristocrazia, di maniere pretenziose, di emozioni a buon mercato. Ma ne dubito. Credo che sarai sempre più attratta dall'orpello che dall'oro. Ad ogni modo, non posso aspettare fino allora per vedere. E non lo desidero neppure. Non mi interessa. Andrò in cerca di vecchie città e di vecchie campagne dove sia rimasto qualche cosa degli antichi tempi. Sono un sentimentale. Atlanta è troppo rude per me, troppo nuova. - Basta - disse ella improvvisamente. Aveva appena ascoltato ciò che egli veniva dicendo. Certo non lo aveva compreso. Ma sentiva che non poteva più sopportare con forza d'animo il suono della sua voce, se non vi era amore in essa. Egli fece una pausa e la guardò in modo strano. - Insomma, hai capito le mie intenzioni? - chiese alzandosi in piedi. Ella gettò le mani in avanti, col vecchio gesto supplichevole; e il suo cuore fu di nuovo sul suo viso. - No! - gridò. - So soltanto che non mi ami e che te ne vai! Amore mio, che farò se tu te ne vai? Per un momento egli esitò come chiedendosi se una dolce menzogna fosse migliore della verità. Poi si strinse nelle spalle. - Rossella, non ho mai avuto la pazienza di raccogliere i frammenti di un oggetto rotto per incollarli insieme e dire a me stesso che l'oggetto riappiccicato vale quanto l'oggetto nuovo. Quello che è rotto è rotto... e preferisco ricordarmelo quando era in buono stato piuttosto che aggiustarlo e vedere le tracce della rottura finché vivo. Forse se fossi piú giovine... - sospirò. - Ma sono troppo vecchio per credere in questi sentimentalismi e per ricominciare. Troppo vecchio per portare quel peso di continue menzogne che accompagna la vita fatta di cortesi disillusioni. Non potrei vivere con te e mentirti; e non potrei certo mentire a me stesso. Non posso mentire neanche adesso. Vorrei potermi interessare di ciò che fai e di dove vai, ma non posso. Respirò brevemente e soggiunse: - Non è il caso, mia cara. Rossella Io guardò mentre saliva le scale ed ebbe l'impressione che il dolore la soffocasse. Il rumore dei suoi passi sul pianerottolo si allontanò; e con esso si allontanò l'ultima cosa al mondo che la interessava. Ella sapeva che nessun appello alla ragione o all'emozione avrebbe potuto mutare quel gelido verdetto. Sapeva che tutto ciò che egli aveva detto era il suo pensiero, anche se in certi momenti aveva parlato leggermente. Lo sapeva perché sentiva in lui qualche cosa di forte, di inflessibile, di implacabile... tutte le qualità che ella aveva cercato in Ashley senza trovarle. Non aveva compreso nessuno degli uomini che aveva amato; e li aveva perduti entrambi. Ora si rendeva conto vagamente che se avesse compreso Ashley non lo avrebbe mai amato; e che se avesse compreso Rhett, non lo avrebbe mai perduto. E si chiese tristemente se aveva mai compreso nessuno al mondo. Vi era adesso nella sua mente un'inerzia che si sarebbe potuta dire misericordiosa; un'inerzia che per lunga esperienza ella sapeva che avrebbe dato luogo fra breve a una sofferenza acuta, come i tessuti che, separati violentemente dal ferro del chirurgo, hanno un breve istante di insensibilità prima che cominci il loro tormento. «Non voglio pensarvi adesso» si disse cupamente, ricorrendo all'antico incantesimo. «Se penso che debbo perderlo, diventerò pazza. Vi penserò domani.» Ma il suo cuore, scacciando l'incantesimo, cominciò a dolere. «Non posso lasciarlo andar via! Deve esservi un mezzo!» - Non voglio pensarvi adesso - ripeté ad alta voce, tentando di respingere la sua disperazione nel fondo della mente, cercando di trovare un riparo al fiotto crescente di patimento. - Voglio... Andrò a casa, a Tara, domani. - E il suo spirito si risollevò impercettibilmente. Era già tornata a Tara una volta, cacciata dallo spavento e dalla sconfitta; e dalle sue mura riparatrici era tornata forte e armata per la vittoria. Potrebbe - se Dio l'aiutasse! - rifare ciò che aveva fatto una volta. Non sapeva come. Ora non voleva pensarvi. Tutto ciò che desiderava adesso era un luogo di riposo dove poter soffrire, dove poter sanare le sue ferite; un rifugio dove potere studiare un piano di battaglia. Pensò a Tara; e fu come se una mano dolce e fresca si posasse furtivamente sul suo cuore. Le apparve la bianca casa che le dava il benvenuto tra le rosse foglie autunnali, sentí il tranquillo sussurro del crepuscolo che scendeva sopra di lei come una benedizione, udí la rugiada cadere sui verdi cespi ornati di un candore fioccoso, vide il colore rugginoso delle zolle e la tetra bellezza dei pini sulle colline ondulate. Si sentí vagamente riconfortata da questo quadro; e la sua sofferenza e il suo frenetico rimpianto furono un poco attenuati. Per un attimo rimase a ricordare tante piccole cose: il viale di cedri che conduceva alla piantagione, i cespugli di gelsomini del Capo, di un verde vivido sul muro bianco, il fluttuare delle tendine candide. E vi sarebbe Mammy. Improvvisamente desiderò disperatamente Mammy, come l'aveva desiderata quando era una bambina, desiderò l'ampio seno su cui posare il capo, la mano nera e nodosa sui suoi capelli. Mammy, l'ultimo legame con gli antichi tempi. Con lo spirito del suo popolo che non riconosce la sconfitta anche quando se la trova di fronte, rialzò il mento. Riconquisterebbe Rhett. Sapeva di poterlo fare. Non era mai esistito un uomo che ella non potesse avere, se lo voleva. «Penserò a tutto questo domani, a Tara. Sarò piú forte, allora. Domani penserò al modo di riconquistarlo. Dopo tutto, domani è un altro giorno.» FINE

Pagina 1024

. - e per la prima volta in vita sua le parole non gli mancarono... la piú bella fanciulla che io abbia mai conosciuta, e la piú cara e la piú buona e la piú gentile; ed io vi amo con tutto il cuore. Non posso sperare che voi amiate uno come me, ma se voi, cara, vorrete darmi il piú piccolo incoraggiamento, io farò tutto al mondo per farmi amare da voi. Voglio... Si interruppe perché non riuscí a pensar nulla di abbastanza difficile per convincere Rossella della profondità dei propri sentimenti; quindi disse semplicemente: - Desidero sposarvi. Rossella tornò alla realtà con un sussulto, al suono della parola «sposarvi». Stava pensando al matrimonio e ad Ashley, e guardò Carlo con malcelata irritazione. Perché quel cretino col viso di vitello veniva ad annoiarla coi suoi sentimenti proprio in quel giorno in cui lei era cosí preoccupata che le sembrava di perdere il cervello? Guardò gli occhi bruni supplichevoli e non comprese affatto la bellezza del primo amore di un ragazzo timido, dell'adorazione di un ideale divenuto realtà, della felicità e della tenerezza che mettevano in quegli occhi una fiamma. Rossella era abituata agli uomini che le chiedevano di sposarla, uomini piú attraenti di Carlo Hamilton, uomini che avevano la delicatezza di non fare una domanda di matrimonio durante un convito all'aperto, mentre lei aveva da pensare a tante altre cose piú importanti. Vide soltanto un ragazzo di vent'anni, rosso come un peperone e con l'aria molto sciocca. Ebbe il desiderio di dirgli quanto era idiota. Ma automaticamente le salirono alle labbra le parole che Elena le aveva insegnato a dire in simili circostanze, e abbassando pudicamente gli occhi, per forza di abitudine, mormorò: - Mr. Hamilton, sono molto sensibile all'onore che mi fate chiedendomi di diventar vostra moglie; ma la cosa è per me talmente inattesa che non so che cosa dirvi. Era un modo grazioso di accarezzare la vanità di un uomo e di tenerlo sulla corda; e Carlo abboccò a quell'amo come se fosse nuovo ed egli fosse il primo a inghiottirlo. - Aspetterò quanto vorrete! Voglio che siate sicura di voi... Ditemi che posso sperare, miss O'Hara! - Hm - fece Rossella, i cui occhi di lince osservavano in quel momento Ashley, il quale non si era alzato per prender parte alla discussione degli uomini sulla guerra e stava sorridendo a Melania. Se questo stupido che stava cercando di ottenere la sua mano tacesse un minuto, forse le riuscirebbe di udire ciò che quei due stavano dicendo. Doveva udirlo. Che cosa diceva Melania per destare negli occhi di lui quell'espressione di interessamento? Le parole di Carlo soverchiavano le voci che ella anelava di udire. - Oh, ssst! - gli bisbigliò pizzicandogli una mano senza neanche guardarlo. Spaventato e vergognoso, Carlo arrossí al rabbuffo; poi, vedendo gli occhi di lei fissi su sua sorella, sorrise. Rossella temeva che qualcuno potesse udire le sue parole. Naturalmente era imbarazzata e timida, e l'idea che altri potessero udire la sgomentava. Carlo si sentí invadere da un'onda di mascolinità che non aveva mai provata, perché questa era la prima volta in vita sua che egli turbava una ragazza. L'emozione fu inebriante. Diede al suo volto quella che credeva essere un'espressione indifferente e prudentemente ricambiò il pizzicotto di Rossella per mostrarle che era uomo di mondo e che comprendeva e accettava il suo rimprovero. Ella non sentí neppure il pizzicotto, perché in quel momento udiva la dolce voce che costituiva il fascino principale di Melania: - Non sono d'accordo con te su Thackeray. È un cinico. E credo che non sia un signore come Dickens. «Che stupidi discorsi da fare a un uomo» pensò Rossella, pronta a ridere di sollievo. «Non è che una bas bleu, e tutti sanno che cosa pensano gli uomini delle bas bleu!» Per interessare un uomo e conservar vivo il suo interesse, bisognava parlargli di lui e poi gradatamente condurre la conversazione su se stessa... e mantenervela. Rossella si sarebbe allarmata se Melania avesse detto: «Sei straordinario!» oppure: «Come fai a pensare queste cose? Il mio cervellino scoppierebbe, se cercassi anch'io di pensarle!» Ed eccola lí, con un uomo ai suoi piedi, a parlare seriamente come se fosse in chiesa. La prospettiva apparve a Rossella piú brillante; tanto brillante che rivolse a Carlo degli occhi radiosi e un sorriso giocondo. Entusiasmato per questa prova di affetto, egli afferrò il suo ventaglio e lo richiuse con tanto ardore che ella si sentí drizzare i capelli. - Non ci avete favorito la vostra opinione, Ashley - disse Giacomo Tarleton volgendosi dal gruppo maschile vociferante; Ashley si scusò e si alzò. Nessuno era bello come lui - pensò Rossella osservando la grazia del suo atteggiamento negligente e i capelli e i baffi che il sole faceva scintillare. Anche gli uomini anziani si interruppero per ascoltare le sue parole. - Ebbene, signori miei, se la Georgia combatterà, andrò anch'io. Altrimenti perché fare parte dello Squadrone? - furono le sue parole. I suoi occhi grigi erano spalancati e la loro sonnolenza era scomparsa dando luogo a una vivezza che Rossella non aveva mai vista prima. - Ma, come il babbo, spero che gli yankees ci lasceranno in pace e che la guerra non si farà... - Alzò la mano con un sorriso, perché dai ragazzi Tarleton e dai Fontaine giungeva una babele di voci. - Sí sí, so che ci hanno insultati e che ci hanno mentito... ma se noi fossimo stati nei loro panni, come avremmo agito? Probabilmente nello stesso modo. «Eccolo, al solito» pensò Rossella. «Sempre la smania di mettersi nei panni degli altri.» Per lei, in ogni argomento non vi era che un solo lato. A volte non era punto d'accordo con Ashley. - Non ci scaldiamo troppo la testa e non cerchiamo la guerra. La maggior parte delle miserie del mondo è stata cagionata dalle guerre. E quando le guerre erano finite, nessuno sapeva piú la ragione che le aveva suscitate. Rosella arricciò il naso. Meno male che Ashley aveva una inattaccabile reputazione di coraggio; altrimenti le cose si sarebbero guastate. Mentre ella pensava questo, attorno ad Ashley si levò un clamore di voci dissenzienti e indignate. Sotto l'albero, il vecchio sordo percosse lievemente il ginocchio di Lydia. - Che c'è? - chiese. - Che stanno dicendo? - Guerra! - gli gridò Lydia nell'orecchio facendosi cornetto con la mano. - Vogliono far la guerra agli yankees! - La guerra? - gridò a sua volta il sordo cercando il suo bastone e alzandosi con maggiore energia di quanta ne avesse mostrata da anni. - Gliene parlerò io, della guerra. Vi sono stato. - Non capitava spesso a Mr. McRae l'occasione di poter parlare della guerra, perché le sue donne gli imponevano sempre il silenzio. Raggiunse rapidamente il gruppo, agitando il bastone e gridando e, siccome non udiva le voci degli altri, in breve fu padrone indisturbato del campo. - Ascoltatemi, giovani mangiatori di fuoco. Voi non potete volere la guerra. Io l'ho fatta e lo so. Quella contro i Seminoli; e fui tanto pazzo da fare anche la guerra messicana. Voialtri non sapete che cos'è la guerra. Credete che si tratti soltanto di cavalcare un bel cavallo, con le ragazze che vi gettano fiori chiamandovi eroe. Non è cosí, signori miei! Si tratta di soffrir la fame e di buscarsi polmoniti e malattie della pelle dormendo nell'umidità. E se non sono quelle, sono gli intestini che non vanno. Sí, signori; non potete immaginare che cos'è la guerra per gl'intestini degli uomini: dissenteria e cose del genere e... Le signore erano diventate rosse. Mr. McRae stava ricordando i momenti piú volgari della vita, come la nonna Fontaine con le sue sconcie flatulenze: momenti che ognuno preferiva dimenticare. - Corri a chiamare il nonno - sussurrò una delle figlie del vecchio gentiluomo a una bimba che le era accanto. - Vi assicuro - mormorò poi alle signore attorno - che va peggiorando ogni giorno. Credereste che stamattina ha detto a Maria (la quale ha solo sedici anni): «Ora, figliuola...» - e il resto della frase si perse in un sussurro, mentre la nipotina correva a cercar di indurre il nonno a tornare a sedere all'ombra. Nei gruppi che si affollavano intorno agli alberi, fanciulle che sorridevano e uomini che parlavano appassionatamente, una sola persona sembrava aver conservato la calma. Gli occhi di Rossella si volsero verso Rhett Butler che stava appoggiato a un albero con le mani sprofondate nelle tasche dei calzoni. Da quando John Wilkes si era allontanato, egli era rimasto solo e non aveva pronunciato parola mentre la conversazione si riscaldava. Le labbra rosse sotto i baffetti si increspavano e negli occhi neri passavano lampi di disprezzo divertito; come se ascoltasse delle chiacchiere infantili. «Un sorriso sgradevole» pensò Rossella. Egli continuò ad ascoltare tranquillamente, finché Stuart Tarleton, coi rossi capelli arruffati e gli occhi scintillanti, gridò: - Ce li leveremo dai piedi in un mese! I gentiluomini combattono sempre meglio della plebe. Un mese... macché, una battaglia... - Signori - interruppe senza muoversi dal suo posto Rhett Butler, con un accento strascicato che rivelava la sua nascita (Charleston) e senza togliersi le mani di tasca - posso dire una parola? Il gruppo si volse verso di lui e gli prestò ascolto con la cortesia dovuta a uno straniero. - Ha mai pensato, nessuno di voi, che non vi è una fabbrica di cannoni a sud della linea Mason-Dixon? E alle poche fonderie che vi sono nel Sud? E industrie per la lana o per il cotone o concerie? Avete mai pensato che non abbiamo una sola nave da guerra e che gli yankees possono imbottigliare i nostri porti in una settimana, sicché non potremmo piú vendere il nostro cotone all'estero? Ma... certamente avete pensato a queste cose. «Questo significa che i ragazzi sono una massa di stupidi!» pensò Rossella indignata; e il sangue le salí al volto. Evidentemente non era la sola ad aver quest'idea, perché parecchi giovinotti cominciavano a drizzar la cresta. John Wilkes lasciò il suo posto in maniera indifferente, ma avanzandosi rapidamente verso colui che aveva parlato, come per ricordare ai presenti che quell'uomo era suo ospite e che, inoltre, vi erano delle signore presenti. - Il torto di molti di noi meridionali - proseguí Rhett - è che non viaggiamo abbastanza e non approfittiamo abbastanza dei nostri viaggi. Tutti voi, certamente, avete viaggiato. Ma che cosa avete visto? L'Europa, Nuova York, Filadefia; e le signore, senza dubbio, sono state a Saratoga. - Si inchinò lievemente verso il gruppo sotto gli alberi. - Avete visto i musei, gli alberghi, i balli e le case da giuoco. E siete tornati a casa convinti che non vi fosse un altro luogo come il Sud. Quanto a me, sono nato a Charleston, ma ho passato questi ultimi anni nel Nord. - Un sorriso dei suoi denti candidi fece comprendere che egli era sicuro che tutti quanti sapevano perché egli non dimorava piú a Charleston, e non gl'importava nulla che lo sapessero. - Ho visto molte cose che voialtri non avete vedute. Migliaia di emigranti che sarebbero ben contenti di combattere per gli yankees avendone in cambio vitto e un po' di denaro; le fabbriche, le fonderie, i cantieri, le miniere di carbone e di ferro... tutte cose che noi non abbiamo. Quello che noi abbiamo è cotone, schiavi... e arroganza... In un mese ci batterebbero completamente. Un minuto di tensione silenziosa. Rhett Butler trasse dalla tasca della giubba un bel fazzoletto di lino e si spolverò distrattamente una manica. Quindi dalla folla sorse un mormorio minaccioso e da sotto gli alberi giunse un ronzio simile a quello di un'arnia disturbata. Benché Rossella sentisse ancora sulle guance il rosso calore della collera, pure qualche cosa nel suo spirito pratico le fece comprendere che quell'uomo aveva ragione e parlava con buonsenso. Infatti, ella non aveva mai visto una fabbrica né conosciuto nessuno che ne possedesse una. Ma anche se tutto ciò era vero, un gentiluomo non doveva fare queste dichiarazioni... soprattutto durante un ricevimento dove tutti si stavano divertendo. Stuart Tarleton si avanzò, con la fronte aggrottata, insieme con Brent. Senza dubbio, i gemelli erano dei ragazzi educati e non avrebbero fatto una scenata durante una riunione mondana, pur essendo provocati. Malgrado ciò, le signore erano piacevolmente eccitate, perché era ben raro, per loro, assistere a una scenata o a una lite. Di solito ne sentivano parlare di terza mano. - Che intendete dire, signore? - disse Stuart lentamente. Rhett lo guardò con occhio gentile ma beffardo. - Intendo dire che Napoleone... forse ne avete sentito parlare? dichiarò una volta «Dio è dalla parte del battaglione piú forte». - Quindi si volse a John Wilkes, con una gentilezza che non era finta: - Mi avevate promesso di mostrarmi la vostra biblioteca. Posso chiedervi il favore di mostrarmela adesso? Debbo tornare a Jonesboro piuttosto presto nel pomeriggio, a causa di un affare. Si volse fronteggiando la folla, batté i tacchi e si inchinò come un maestro di danza; un inchino grazioso in un uomo cosí forte, e insolente come un ceffone. Quindi attraversò il prato con John Wilkes, col nero capo eretto; e il suono della sua risata scoraggiante pervenne al gruppo che era rimasto presso le tavole. Vi fu un attimo di silenzio allarmato; quindi il ronzio ricominciò. Lydia si levò stancamente dalla sua sedia sotto l'albero e si avvicinò all'incollerito Stuart Tarleton. Rossella non udí le sue parole, ma l'espressione dei suoi occhi mentre ella lo fissava in volto diede una specie di rimorso alla sua coscienza. Era la stessa espressione di dedizione che aveva Melania quando guardava Ashley; ma Stuart non la vide. Dunque, Lydia lo amava. Rossella pensò che se lei non avesse civettato cosí sfacciatamente con Stuart l'anno scorso, a quella riunione politica, forse a quest'ora egli avrebbe sposato Lydia. Ma il rimorso si dileguò subito, col pensiero che dopo tutto non era colpa sua se le altre ragazze non sapevano trattenere gli uomini accanto a loro. Finalmente Stuart sorrise a Lydia, un sorriso involontario, e accennò di sí. Probabilmente Lydia lo aveva pregato di non seguire Mr. Butler e di non fare questioni. Un tumulto gentile si levò sotto agli alberi quando gli invitati si alzarono, scrollandosi dal grembo le briciole. Le signore maritate chiamarono le bambinaie e i bambini piccoli riunendo le loro covate per la partenza; gruppi di giovinette si misero in moto verso la casa, ridendo e chiacchierando, per recarsi nelle stanze da letto al piano di sopra a scambiar pettegolezzi e a fare un po' di siesta. Tutte le signore, eccetto la signora Tarleton, lasciarono l'ombra delle querce; Beatrice era trattenuta da Geraldo, da Calvert e da altri, che insistevano per aver da lei la risposta concernente i cavalli per lo Squadrone. Ashley si avviò lentamente verso il luogo ove sedevano Rossella e Carlo, con un sorriso curioso e divertito. - Un bell'arrogante, non è vero? - fece seguendo Butler con lo sguardo. - Sembra un Borgia. Rossella rifletté rapidamente, ma non ricordò nessuno della Contea o di Atlanta o di Savannah che si chiamasse cosí. - Non li conosco. È un loro parente? Chi sono? Una strana espressione si dipinse sul volto di Carlo, in cui incredulità e vergogna si trovarono a lottare con l'amore. Ma questo trionfò; egli si disse che per una ragazza bastava esser carina, dolce, e bella, anche se la sua istruzione era scarsa, e si affrettò a rispondere: - I Borgia erano italiani. - Ah, - fece Rossella disinteressandosi. - Stranieri. Rivolse ad Ashley il suo piú bel sorriso, ma egli non la guardava in quel momento. Guardava Carlo e sul volto era comprensione e un po' di compassione.

Pagina 115

È il piú delizioso vecchio negro che io abbia mai visto ed è anche il piú devoto. L'unico male è che sa di essere lui il padrone di tutti e tre noi altri: corpo e anima. Le parole di Carlo furono confermate quando Pietro si arrampicò a cassetta e prese la frusta. - Miss Pitty essere tutta turbata perché non essere venuta a riceverti. Avere paura che tu non capire, ma io avere detto che lei e Miss Melly infangarsi tutte e rovinare abiti nuovi e io spiegare a te. Miss Rossella, meglio tu prendere bambino. Quella piccola negra lasciarlo cadere. Rossella guardò Prissy e sospirò. La negretta non era la migliore delle bambinaie. La sua recente promozione dai vestitini corti e dalle treccine girate intorno al capo, alla dignità di un lungo abito di percalle e di un turbante bianco inamidato, era stata una vera ubriacatura per lei. Non sarebbe arrivata a questa sommità cosí presto se non vi fosse stata la guerra e le richieste del commissario di Tara che rendevano impossibile a Elena di risparmiare il lavoro di Mammy e di Dilcey o anche di Rosa o di Tina. Prissy non si era mai allontanata di piú di un miglio dalle Dodici Querce o da Tara, e il viaggio in treno, aggiunto alla sua elevazione a bambinaia, fu piú di quanto potesse sopportare il cervello che era racchiuso nel suo piccolo cranio nero. Il viaggio di venti miglia da Jonesboro ad Atlanta l'aveva talmente eccitata che Rossella era stata costretta a tenere il bambino per tutto il tempo. Ora, la vista di tanta gente e di tanti edifici, completò lo scombussolamento di Prissy. Ella si girava da una parte e dall'altra, saltava, balzava, indicava ciò che vedeva agitando il bambino che gemeva lamentosamente. Rossella pensò con nostalgia alle vecchie braccia grasse di Mammy. Bastava che Mammy posasse le mani su un bambino, che questo smetteva di piangere. Ma Mammy era a Tara e Rossella non poteva far nulla. Era inutile prendere Wade dalle braccia di Prissy: piangeva altrettanto, quando lo teneva lei. Per di piú avrebbe tirato i nastri della sua cuffia e le avrebbe spiegazzato il vestito. Cosí finse di non aver udito le parole di Pietro. «Forse col tempo imparerò a trattare i bambini» pensò irritata mentre la carrozza sobbalzava e traballava nel fango davanti alla stazione. «Ma non riuscirò mai a divertirmi con loro.» E poiché il volto di Wade era diventato pavonazzo a forza di urlare, ordinò sgarbata: - Dàgli quel pezzetto di zucchero che hai in tasca, Prissy. Qualche cosa per farlo tacere. So che ha fame, ma in questo momento non posso far niente. Prissy tirò fuori il pezzetto di zucchero che Mammy le aveva dato alla mattina e le grida del bimbo cessarono. Con la calma sopravvenuta e con la nuova vista, che si offriva ai suoi occhi, lo spirito di Rossella cominciò a risollevarsi. Finalmente, quando Zio Pietro riuscí a trarre la carrozza dalle buche limacciose e si avviò per la Via dell'Albero di Pesco, ella provò per la prima volta, da parecchi mesi, un certo interesse. Come era cresciuta la città! Era passato poco piú di un anno da quando vi era stata per l'ultima volta, e non sembrava possibile che quella piccola Atlanta fosse cosí mutata. L'anno precedente ella era cosí preoccupata dei propri pensieri, cosí infastidita da qualsiasi menzione di guerra, che non si era accorta come dall'inizio di quella, Atlanta si fosse trasformata. Le stesse ferrovie che avevano fatto della città il punto d'incrocio commerciale in tempo di pace, erano di vitale importanza strategica in tempo di guerra. Lontana dalla linea di battaglia, la città e le sue ferrovie provvedevano al collegamento fra i due eserciti della Confederazione, quello della Virginia e quello del Tennessee e dell'Occidente. E nello stesso modo Atlanta riforniva gli eserciti di tutto ciò che occorreva loro e che proveniva dal Sud. A causa delle necessità della guerra, Atlanta era anche diventata un centro industriale, una base ospedaliera e uno dei principali depositi meridionali per le derrate e per le forniture degli eserciti in campo. Rossella si guardò attorno cercando la piccola città che ricordava cosí bene. Era scomparsa. Quella che vedeva adesso era come un bimbo che nottetempo fosse cresciuto fino a diventare un gigante indaffarato. Atlanta ronzava come un alveare, conscia della sua importanza nella Confederazione; e il lavoro era continuo per trasformare una regione agricola in industriale. Prima della guerra vi erano poche fabbriche di cotone, filande di lana, arsenali e negozi di macchine a sud di Maryland; fatto di cui i meridionali erano molto orgogliosi. Il Sud produceva uomini di Stato e soldati, piantatori e dottori, legali e poeti, ma non ingegneri o meccanici. Queste professioni volgari erano adatte per gli yankees. Ma ora che i porti della Confederazione erano bloccati dalle navi da guerra yankees e che ben poche merci giungevano, eludendo il blocco, dall'Europa, il Sud tentava disperatamente di adoperare il proprio materiale da guerra. Il Nord poteva rivolgersi a tutto il mondo per approvvigionamenti e per soldati; migliaia di irlandesi e di tedeschi si arruolavano nell'esercito dell'Unione attratti dal miraggio di laute paghe. Il Sud non poteva contare che su se stesso. In Atlanta vi erano delle fabbriche di macchine che faticosamente trasformavano i loro impianti per produrre materiale da guerra; faticosamente perché vi erano ben poche macchine nel Sud da potere utilizzare, e quasi ogni ruota e ogni dente dovevano essere fabbricati su disegni che venivano dall'Inghilterra. Vi erano molti stranieri ora, nelle strade di Atlanta. E i cittadini che un anno prima avrebbero drizzato le orecchie al minimo accento anche soltanto occidentale, ora non badavano affatto a tutte le lingue parlate da europei che avevano attraversato il blocco per venire a fabbricare macchine e munizioni. Uomini abili, senza i quali la Confederazione non avrebbe avuto la possibilità di fabbricare pistole e fucili, cannoni e polvere. Si sentiva quasi il palpito del cuore della città, mentre il lavoro continuava giorno e notte, per inviare a mezzo delle ferrovie il materiale da guerra ai due fronti di battaglia. I treni arrivavano e partivano a tutte le ore. Di notte le fornaci ardevano e i martelli battevano ancora per molto tempo dopo che la popolazione era andata a dormire. Dove l'anno prima erano terreni da costruzione, ora erano sorte fabbriche di finimenti e di scarpe, di fucili e di cannoni; fonderie che producevano binari ferroviari e carriaggi per sostituire quelli distrutti dagli yankees; e una varietà d'industrie minori per la fabbricazione di speroni, redini, fibbie, bottoni, tende, sciabole e pistole. Le fonderie cominciavano già a sentire la mancanza del ferro, perché attraverso il blocco ne giungeva poco o punto, e le miniere di Alabama erano quasi inoperose, dato che i minatori erano al fronte. Non si trovavano piú ad Atlanta pali di ferro a sostegno delle siepi, né cancelli di ferro né verande montate in ferro e neanche statuette metalliche, perché tutto ciò aveva già preso la via delle fonderie. Lungo la Via dell'Albero di Pesco e nelle strade adiacenti stavano i quartieri generali dei vari dipartimenti dell'esercito, ciascuno dei quali affollato di uomini in uniforme: il commissariato, il corpo di segnalazioni, i servizi postali, i trasporti ferroviari, il servizio di approvvigionamenti. Al di là dei sobborghi erano depositi di rimonta ove cavalli e muli venivano radunati in vasti recinti, e nelle strade laterali sorgevano gli ospedali. Da quanto le disse Zio Pietro, Rossella concluse che Atlanta doveva esser la città dei feriti, perché ospedali generali, ospedali per contagiosi e convalescenziari erano innumerevoli. E ogni giorno i treni che giungevano dai Cinque Punti scaricavano nuovi ammalati e nuovi feriti. La piccola città era scomparsa; e la nuova era animata da un movimento e da un brusio incessante. La vista di tanta gente frettolosa diede quasi il capogiro a Rossella che veniva dalla tranquillità rurale; ma ciò le piacque. Quell'atmosfera eccitante la sollevava. Era come se sentisse il ritmo accelerato del cuore della città battere insieme al suo. Mentre avanzavano lentamente nella fangaia che era la strada principale della città, ella osservò con interesse le nuove costruzioni e i nuovi volti. I marciapiedi erano affollati di uomini in uniforme che portavano le insegne di tutti i gradi e di tutti i rami del servizio; nella stretta carreggiata si pigiavano i veicoli: carriaggi, calessini, ambulanze, furgoni militari guidati da conducenti borghesi, che bestemmiavano, mentre i muli si dibattevano per togliersi dalla mota in cui sprofondavano; corrieri impillaccherati che correvano da un quartier generale all'altro portando ordini e dispacci; convalescenti che zoppicavano appoggiati alle stampelle e avevano generalmente una caritatevole signora per parte. Trombe e tamburi e comandi militari echeggiavano dai campi di esercitazioni dove le reclute venivano trasformate in soldati; e col cuore in gola, Rossella vide per la prima volta le uniformi yankees, quando Zio Pietro le indicò, con l'estremità della frusta, un distaccamento di uomini che indossavano logori abiti turchini e che erano avviati al deposito, come un gregge di pecore, da una compagnia di confederati con la baionetta inastata, per esser poi portati in un campo di prigionieri. «Oh» pensò Rossella con un sentimento di vera gioia, il primo che avesse provato dopo il giorno del famoso convito alle Dodici Querce «come mi piacerà stare qui! Tutto è cosí vivace ed eccitante!» La città era anche piú animata di quanto ella credesse, perché vi erano dozzine di nuovi locali di mescita; le prostitute, che seguono sempre gli eserciti, brulicavano nelle strade, e i lupanari si moltiplicavano con grande costernazione delle persone timorate di Dio. Alberghi, pensioni, case private erano piene di ospiti venuti per essere accanto ai parenti feriti che si trovavano nei grandi ospedali di Atlanta. Ogni settimana vi erano balli, ricevimenti e vendite di beneficenza e innumerevoli matrimoni di guerra, con gli sposi in congedo vestiti di grigio chiaro con gli alamari d'oro e le spose in fronzoli, tra file di sciabole sguainate, e brindisi fatti con champagne portato malgrado il blocco e addii lagrimosi. Di notte le strade buie risuonavano di musiche che venivano dai salotti, dove voci di soprano si univano a quelle dei soldati ospiti nella piacevole melanconia di «Le trombe suonan la tregua» e «La vostra lettera giunse, ma troppo tardi»; ballate lamentose che traevano le lagrime dagli occhi facili alla commozione di chi non aveva mai versato lagrime di vero dolore. Progredendo lungo la strada, nella fanghiglia molle, Rossella rivolse a Pietro un'infinità di domande a cui il negro rispose, indicando qua e là con la frusta, fiero di mostrare le proprie cognizioni. - Quello essere arsenale. Sí, miss; fare cannoni e altre armi. No, quelli non essere botteghe; essere uffici blocchi. Miss Rossella, tu non sapere cosa essere uffici di blocco? Essere uffici dove forestieri comprare nostro cotone confederato e mandare a caricare a Charleston e Wilmington e mandare a noi bolvere per fucili. No, miss, io non sabere che specie di forestieri essere. Miss Pitty dice che essere inglesi, ma nessuno capire una barola quando barlano. Sí, signora; essere fumo terribile e rovinare tutte tendine di seta di miss Pitty. Essere fonderie e laminatoi. E che rumore fare la notte! Nessuno boter dormire. No, signora, non botermi fermare per farti guardare; aver bromesso a miss Pitty di bortare te subito a casa... Miss Rossella, fare un inchino. Ecco miss Merriwether e miss Elsing che salutare. Rossella ricordava vagamente due signore che si chiamavano cosí, venute da Atlanta a Tara per il suo matrimonio e ricordava che erano le migliori amiche di miss Pittypat. Perciò si volse rapidamente dalla parte indicata da Pietro e si inchinò. Le due signore erano sedute in una carrozza dinanzi a un negozio di stoffe. Il proprietario e due commessi erano sulla soglia con le braccia piene di pezze di tessuto di cotone che stavano spiegando. Mrs. Merriwether era una donna alta e corpulenta, talmente stretta nel busto che il seno sporgeva in avanti come la prua di una nave. I suoi capelli grigi erano fatti piú abbondanti da una frangia di riccioli finti che erano fieramente bruni, disdegnando di adattarsi al resto della capigliatura. Aveva un viso rotondo e molto colorito in cui si fondevano una naturale scaltrezza e l'abitudine di comandare. Mrs. Elsing era piú giovane; una donnina sottile e fragile, che era stata una meraviglia e che conservava ancora il ricordo della freschezza svanita e un'aria elegante e imperiosa. Quelle due signore, insieme a una terza, Mrs. Whiting, erano le colonne di Atlanta. Dirigevano in tutto e per tutto le tre chiese a cui appartenevano; il clero, i cori e i parrocchiani. Organizzavano vendite e presiedevano comitati di lavoro, balli e picnic; sapevano chi faceva un buon matrimonio e chi no, chi beveva segretamente, chi aspettava un bambino e per quando. Erano delle vere autorità in fatto di genealogie di qualunque famiglia della Georgia, della Carolina del Sud e della Virginia; e non si tormentavano il cervello per gli altri Stati perché erano convinte che chiunque avesse importanza negli altri Stati doveva esservi giunto da uno di quei tre. Sapevano come ci si doveva e come non ci si doveva comportare quando si era persone bennate, e non mancavano mai di dire schiettamente il loro modo di pensare: Mrs. Merriwether con una voce stridula. Mrs. Elsing con un accento strascicato e Mrs. Whiting in un mormorio desolato che mostrava come le dispiaceva parlare di certe cose. Queste tre signore si detestavano reciprocamente e non avevano fiducia una nell'altra come i primi Triumviri a Roma; e la loro stretta alleanza si doveva probabilmente a quelle stesse ragioni. - Ho detto a Pitty che desidero avervi nel mio ospedale - gridò Mrs. Merriwether sorridendo. - Perciò non promettete nulla a Mrs. Meade o a Mrs. Whiting! - Me ne guarderò bene - rispose Rossella, ignorando completamente ciò che desiderava quella vecchia signora, ma provando una sensazione di calore nel vedersi bene accolta e nel sapersi desiderata. - Spero di vedervi presto. La carrozza continuò la sua strada e si fermò un momento per permettere a due signore che portavano appeso al braccio un cestino pieno di bende, di attraversare la strada melmosa posando il piede su alcune pietre che emergevano. Nello stesso istante l'occhio di Rossella fu colpito da una figura che era sul marciapiede, vestita di un abito sgargiante - troppo sgargiante per la strada - e di uno scialle con lunghe frange che le giungevano ai piedi. Voltandosi vide una donna alta e bella, con una massa di capelli rossi: troppo rossi per esser veri. Era la prima volta che vedeva una donna di cui poteva esser certa che «aveva fatto qualche cosa ai suoi capelli» e la osservò, affascinata. - Zio Pietro, chi è quella? - bisbigliò. - Non sapere. - Sí che lo sai. Ne sono certa. Chi è? - Si chiama Bella Watling - e il labbro inferiore di Pietro cominciò a sporgersi. Rossella afferrò subito che il negro non aveva fatto precedere il nome dall'appellativo di «signora» o «signorina». - E chi è? - Miss Rossella - rispose il vecchio gravemente accarezzando il fianco del cavallo con la sua frusta - Miss Pitty non permettere che voi domandare cose che non vi riguardano. In questo periodo esservi in città grosso mucchio di persone che non contare e che essere inutile parlare di loro. «Dio mio!» pensò Rossella rinchiudendosi nel silenzio. «Dev'essere una donna cattiva!» Non aveva mai visto una donna di malaffare e si voltò a riguardarla finché quella si perse nella folla. Le botteghe e le nuove costruzioni erano ora piú rade, con spazi di terreno fra l'una e l'altra. Finalmente il quartiere degli affari terminò; ora erano tutte case di abitazione. Rossella le riconobbe come vecchie amiche: quella dei Leyden, dignitosa e superba; quella dei Bonnell, con le colonnine bianche e le persiane verdi; la casa georgiana di mattoni rossi della famiglia McLure, dietro alle sue basse siepi di bosso. Ora progredivano piú lentamente, perché dai porticati e dai giardini le signore la chiamavano. Ne conosceva alcune superficialmente; altre le ricordava vagamente; ma la maggior parte le era sconosciuta. Pittypat aveva certamente propagato la notizia del suo arrivo. Ogni tanto bisognava sollevare il piccolo Wade perché le signore che si avventuravano ad avvicinarsi alla carrozza attraversando il pezzetto di marciapiede potessero ammirarlo. Tutte le gridavano che doveva far parte del loro circolo di lavoro - cucito o maglia - e del loro ospedale e di nessun altro; ed ella promise instancabilmente a destra e a sinistra. Mentre passavano dinanzi a una villetta di legno coperta di rampicanti verdi, una bimbetta negra che era appostata sui gradini d'accesso gridò: - Eccola, eccola! - e subito uscirono il dottor Meade con sua moglie e il figlio tredicenne Filli, salutandola a gran voce. Rossella ricordò che anche loro erano venuti al suo matrimonio. La signora si avanzò sul pezzo di marciapiedi dinanzi alla casa e allungò il collo per vedere il bimbo, ma il dottore, senza preoccuparsi del fango, lo attraversò per avvicinarsi alla carrozza. Era alto e robusto, con una barbetta caprina color grigio-ferro; gli abiti ciondolavano sulla sua persona magra come se fossero sospesi a un attaccapanni. Atlanta lo considerava come la sorgente di ogni forza e di ogni saggezza e non era da stupire che egli avesse assorbito qualche cosa di questa loro fede. Ma a parte la sua abitudine di pronunciare delle affermazioni come se fossero oracoli e il suo modo di fare lievemente pomposo, era il piú brav'uomo del mondo. Dopo avere stretto la mano a Rossella e aver solleticato Wade sotto il mento, il dottore annunciò che la zia Pittypat aveva promesso e giurato che sua nipote non andrebbe in altro comitato ospedaliero e di preparazione delle bende se non in quello di Mrs. Meade. - Dio mio, ma ho già promesso a un migliaio di signore! - esclamò la giovine. - Alla signora Merriwether, scommetto! - esclamò la signora Meade indignata. - Al diavolo quella donna! Sono sicura che va incontro a tutti i treni! - Ho promesso perché non sapevo di che cosa si trattava - confessò Rossella. - Prima di tutto, che cosa sono questi comitati ospedalieri? Il dottore e la moglie scossero il capo, un po' scandalizzati della sua ignoranza. - Già, naturalmente siete stata seppellita in campagna e quindi non potete sapere - la scusò la signora Meade. - Abbiamo dei comitati per i diversi ospedali e in giorni diversi. Curiamo gli uomini e aiutiamo i dottori e facciamo bende e vestiti; e quando gli uomini sono in condizione di poter lasciare l'ospedale, li accogliamo nelle nostre case per la convalescenza, finché sono in grado di tornare al reggimento. E ci occupiamo delle famiglie dei feriti poveri o peggio. Il dottor Meade è all'ospedale dell'Istituto dove opera il mio comitato; tutti dicono che è straordinario e... - Lascia andare, Mrs. Meade - la interruppe affettuosamente il dottore. - Non vantarti di me con la gente. Faccio quel poco che posso, dal momento che non hai voluto lasciarmi andare con l'esercito. - Non ho voluto! - esclamò la moglie indignata. - Io? È stata la città che non ha voluto, e lo sai benissimo. Figuratevi, Rossella, che quando si è saputo che voleva andare in Virginia come medico militare, le signore hanno firmato una petizione pregandolo di restare. La città non può fare a meno di lui. - Via, via, Mrs. Meade - si schermí il dottore crogiolandosi evidentemente in quegli elogi. - Del resto, avere un figliolo al fronte può bastare, in questi tempi. - E io andrò l'anno venturo! - esclamò il piccolo Filippo saltando eccitato. - Come tamburino. Sto imparando intanto a suonare il tamburo. Volete sentire? Vado a prenderlo. - No, adesso no - ordinò la signora Meade stringendolo a sé, con una subitanea espressione di spavento. - Non l'anno venturo, tesoro. Forse fra due anni. - Ma allora la guerra sarà finita! - esclamò il ragazzo con petulanza, sottraendosi. - E me lo hai promesso! Gli occhi dei genitori si incontrarono al disopra del suo capo e Rossella vide lo sguardo. Darcy Meade era in Virginia; ed essi si attaccavano maggiormente al figliuolo che era rimasto. Zio Pietro tossicchiò. - Miss Pitty essere molto in bensiero quando io andare alla stazione e se non andare presto avrà svenimenti. - Arrivederci. Oggi nel pomeriggio sono libera - disse ancora la signora. - E dite a Pitty da parte mia che se voi non venite nel mio comitato, peggio per lei. La carrozza si avviò nuovamente per la strada fangosa e Rossella si appoggiò ai cuscini dello schienale sorridendo. Si sentiva bene come non si era piú sentita da molti mesi. Atlanta, con la sua folla, la sua animazione e la sua corrente di eccitazione, era molto piacevole, molto esilarante, molto piú graziosa della solitaria piantagione presso Charleston, dove il muggito degli alligatori rompeva solo il silenzio notturno; meglio della stessa Charleston, sognante nei suoi giardini difesi da alte mura; meglio di Savannah con le sue larghe strade bordate di palme nane e il fiume lutulento che le scorreva accanto. Sí; e provvisoriamente anche meglio di Tara, per quanto Tara fosse un luogo tanto caro. Vi era qualche cosa di eccitante in quella città con le sue strade strette e fangose; qualche cosa di rozzo e di immaturo che ricordava la rudezza e l'immaturità che era sotto la fine vernice data a lei da Elena e da Mammy. E a un tratto sentí che questo era il luogo fatto per lei, non le vecchie città serene e tranquille, cui il fiume pigro e giallo non dava vitalità alcuna. Le abitazioni erano adesso sempre piú rade; sporgendosi in fuori Rossella vide finalmente i mattoni rossi e il tetto piatto della villetta di miss Pittypat. Era quasi l'ultima casa al nord della città. Dopo di essa, la Via dell'Albero di Pesco andava stringendosi e girava tortuosamente sotto alti alberi che la nascondevano alla vista, perdendosi poi nei folti boschi silenziosi. La barriera di legno era stata recentemente ridipinta in bianco e il giardinetto dinanzi alla casa che essa chiudeva era macchiato di giallo dalle ultime giunchiglie della stagione. Sulla gradinata erano due donne vestite di nero e dietro a loro una grossa donna gialla con le mani sotto il grembiule e la bocca aperta a un largo sorriso. La rotondetta miss Pittypat saltellava agitata sui piedi piccolini, con una mano sul petto abbondante a frenare il cuore che le batteva forte. Rossella vide Melania che le stava accanto e, con un senso di antipatia si rese conto che essersi rifugiata nel balsamo di Atlanta significava vedere questa personcina vestita a lutto, coi suoi ribelli riccioli neri tirati e lisciati con dignità di donna sposata, che le rivolgeva un gentile sorriso di gioia e di benvenuto sul visino triangolare.

Pagina 161

Quanto alla storia che la milizia deve impedire una sollevazione dei negri... è la cosa piú sciocca che io abbia mai udita. Perché dovrebbe sollevarsi il nostro popolo? È un'ottima scusa, questa, per i codardi. Scommetto che sconfiggeremmo gli yankees in un mese se la milizia di tutti gli Stati andasse a combattere. Ecco! - Ma Melly! - esclamò di nuovo Rossella guardandola sbalordita. Gli occhi neri di Melania ardevano di collera. - Mio marito non ha avuto paura di andare e neanche il tuo. E preferirei che fossero morti tutti e due piuttosto che vederli qui a casa... Oh, cara, perdonami! Come sono crudele e imprudente! Afferrò il braccio di Rossella come per scusarsi e quella la fissò. Ma in quel momento non pensava a Carlo morto. Pensava ad Ashley. Se morisse anche lui? Si volse in fretta e sorrise automaticamente al dottor Meade che si avvicinava al loro banco. - Brave, figliuole - fece salutandole. - Siete state molto gentili a venire. So che per voi è stato un sacrificio; ma tutto si fa per la Causa. Ora vi dirò un segreto. Ho trovato un modo per fare parecchio denaro per l'ospedale; ma temo che qualche signora sarà scandalizzata. Si fermò e ridacchiò mentre si grattava la barbetta caprina. - Che cosa? Ditecelo, siate buono! - Veramente è meglio farvelo indovinare. Ma voialtre ragazze dovrete difendermi, se i membri della chiesa propongono di espellermi dalla città per questo. Del resto, è per l'ospedale. Vedrete. Non è mai stato fatto niente di questo genere. Proseguí pomposamente verso un gruppo di accompagnatrici in un angolo e proprio mentre le due giovani si volgevano l'una all'altra per discutere sulle possibilità di quel segreto, ecco avvicinarsi due vecchi signori i quali dichiararono ad alta voce che desideravano dieci metri di merletto. «Beh, meglio vecchi che niente» pensò Rossella misurando il merletto e rassegnandosi pudicamente ad essere accarezzata sotto il mento. I vecchi si rivolsero poi verso il banco dei rinfreschi ed altri presero il loro posto. Il loro banco non aveva tanti clienti come gli altri, dove risuonavano la risata squillante di Maribella Merriwether e la risatina sommessa di Fanny Elsing e le allegre risposte delle ragazze Whiting. Melly vendeva oggetti inutili ad uomini che non sapevano che cosa farne, tranquilla e serena come una negoziante, e Rossella modellava il suo contegno su quello della cognata. Dinanzi a tutti i banchi, eccettuato il loro, era una folla di ragazze che ciarlavano e di uomini che compravano. I pochi che si avvicinavano al loro banco parlavano della propria camerateria universitaria con Ashley, dicevano che era un bravo soldato, oppure accennavano rispettosamente a Carlo, affermando che la sua morte era stata una grande perdita per Atlanta. Quindi la musica attaccò il ritmo irregolare di «Johnny Booker, aiuta i negri!» e Rossella ebbe voglia di urlare. Desiderava ballare. Ne sentiva il bisogno. Guardò il pavimento e batté i piedi in cadenza; i suoi occhi ardevano di una fiamma verde. Attraverso la sala un uomo, appena arrivato e ancora fermo sulla soglia della porta, li vide, sussultò riconoscendoli e osservò piú attentamente quegli occhi dal taglio obliquo nel volto caparbio e ribelle. Quindi ghignò fra sé riconoscendo l'invito che qualsiasi uomo avrebbe potuto leggervi. Era vestito di panno nero; alto in modo da superare tutti gli ufficiali che gli erano accanto, con le spalle larghe ma la vita sottile, e dei piedi assurdamente piccoli nelle scarpe verniciate. Il suo abito severo, con la camicia finemente pieghettata e i calzoni elegantemente allacciati sotto le uose molto alte, contrastava stranamente col suo volto e con la sua figura; appariva tutto agghindato, con gli abiti di un «dandy» su un corpo da atleta, e segretamente pericoloso sotto la sua graziosa indolenza. Aveva i capelli nerissimi e i baffi piccolini erano anch'essi neri, tagliati corti come quelli di uno straniero in paragone a quelli lunghi e sfioccati degli ufficiali di cavalleria che gli erano accanto. Sembrava - ed era - un uomo di appetiti viziosi e svergognati. Aveva un aspetto di sicurezza e di spiacevole impertinenza; vi era anche un lampo di malizia nei suoi occhi che fissavano audacemente Rossella, finché questa, sentendo finalmente il suo sguardo, si volse verso di lui. Ebbe l'impressione di riconoscerlo, pur non riuscendo dapprima a ricordare chi fosse. Ma era il primo uomo che, da molti mesi, le mostrasse un certo interesse; perciò gli sorrise gaiamente. Rispose con un piccolo cenno al suo inchino; ma quando egli mosse verso di lei con una singolare andatura, flessuosa come quella degli indiani, ella portò la mano alla bocca con un gesto d'orrore, riconoscendolo. Rimase paralizzata, come colpita dal fulmine, mentre egli si apriva un varco attraverso la folla. Quindi si voltò, pronta a fuggire nella sala dei rinfreschi; ma la sua gonna si impigliò in un chiodo del banco. La tirò furiosamente, lacerandola; ma intanto egli era giunto accanto a lei. - Permettete - disse chinandosi a staccare delicatamente il volano. - Non speravo che vi ricordaste di me, miss O'Hara. La sua voce suonò bizzarramente piacevole al suo orecchio; era la voce ben modulata di un signore, sonora e col leggero accento strascicato di Charleston. Ella lo fissò implorante, col volto che si era coperto di rossore al ricordo del loro ultimo incontro, e si trovò di fronte gli occhi piú neri che avesse mai visto, che brillavano di una gaiezza spietata. Fra tutti gli uomini del mondo che avrebbero potuto capitare in quel luogo, bisognava che fosse proprio quel tremendo individuo che aveva assistito a quella scena con Ashley che le dava tuttora degl'incubi; quell'odioso mascalzone che rovinava le fanciulle e non era ricevuto dalle persone perbene; quell'uomo spregevole che aveva detto - e con ragione! - che lei non era una signora. Al suono di quella voce Melania si volse e, per la prima volta in vita sua, Rossella ringraziò il cielo per l'esistenza di sua cognata. - Ma... è il signor Butler, non è vero? - E Melania sorrise lievemente tendendogli la mano. - Vi ho conosciuto... - Nella felice circostanza dell'annunzio del vostro fidanzamento - la interruppe egli chinandosi a baciarle la mano. - Siete molto gentile a ricordarvi di me. - E che cosa fate cosí lontano da Charleston, Mister Butler? - Affari, Mrs. Wilkes, e affari poco divertenti. Da ora in poi dovrò andare avanti e indietro dalla vostra città. Non soltanto debbo portar dentro le merci, ma anche sorvegliare come vengono distribuite. - Portar dentro... - cominciò Melania aggrottando la fronte; e subito dopo ebbe un sorriso di piacere. - Ma allora... voi siete il famoso capitano Butler di cui ho sentito tanto parlare... quello che attraversa il blocco! Figuratevi, tutte le ragazze qui dentro indossano abiti che sono stati introdotti da voi. Rossella, non sei emozionata... Che hai, tesoro? Ti senti male? Siedi... Rossella piombò sulla sedia, respirando cosí affannosamente che ebbe paura che le stringhe del suo busto si rompessero. Oh, che cosa tremenda! Non aveva mai pensato di poter nuovamente incontrare quell'uomo. Egli prese dal banco il suo ventaglio nero e cominciò a sventolarla con sollecitudine, troppa sollecitudine; il suo volto era grave ma gli occhi brillavano ancora maliziosamente. - Fa troppo caldo qui - disse poi. - Non fa meraviglia che miss O'Hara si senta poco bene. Volete che vi accompagni a una finestra? - No. - Il monosillabo fu pronunciato con tanta durezza che Melly la guardò stupita. - È un pezzo che non è piú miss O'Hara - riprese poi Melania. - È la signora Hamilton.. mia cognata. - E le lanciò un breve sguardo affettuoso. Rossella si sentí soffocare vedendo l'espressione del bruno volto di pirata del capitano Butler. - Sono sicuro che è una gioia per entrambe queste graziose signore - replicò questi con un lieve inchino. Era l'osservazione che facevano tutti gli uomini; ma detta da lui, a Rossella sembrò che significasse proprio il contrario. - Immagino che i vostri mariti siano qui stasera, in questa lieta occasione? Sarebbe un piacere per me rinnovarne la conoscenza. - Mio marito è in Virginia - rispose Melania alzando fieramente la testa. - Ma Carlo... - La sua voce si spezzò. - È morto al campo - disse Rossella con voce atona. Quasi masticò le parole. Oh, non se ne andava mai quell'uomo? Melly la guardò stupita e il capitano ebbe un gesto di rimprovero verso se stesso. - Care signore... non immaginavo...! Dovete perdonarmi. Ma permettete a un estraneo di dirvi che morire per il proprio paese è vivere per sempre. Melania gli sorrise attraverso le lagrime, mentre Rossella sentí dentro di sé un impeto di collera e d'odio impotente. Egli aveva nuovamente fatto un'osservazione gentile, il complimento che qualunque gentiluomo avrebbe fatto in simili circostanze; ma certo senza pensarne neanche una parola. Si burlava di lei. Sapeva che ella non aveva amato Carlo. E Melly era tanto sciocca da non capire quello che vi era sotto le sue parole. «Dio mio, speriamo che nessuno lo capisca!» pensò con un sobbalzo di terrore. Avrebbe detto quello che sapeva? Certo non era un gentiluomo; e perciò sarebbe stato capacissimo di spiattellare ogni cosa. Lo guardò e vide che la sua bocca era un po' abbassata agli angoli con beffarda simpatia, mentre egli continuava ad agitare il ventaglio. Qualche cosa in quell'espressione fu per lei come una sfida e le fece tornare le forze in un impeto di antipatia. Bruscamente gli strappò di mano il ventaglio. - Sto benissimo - disse sgarbatamente. - È inutile sventolarmi per scompigliarmi i capelli. - Rossella, cara! Capitano, dovete scusarla. Non è... È fuori di sé quando sente parlare di Carlo... e forse non saremmo dovute venire qui stasera. Siamo ancora in lutto, come vedete; e per lei è uno sforzo... tutta questa gaiezza e la musica... povera figliuola! - Capisco - rispose egli con studiata gravità; ma nel rivolgere a Melania uno sguardo che penetrò fino in fondo nei suoi dolci occhi turbati, la sua espressione mutò. Sul suo volto bruno si dipinse il rispetto e una certa gentilezza. - Credo che siate una piccola donna molto coraggiosa, Mrs. Wilkes. - E non una parola per me! - disse fra sé, indignata, Rossella, mentre Melly sorrideva un po' confusa e rispondeva: - Oh Dio, no, capitano Butler! Il comitato dell'ospedale ci ha pregate di tenere questo banco perché all'ultimo momento... Un copricuscino? Eccone uno graziosissimo, con la bandiera. Si volse a tre soldati di cavalleria che si erano avvicinati al banco. Per un momento, Melania pensò che il capitano Butler era molto gentile. Poi si augurò che qualche cosa di piú sostanziale che la tarlatana fosse tra il suo abito e la sputacchiera che era di fianco al banco, perché la mira dei soldati con la bocca piena di tabacco masticato non era cosí esatta come quella che essi dimostravano con le loro pistole. Quindi dimenticò il capitano, Rossella e la sputacchiera, perché nuovi clienti circondavano il banco. Rossella era rimasta tranquillamente seduta a sventagliarsi, senza osare alzare gli occhi e augurandosi di vedere il capitano sulla tolda della sua nave. - Vostro marito è morto da un pezzo? - Oh sí. Quasi da un anno. - Un'eternità, naturalmente. Rossella non ne era ben certa; ma sulla qualità adescatrice di quella voce non potevano esservi dubbi. Comunque, non rispose. - Siete stata maritata per molto tempo? Perdonate la mia domanda, ma sono stato a lungo assente da questi luoghi. - Due mesi - rispose Rossella involontariamente. - Una vera tragedia - proseguí la voce tranquilla. «Che Dio lo maledica» pensò Rossella con violenza. «Se fosse un altr'uomo non farei altro che prendere un'aria glaciale e congedarlo. Ma egli sa di Ashley e sa che non amavo Carlo. Ed ho le mani legate.» Non rispose e guardò il suo ventaglio. - E questa è la vostra prima comparsa in società? - So che la cosa può sembrare strana - si affrettò a spiegare. - Ma le ragazze McLure che dovevano vendere a questo banco son dovute partire e non vi era nessun altro; quindi Melania ed io... - Nessun sacrificio è troppo grande per la Causa. Strano: le stesse parole della signora Elsing. Ma quando le aveva pronunciate lei, le erano sembrate tutte diverse. Le salí alle labbra una risposta bruciante ma la inghiottí. Dopo tutto, lei si trovava colà non per la Causa ma perché era stanca di stare in casa. - Ho sempre pensato - aveva ripreso il capitano riflessivamente - che il sistema del lutto e di imprigionare le donne nel crespo per il resto della vita impedendo loro le gioie piú naturali, è tanto barbaro quanto il sutti indiano. - Il sutti? L'uomo rise ed ella arrossí della propria ignoranza. Detestava le persone che usavano parole che le erano sconosciute. - In India quando un uomo muore, lo bruciano invece di seppellirlo; e sua moglie si arrampica sul rogo funerario e viene arsa con lui. - Che cosa orribile! E perché lo fanno? La polizia non lo impedisce? - No davvero. Una donna che non si facesse bruciare insieme al proprio marito sarebbe socialmente una fuori casta. Tutte le donne indú di una certa importanza parlerebbero di lei perché non si è comportata come deve una donna ben nata... precisamente come quelle degne signore in quell'angolo parlerebbero di voi se stasera foste apparsa qui vestita di rosso e se vi metteste a dirigere una danza. Personalmente io ritengo il sutti un uso molto piú misericordioso che il nostro simpatico costume meridionale che seppellisce vive le vedove. - Come osate dire che io sono una sepolta viva! - Come ci tengono le donne alle catene che le imprigionano! Voi ritenete barbaro il costume indú... ma avreste avuto il coraggio di apparire qui questa sera se la Confederazione non avesse avuto bisogno di voi? Gli argomenti di questo genere confondevano sempre Rossella. Questo poi la confondeva doppiamente perché ella aveva una vaga idea che contenesse un fondo di verità. Ma adesso era venuto il momento di prendere la rivincita. - È naturale che non sarei venuta. Sarebbe stato... oltre che irrispettoso... si sarebbe potuto credere che io non am... Gli occhi di lui attesero le sue parole con un'espressione cinicamente divertita; ed ella non riuscí a proseguire. Egli sapeva che Rossella non aveva amato Carlo, e non le consentiva di fingere i bei sentimenti che non provava. Che cosa terribile, terribile, aver a che fare con un individuo che non era un gentiluomo! Un gentiluomo aveva sempre l'aria di credere a una signora, anche quando sapeva che mentiva. Questa era la cavalleria del Sud. Il sesso forte obbediva alle regole e diceva soltanto le cose corrette, cercando di render facile la vita alle signore. Ma costui sembrava che non si curasse in alcun modo delle regole ed evidentemente si divertiva a parlar di cose di cui nessuno parlava mai. - Attendo con ansia. - Siete detestabile - disse ella smarrita, abbassando gli occhi. Egli si appoggiò sul banco chinandosi finché la sua bocca fu accanto al suo orecchio e bisbigliò, in un'ottima imitazione del tiranno che si vedeva a volte sulle scene: - Non temete, bella signora! Il vostro colpevole segreto è chiuso nel mio cuore. - Oh, - mormorò Rossella febbrilmente - come potete dire una cosa simile? - L'ho fatto per tranquillizzarvi. Che cosa volete che vi dica? «Siate mia, o bella, altrimenti rivelerò ogni cosa?» Ella incontrò involontariamente i suoi occhi e vide che erano canzonatori come quelli di un bambino. E allora rise. Dopo tutto la situazione era buffa. Anch'egli rise, e cosí forte che alcune delle signore che erano nell'angolo si voltarono a guardare. Vedendo che la vedova di Carlo Hamilton si divertiva, o sembrava divertirsi con 'un estraneo, avvicinarono le teste, disapprovando.

Pagina 180

I Calvert sono brava gente, tutti quanti, benché il vecchio abbia sposato un'inglese. E quando io non ci sarò più... Stammi a sentire, tesoro! Lascerò Tara a te e a Cade... - Non vorrei Cade neanche se mi coprissero d'oro! - esclamò Rossella furibonda. - E ti prego di smetterla con questi consigli! Non desidero Tara né altre vecchie piantagioni. Le piantagioni non valgono nulla se... Stava per aggiungere «se non si ha l'uomo che si desidera»; ma Geraldo inasprito dal modo impertinente col quale ella trattava il dono offerto, la cosa che egli amava di più al mondo, dopo Elena, proruppe in una specie di ruggito. - E hai il coraggio, Rossella O'Hara, di dirmi in faccia che Tara... che questa terra... non val nulla? La fanciulla annuí caparbia. Il suo cuore era troppo esulcerato perché ella potesse preoccuparsi di destare o no la collera di suo padre. - La terra è la sola cosa al mondo che valga qualche cosa - urlò Geraldo, e le sue braccia corte e grosse facevano grandi gesti di indignazione - perché è la sola cosa al mondo che rimanga e, non dimenticarlo!, la sola cosa per cui vale la pena di lavorare, di lottare... di morire. - Oh babbo! - ribatté Rossella disgustata - parli come un irlandese! - Mi sono forse mai vergognato di esserlo? No; anzi ne sono orgoglioso. E non dimenticare che tu sei per metà irlandese! E per tutti coloro che hanno nelle vene anche una sola goccia di sangue irlandese, la terra su cui vivono è come una madre. È di te che mi vergogno in questo momento. Ti offro la piú bella terra del mondo - ad eccezione di Country Meath nel mio vecchio paese - e tu che cosa fai? Arricci il naso! Geraldo aveva cominciato ad abbandonarsi a una collera piacevolmente clamorosa, quando qualche cosa nel volto addolorato di Rossella lo fermò. - In fondo, sei giovine. L'amore per la terra ti verrà col tempo. Non potrà essere diversamente, perché sei irlandese. Ora sei una bambina, preoccupata soltanto dei tuoi adoratori. Quando sarai piú vecchia, vedrai... Ora rifletti, cerca di pensare a Cade o ai gemelli o a uno dei ragazzi di Evan Munroe, e vedrai come ti metterò bene a posto! - Oh, babbo! Geraldo era ormai stufo della conversazione e infastidito del problema che veniva a gravare sulle sue spalle. Inoltre si sentiva offeso che Rossella avesse ancora l'aria desolata dopo che le erano stati offerti i migliori giovanotti della Contea e per di piú, Tara. A Geraldo piaceva che i suoi doni fossero accolti con battimani e abbracci. - Ora non facciamo il broncio, madamigella. Non importa sapere chi sposerai, purché sia uno che la pensa come te e sia un bravo e orgoglioso meridionale. Per una donna, l'amore viene dopo il matrimonio. - Oh babbo, queste sono idee del tuo paese! - E sono idee ottime! Guarda un po', questi americani che hanno la smania di fare dei matrimoni d'amore, come i servitori, come gli yankees! I matrimoni migliori avvengono quando i genitori scelgono per la ragazza. Come potrebbe una stupida ragazzina come te distinguere un gentiluomo da un mascalzone? Guarda i Wilkes. Che cosa li ha conservati forti e orgogliosi attraverso tante generazioni? Il fatto di essersi sempre sposati tra di loro; tutti hanno sempre sposato i cugini o le cugine desiderate dalla famiglia. Rossella diede un piccolo grido, sentendo rinnovarsi la sua pena alle parole del padre che confermavano la tremenda inevitabile verità. Geraldo guardò il suo capo chino e si sentí a disagio. - Piangi? - chiese; e cercò di sollevarle il mento mentre sul suo volto si dipingeva una grande pietà. - No! - gridò la fanciulla con ira, volgendo altrove la testa. - Dici una bugia, ma ne sono fiero. Sono contento che tu sia orgogliosa; e voglio che questo orgoglio tu lo dimostri domani. Non mi piace che tutta la Contea spettegoli e rida di te, perché hai dato il cuore a un uomo che non ha mai avuto per te un pensiero che non fosse di semplice amicizia. «Lo ha avuto il pensiero» disse fra sé Rossella dolorosamente. «Oh, ne ha avuti tanti! Lo so. Ne sono certa. Se avessi avuto ancora un po' di tempo, so che lo avrei condotto a dirmi... Oh, se non fosse che i Wilkes debbono sempre sposarsi fra cugini!» Geraldo le prese il braccio e lo passò sotto al suo. - Ora andiamo a cena; e tutto questo rimane fra noi. È inutile preoccupare tua madre. Soffiati il naso, bambina. Rossella si soffiò il naso nel fazzoletto lacerato; quindi si avviarono a braccetto per il viale, col cavallo che li seguiva lentamente. In prossimità della casa la giovinetta stava per ricominciare a parlare, ma vide sua madre nella semioscurità del porticato. Aveva la cuffia, lo scialle e dietro a lei era Mammy col volto annuvolato, tenendo fra le mani la borsa di cuoio nero in cui Elena O'Hara portava sempre le bende e i medicinali che adoperava per curare gli schiavi. Le labbra di Mammy erano grosse e pendule; e quando essa era indignata, quello inferiore poteva raggiungere il doppio della sua lunghezza normale. In questo momento era lunghissimo, e Rossella comprese che Mammy stava rimuginando qualche cosa che non approvava. - Mister O'Hara - gridò Elena quando li vide avvicinarsi lungo il viale. Elena apparteneva a una generazione che rimaneva cerimoniosa anche dopo diciassette anni di matrimonio e la nascita di sei figli. - Mr. O'Hara, c'è bisogno di me dagli Slattery. Emma ha avuto un bambino, ma è moribondo e bisogna battezzarlo. Vado con Mammy a vedere che cosa posso fare. La sua voce aveva un tono interrogativo, come se ella attendesse l'approvazione di suo marito; una semplice formalità ma che a Geraldo faceva piacere. - Santo Dio! - proruppe Geraldo - perché quegli straccioni della palude vengono a chiamarti proprio a ora di cena e mentre io desidero raccontarti quello che si dice della guerra ad Atlanta! Vai, signora O'Hara. Non dormiresti tranquilla stanotte sapendo che fuori c'è qualcuno che ha delle angustie e tu non sei ad aiutarlo. - Non riposare mai tranquilla, perché dovere tante volte alzarsi per curare negri e bianchi poveri che non possono curarsi da soli - borbottò Mammy con voce monotona mentre scendeva i gradini e andava verso la carrozza che aspettava nel viale laterale. - Prendi il mio posto a tavola, cara - disse Elena accarezzando dolcemente il volto di Rossella con la mano coperta dal mezzo guanto. Benché sentisse alla gola il nodo delle lagrime, la fanciulla rabbrividí al tocco magico della mano materna, e al debole profumo di verbena che emanava la sua veste di seta. Per lei vi era in Elena O'Hara qualche cosa che toglieva il respiro; un miracolo che viveva in casa con lei e le ispirava rispetto, la affascinava, la blandiva. Geraldo accompagnò sua moglie fino alla carrozza e diede ordine al cocchiere di fare attenzione. Tobia, che aveva cura da vent'anni dei cavalli di Geraldo, sporse le labbra con muta indignazione nel sentirsi dire come doveva guidare. Mentre si allontanava, con Mammy seduta accanto a lui, entrambi erano la perfetta personificazione del broncio africano pieno di biasimo. - Se io non facessi tanto per quegli straccioni bianchi degli Slattery ed essi dovessero pagare qualcuno per tante cose - si adirò Geraldo - sarebbero costretti a vendermi quei miserabili pochi jugeri di fondo di palude e la Contea sarebbe sbarazzata di loro. - Poi, rallegrandosi in anticipazione di una delle sue solite burle: - Vieni, figliuola; andiamo a dire a Pork che invece di comprare Dilcey ho venduto lui a John Wilkes. Gettò le redini del suo cavallo a un negretto che era lí accanto e si avviò su per i gradini. Aveva quasi dimenticato il crepacuore di Rossella, e pensava solo a burlarsi del suo domestico. Rossella salí lentamente gli scalini dietro a lui, coi piedi pesanti. Pensava che, dopo tutto, un'unione fra lei e Ashley non sarebbe stata piú strana di quella di suo padre con Elena Robillard O'Hara. Come sempre, si chiese come mai sua padre, cosí rumoroso e cosí poco sensibile, avesse potuto sposare una donna come sua madre; poiché mai vi erano state due persone piú lontane come nascita, come educazione, come abitudini mentali.

Pagina 30

Piuttosto, se qualcuno ritorna prima che io abbia finito, trattienilo in casa e digli che il cavallo è venuto qui non si sa da dove. Melania rimase rannicchiata contro la parete e si coperse le orecchie per non udire la serie di colpi prodotti dalla testa del morto che batteva contro i gradini. Nessuno domandò da dove era venuto il cavallo; era ovvio che fosse un superstite della recente battaglia e tutti furono troppo contenti di averlo. Nessuno spettro si levò dalla tomba scavata da Rossella per spaventarla durante le lunghe notti in cui la stanchezza le impediva di dormire. Nessun sentimento di orrore o di rimorso l'assaliva; e ciò la stupiva perché ella sapeva che fino a un mese prima sarebbe stata incapace di quel gesto. La graziosa e giovane signora Hamilton, con le sue fossette e i suoi pendenti sempre in moto, che riduceva in poltiglia il viso di un uomo e poi lo seppelliva in una fossa scavata frettolosamente! Rossella sogghignò pensando alla costernazione che una simile idea avrebbe dato a coloro che la conoscevano. - Non voglio piú ricordarmene - decise. - Oramai la cosa è fatta e sarei stata molto stupida se non l'avessi ammazzato. Ma credo di essere cambiata parecchio da quando sono tornata a casa, altrimenti non avrei potuto. Era effettivamente cambiata piú di quanto non immaginasse, e la corazza che aveva cominciato a formarsi attorno al suo cuore quel giorno in cui ella giaceva nell'orto degli schiavi alle Dodici Querce, si andava a poco a poco indurendo. Ora che aveva un cavallo, Rossella poteva pensare a informarsi di quel che fosse accaduto ai vicini. Da quando era arrivata a casa si era chiesta disperatamente mille volte: «Ma siamo proprio i soli rimasti nella Contea? Tutto è stato incendiato, tutti si sono rifugiati a Macon?» Con la memoria fresca della rovina delle Dodici Querce e delle abitazioni dei MacIntosh e degli Slattery, aveva paura, quasi, di apprendere la verità. Ma era meglio sapere il peggio che ignorarlo. Decise quindi recarsi prima alla casa dei Fontaine, non perché fossero i piú vicini, ma perché poteva esservi il vecchio dottor Fontaine; e Melania aveva bisogno di un medico. Non si andava rimettendo come avrebbe dovuto e Rossella era spaventata del suo pallore e della sua debolezza. Non appena il suo piede le permise d'infilare una scarpina, ella montò quindi il cavallo dello yankee. Con un piede in una staffa accorciata e l'altra gamba di traverso sul pomo della sella, ella si avviò attraverso i campi, verso Mimosa. Con sua sorpresa e piacere vide che la casa giallo-pallido era ancora ritta fra gli alberi di mimosa. Una felicità che le fece quasi venire le lagrime la invase quando vide uscire dalla casa le tre signore Fontaine che le diedero il benvenuto con baci ed esclamazioni di gioia. Ma quando i primi saluti affettuosi furono scambiati, e tutte si riunirono nella sala da pranzo, Rossella ebbe un brivido. Gli yankees non erano arrivati a Mimosa, perché questa era lontana dalla strada principale; perciò i Fontaine avevano ancora la loro casa e le loro provviste. Ma a Mimosa regnava lo stesso strano silenzio che opprimeva Tara e tutta la regione. Tutti gli schiavi, ad eccezione di quattro serve, erano fuggiti, spaventati dall'avvicinarsi degli yankees. Non un uomo in casa a meno che non si volesse calcolare come tale il bambino di Sally, il piccolo Joe appena fuori dalle fasce. Nella grande casa erano sole la nonna Fontaine, ormai settantenne, sua nuora che era sempre stata chiamata la signora giovane, benché avesse compiuto i cinquant'anni, e Sally che ne aveva appena compiuto venti. Quantunque isolate e prive di qualsiasi protezione, non mostravano terrore; probabilmente, - pensò Rossella - perché Sally e la signora giovane troppo temevano l'indomabile nonna che aveva sempre avuto occhi e lingua ugualmente acuti, per osare lamentarsi. Fra le tre donne non esisteva parentela di sangue, ed esse erano di età assai diversa; ma pure erano unite da un legame di spirito e di esperienza. Tutte portavano abiti neri tinti in casa, tutte erano tristi, preoccupate e amareggiate; ma questi sentimenti non trapelavano dai loro sorrisi e dalle loro parole. I loro schiavi erano fuggiti, il loro denaro non valeva nulla, il marito di Sally era morto a Gettysburg e anche la signora giovane era vedova, essendo il giovane dottor Fontaine morto di dissenteria a Vicksburg. Gli altri due ragazzi, Alex e Toni, erano nella Virginia; e nessuno sapeva se erano vivi o morti; il vecchio dottor Fontaine era rimasto con la cavalleria di Wheeler. - E quel vecchio pazzo, a settantatré anni cerca di fare il giovinotto benché sia pieno di reumatismi - disse la nonna, fiera di suo marito, con gli occhi che smentivano le parole aspre. - Sapete nulla di ciò che sta succedendo ad Atlanta? - chiese Rossella dopo che si furono messi a sedere. - Noi a Tara siamo completamente privi di ogni notizia. - Qui siamo nella stessa condizione, figliola - rispose la vecchia. - Sappiamo soltanto che Sherman si è finalmente impadronito della città. - Ed ora che sta facendo? Dove sta combattendo? - Come vuoi che tre povere donne isolate in campagna sappiano qualche cosa della guerra, quando da settimane non abbiamo visto né una lettera né un giornale? - replicò la vecchia aspramente. - Uno dei nostri negri ha parlato con un altro che ne aveva visto un terzo che era stato a Jonesboro. Hanno detto che gli yankees si erano acquartierati ad Atlanta per far riposare uomini e cavalli; ma non so se sia vero. - Pensare che eravate a Tara e non lo sapevamo! - esclamò la signora giovane. - Come mi rimprovero di non essere mai venuta a vedere! Ma qui c'è tanto da fare dopo che i negri sono andati via, che non mi sono mai potuta muovere. Avrei pur dovuto trovare il tempo; era un dovere. In verità credevamo che gli yankees avessero bruciato Tara, come hanno fatto per le Dodici Querce e per la casa di MacIntosh, e che i vostri si fossero rifugiati a Macon. Non immaginavamo mai che voi, Rossella, foste tornata. - E come potevamo pensare diversamente, se i negri del signor O'Hara, quando passarono di qui, erano tutti spaventati e ci dissero che gli yankees stavano per incendiare Tara? Una sera, poi, vedemmo i riflessi del fuoco da quella parte, e durarono per delle ore; e i nostri stupidi schiavi si spaventarono tanto che fuggirono. Che cosa fu bruciato? - Tutto il nostro cotone: un valore di centocinquantamila dollari - rispose Rossella amaramente. - Ringrazia Dio che non abbiano bruciato la tua casa - replicò la nonna, appoggiando il mento al suo bastone. - Il cotone si può coltivare ancora, mentre la casa non si ricostruisce. A proposito, avete cominciato a raccogliere il cotone, voialtri? - No, - rispose Rossella; - ma è quasi tutto rovinato. Non credo che ve ne sia piú di tre balle. E poi, tutti i nostri negri-contadini se ne sono andati e non c'è nessuno per raccoglierlo. - Dio mio, tutti i contadini andati via e nessuno per raccoglierlo! - scimmiottò la nonna, lanciando a Rossella uno sguardo satirico. - E le tue belle manine, e quelle delle tue sorelle? - Io raccogliere il cotone? - esclamò Rossella inorridita, come se la nonna avesse suggerito un delitto. - Come una contadina? Come una stracciona? Come le donne di Slattery? - Straccioni! Dio mio, com'è delicata e signorile questa generazione! Ti dirò che quando io ero una bambina, mio padre perse tutto il suo patrimonio, e io non ebbi paura di lavorare con le mie mani, anche nei campi, finché papà non mise assieme abbastanza denaro per comprare degli altri schiavi. Ho zappato la terra, ed ho raccolto il cotone, e se sarà necessario, lo farò ancora. - Ma allora - esclamò la nuora lanciando sguardi imploranti alle due ragazze perché la aiutassero a lisciare le penne rabbuffate della vecchia, - erano altri tempi, e adesso tutto è cambiato! - I tempi non cambiano mai quando c'è bisogno di lavorare - affermò la vecchia senza lasciarsi addolcire. - Ed io mi vergogno per te, Rossella, di sentirti parlare come se il lavoro onesto fosse una cosa indegna. Per cambiare argomento Rossella si affrettò a chiedere: - E che notizie dei Tarleton e dei Calvert? Si sono rifugiati a Macon? Hanno avuto la casa incendiata? - Gli yankees non sono arrivati a casa Tarleton, perché come la nostra, è lontana dalla strada maestra; ma sono andati dai Calvert e hanno rubato tutte le provviste e il pollame, e hanno fatto fuggire tutti i negri. Era Sally che aveva cominciato a parlare, ma la nonna l'interruppe. - Sicuro! Promisero a tutte le negre abiti di seta e orecchini d'oro! E Catina Calvert ha raccontato che alcuni soldati son partiti portando in groppa delle stupide negre. I risultati saranno dei bambini gialli, e non credo che il sangue yankee migliorerà. - Oh, mamma! - Non fare quella faccia scandalizzata, Giovanna. Siamo tutte maritate, no? E Dio sa che abbiamo visto dei bambini mulatti anche prima di ora! - Come mai non hanno bruciato la casa dei Calvert? - La casa è stata salvata per gli sforzi combinati della seconda signora Calvert e di quel suo sorvegliante yankee, Hilton - rispose la vecchia signora, la quale parlava sempre della ex- governante come della o seconda signora Calvert» benché la prima fosse oramai morta da venti anni. «Noi siamo simpatizzanti con l'Unione» - continuò con voce nasale e strascicata rifacendo l'accento yankee. Ed affermò che tutti i Calvert erano yankees. Pensare che il signor Calvert è morto nel Wilderness! E Raiford a Gettysburg e Cade è nella Virginia, con l'esercito! Catina era cosí mortificata che avrebbe preferito che la casa fosse incendiata! Disse che Cade diventerebbe idrofobo il giorno in cui, tornando a casa, venisse a saperlo. Ma questo è ciò che accade quando un uomo sposa una yankee: né orgoglio né dignità; non pensano che alla loro pelle... Ma come mai non hanno incendiato Tara, Rossella? Per un attimo Rossella tacque. Sapeva che la domanda seguente sarebbe: «E come state tutti? Come sta la cara mamma?» E non poteva, no, non poteva dire che Elena era morta. Sapeva che se avesse pronunciato quella parola dinanzi a quelle donne simpatiche sarebbe scoppiata in lagrime; e non doveva piangere. Non aveva pianto da quando era arrivata a casa; ed era certa che se aprisse la via alle lagrime, tutto il suo coraggio svanirebbe. Ma capiva anche che se taceva, le Fontaine non le perdonerebbero mai di aver loro nascosto quella notizia. - Suvvia, parla - proseguí con asprezza la vecchia. - Non lo sai? - Ecco: io sono arrivata a casa l'indomani della battaglia - rispose in fretta - e gli yankees erano andati via. Il babbo mi disse che... non avevano bruciato la casa perché Súsele e Carolene stavano tanto male che non si poteva trasportarle altrove. - È, la prima volta che sento dire che uno yankee si è comportato come si deve. - La vecchia signora sembrava si rammaricasse di dovere riconoscere un sentimento umano negli invasori. - E ora come stanno le ragazze? - Molto meglio; ma sono debolissime. - Poi, vedendo la domanda sulle labbra della vecchia signora, si affrettò a cambiare conversazione. - Volevo appunto... volevo chiedervi se potete prestarci qualche cosa da mangiare. Gli yankees hanno distrutto tutto, come uno stormo di cavallette. Ma se siete poco provviste, ditemelo francamente e... - Manda Pork con un carretto e ti daremo la metà di quello che abbiamo: riso, farina, prosciutto, qualche pollo. - No, questo è troppo! Io... - Non una parola! Non voglio sentirla. Altrimenti, perché si sarebbe vicini? - Siete cosí buona che non so... Ma ora debbo andare. A casa saranno preoccupati di non vedermi ancora tornare. La nonna si alzò bruscamente e prese Rossella per un braccio. - Voi due rimanete qui - disse alle altre. - Debbo dire una parola a Rossella. Aiutami a scendere gli scalini, Rossella. La signora giovane e Sally salutarono Rossella, promettendo di andare presto a trovarla. Erano divorate dalla curiosità di sapere di che cosa dovesse parlare la nonna; ma sapevano che questa non lo avrebbe mai detto. Con la mano sulla briglia del cavallo, Rossella attendeva, col cuore angosciato. - Ora dimmi: - cominciò la vecchia - che cosa c'è che non va bene a Tara? Che cosa ci nascondi? Rossella fissò gli occhi acuti che la guardavano e comprese che potrebbe parlare senza piangere. Nessuno piangeva dinanzi alla nonna Fontaine, a meno che non ne avesse il permesso da lei. La mamma è morta - disse piano. La mano appoggiata al suo braccio si strinse e le palpebre grinzose ebbero un battito. - L'hanno uccisa gli yankees? - È morta di tifo. Il giorno prima del mio arrivo. - Non ci pensare. - La voce era severa; e Rossella vide che la nonna inghiottiva con sforzo. - E tuo padre? - Il babbo è... il babbo non è piú lo stesso. - Che vuoi dire? È ammalato? - Il colpo... è cosí stranito... non è... - Non dirmi che non è piú in sé. Il colpo gli ha toccato il cervello? Fu un sollievo per lei udire enunciare cosí schiettamente la verità. Com'era buona la vecchia a non dirle parole di simpatia che l'avrebbero fatta piangere! - Sí - rispose con tristezza - ha perduto il senno. Sembra come addormentato e a volte non si ricorda che la mamma è morta. Rimane delle ore ad aspettarla pazientemente, lui che era cosí impaziente! Ma è peggio quando si ricorda... Improvvisamente balza in piedi e corre fuori di casa, fino al nostro cimitero. Ritorna trascinandosi, con gli occhi pieni di lagrime e dice: «Caterina Rossella, la mamma è morta. La mamma è morta». E lo ripete all'infinito, tanto che mi par di impazzire. Di notte, qualche volta, sento che la chiama; allora scendo dal letto e vado a dirgli che è andata a trovare uno schiavo ammalato. E lui brontola perché dice che si strapazza sempre per curare gli altri. È difficile farlo tornare a letto: è come un bambino. Come vorrei che il dottor Fontaine fosse qui! So che farebbe qualche cosa per il babbo. E anche Melania ha bisogno del medico. Non si è rimessa come dovrebbe dopo il parto e... - Melly... un bambino? Ed è con te? - Sí. - E perché non è a Macon con sua zia e i suoi parenti? Non mi pareva che tu avessi gran simpatia per lei, benché fosse sorella di Carlo. Andiamo, via, raccontami. - È un po' lungo, nonna Fontaine. Non volete rientrare in casa e mettervi a sedere? - Posso stare in piedi - fu la breve risposta. - E se racconti la storia dinanzi alle altre, si mettono a piangere e ti fanno commuovere e dopo ti senti male. Avanti, racconta. Rossella cominciò semplicemente a narrare l'assedio e lo stato di Melania; e mentre andava avanti, trovava negli occhi che la fissavano le parole di sgomento e di orrore che da principio le erano mancate. Tutto le tornò in mente: il calore estenuante della giornata in cui era nato il bimbo, il terrore, la fuga, l'abbandono di Rhett. Parlò dell'oscurità della notte, dei fuochi che potevano essere di amici o di nemici, degli uomini e dei cavalli morti che aveva incontrato lungo la strada, delle rovine fumiganti, della fame, della desolazione, della paura che anche Tara fosse bruciata. - Credevo che arrivando a casa avrei deposto il tremendo fardello. Credevo che mi fosse già accaduto quanto di peggio poteva accadere; ma quando seppi che era morta, compresi che cosa era veramente il peggio. Abbassò gli occhi e attese che la nonna dicesse una parola. Il silenzio era cosí prolungato che temette di non essere stata compresa. Finalmente udí la voce; parlava con un tono di bontà assolutamente nuovo. - Figliuola, è male per una donna trovarsi di fronte al peggio che le può accadere, perché dopo di questo non ha piú paura di nulla. Ed è male, per una donna, non aver paura di nulla. Credi che non capisca tutto quello attraverso cui sei passata? Ho capito benissimo. Avevo circa la tua età quando avvenne la rivolta degli indiani, dopo il massacro del Forte Mims... - la sua voce era stranamente lontana - e riuscii a nascondermi fra i boschi e vidi la nostra casa incendiata e i miei fratelli e sorelle scotennati dagli indiani. E io non potevo fare altro che supplicare il Cielo perché la luce delle fiamme non rivelasse il mio nascondiglio. Trascinarono fuori mia madre e la uccisero a pochi metri dal luogo dove io ero sdraiata nel sottobosco. E anche a lei tolsero il cuoio capelluto; e ogni indiano le ficcava il suo tomahawk nel cranio. Io ero la beniamina della mamma... e vidi tutto questo. La mattina mi avviai all'accampamento piú vicino, che era a circa trenta miglia. Mi ci vollero tre giorni, attraverso le paludi e gli indiani; i nostri, quando li trovai, mi credettero pazza... Là conobbi il dottor Fontaine, che si occupò di me. Sono passati cinquant'anni; e da allora non ho mai piú avuto paura di nulla, perché sapevo che nulla di peggio potrebbe ormai accadermi. Dio vuole che le donne siano creature timide; in una donna che non ha paura è qualche cosa di innaturale... Rossella, cerca che ti rimanga sempre qualche cosa di cui temere... e cerca che ti rimanga qualche cosa da amare... Tacque e rimase con gli occhi fissi, come se rivedesse il giorno in cui aveva avuto paura, mezzo secolo prima. Rossella si mosse impaziente. Aveva creduto che la nonna l'avrebbe compresa e forse l'avrebbe aiutata a risolvere i suoi problemi. Ma, come tutti i vecchi, si era messa a parlare di cose avvenute tanto e tanto tempo prima; cose che non interessavano nessuno. Si pentí di essersi confidata a lei. - Ora vai, bambina; altrimenti a casa staranno in pensiero - riprese a un tratto la vecchia signora. - Manda Pork col carretto oggi nel pomeriggio... E non credere di poter deporre il tuo fardello, perché non lo puoi. Lo so.

Pagina 446

Pagina 52

E mi pare che quel povero diavolo ora non abbia piú né amore né onore per tenergli caldo! - Ha l'amore!... Perché mi ama! - Davvero? Allora rispondete a questo e poi basta; vi darò il denaro e potrete anche buttarlo dalla finestra, che non me ne importa nulla. Si levò in piedi e gettò il suo sigaro fumato per metà nella sputacchiera. Vi era nei suoi movimenti quella stessa elasticità e pieghevolezza che Rossella aveva notato nella notte della caduta di Atlanta; qualche cosa di sinistro e un po' allarmante. - Se vi amava, perché diamine vi ha permesso di venire ad Atlanta a procurarvi i quattrini per le tasse? Prima di lasciar fare una cosa simile a una donna che amo, io... - Non lo sapeva! Non aveva l'idea che... - Non vi è venuto in mente che avrebbe dovuto saperlo? Nella sua voce era una violenza appena repressa. - Amandovi come dite che vi ama, avrebbe dovuto sapere quello che volevate fare quando vi ha vista cosí disperata. Avrebbe dovuto uccidervi piuttosto che lasciarvi venire qui... soprattutto, venire da me! Dio onnipotente! - Ma non lo sapeva! - Se non lo ha indovinato senza che glielo diceste, non capirà mai nulla di voi e della vostra preziosa intelligenza. Che ingiustizia! Come se Ashley fosse un lettore del pensiero! Come se Ashley, anche sapendo, avesse potuto fermarla! Eppure, improvvisamente pensò che Ashley avrebbe potuto fermarla. Bastava che quel giorno, nel frutteto, le avesse vagamente accennato che forse le cose potevano mutare, ed ella non avrebbe mai pensato a recarsi da Rhett. Una parola di tenerezza, anche una carezza di saluto, al momento della partenza del treno, l'avrebbe trattenuta. Invece, egli aveva parlato soltanto di onore. Ma... come poteva Ashley indovinare i suoi pensieri? Respinse quest'idea sleale. Ashley non poteva avere il menomo sospetto che ella volesse compiere una cosa immorale. Rhett stava tentando di sciupare il suo amore, di distruggere tutto ciò che ella aveva di piú prezioso. Ecco tutto. Ma un giorno - pensò dispettosamente - quando la bottega sarà lanciata e lo stabilimento funzionerà ed io avrò del denaro, farò ripagare a Rhett Butler tutte le ingiurie e le umiliazioni che mi infligge oggi! Butler era ritto dinanzi a lei e la guardava, un po' divertito. L'emozione che lo aveva agitato era scomparsa. - Che v'importa, in fin dei conti? È cosa che riguarda me e Ashley, non voi. Egli si strinse nelle spalle. - Soltanto questo. Ho una profonda e obiettiva ammirazione per il vostro spirito di sopportazione, Rossella, e mi dispiace vedervi oppressa da troppi pesi. Tara è già per se stessa un'occupazione sufficiente per un uomo normale. Poi c'è vostro padre ammalato, che non potrà mai aiutarvi in nulla. E poi vi sono le ragazze e i negri. E ora avete per di piú un marito e probabilmente avrete anche miss Pittypat... Avete abbastanza pesi sulle spalle senza aggiungervi anche Ashley Wilkes e la sua famiglia. - Non mi è di peso. Lavora... - Per l'amor di Dio - la interruppe impaziente - non ne parliamo. È un peso che graverà addosso a voi o ad altri finché vivrà. Del resto, sono stufo di lui come argomento di conversazione... Di che somma avete bisogno? Parole ingiuriose le salirono alle labbra. Ma le ringhiottí. Che bellezza poterlo mettere alla porta infischiandosi della sua offerta! Ma non poteva permettersi questo lusso; finché era povera era costretta a sopportare scene simili. Ma quando fosse ricca... oh, che pensiero confortante! Quando fosse ricca, non sarebbe neanche gentile con chi non le era simpatico. Li manderebbe tutti all'inferno, e Rhett Butler per primo! - Siete deliziosa, Rossella, specialmente quando pensate delle cattiverie. E per vedere quella fossetta sulla vostra guancia sono pronto a comprarvi, se ne avete bisogno, una dozzina di muli. La porta della bottega si aperse per lasciare entrare il commesso con una pagliuzza fra i denti. Rossella si alzò, si strinse nello scialle e annodò meglio i nastri del cappello sotto al mento. Aveva deciso. - Avete da fare oggi? - chiese. - Potete venire con me? - Dove? - Voglio condurvi alla segheria. Ho promesso a Franco di non andare sola fuori città. - Alla segheria con questa pioggia? - Sí; voglio fare il contratto subito, prima che cambiate idea. Egli rise cosí forte che il ragazzo dietro al banco alzò il capo e lo guardò con curiosità. - Non vi ricordate che siete sposata? La signora Kennedy non può andare in campagna con quel reprobo di Butler che non è ricevuto nei migliori salotti. Non pensate alla vostra reputazione? - Me ne infischio, della reputazione! Voglio comprare la segheria prima che cambiate idea o che Franco venga a sapere che sto trattando l'acquisto. Non fate delle difficoltà, Rhett! Che cos'è un po' di pioggia? Andiamo, sbrighiamoci.

Pagina 615

Io l'ho sempre ammirato e ho cercato di imitarlo piú di quanto non abbia cercato di imitare mio padre, il quale e un amabile gentiluomo, pieno di buone abitudini e di massime religiose. Cosí vanno le cose. Sono sicuro che i vostri figli non vi approveranno, Rossella, come non vi approvano le signore Merriwether ed Elsing e le loro famiglie. I vostri figli saranno probabilmente creature dolci e remissive. E per giunta voi siete probabilmente decisa, come tutte le mamme, a fare in modo che essi non conoscano le privazioni e gli stenti che voi avete dovuto sopportare. E avete torto. Le privazioni temprano le persone o le spezzano. Dovrete quindi attendere l'approvazione dei vostri nipotini. - Chi sa come saranno i nostri nipoti! - Dicendo i "nostri" vorreste intendere che voi ed io avremo dei nipoti in comune? Andiamo, via, signora Kennedy! Rossella, accorgendosi del suo errore di linguaggio, arrossí. Non furono soltanto le sue parole scherzose a darle un senso di vergogna, ma l'improvviso ricordo del suo corpo deformato. Nessuno di loro aveva mai alluso al suo stato interessante, ed ella portava sempre, quando era con lui, la cintura dell'abito quasi sotto alle ascelle, illudendosi, come tutte le donne, che in tal modo non si vedesse la deformazione della sua figura; ma in quel momento si sentí improvvisamente irritata della sua condizione e vergognosa che egli la conoscesse. - Scendete subito da questo carrozzino, rettile osceno che siete! - e la sua voce tremava. - Neanche per sogno - rispose egli calmo. - Sarà buio prima che giungiate a casa; e da queste parti vi è una nuova colonia di negri che abita in un accampamento; mi hanno detto che sono dei negri molto abbietti, e non vedo perché dovreste dar motivo all'impulsivo Ku Klux di mettersi le camicie da notte e uscire stasera. - Scendete! - E una nausea improvvisa l'assalse. Egli fermò subito il cavallo, le passò due fazzoletti puliti e le sorresse la testa con una certa abilità facendola affacciare sulla fiancata del calessino. Il sole pomeridiano coi suoi raggi obliqui attraverso il fogliame novello, le diede per qualche istante l'impressione di uno stomachevole vortice d'oro e di verde. Dopo l'accesso, ella si nascose il volto fra le mani e pianse di mortificazione. Non solo aveva rigettato dinanzi a un uomo - la cosa piú orribile che potesse accadere a una donna! - ma l'incidente affermava in modo inequivocabile il fatto umiliante della sua gravidanza. E questo le era accaduto proprio con lui, proprio con Rhett che non rispettava le donne! Ah, non potrebbe mai piú guardarlo in viso! - Non siate sciocca - le disse egli con calma. - Se piangete di vergogna siete una sciocca. Avanti, non fate la bambina. Certo non potevate supporre che, a meno di essere cieco, io ignorassi che eravate incinta. - Oh! - esclamò con voce soffocata e le sue dita si strinsero convulsamente sul viso di porpora. La parola la faceva inorridire. Franco, ogni volta che doveva parlare della sua gravidanza, le diceva con imbarazzo "le tue condizioni". Geraldo, quando si trattava di queste cose, soleva sempre accennare delicatamente che la tal signora "aspettava un bimbo"; e le signore generalmente dicevano che una donna era "in istato interessante". - Siete una bambina se immaginate che io non me ne sia accorto, malgrado questa vostra veste cosí pesante. Sicuro che sapevo. Altrimenti, perché credete che sarei stato... Si interruppe improvvisamente; e un silenzio fu tra loro. Egli raccolse le redini e percosse il cavallo. Continuò poi a parlare tranquillamente; e mentre ella ascoltava con piacere la sua cantilena, l'eccesso di colore svaní a poco a poco dalle sue guance ardenti. - Non credevo che la prendeste in questo modo, Rossella. Vi immaginavo piú ragionevole, e sono deluso. Possibile che nel vostro seno alberghi ancora la verecondia? Forse non è da gentiluomo aver parlato chiaramente. Ma non sono affatto un gentiluomo, e le donne incinte non mi imbarazzano per nulla. Le tratto come creature normali, senza sentirmi punto obbligato a guardare il cielo o la terra pur di non posare gli occhi sulla loro cintura; e fissarla poi furtivamente con certe occhiate che mi sembrano il colmo dell'indecenza. È una condizione normalissima. Gli europei, piú ragionevoli, fanno dei complimenti alle madri che sono in attesa. Senza arrivare a questo punto, lo trovo però piú giusto della nostra finta ignoranza. E le donne dovrebbero esserne orgogliose invece di nascondersi come se commettessero un delitto. - Orgogliose! - e la voce di Rossella era strozzata. - Che orrore! - Non siete fiera di avere un bambino? - Dio mio, no! Non mi piacciono i bambini! - Volete dire... il bambino di Franco? - No... di chiunque! Per un attimo si sentí nuovamente a disagio, accorgendosi di quest'altro errore di espressione; ma Rhett continuò con voce calma, come se non lo avesse notato: - In questo siamo diversi. Io amo i bambini. - Li amate? - E fu cosí stupita di questa dichiarazione che dimenticò il proprio imbarazzo. - Che bugiardo! - Amo i bambini e i ragazzi finché non cominciano a crescere e ad acquistare il modo di pensare degli adulti e la loro abilità di mentire e di essere furfanti e mascalzoni. Del resto questa non è una novità per voi. Sapete che voglio molto bene a Wade Hamilton, benché non sia il ragazzo che dovrebbe essere. Era vero, ricordò Rossella. Gli piaceva giocare con Wade e spesso gli portava dei regali. - E giacché siamo venuti a parlare di questo terribile argomento, e voi ammettete che fra non molto avrete un bambino, vi dirò qualche cosa che desidero dirvi da un pezzo: anzi, due cose. Prima di tutto, che è pericoloso per voi andare sola in carrozza. Lo sapete, perché vi è stato detto abbastanza spesso. Se personalmente può non importarvi di essere rapita o violentata, dovete considerare le conseguenze. A causa della vostra ostinazione potete trovarvi in una situazione per la quale i vostri coraggiosi concittadini potranno essere costretti a vendicarvi facendo la pelle ad alcuni negri; e questo scatenerà gli yankees contro di loro e probabilmente ne condurrà qualcuno al capestro. Vi è mai venuto in mente che forse una delle ragioni per cui le signore non vi amano è che la vostra condotta può condurre alla forca i loro mariti e figli? Inoltre, se il Ku Klux fa la pelle ad altri negri, gli yankees diventeranno talmente spietati che la condotta di Sherman sembrerà angelica a confronto. So quello che dico, perché sono in grande intimità con gli yankees. Mi trattano come uno di loro, - mi vergogno di dirlo - parlano senza riguardo. Vogliono distruggere il Ku Klux anche se dovessero incendiare di nuovo tutta la città e impiccare tutti i maschi al di sopra dei dieci anni. Sarebbe un danno anche per voi, Rossella. Perdereste del denaro. E non si può dire a che punto può fermarsi l'incendio di una prateria, una volta iniziato. Confisca di proprietà, aumenti di tasse, multe a persone sospette... Li ho uditi proporre di tutto. Il Ku Klux... - Ne conoscete nessuno del Ku Klux? Sapete se Tommy Wellburn o Ugo... Egli si strinse nelle spalle con impazienza. - Come volete che li conosca? Io sono un rinnegato e un affarista. Ma so di alcuni che sono sospettati; basta un falso movimento da parte loro per poterli considerare come impiccati. Mentre so che non avreste alcun rimpianto se mandaste al capestro i vostri amici, sono certo che vi dispiacerebbe perdere i vostri stabilimenti. Vedo dall'espressione caparbia del vostro viso che non mi credete e che le mie parole cadono nel vuoto. Perciò vi dico soltanto: tenete a portata di mano la pistola; e quando io sono in città farò il possibile per potervi sempre accompagnare. - Rhett, ma è proprio per proteggermi che... - Sí, mia cara. È il mio sentimento cavalleresco che m'induce a proteggervi. - La fiammella beffarda ricominciò a danzare nei suoi occhi neri. Ogni barlume di serietà scomparve dal suo volto. - E perché? Per il profondo amore che ho per voi, signora Kennedy. Sí; silenziosamente ho avuto fame e sete di voi, e vi ho adorata da lontano; ma siccome sono un uomo onesto come il signor Ashley Wilkes, ve l'ho celato. Voi siete, ahimè, moglie di Franco, e l'onore mi vieta di rivelarvi il mio sentimento. Ma come anche l'onore del signor Wilkes qualche volta si screpola, cosí anche il mio oggi si è incrinato ed io rivelo la mia segreta passione che... - Per carità, smettetela! - interruppe Rossella, annoiata come sempre quand'egli le faceva dei discorsi di questo genere, e desiderosa di mutare argomento, ma evitando quello di Ashley. - Che cos'era l'altra cosa che volevate dirmi? - Come? Cambiate discorso mentre io vi sto offrendo un cuore amante ma esulcerato? Beh, l'altra cosa è questa. - La luce beffarda si spense di nuovo e il suo volto si oscurò. - Voglio che facciate qualche cosa per questo cavallo. È caparbio e ha una bocca dura come il ferro. Credo che guidarlo vi stanchi parecchio, no? Sono sicuro che se prende la mano, vi sarà impossibile fermarlo. E se vi trascina in un fosso, questo può significare la morte per il vostro bambino e per voi. Dovreste mettergli un morso molto piú pesante e permettermi di cambiarlo con un cavallo piú docile e con la bocca piú sensibile. Ella guardò il suo viso distratto e si sentí disarmata di fronte alla bontà e alla premura di lui. Provò un impeto di gratitudine e si chiese perché egli non era sempre cosí gentile. - Infatti, è un cavallo difficile da guidare - acconsentí debolmente. - A volte le braccia mi dolgono per tutta la notte. Fate quel che vi sembra meglio, Rhett. - Questo è molto gentile e femminile, signora Kennedy. Non è il vostro solito modo di parlare. Bisogna proprio sapervi trattare per rendervi flessibile come un virgulto. Ella s'impennò immediatamente. - Scendete subito, altrimenti vi picchio con la frusta. Non so perché cerco di essere gentile con voi. Siete malvagio. Privo di morale. Non siete altro che... Insomma andatevene. Egli discese, sciolse il suo cavallo legato dietro al calessino, e rimase fermo in mezzo alla strada nella semi oscurità del crepuscolo, con un sorriso irritante; a sua volta ella non fu capace di nascondere il proprio sorriso mentre si allontanava. Sí, era volgare, malizioso, malfido e non si poteva mai prevedere in che momento la spada smussata con la quale giocherellava si sarebbe tramutata in lama tagliente. Ma era divertente ed eccitante come... sicuro, come un bicchiere d'acquavite! In quegli ultimi mesi Rossella aveva imparato l'uso dell'acquavite. Quando tornava a casa nel tardo pomeriggio, bagnata di pioggia, intirizzita e indolenzita dalle lunghe ore passate nel carrozzino, la sola cosa che le dava forza era il pensiero della bottiglia chiusa nel primo cassetto del suo canterano, nascosta agli sguardi scrutatori di Mammy. Il dottor Meade non aveva pensato ad avvertirla che una donna nelle sue condizioni non doveva bere, perché non gli era mai venuto in mente che una signora per bene bevesse altro che qualche bicchierino di moscato. Eccetto, naturalmente, un bicchiere di champagne in occasione di un matrimonio, o di vino caldo quando era costretta a letto dal raffreddore. Senza dubbio vi erano delle disgraziate che bevevano, nello stesso modo come ve n'erano altre che erano pazze o divorziate; e questa era una sventura per le loro famiglie. Ma ad onta della sua disapprovazione per la condotta di Rossella, il dottore non aveva mai sospettato che ella bevesse. La giovane donna aveva scoperto che un bicchierino di acquavite prima di cena le faceva molto bene; poi faceva un gargarismo con l'acqua di Colonia o masticava qualche chicco di caffè per mascherare l'odore. E quando non riusciva a dormire e si rigirava nel letto tormentata dalla paura della povertà, dalla minaccia degli yankees, dalla nostalgia per Tara e dal desiderio di Ashley, sarebbe impazzita se non avesse avuto l'acquavite che spandeva nelle sue vene un calore benefico. Allora le sue preoccupazioni si attenuavano; dopo tre bicchierini ella poteva sempre dire a se stessa: «Penserò a queste cose domani, quando potrò sopportarle meglio». Ma alcune notti neppure l'acquavite calmava la pena del suo cuore, la pena che era piú forte perfino della paura di perdere gli stabilimenti: la nostalgia per Tara. Ella amava Atlanta, ma... Oh, la dolce pace e la tranquillità di Tara, i campi rossicci e i pini bruni che li circondavano! Tornare a Tara per quanto la vita potesse esser dura! Ed essere accanto ad Ashley, vederlo, udirlo parlare, essere sorretta dalla conoscenza del suo amore! «Andrò a casa in giugno. Qui non posso piú far nulla dopo quell'epoca. Vi andrò per un paio di mesi.» Pensava a questo con sollievo. E vi andò in giugno, ma non come desiderava; vi andò perché nei primi giorni del mese giunse un breve messaggio di Will che annunciava la morte di Geraldo.

Pagina 672

Io ritengo che miss Melly abbia avuto ragione e che le altre avessero torto; ma andare ad estirpare le erbacce alla mia età e con la mia lombaggine! Melania faceva parte del Comitato femminile dell'Orfanotrofio e aiutava a scegliere i libri per l'Associazione Libraria Maschile di recente formazione. Perfino i Tespiani che una volta al mese recitavano una commedia, reclamarono il suo aiuto. Melania era troppo timida per apparire alla ribalta; ma le toccò occuparsi dei costumi, fatti, si capisce, in grandissima economia. Fu lei che diede il voto decisivo nel Circolo di Lettura Shakespeariano perché le opere del poeta fossero alternate con quelle di Dickens e di Bulwer-Lytton piuttosto che coi poemi di Byron com'era stato suggerito da un giovine membro del Circolo che Melania, nel suo intimo, temeva fosse un tipo impertinente e sfacciato. Nelle sere della tarda estate la sua piccola casa debolmente illuminata era sempre piena di ospiti. Non vi erano mai sedie sufficienti e spesso le signore sedevano sui gradini del porticato anteriore, con gli uomini appoggiati alla balaustra o seduti sul prato. A volte Rossella, vedendo gli ospiti che sedevano sull'erba sorseggiando il tè - l'unico rinfresco che i Wilkes potevano permettersi di offrire - si chiedeva come mai Melania potesse esporre la sua povertà cosí, senza vergogna. Ella si guarderebbe bene dal ricevere - specialmente persone di riguardo come quelle che andavano da Melania - finché non potesse arredare nuovamente la casa di zia Pitty com'era prima della guerra e non potesse offrire agli invitati vini scelti e sciroppi, prosciutto e pasticci di cacciagione. Il generale John Gordon, l'eroe della Georgia, si recava spesso in casa Wilkes con la sua famiglia. Padre Ryan, il prete-poeta della Confederazione, non mancava mai di andare a salutare Melania quando si trovava di passaggio per Atlanta e in quelle serate deliziava gli altri invitati recitando loro qualcuno dei suoi poemi. Alew Stephens, l'ex-vice-presidente, era egli pure fra gli assidui; e quando si sapeva della sua presenza preso i Wilkes, la casa si riempiva di gente che rimaneva per ore ed ore sotto l'incanto della voce squillante di quel debole invalido. Di solito vi erano dozzine di bambini col capo ciondoloni per il sonno fra le braccia dei genitori; non vi era famiglia che non desiderasse che i suoi figliuoli potessero piú tardi raccontare di essere stati baciati dall'uomo che aveva tenuto le redini della Grande Causa. E tutti i personaggi eminenti che per una ragione o per l'altra giungevano in città, non mancavano di andare in casa Wilkes dove spesso passavano la notte. In queste occasioni Lydia era costretta a dormire su un materasso nella stanzetta di Beau e Dilcey correva da zia Pitty a farsi prestare le uova per la colazione della mattina seguente; ma Melania intratteneva gli ospiti graziosamente come se fosse stata la dama di un castello. No, Melania non si accorgeva che la gente si riuniva attorno a lei come attorno a una logora e amata bandiera. Quindi fu stupita e imbarazzata una sera quando il dottor Meade, dopo aver passato in casa sua una piacevole serata durante la quale aveva letto il «Macbeth» con delizia dell'uditorio, le aveva baciato la mano dicendole con la stessa voce usata in altri tempi nei discorsi in pro della Causa Gloriosa: - Cara miss Melly, è sempre un privilegio e un piacere venire in casa vostra, perché voi - e le donne come voi - siete il cuore di noi tutti; siete tutto ciò che ci è rimasto. Ci è stato tolto il fiore della nostra gioventú e il riso delle nostre donne. Ci hanno rovinato la salute, hanno distrutto le nostre abitudini, annichilito la nostra prosperità, ci hanno ricacciato indietro di cinquant'anni e hanno collocato un fardello troppo pesante sulle spalle dei nostri ragazzi che dovrebbero andare a scuola e dei nostri vecchi che dovrebbero godere il sole. Ma potremo ricostruire, perché abbiamo dei cuori come il vostro su cui posare le fondamenta. E fintanto che abbiamo questa ricchezza, si prendano pure tutto il resto, gli yankees!

Pagina 724

Non ne ho mai conosciuto nessuno che abbia disertato. Dopo la resa, siamo rimasti liberi. Io ho perduto questa gamba e quest'occhio. Ma non li rimpiango. - Oh - fece Rossella debolmente. Cercò di ricordarsi quello che aveva sentito dire a proposito della liberazione dei detenuti di Milledgeville nell'ultimo disperato sforzo di arginare l'invasione di Sherman. Ne aveva parlato Franco nel Natale del 1864. Che aveva detto? Ma i suoi ricordi di quel periodo erano troppo confusi. Sentí nuovamente lo spavento di quei giorni, udí il rombo dei cannoni, vide le file di carri che si lasciavano dietro una scia di sangue, la partenza della Guardia Nazionale, i cadetti e i ragazzi come Phil Meade e i vecchi come zio Enrico e il nonno Merriwether. E anche i galeotti avevano marciato, per morire nel tramonto della Confederazione, per basire dal freddo nella neve e nel gelo di quell'ultima campagna nel Tennessee. Per un momento pensò che quell'uomo era stato un imbecille, recandosi a combattere per uno Stato che gli aveva preso quarant'anni di vita. La Georgia lo aveva privato della giovinezza e della maturità a cagion di un delitto che per lui non era tale; eppure egli aveva liberamente dato una gamba e un occhio alla Georgia. Le tornarono in mente le amare parole di Rhett nei primi giorni della guerra, quando egli aveva detto che non combatterebbe mai per una società che lo aveva bandito. Ma poi che era stato necessario, anche lui era andato a combattere, come Baldo. E pensò che tutti i meridionali erano dei pazzi sentimentali che davano meno importanza alla loro pelle che a parole senza significato. Guardò le mani nocchiute di Baldo, le sue pistole e il suo pugnale e si sentí nuovamente presa dallo spavento. Dov'erano gli altri galeotti liberati, assassini, ladri, furfanti graziati per i loro delitti in nome della Confederazione? Chiunque si incontrava poteva essere un delinquente! Se Franco venisse a sapere la verità su Baldo, sarebbe l'inferno. E se zia Pitty... no; il colpo la ucciderebbe. Quanto a Melania... Rossella ebbe voglia di informarla. Vedrebbe cosí che cosa voleva dire raccogliere degli straccioni e poi introdurli presso i propri amici e parenti. - Sono... sono contenta che mi abbiate raccontato questo, Baldo. Non... non lo dirò a nessuno. Alla signora Wilkes e alle altre signore farebbe impressione se lo sapessero. - Hum... Miss Wilkes lo sa. Glielo dissi la notte in cui mi diede da dormire nella sua cantina. Non penserete mica che avrei permesso che una signora come lei mi accogliesse in casa senza sapere? - Madonna Santissima! - esclamò Rossella atterrita. Melania sapeva che quell'uomo era un omicida e non lo aveva messo alla porta! Gli aveva affidato suo figlio e poi sua zia, sua cognata e tutte le sue amiche. E lei, la piú timida delle donne, non aveva paura di stare sola in casa con lui! - Miss Wilkes è molto ragionevole, per essere una donna. Ha ammesso che avevo ragione. Ha capito che un ladro continua a rubare e che un bugiardo continua a mentire tutta la vita; ma non si commette piú di un omicidio nella vita. E ritiene che chi ha combattuto per la Confederazione ha spazzato con questo tutto il male che ha commesso prima. Benché io non creda di aver fatto male uccidendo mia moglie... Sí, miss Wilkes è molto ragionevole, per essere una donna... E vi ripeto che il giorno in cui assumerete dei galeotti, vi lascerò. Rossella non rispose, ma pensò: «Piú presto mi lascerete e piú sarò contenta. Un omicida!» Come aveva potuto Melania essere cosí... cosí... No, non vi era parola per definire il modo di agire di Melania nell'accogliere quel vecchio delinquente e nel non dire ai suoi amici che era un ex-galeotto! Dunque, il servizio nell'esercito lavava le antiche colpe! Era troppo sciocca Melania per tutto ciò che concerneva la Confederazione e i suoi veterani. Silenziosamente Rossella maledisse gli yankees e aggiunse un nuovo motivo al suo rancore verso di loro. Erano essi i responsabili della situazione che costringeva una donna a tenersi accanto, per proteggerla, un assassino.

Pagina 739

Non potete lagnarvi che io non abbia rispettato il contratto. Come ottengo il risultato, è cosa che non vi riguarda. Vi ho fatto guadagnare del denaro e ho ben guadagnato il mio salario... e quello che ho potuto arrangiare in piú. E adesso voi venite qui a immischiarvi, a rivolgere delle domande agli uomini, a distruggere la mia autorità. Come volete che, dopo questo, io possa conservare la disciplina? Che vi importa se occasionalmente qualcuno riceve un colpo di frusta? Sono degli indolenti che meritano anche di peggio. E se anche non sono rimpinzati?... Non meritano di meglio. O vi occupate degli affari vostri e lasciate che io mi occupi dei miei, o me ne vado stasera stessa. Il suo viso duro era piú spietato che mai; e Rossella si sentí incerta sul da farsi. «Che farò, se se ne va stasera? Non posso rimanere tutta la notte a guardia dei galeotti!» Evidentemente il suo volto rivelò il suo pensiero, perché l'espressione di Johnnie mutò alquanto e i suoi occhi sembravano meno crudeli. Anche la sua voce suonò meno aspra. - Si fa tardi, signora Kennedy; è meglio che andiate a casa. Non ci guasteremo per una piccola cosa come questa; vi pare? Potete trattenere dieci dollari sul mio stipendio del mese prossimo e siamo pari. Gli sguardi di Rossella andarono involontariamente al miserabile gruppo che stava divorando il prosciutto; poi pensò al malato. Avrebbe dovuto liberarsi di Johnnie Gallegher che era un ladro e un aguzzino. Chi sa che cosa faceva a quei disgraziati quando lei non c'era... Ma, d'altra parte era abile; e lei aveva bisogno di un uomo che sapesse il fatto suo. Inutile: ora non poteva mandarlo via. Soltanto, in avvenire sorveglierebbe che i forzati avessero le giuste razioni di vitto. - Vi tratterrò venti dollari - disse brevemente - e tornerò a discutere su questa faccenda di mattina. Raccolse le redini. Ma sapeva che non se ne sarebbe piú parlato. Era un affar finito; e anche Johnnie lo sapeva. Mentre percorreva il viottolo verso la strada di Decatur, la sua coscienza e il suo desiderio di guadagno combatterono un'aspra battaglia. Non vi era scopo ad esporre delle vite umane alla brutalità di quel piccolo uomo. Se uno di quei disgraziati moriva, ella sarebbe colpevole quanto lui, perché lo aveva lasciato a quel posto conoscendo i suoi mali trattamenti. Ma d'altra parte... d'altra parte, quegli uomini avevano il torto di essere dei forzati. Se avevano commesso dei delitti ed erano stati arrestati, meritavano ciò che loro capitava. Ciò in parte sollevò la sua coscienza; ma mentre percorreva la strada, i visi smunti dei forzati le tornarono dinanzi agli occhi. - Oh, vi penserò dopo! - si disse; e ricacciando il pensiero nel fondo piú recondito della sua mente, richiuse la porta del ripostiglio in cui nascondeva le immagini piú segrete.

Pagina 771

Temo che vostro zio Enrico abbia un livido sotto gli occhi per il troppo zelo spiegato dal vecchio Merriwether nel recitare la sua parte... La porta si spalancò per lasciare entrare Lydia seguita dal vecchio dottor Dean, coi suoi lunghi capelli bianchi arruffati e la borsa di cuoio visibile sotto al mantello. Egli fece un cenno di saluto a tutti i presenti, senza una parola, e si affrettò a sollevare l'asciugamano dalla spalla di Ashley. - Troppo in alto per aver toccato il polmone - disse subito. - Se non gli ha fratturato la clavicola, non vi è nulla di serio. Datemi molti pannolini, signore, e dell'ovatta, se ne avete; e un po' di acquavite. Rhett tolse il lume dalle mani di Rossella e lo posò sulla tavola mentre Melania e Lydia si precipitavano per obbedire agli ordini del dottore. - Voi non siete piú di nessuna utilità qui. Venite in salotto accanto al fuoco. - Le prese un braccio e la spinse fuori della camera. Vi era nel suo gesto e nella sua voce una dolcezza insolita. - Avete avuto una giornata tremenda, non è vero? Ella si lasciò accompagnare nella stanza dov'erano prima; e benché fosse adesso dinanzi al fuoco, cominciò a tremare. La bolla del sospetto nel suo cuore cresceva di minuto in minuto. Era piú che un dubbio, adesso. Era quasi certezza, tremenda certezza. Guardò il volto immobile di Rhett e per un attimo non poté spiccicar parola. Poi: - Anche Franco è venuto... da Bella Watling? - No. La voce di Rhett era incolore. - Baldo lo sta trasportando nel terreno vuoto dietro alla casa di Bella. È morto. Una pallottola in testa.

Pagina 784

. - Vi desidero ancora piú di quanto abbia mai desiderato alcuna donna; e credo che ora che il povero Franco non c'è piú, vi interessi saperlo. Rossella strappò le mani dalla sua stretta e balzò in piedi. - Io... Voi siete l'individuo screanzato che esista! Venire proprio in questo momento a farmi dei discorsi... Dovevo saperlo che siete sempre lo stesso! Col cadavere di Franco ancora caldo! Se aveste un po' di costumatezza... uscite subito da questa... - State zitta, altrimenti fra un momento vedrete qui miss Pitty - rispose Rhett senza alzarsi ma afferrandola per i polsi. - Temo che non abbiate compreso la mia idea. - La vostra idea? Non ci tengo. - Ella lottò per svincolarsi. - Lasciatemi e uscite. Non ho mai visto una simile mancanza di tatto! - Zitta! - ribatté Rhett. - Vi sto chiedendo di sposarmi. O volete che mi metta in ginocchio? - Oh... - fece Rossella ansimando; e piombò a sedere sul divano. Lo fissò a bocca aperta, chiedendosi se forse era l'acquavite che le faceva uno scherzo, poiché ricordava la dichiarazione di Rhett: «Mia cara, io sono di quegli uomini che non si ammogliano». O lei era ubriaca o lui era pazzo. Ma non ne aveva l'aspetto. Sembrava calmo come se avesse parlato del sole e della pioggia e la sua cadenza strascicata colpí le sue orecchie senza un'enfasi particolare. - Vi ho sempre desiderata, Rossella, da quel giorno che vi vidi alle Dodici Querce, quando scagliaste il portafiori, dimostrando cosí che non eravate una signora. Ho sempre avuto l'intenzione di farvi mia, in un modo o in un altro. Ma poiché voi e Franco avete messo assieme un po' di denaro, capisco che non verrete piú a farmi qualche interessante proposta di prestiti e garanzie. Quindi vedo che mi tocca sposarvi. - È uno dei vostri soliti scherzi, Rhett? - Ma come: io vi apro l'anima mia e voi fate delle insinuazioni! No, Rossella: questa è una vera e propria dichiarazione, in debita forma. Riconosco che non è di buon gusto farla in questo momento, ma ho una buona giustificazione per la mia sconvenienza. Parto domani per una lunga assenza e temo che se aspetto il mio ritorno, vi troverò sposata con qualcuno che ha un po' di denaro. E allora ho pensato: perché non io, e il mio denaro? Veramente, Rossella: non posso passar la vita a cercare di afferrarvi fra un marito e l'altro. Parlava sul serio. Non vi era dubbio. Nel rendersi conto di questo ella si sentí la bocca arida e inghiottí. Lo guardò negli occhi per potergli rispondere e li vide ridenti, ma con qualche cosa di profondo che non vi aveva mai visto prima; una strana lucentezza che sfidava ogni analisi. Sedeva con aria indifferente; ma ella comprese che la sorvegliava attentamente come un gatto sorveglia la tana di un sorcio. Nella sua calma era un senso di forza rattenuta che la fece indietreggiare un po' sgomenta. Le chiedeva di sposarlo: commetteva un gesto incredibile. Una volta Rossella si era proposta di tormentarlo se le avesse rivolto quella richiesta; si era proposta di umiliarlo e di fargli sentire il proprio potere, assaporando una gioia maligna nel far questo. Ora egli aveva detto quelle parole, ed ella si sentiva piú che mai in suo potere; e non le veniva neanche in mente ciò che aveva avuto in animo di fare. Come una ragazza a cui fosse stata rivolta per la prima volta una parola d'amore, arrossí e mormorò: - Non... non mi sposerò mai piú. - Ma sí, vi sposerete. Siete nata per essere moglie. Perché non mi sposereste? - Perché... non vi amo, Rhett. - Questo non è un ostacolo. Non mi pare che nelle vostre due esperienze matrimoniali l'amore abbia avuto gran parte. - Come potete dir questo? Sapete che a Franco volevo bene! Egli non rispose. - Sí, gli volevo bene! - Va bene; non discutiamo. Volete riflettere sulla mia proposta mentre io sarò lontano? - Rhett, non mi piacciono le cose che si trascinano. Preferisco rispondervi subito. Penso di tornare a Tara, lasciando Lydia Wilkes con zia Pitty. Desidero andare a casa per molto tempo e... non desidero rimaritarmi. - Storie. Perché? - Cosí... Non mi piace essere maritata. - Ma, mia povera figliuola, voi non siete mai stata veramente maritata. Che cosa volete sapere...? Ammetto che siete stata disgraziata... una volta per dispetto e un'altra volta per denaro... Avete mai pensato a sposarvi... per il piacere di farlo? - Piacere! Non dite sciocchezze. Non vi è nessun piacere nel matrimonio. - No? Perché no? Ella aveva ripreso una certa calma e insieme a questa l'acquavite riportava a galla la naturale schiettezza. - Sarà un piacere per gli uomini... E Dio sa perché! Non l'ho mai capito. Ma la donna non ne ricava altro che il proprio mantenimento e un sacco di lavoro; e poi bisogna accontentare la pazzia del marito... e un bambino all'anno. La risata di Rhett fu cosí sonora che echeggiò nel silenzio della casa e Rossella udí aprire la porta della cucina. - Zitto! Mammy ha delle orecchie di lince; e non sta bene ridere cosí forte dopo... Smettetela di ridere! Sapete che quello che dico è la verità. Piacere! Storie! - Ho detto che siete stata disgraziata; e quello che dite ne è la prova. Avete sposato un ragazzo e un vecchio. E per soprammercato, scommetto che vostra madre vi ha detto che bisogna sopportare «quelle cose» perché poi si ha il compenso della maternità. Beh, tutto questo non è esatto. Perché non provate a sposare un uomo giovine che ha una cattiva reputazione e che sa fare con le donne? Vi assicuro che è piacevole. - Siete grossolano e presuntuoso; e mi pare che questa conversazione stia andando troppo in là. E sia... assolutamente volgare. - Ma è anche divertente, no? Scommetto che non avete mai discusso sulle relazioni coniugali, neanche con Carlo e con Franco. Ella lo guardò aggrottando le ciglia. Decisamente Rhett sapeva troppe cose, Dove diamine aveva imparato tutto quello che sapeva sulle donne? Era proprio sconveniente. - Non fate il cipiglio. Fissate l'epoca, Rossella. Non vi chiedo un matrimonio immediato a causa della vostra reputazione. Lasceremo un intervallo conveniente. A proposito: quanto è un «intervallo conveniente»? - Non ho detto affatto che vi sposerò. E non è conveniente neanche parlarne in questi momenti. - Vi ho detto la ragione che mi spinge a parlarvene. Parto domani e sono un innamorato troppo ardente per reprimere piú a lungo la mia passione. Ma forse sono stato troppo precipitoso nella mia richiesta. Con una subitaneità che la sbalordí, egli scivolò dal divano in ginocchio e, con una mano sul cuore, recitò rapidamente: - Perdonatemi se vi ho sbigottita con l'impeto del mio sentimento, mia cara Rossella... volevo dire, signora Kennedy. Ma non può esservi sfuggito che da un pezzo l'amicizia che nutrivo per voi si è trasformata in un sentimento assai piú profondo, molto piú bello, piú puro, piú sacro. Oserò nominarvelo? Ah! È l'amore che mi rende cosí temerario! - Alzatevi! - minacciò Rossella. - Non fate lo sciocco... Se Mammy entrasse e vi vedesse?! - Sarebbe stupita e incredula vedendomi per la prima volta cosí gentile - replicò Rhett alzandosi con leggerezza. - Andiamo, Rossella: non siete una bambina né una scolaretta che cerca la scusa delle convenienze o altro del genere. Dite che mi sposerete al mio ritorno, o, dinanzi a Dio, non partirò. Rimarrò qui e tutte le sere verrò a suonare la chitarra sotto le vostre finestre e a cantare con quanta voce ho in gola; vi comprometterò, sicché dovrete sposarmi per salvare la vostra reputazione. - Siate ragionevole, Rhett. Non mi voglio rimaritare. - No? Ditemi la ragione. Non può essere timidezza di ragazzina. Che cos'è? Improvvisamente ella pensò ad Ashley, lo vide chiaramente come se le fosse accanto, coi suoi capelli d'oro, gli occhi sonnolenti, pieno di dignità, cosí straordinariamene diverso da Rhett. Ecco la vera ragione per cui non voleva rimaritarsi, benché non avesse una particolare obiezione contro Rhett che a volte le era anche simpatico. Ella apparteneva ad Ashley, da sempre e per sempre. Non aveva mai appartenuto a Carlo né a Franco, non potrebbe mai appartenere veramente a Rhett. Tutto ciò che ella aveva fatto, lo aveva fatto soltanto perché amava Ashley. Ashley e Tara: ella apparteneva a loro. I sorrisi, i baci, il riso che aveva dato a Carlo e a Franco erano di Ashley, anche se egli non li aveva mai chiesti e non li avrebbe chiesti mai. E nella profondità del suo essere era il desiderio di conservarsi per lui, benché sapesse che mai egli la prenderebbe. Non sapeva che il suo viso era mutato, assumendo, attraverso quei pensieri una dolcezza che Rhett non aveva mai visto prima. Egli fissava gli occhi verdi un po' obliqui, la tenera curva delle labbra rosse, e per un attimo si sentí mancare il respiro. Quindi egli torse la bocca con violenza e bestemmiò, spazientato. - Siete una stupida, Rossella O'Hara! Prima che ella fosse tornata presente col pensiero, egli l'aveva circondata con le sue braccia dure e forti, come quella notte, tanto tempo fa, sulla buia strada di Tara. Ella provò nuovamente quello smarrimento, quel senso di condiscendenza, quel calore che la indebolivano. E il volto serio di Ashley Wilkes si confuse e dileguò nel nulla. Egli le ripiegò la testa sul proprio braccio e la baciò, dapprima dolcemente e poi con un crescendo d'intensità che la costrinse ad aggrapparsi a lui come alla sola cosa ferma in un mondo che le girava a attorno. La bocca insistente di lui le scostò le labbra tremanti, facendole correre attraverso i nervi dei brividi violenti, svegliando in lei sensazioni che non aveva mai conosciute. E prima che lo stordimento la vincesse completamente, Rossella si accorse di ricambiare il suo bacio. - Basta, vi prego... svengo! - sussurrò cercando fiaccamente di volgere il capo altrove. Egli le strinse la testa piú fortemente contro la sua spalla e Rossella intravide confusamente il volto bruno di lui, i suoi occhi spalancati e che avevano una strana lucentezza. Il tremito del suo braccio la spaventò. - Voglio farvi svenire. Voglio farvi svenire. Sono anni che siete in attesa di questo... Nessuno degli imbecilli che avete conosciuto vi ha mai baciata cosí... Non è vero? Né il vostro prezioso Carlo né Franco né quell'idiota del vostro Ashley... - Vi prego...! - Ho detto quell'idiota del vostro Ashley. Tutti signori... Che cosa sapevano delle donne? Che cosa capivano di voi? Io vi conosco. La sua bocca fu nuovamente su quella di Rossella ed ella si arrese senza lottare, troppo debole per volgere il capo e senza neppur desiderio di volgerlo; il corpo scosso dai battiti violenti del cuore, mentre la paura della forza di lui e della propria debolezza le dava il capogiro. Se non smetteva, certo ella perderebbe i sensi. Se smettesse... non smetterebbe mai?! - Dite di sí! - Le labbra di Rhett erano incollate alle sue ed ella vedeva i suoi occhi cosí vicini che le sembravano enormi, come se riempissero il mondo intero. - Ditemi di sí, maledizione o... Ella mormorò «sí» senza neanche accorgersene. Come se, per suggestione, il monosillabo le fosse uscito dalle labbra senza sua volontà. Ma appena lo ebbe pronunciato, si sentí improvvisamente calma; il capo cessò di girarle e anche l'ebbrezza dell'acquavite diminuí di botto. Gli aveva promesso di sposarlo senza averne affatto l'intenzione. Non sapeva come tutto ciò fosse accaduto, ma non le dispiaceva. Ora le sembrava naturale di aver detto «sí», quasi come se, per divino intervento, una mano piú forte, della sua si fosse impadronita delle sue faccende per risolverle. Egli respirò profondamente e si chinò come per baciarla di nuovo; ella piegò il capo indietro e chiuse gli occhi. Ma Rhett si ritrasse senza baciarla e ciò le diede una leggera delusione. Essere baciata in quel modo le dava una sensazione strana ma eccitante. Egli rimase un po' di tempo a sedere tenendo ancora la testolina di lei appoggiata alla propria spalla; e come se si fosse imposto uno sforzo, il tremore delle sue braccia cessò. Si scostò un momento e la guardò. Ella aperse gli occhi e vide che quell'ardore che l'aveva spaventata era scomparso dal volto di Rhett. Si sentí incapace di sostenere il suo sguardo e chinò gli occhi confusa e fremente. Quando egli parlò, la sua voce era calmissima. - Avete detto sul serio? Non avete l'intenzione di ritirare la vostra parola? - No. - Non è stato perché... hm... come si dice?... vi ho fatto « perdere il lume degli occhi» col mio ardore? Ella non rispose, perché non sapeva che cosa dire; era tuttora incapace di guardarlo. Rhett le pose una mano sotto il mento e le sollevò il volto. - Vi ho detto una volta che avrei sopportato da voi qualunque cosa, eccetto una menzogna. E ora voglio la verità. Perché avete detto di sí? Rossella si sentí ancora impossibilitata a rispondergli; ma avendo riacquistata un po' di padronanza di sé, continuò a tenere gli occhi pudicamente abbassati ma sollevò un poco gli angoli delle labbra in un piccolo sorriso. - Guardatemi. È per il mio denaro? - Oh, Rhett! Che domanda! - Guardatemi e non cercate di imbrogliarmi. Io non sono Carlo né Franco ne uno di quei giovinotti della Contea che si sono lasciati prendere alla pania delle vostre ciglia palpitanti. È per il mio denaro? - Ma..., in parte, sí. - In parte? Sembrò che la risposta non lo irritasse. Respirò ancora rapidamente, e fece uno sforzo per spegnere nei propri occhi l'ardore che le parole di lei vi avevano acceso; un ardore che a lei la confusione impediva di scorgere. - Ecco - cominciò Rossella imbrogliandosi e confondendosi nelle parole - il denaro è necessario... Lo sapete benissimo, Rhett; E Franco non ne ha lasciato molto. Ma poi... noi siamo adatti uno all'altro... E voi siete il solo, fra quanti uomini ho conosciuti, che sopporta la verità da una donna; è piacevole avere un marito che non vi crede una stupida e al quale non occorra raccontare delle frottole... e... sí, Rhett, vi voglio bene. - Mi volete bene? - Oh Dio - ribatte ella stizzosamente - se dicessi che vi amo pazzamente, mentirei; e per di piú, voi non lo credereste. - A volte, gioia mia, ho l'impressione che esageriate nel dire la verità. Non credete che sarebbe piú carino da parte vostra dire: «Rhett, vi amo», anche se non fosse vero? Ella rimase anche piú confusa, non comprendendo dove egli volesse arrivare. Sembrava cosí strano, agitato, irritato, beffardo; lo vide ritrarre le mani da quelle di lei e ficcarle nelle tasche dei calzoni, e si accorse che stringeva i pugni. «Se anche dovessi perdere il marito, voglio dire la verità» pensò allora torva, col sangue in tumulto come sempre quando egli la tormentava. - Sarebbe una menzogna, Rhett; e a che scopo dovremmo dire delle sciocchezze? Vi voglio bene, ve l'ho detto. E voi mi capite. Una volta mi avete detto che non mi amavate perché avevamo troppi punti in comune. Tutti e due furfanti; questa fu la vostra... - Dio mio! - sussurrò Rhett rapidamente volgendo il capo altrove. - Preso nella mia stessa trappola! - Che avete detto? - Nulla. - La guardò e rise; ma non era un riso cordiale. - Fissate l'epoca, cara - e rise di nuovo, chinandosi a baciarle le mani. Ella provò sollievo nel vedere che il malumore era passato, e sorrise a sua volta. Rhett giocherellò per un istante con la sua mano rispondendo al suo sorriso. - Vi è mai capitato, fra i romanzi che leggete, di trovare la vecchia situazione della moglie indifferente che si innamora del proprio marito? - Sapete che non leggo romanzi - rispose Rossella; e cercando di mettersi all'unisono col suo tono scherzoso continuò: - Del resto, una volta mi avete detto che è il colmo del cattivo gusto, marito e moglie che si amano. - Quante cose maledettamente idiote ho detto! - ritorse egli bruscamente e si alzò in piedi. - Non imprecate. - Dovreste abituarvici, e imparare a imprecare anche voi. Dovreste assuefarvi a tutte le mie cattive abitudini. Questo fa parte del prezzo per... volermi bene e mettere i vostri graziosi artigli sul mio denaro. - Sentite: non mettete le cose in questi termini, soltanto perché io non ho voluto mentire allo scopo di farvi diventare presuntuoso. Voi non siete innamorato di me, non è vero? Perché io dovrei esserlo di voi? - No, cara, non vi amo, come voi non mi amate; e se vi amassi, sareste l'ultima persona a cui lo direi. Dio protegga l'uomo che vi ama davvero. Perché voi spezzereste il suo cuore, tesoro, da quella gattina perversa e crudele che siete, cosí incurante e sicura che non si prende neanche il disturbo di nascondere i suoi artigli. La trasse in piedi e la baciò di nuovo; ma questa volta la sua bocca era diversa; sembrava che egli cercasse di irritarla, offenderla, insultarla. Le sue labbra scivolarono sulla sua gola e infine premettero il taffettà sul suo seno, cosí a lungo e con tanta forza che ella si sentí bruciare la pelle. Alzò le mani a respingerlo, con verecondia oltraggiata. - Non dovete! Come osate...?! - Avete il cuore che batte come quello di un coniglio - motteggiò Rhett. - Se fossi presuntuoso, penserei che quei battiti son troppo veloci per un semplice affetto. Lisciatevi le penne arruffate. E smettete quell'aria di verginella. Ditemi che cosa debbo portarvi dall'Inghilterra. Un anello? Come lo volete? Ella ondeggiò un momento fra l'interesse destato da queste ultime parole e il desiderio femminile di prolungare la scena di collera e di indignazione. - Oh... un anello di brillanti, Rhett... molto grosso! - Cosí potrete farlo scintillare dinanzi agli occhi delle vostre amiche povere dicendo: «Vedete che cosa ho ghermito!» Benissimo; avrete un grosso anello, tanto grosso che le vostre amiche meno fortunate potranno consolarsi sussurrando che portare delle gemme cosí grandi non è da signora. Improvvisamente attraversò la stanza ed ella lo seguí stupita fino alla porta chiusa. - Che c'è? Dove andate? - A casa mia, a finire il bagaglio. - Ma... - Che cosa? - Niente. Vi auguro buon viaggio. - Grazie. Aperse l'uscio e attraversò il vestibolo; Rossella lo seguiva, un po' sconcertata come per un mutamento inatteso dell'atmosfera. Egli infilò il soprabito e prese guanti e cappello. - Vi scriverò. Fatemi sapere se cambiate idea. - Non volete... - Che cosa? - Sembrava impaziente di andar via. - Baciarmi come saluto? - Fu un bisbiglio, come se ella avesse temuto le orecchie della casa. - Non vi pare di avere avuto abbastanza baci per una sera? - ritorse egli sorridendole. - Pensare che una giovine donna pudica e bene allevata... Ma non ve lo avevo detto che vi sarebbe piaciuto? - Siete un individuo impossibile! - gridò lei incollerita, senza piú curarsi di essere udita da Mammy. - E se non tornate piú, non me ne importa nulla! Si voltò e corse a precipizio su per le scale, aspettando di sentire la sua calda mano sul braccio per fermarla. Invece egli aperse tranquillamente la porta d'ingresso; una corrente fredda penetrò nel vestibolo. - Ma tornerò - disse soltanto; ed uscí, lasciandola in cima alle scale con gli occhi fissi sulla porta chiusa.

Pagina 817

Ora che ho... che abbiamo denaro, sarò la piú gran signora che tu abbia mai visto! - Aspetterò con curiosità. Ancor piú eccitanti delle persone che le venivano presentate erano gli abiti che Rhett le comprava, occupandosi di sceglierne i colori, le stoffe e i modelli. I cerchi non si portavano piú e la nuova moda era deliziosa, con le gonne tese davanti e drappeggiate dietro; dove terminavano i drappeggi erano gruppi di fiori o ciuffi di trine. Ricordando i cerchi pudibondi portati durante la guerra, Rossella si sentiva imbarazzata da quelle sottane che indubbiamente disegnavano la linea del suo addome. E i cappellini che non erano delle cuffie, ma schiacciatine curiose che si portavano inclinate su un occhio ed erano cariche di fiori e di frutti, di piume ondeggianti e di nastri fluttuanti! (Poteva farne a meno, Rhett, di bruciare i riccioli finti che lei aveva comprato per aumentare il mazzocchio di capelli lisci che si scorgeva sotto a quei cappelli!) E la delicata biancheria ricamata nei conventi! Com'era bella e quanta ne aveva! Camicie da giorno e da notte, sottovesti di lino finissimo ornate di ricami leggeri e di minuscole piegoline! E le scarpine di raso che Rhett le aveva comprate! Avevano dei tacchi alti dieci centimetri, e, sul davanti, due fibbie enormi e lustre! E le calze di seta: dodici paia, senza punte di cotone! Che ricchezza! Aveva comprato anche dei regali per la sua famiglia. Un cane di pelliccia che somigliava a un sanbernardo per Wade; un gattino persiano per Beau, un braccialetto di corallo per Ella, una collana con un pendente di acquamarina per zia Pitty, una raccolta completa delle opere di Shakespeare per Melania e Ashley, una splendida livrea per zio Pietro, abiti per Dilcey e la cuoca e per tutti quanti a Tara. - E per Mammy, che cosa hai comprato? - chiese Rhett osservando i doni sparpagliati sul letto nella loro camera d'albergo, e portando il gatto e il cane nello spogliatoio. - Niente. È stata odiosa. Perché dovrei portarle un regalo, quando ci ha chiamati muli? - Perché ti adiri quando senti la verità, gioia mia? Devi portarle un dono. Se non glielo portassi, le spezzeresti il cuore; e cuori come il suo hanno troppo valore per lasciare che si spezzino. - Non le voglio comprar nulla. Non lo merita. - Allora glielo comprerò io. Ricordo che la mia bambinaia diceva sempre che se andava in Paradiso voleva farsi una sottana di taffetà cosí rigido che potesse stare in piedi da sola e cosí frusciante che il Signore avrebbe dovuto credere che fossero le ali degli angeli. Comprerò del taffetà rosso per Mammy e le farò fare un'elegante sottoveste. - Non l'accetterà. Morirebbe piuttosto che indossarla. - Non ne dubito. Ma io farò ugualmente il gesto. I negozi di Nuova Orléans erano molto ricchi; e andare a fare acquisti con Rhett era una vera avventura. Anche pranzare con lui era un'avventura emozionante, perché egli sapeva ordinare e sapeva come dovevano essere cucinate le vivande. I vini, i liquori e gli spumanti di Nuova Orléans erano piacevolissimi ed esilaranti per lei che era abituata al vinello di more e di uva moscata pigiato in casa e all'acquavite degli «svenimenti» di Pitty. Ma le vivande che Rhett ordinava! Ricordando le giornate d'inedia di Tara e anche la sua piú recente penuria, Rossella aveva l'impressione di non potersi mai saziare di quella roba squisita. Zuppa di ibisco e gamberetti alla creola, piccione col vino e pasticciai di ostriche coperti di salsa battuta, funghi e animelle e fegatini di pollo, pesci arrostiti nel cartoccio e conditi col limone. II suo appetito non si calmava mai, perché le bastava ricordare gli insopportabili piselli secchi e gli ignami di Tara per desiderare di rimpinzarsi nuovamente di vivande creole. - Mangi sempre come se ogni tuo pasto fosse l'ultimo - le disse un giorno Rhett. - Non raschiare il piatto, Rossella. Sono certo che in cucina ce n'è ancora. Basta chiamare il cameriere. Se non la smetti di essere cosí ghiotta, ingrasserai come le donne cubane e allora divorzieremo. Ma ella gli mostrò la lingua e ordinò un altro dolce pieno di cioccolata e rivestito di meringa. Che bellezza potere spendere tutto il denaro che voleva senza contare, e senza doverne mettere da parte per pagare le tasse o comprare dei muli! Che bellezza essere con persone ricche ed allegre e non nobilmente povere come quelle di Atlanta! Che bellezza portare abiti di broccato frusciante che mettevano in valore la vita sottile, il collo, le braccia e un po' di seno, e accorgersi dell'ammirazione degli uomini! E che bellezza mangiare tutto quel che si voleva senza nessuno che osservasse che non era da signora! E bere tutto lo champagne che voleva! La prima volta che bevve troppo si sentí molto confusa l'indomani mattina, nel destarsi con un forte mal di capo e col vago ricordo di aver cantato «Bonnie Blue Flag» (Diletta bandiera azzurra) tornando in albergo in vettura aperta, per le strade di Nuova Orléans, Non aveva mai visto una signora nemmeno leggermente brilla, e la sola donna ubriaca che avesse mai veduto era quella tale Watling il giorno in cui Atlanta era caduta. Si sentí talmente umiliata, che non osò neppure guardare Rhett, il quale sembrò invece divertirsi di questo. Qualunque cosa ella facesse sembrava divertirlo come se ella fosse un gattino che faceva le capriole. Era anche piacevole andar fuori con lui perché era cosí bello. Prima Rossella non aveva mai badato molto al suo aspetto perché ad Atlanta tutti si erano sempre talmente preoccupati di trovargli dei difetti che non avevano mai perso tempo a osservare se fosse bello o brutto. Ma qui ella vedeva che gli occhi delle altre donne lo seguivano; e che palpitavano quando egli si chinava a baciar loro la mano. Il pensiero che le altre donne potevano aver simpatia per suo marito e forse la invidiavano, le diede l'orgoglio di essere veduta con lui. «Sí, siamo una bella coppia» pensava. Come Rhett le aveva profetizzato, il matrimonio era veramente divertente; ogni giorno le portava la gioia di una nuova scoperta. La vita coniugale con Rhett era ben diversa da quel ch'era stata con Carlo o con Franco, i quali l'avevano rispettata e avevano sempre temuto la sua violenza. Imploravano da lei dei favori che ella concedeva se le faceva piacere. Rhett non la temeva e non la rispettava neanche molto. Faceva il suo comodo; e quando lei non era contenta, rideva. Rossella non lo amava; ma certamente vivere con lui era piacevole. Anche nei suoi scoppi di passione, che a volte rasentavano la crudeltà, egli sembrava sempre frenarsi e nascondere le proprie emozioni. Vivendo con Rhett, ella apprendeva molte cose sul conto di lui, che pure credeva di conoscere cosí bene. Aveva imparato che la sua voce poteva essere vellutata come la pelliccia di un gatto, e un momento dopo aspra e stridula quando imprecava e ingiuriava. Era capace di raccontare, con apparente sincerità e convinzione, storie di coraggio, di onore, di virtú e di amore, e farle seguire da narrazioni improntate al piú freddo cinismo. Nessun uomo fra quanti ella ne conosceva avrebbe raccontato simili storie alla propria moglie; ma erano storie divertenti e che stuzzicavano in lei qualche cosa di grossolano e di volgare. Egli sapeva essere un ardente e quasi tenero amatore per un po' di tempo, e subito dopo diventava un demone beffardo che si divertiva a stuzzicare il violento temperamento della moglie, ed era soddisfatto quando questo esplodeva. Apprese che i suoi complimenti erano sempre a doppio taglio e che le sue espressioni piú tenere prestavano il fianco al sospetto. Insomma, in quelle due settimane a Nuova Orléans ella seppe tutto di lui, eccetto che cosa egli fosse realmente. Qualche mattina Rhett congedava la cameriera e portava egli stesso a Rossella il vassoio della colazione, imboccandola come se fosse una bambina; le toglieva di mano la spazzola dei capelli e le spazzolava la lunga chioma nera fino a farla crepitare. Altre mattine, invece, ella era strappata bruscamente al sonno profondo da lui che la scopriva all'improvviso e le faceva il solletico sotto i piedi. Talvolta egli ascoltava con dignitoso interessamento i particolari della sua azienda, approvando con cenni la sua sagacia; tal'altra definiva il suo commercio volgare e indecoroso, basato sul furto e sull'estorsione. La conduceva a teatro e durante lo spettacolo la infastidiva dicendole che probabilmente Dio non approvava questi divertimenti; in chiesa le narrava sotto voce delle storielle spinte e poi la rimproverava perché rideva. La incoraggiava ad essere schietta, audace e disinvolta. Ella imparava da lui a usare parole pungenti e frasi sardoniche, ma non aveva quel senso di umorismo che temperava in lui la malizia, né il sorriso che lo faceva schernire sé stesso anche mentre scherniva gli altri. La faceva giocare, cosa che ella aveva quasi dimenticato. La vita era stata troppo seria ed amara. Egli invece sapeva giocare; ma anche in questo non era un ragazzo; era un uomo. E qualunque cosa egli facesse, Rossella non l'avrebbe mai dimenticato. Non le era possibile guardarlo dall'alto della sua superiorità femminile, sorridendo come le donne hanno sempre sorriso degli uomini che conservavano un cuore di fanciullo. Ciò l'annoiava alquanto, perché le sarebbe piaciuto sentirsi superiore a Rhett, come lo era stata a tutti gli altri uomini. A tutti, eccettuato Ashley. Soltanto Ashley e Rhett esulavano dalla sua comprensione perché entrambi non avevano potuto conservare un cuore di fanciullo. Non comprendeva Rhett e non si prendeva il disturbo di comprenderlo, benché vi fossero cose che a volte la rendevano perplessa. Per esempio, il modo con cui egli la guardava quando credeva che non se ne accorgesse: uno sguardo vigilante, vivo, pieno di attesa. - Perché mi guardi cosí? - gli chiese irritata una volta che volgendosi improvvisamente lo aveva sorpreso. - Sembri un gatto davanti alla tana di un topo! Ma il volto di lui si era rapidamente mutato, ed egli aveva risposto con una risata. Rossella non tardò a dimenticare, e non si scervellò intorno a questo né intorno ad altro concernente Rhett. Egli era troppo imperscrutabile perché valesse la pena di occuparsene, e la vita era molto piacevole... tranne quando ella pensava ad Ashley. Fortunatamente Rhett le dava troppo da fare perché questo pensiero potesse assalirla sovente. Solo alla notte, quando era stanca del ballo, o la testa le girava per il troppo champagne bevuto... allora pensava ad Ashley. Spesso, quando giaceva pigramente fra le braccia di Rhett, col chiaro di luna sul letto, pensava che la vita sarebbe stata perfetta se fossero state le braccia di Ashley quelle che la tenevano cosí stretta e se fosse stato lui ad attirarsi sul viso e sulla gola i suoi capelli neri. Una volta, mentre pensava questo, sospirò e volse il capo verso la finestra; dopo un attimo sentí il braccio che aveva sotto al collo, irrigidirsi come una barra di ferro; e la voce di Rhett disse: - Che Dio maledica la tua piccola anima ingannatrice e ti mandi all'inferno, per tutta l'eternità! E alzandosi si vestí e lasciò la stanza, malgrado le sue proteste e le sue interrogazioni sbigottite. Riapparve l'indomani mattina, mentre lei stava facendo colazione, scapigliato, ubriaco e di pessimo umore; non le chiese scusa, né giustificò la sua assenza. Rossella non l'interrogò e fu gelida con lui, come una moglie offesa. E quando ebbe terminato la colazione, si vestí sotto i suoi occhi iniettati di sangue, e uscí per fare delle spese. Al suo ritorno egli era uscito e non si fece rivedere fino all'ora della cena. Fu un pasto silenzioso e Rossella si sentí irritata perché era la sua ultima cena a Nuova Orléans ed ella desiderava gustare l'aragosta che le stavano servendo. E non poteva gustarla sotto lo sguardo fisso di lui. Nondimeno ne mangiò una molto grossa e bevve una quantità di champagne. Fu questa, forse, la causa di una cattiva digestione che fece tornare il suo antico incubo; infatti ella si svegliò, bagnata di sudore freddo e singhiozzando disperatamente. Le sembrava di essere nuovamente a Tara e Tara era desolata. La mamma era morta e con lei era scomparsa tutta la forza e tutta la saggezza del mondo. Non vi era piú nessuno a cui rivolgersi, a cui appoggiarsi. E qualche cosa di terrificante la inseguiva ed ella correva, sentendosi scoppiare il cuore, correva attraverso una nebbia densa, urlando, cercando follemente quello sconosciuto porto di salvezza che la nebbia le nascondeva. Quand'ella si destò, Rhett era curvo sopra di lei; senza una parola la prese fra le braccia come una bambina e la strinse a sé; i suoi muscoli saldi la confortarono, il suo dolce mormorío la calmò, finché ella cessò di singhiozzare. - Oh, Rhett, avevo freddo e fame ed ero stanchissima. E correvo attraverso la nebbia, correvo come una pazza senza poterlo trovare. - Trovare che cosa, tesoro? - Non lo so. Vorrei saperlo. - È il tuo vecchio sogno? - Sí! Tornò a posarla dolcemente sul letto; frugò nell'oscurità e accese una candela. Alla luce le linee dure del suo volto con gli occhi iniettati di sangue, erano imperscrutabili come se fossero di pietra. La camicia, aperta fino alla vita, lasciava vedere il petto bruno coperto di folto pelo nero. Ancora tremante di terrore, Rossella pensò che quel petto era saldo e forte; e bisbigliò: - Tienimi, Rhett. - Cara! - fece egli vivamente; e, sollevatala, sedette in una larga poltrona cullandola fra le braccia. - È terribile, Rhett, essere affamati! - Dev'essere terribile sognare che si muore di fame dopo un pranzo di sei portate, in cui è incluso un àstaco enorme. - Sorrideva e i suoi occhi erano affettuosi. - Figúrati, Rhett, che corro, corro e non so che cosa mi insegue. È sempre nascosto dalla nebbia. Immagino che se riuscissi una buona volta a saperlo, sarei salva per sempre e non avrei mai piú fame né freddo. - Sei inseguita da una persona o da una cosa? - Non lo so. Non ci ho mai pensato. Credi, Rhett, che non sognerò mai di arrivare in salvo? - No - e accarezzò i suoi capelli scomposti. - Non credo. Ma immagino che quando sarai abituata ad esser tranquilla, e ad aver caldo ed essere ben nutrita tutti i giorni, il sogno non apparirà piú. Ed io provvederò perché questo avvenga. - Sei molto carino, Rhett! - Grazie per questa briciola della vostra tavola, mia penetrante signora. Rossella, io voglio che tutte le mattine quando ti svegli, tu dica: «Non soffrirò mai piú la fame e nulla potrà mai toccarmi finché Rhett è accanto a me e il Governo degli Stati Uniti si regge». - Il Governo degli Stati Uniti? - chiese Rossella rizzandosi a sedere stupita, con le guance ancora bagnate di lagrime. - La valuta dell'ex-Confederazione è diventata una donna onesta. Io ne ho investito una discreta quantità in titoli di Stato. - Per la camicia di Giove! - esclamò Rossella dimenticando il suo recente terrore. - Hai prestato il tuo denaro agli yankees? - A un ottimo interesse. - Anche se fosse il cento per cento...! Devi rivendere immediatamente i titoli! Soltanto il pensiero che gli yankees si servano del tuo denaro... - E allora che dovrei farne? - chiese Rhett con un sorriso, notando che gli occhi di lei non erano piú dilatati dal terrore. - Ma... potresti comprare del terreno ai Cinque Punti. Scommetto che col denaro che hai, potresti comprare tutti i Cinque Punti. - Grazie mille; ma non so che farmene. Ora che il governo dei «Carpetbaggers» ha realmente il controllo della Georgia, non si sa che cosa può accadere. È gente di cui non ci si può fidare. Quindi non voglio investire il mio denaro in proprietà fondiarie; preferisco dei titoli. Si possono nascondere; mentre una proprietà non si nasconde facilmente. - Credi che... - cominciò Rossella impallidendo al pensiero dei suoi stabilimenti e del negozio. - Non lo so. Ma non aver paura, Rossella. Il nuovo governatore è mio amico. Sono i tempi che sono incerti e perciò non desidero immobilizzare troppo denaro in proprietà fondiarie. La fece scivolare su un solo ginocchio, cercò un sigaro e lo accese. Ella sedeva coi piedi nudi penzoloni, guardando il gioco dei muscoli su quel petto bruno; i suoi terrori erano dimenticati. - E giacché parliamo di proprietà, Rossella - riprese Rhett - ti comunico che voglio far costruire una casa. Puoi aver costretto Franco ad abitare in casa di miss Pitty; ma io non ci verrò. Non sopporterei i suoi svenimenti tre volte al giorno; e per di piú credo che zio Pietro mi assassinerebbe piuttosto che acconsentire a lasciarmi vivere sotto il sacro tetto degli Hamilton. Miss Pitty si può prendere Lydia Wilkes come compagnia. Noialtri andremo ad abitare l'appartamento nuziale dell'Albergo Nazionale finché la nostra casa non sarà finita. Prima di partire ho contrattato quel grosso terreno vicino alla casa dei Leyden. Sai quale voglio dire? - Che bellezza, Rhett! Ho tanto desiderio di avere una casa mia! Una casa grande! - Meno male che in qualche cosa siamo d'accordo. Che ne diresti di un rivestimento di stucco bianco con dei ferri battuti come nelle case creole? - Oh no, Rhett. Non voglio una casa antiquata come queste di Nuova Orléans. Ho un'idea tutta diversa. Una casa nuovissima che ho visto riprodotta... aspetta... nell' «Harper's» settimanale. Sul tipo di uno châlet svizzero. - Un che cosa? - Uno châlet. - Oh! - fece Rhett lisciandosi i baffi. - Molto bello. Con un tetto alto, a «mansarde» ornato da una fila di piccoli pali di legno; ai due angoli due torrette coperte di curiosi émbrici di legno; le finestre di queste torrette avevano i vetri rossi e blu. - E la ringhiera della scala d'accesso di legno lavorata a traforo? - Sí. - E dal tetto pende una specie di frangia anche lavorata a traforo? - Sí, sí! Ne hai vista qualcuna anche tu? - Sí... ma non in Isvizzera. Gli Svizzeri sono una razza intelligente e amano le bellezze architettoniche. Desideri proprio una casa in quel modo? - Oh sí! - Speravo che l'unione con me migliorasse il tuo gusto. Perché non trovi preferibile una casa creola o una di stile coloniale con sei colonne bianche? - Ti ho detto che non voglio una casa misera o antiquata. E dentro voglio le pareti tappezzate di carta rossa, e a tutte le porte dei tendaggi di velluto porpora e poi una quantità di mobili di noce e dei tappeti folti... e tutti diventeranno verdi di bile quando vedranno la nostra casa! - È, proprio necessario rendere invidiosa la gente? Beh, se ti fa piacere, li faremo diventar verdi. Ma non ti pare, Rossella, che sia una mancanza di buon gusto arredare la casa tanto lussuosamente quando tutti gli altri sono poveri? - La voglio cosí - ribatté Rossella ostinata. - Voglio umiliare tutti quelli che sono stati scortesi con me. E darò dei grandi ricevimenti, e tutta la città si pentirà di aver detto delle cattiverie sul mio conto. - E chi verrà ai nostri ricevimenti? - Tutti quanti, naturalmente! - Ne dubito. La Vecchia Guardia muore ma non si arrende. - Che idea, Rhett! Quando si ha del denaro, tutti corrono... - Non i meridionali. È piú difficile per chi ha speculato sulla guerra entrare nei loro salotti che per un cammello passare attraverso la cruna di un ago. E quanto ai rinnegati - come noi due, gioia mia - è già molto se non ci sputano in faccia. Ma se tu hai voglia di tentare, io ti appoggerò; e sono sicuro che la battaglia mi divertirà moltissimo. E poiché stiamo parlando di denaro, voglio dirti un'altra cosa. Tu potrai avere da me tutto il denaro che vorrai, per la casa e per i tuoi capricci. E se ti piacciono i gioielli potrai averne, purché li scelga io. Tu hai un gusto esecrabile, gioia mia. E avrai anche tutto ciò che vorrai per Wade e Ella. E se Will Benteen vuol commerciare il cotone che coltiva, io sono disposto a prender parte all'affare per aiutare quell' «elefante bianco» della Contea di Claynton a cui sei tanto attaccata. Che ne dici? - Dico che sei molto generoso. - Ma ascoltami bene. Neanche un centesimo per la bottega né per i tuoi adorati stabilimenti. - Oh - fece Rossella con un po' di muso. Durante tutta la luna di miele aveva sempre pensato al modo di portare il discorso sui mille dollari di cui aveva bisogno per comprare altri cinquanta piedi di terreno a fine di ingrandire il deposito del legname. - Ti ho sempre ritenuto dotato di vedute larghe - riprese poi - e incurante delle chiacchiere della gente sul fatto che io gestisco i miei stabilimenti; e invece sei come gli altri... Hai paura che si dica che sono io che porto i calzoni in casa! - Nessuno sospetterà mai questo, in casa Butler. E io m'infischio di quello che dice la gente. Sono abbastanza maleducato per essere orgoglioso di avere una moglie abile e intelligente. Desidero che tu continui a gestire il negozio e gli stabilimenti. Sono i figliuoli tuoi. Quando Wade sarà grande, non gli farà piacere essere mantenuto dal padrigno; e allora potrà assumere la gestione. Ma non un centesimo del mio denaro servirà per quelle aziende. - Perché? - Perché non voglio contribuire al mantenimento di Ashley Wilkes. - Ricominciamo? - No. Ma tu mi chiedi il motivo e io ti rispondo. Un'altra cosa. Non credere di potere alterare i libri e mentire sul prezzo dei tuoi vestiti e su quanto occorre per mandare avanti la casa, in modo da poter mettere da parte del denaro per comprare altri muli o un altro stabilimento per Ashley. Io voglio essere al corrente di tutto e controllerò le tue spese, perché conosco il costo degli oggetti. Oh, non fare l'offesa! Saresti capacissima di fare questo ed altro. Non mi fiderei per nulla di te, quando si tratta di cosa che può concernere Tara o Ashley. Di Tara non m'importa. Ma per Ashley, debbo mettere l'alto là. Ti tengo le redini molto lente, gioia mia; ma non dimenticare che sono anche provvisto di scudiscio e di sproni.

Pagina 845

Peccato che nessuna di voi abbia le mani cosí - aggiunse rivolgendo alle figliole uno sguardo affettuoso ma riprovevole. - Carolene ha paura delle bestie, Súsele ha delle mani che sembran d'acciaio, quando prende le redini, e tu, gattina... - Ad ogni modo io non sono mai stata buttata giú - esclamò Rossella indignata - e la signora Tarleton ogni volta che va alla caccia va a finire in qualche fosso. - E si comporta come un uomo - riprese Geraldo. - Senza svenimenti e senza storie. Ma zitta ora; sta arrivando. Si drizzò sulle staffe e si tolse il cappello, agitandolo appena vide spuntare la carrozza stipata di fanciulle in abiti chiari, parasoli e veli fluttuanti, con la signora Tarleton a cassetta, come Geraldo aveva annunciato. Con le sue quattro figliole, la loro bambinaia e gli abiti da ballo in lunghe scatole di cartone che riempivano la vettura, non rimaneva spazio per il cocchiere. E del resto, Beatrice Tarleton non permetteva mai che nessuno, bianco o negro, tenesse le redini quando lei aveva le braccia libere. Fragile, sottile di osso, e cosí bianca di pelle che i suoi capelli fiammeggianti sembravano aver assorbito nella loro massa ardente tutto il colore del suo volto, era nondimeno dotata di una salute esuberante e di un'energia instancabile. Aveva messo al mondo otto figliuoli, rossi di capelli e pieni di vita come lei, e li aveva allevati - si diceva - ottimamente, perché usava con loro la stessa severa disciplina e affettuosa indifferenza che usava coi suoi puledri. - Domateli, ma non togliete loro la vivacità - era il motto della signora Tarleton. Amava i cavalli e ne parlava continuamente. Li comprendeva e sapeva trattarli meglio di chiunque altro nella Contea. I puledri affollavano la pastura al confine del prato dinanzi alla casa, come i suoi otto figlioli affollavano la casa sulla collina; e puledri, figli e figlie, e cani da caccia la seguivano dappresso quando ella giungeva alla piantagione. Ella attribuiva ai suoi cavalli, specialmente alla sua giumenta Nelly, un'intelligenza umana; e se le cure della casa le impedivano di muoversi nell'ora in cui contava di fare la sua cavalcata quotidiana, ella metteva la ciotola dello zucchero nelle mani di un negretto e gli diceva: - Danne una manciata a Nelly, e dille che uscirò piú tardi. Eccetto rare occasioni, portava sempre l'abito da amazzone, perché anche senza averlo fissato prima, aspettava da un momento all'altro di potere andare a cavallo; e in questa attesa, indossava l'abito appena alzata. Ogni mattina, pioggia o bel tempo, Nelly era sellata e passeggiava su e giú dinanzi alla casa, aspettando il momento in cui la signora Tarleton potesse togliere un'ora ai propri doveri. Ma Fairhill era una piantagione difficile da dirigere, e raramente era possibile trovare il tempo; il piú delle volte Nelly passeggiava per delle ore senza cavaliere, mentre Beatrice Tarleton sbrigava le sue faccende con la gonna distrattamente rialzata sul braccio, mostrando al di sotto quindici centimetri di lucidi stivaloni. Oggi, con un abito di seta nera opaca, su una crinolina troppo piccola per la moda, sembrava ancora vestita da amazzone, perché l'abito era tagliato severamente come il suo costume da cavallo, e il cappellino nero con la lunga piuma, abbassato sugli occhi neri lucidi e ardenti, era una copia del vecchio cappello che adoperava per andare a caccia. Agitò la frusta vedendo Geraldo e trattenne la sua impaziente pariglia rossa, mentre le quattro ragazze si sporgevano fuori dalla carrozza vociferando i loro saluti a voce cosí alta che i cavalli sobbalzarono spaventati. Un osservatore casuale avrebbe supposto che i Tarleton e gli O'Hara non si vedessero da anni invece che da giorni. Ma erano persone socievoli e amavano i loro vicini, specialmente le ragazze O' Hara. Cioè amavano Súsele e Carolene. Nessuna ragazza della Contea, eccettuato forse quella sventata di Caterina Calvert, amava veramente Rossella. In estate, nella Contea si avevano conviti e balli quasi ogni settimana. Ma per le fulve Tarleton con la loro enorme capacità di divertirsi, ogni riunione e ogni ballo era eccitante come se fosse il primo della loro vita. Era un grazioso e vivacissimo quartetto, cosí stipato nella carrozza che le ampie gonne a cerchi e i volanti si gonfiavano spumeggiando, e i piccoli parasoli si urtavano fra di loro al di sopra degli ampi cappelli di paglia di Firenze incoronati di rose e ornati di nastri di velluto nero. Tutte le sfumature del fulvo erario sotto quei cappelli: i capelli di Etta erano di un rosso schietto, quelli di Camilla color pannocchia, quelli di Miranda a riflessi cuprei e quelli della piccola Bettina color carota. - È un bel branco, madama, - disse galantemente Geraldo portandosi col cavallo di fianco alla carrozza. - Ma son ben lontane dal superare la loro mamma. La signora Tarleton girò i suoi occhi bruni e si succhiò il labbro inferiore, come burlesco ringraziamento; le ragazze esclamarono: - Mamma, smettila di far la civetta, altrimenti lo diciamo al babbo! - Vi assicuro, Mr. O' Hara, che non ci dà mai modo di farci valere quando c'è un bell'uomo come voi. Rossella rise con le altre di queste celie, ma come sempre, la libertà con la quale le Tarleton trattavano la loro mamma, la urtò. Facevano come se essa fosse una di loro, e non avesse piú di sedici anni. Per Rossella la sola idea di poter dire una cosa simile a sua madre, era un sacrilegio; eppure... eppure... vi era qualche cosa di molto piacevole nelle relazioni delle ragazze Tarleton con la loro mamma; ed esse la adoravano, benché la criticassero, la stuzzicassero, e la sgridassero. Non che lei potesse preferire una madre come la signora Tarleton, si affrettò lealmente a dire a se stessa; ma certo doveva essere molto divertente scherzare cosí con la mamma. Sapeva che anche questo pensiero era irrispettoso per Elena e se ne vergognò. Era sicura che nessun pensiero cosí fastidioso aveva mai turbato i cervelli sotto le quattro capigliature fiammeggianti; e come sempre quando si trovava diversa dalle sue vicine, si sentí invadere da una perplessità irritata. Benché il suo cervello fosse pronto, non era fatto per l'analisi; riusciva peraltro a rendersi conto che benché le ragazze Tarleton fossero sregolate come puledri e turbolente come giumente in marzo, vi era in loro una singolare spensieratezza ereditaria. Tanto da parte di madre che di padre, erano Georgiane del nord, solo di una generazione posteriore ai pionieri. Erano sicure di se stesse e del loro ambiente. Sapevano istintivamente ciò che dovevano fare, come i Wilkes, benché in modo assolutamente diverso. E in loro non erano quei conflitti, che frequentemente si dibattevano nel seno di Rossella, nella quale il sangue di un'aristocratica della costa, dolce e quieta, si mescolava col sangue di un contadino irlandese accorto e grossolano. Rossella desiderava rispettare e adorare sua madre come un idolo, ma anche scompigliarle i capelli e stuzzicarla. E sapeva che bisognava fare o una cosa o l'altra. Era lo stesso conflitto che le faceva desiderare di apparire una signora delicata e aristocratica ai giovanotti ed essere nello stesso tempo una sfacciatella che non faceva scrupolo per qualche bacio. - Dov'è Elena, stamattina? - chiese la signora Tarleton. - Abbiamo licenziato il nostro sorvegliante ed Elena è rimasta a casa per verificare i conti. E vostro marito? E i ragazzi? - Oh, sono andati alle Dodici Querce già da un pezzo, per assaggiare il ponce e sentire se era abbastanza forte; come se non vi fosse tempo fino a domattina per questo! Pregherò John Wilkes di ospitarli stanotte, anche se, deve metterli nella stalla. Cinque uomini ubriachi sono troppi per me. Fino a tre me la cavo, ma... Geraldo la interruppe in fretta per mutare argomento. Sentiva dietro le sue spalle le figlie che ridacchiavano di lui, ricordando in che condizioni era tornato a casa l'autunno precedente dal banchetto dei Wilkes. - E come mai oggi non siete a cavallo, Mrs. Tarleton? Non mi sembrate voi, senza Nelly. Quando siete a cavallo vi si direbbe uno Sténtore. - Uno Sténtore! Ignorante che siete! - esclamò Mrs. Tarleton rifacendogli il verso. - Volete dire un centauro. Sténtore era un uomo che aveva la voce come un tamburo di bronzo. - Sténtore o centauro, fa lo stesso - rispose Geraldo senza scomporsi per il suo errore. - Del resto, anche voi avete una voce come un tamburo di bronzo quando chiamate i vostri cani. - Ti sta bene, mamma, - disse Etta. - Te l'avevo detto che urli come un indiano quando vedi una volpe. - Ma non cosí forte come urli tu quando Mammy ti lava le orecchie - ribatté Mrs. Tarleton. - E hai sedici anni! Quanto al non cavalcare oggi, è perché Nelly stamattina presto ha partorito. - Davvero? - esclamò Geraldo con vero interesse e con gli occhi brillanti della passione irlandese per i cavalli; e Rossella si sentí nuovamente urtata paragonando sua madre alla signora Tarleton. Per Elena né giumente né mucche partorivano mai. Quasi quasi neanche le galline facevano le uova. Elena ignorava completamente queste cose. Ma la Tarleton non aveva di queste reticenze. - Una puledra? - No; un piccolo stallone con delle gambe lunghe due metri. Dovete venire a vederlo, Mr. O'Hara. È un vero cavallo Tarleton: rosso come i riccioli di Etta. - E le somiglia anche molto - soggiunse Camilla; e scomparve gridando in mezzo a un piccolo vortice di sottane, sottovesti e cappelli che si agitavano, mentre Etta, imbronciata, le dava dei pizzicotti. - Le mie puledrine sono tutte eccitate, stamattina - riprese la signora Tarleton. - Hanno cominciato ad essere impazienti da quando abbiamo avuto la notizia del fidanzamento di Ashley con quella sua cuginetta di Atlanta. Come si chiama? Melania? Dio la benedica, è una cara creatura, ma non riesco mai a ricordarmi né il suo nome né il suo viso. La nostra cuoca è la moglie del cameriere dei Wilkes e ierisera ha portato a casa la notizia che stasera si annunzierà il fidanzamento; Cuochetta ce lo ha detto stamane. E come vi dico, le ragazze sono tutte eccitate; non ne capisco la ragione. Tutti sappiamo da anni che Ashley avrebbe fatto questo matrimonio, a meno che non avesse sposato una delle sue cugine Burr di Macon. Tale e quale come Gioia Wilkes che è destinata a sposare suo cugino Carlo. Ma ditemi una cosa, Mr. O'Hara: è illegale per i Wilkes sposarsi fuori della loro famiglia? Perché nel caso... Rossella non udí il resto della frase pronunciata in mezzo a scoppi di risa. Per un attimo aveva avuto l'impressione che il sole fosse scomparso dietro a una nuvola densa, lasciando il mondo nell'ombra, scolorando tutte le cose. Il fresco fogliame parve morticcio, il còrniolo pallido, e il melo selvatico, di un rosso cosí bello pochi minuti prima, lugubre e sbiadito. Rossella ficcò le unghie nell'imbottitura della carrozza, e il suo parasole ondeggiò. Un conto era sapere che Ashley era fidanzato, ma un altro conto era udirne parlare cosí indifferentemente. Il coraggio però le ritornò rapidamente; il sole riapparve e il paesaggio divenne un'altra volta gaio e brillante. Ella sapeva che Ashley la amava. Questo era certo. E sorrise al pensiero della sorpresa della signora Tarleton quando, la sera, non sarebbe stato annunciato alcun fidanzamento; e piú ancora se vi fosse una fuga. E come parlerebbe dell'aria innocente con la quale Rossella aveva ascoltato i suoi discorsi su Melania, mentre intanto era d'accordo con Ashley... Questi pensieri fecero apparire le fossette sulle sue guance, mentre Etta, che stava osservando con curiosità l'effetto delle parole di sua madre, ricadde indietro sui cuscini con un'espressione leggermente perplessa. - Non siamo d'accordo, Mr. O'Hara - stava dicendo enfaticamente Beatrice. - Questi matrimoni fra cugini non sono una buona cosa. Trovo già un errore che Ashley sposi la figlia di Hamilton; ma che Gioia, poi, debba sposare quel Carletto pallido e smunto... - Gioia non troverà marito se non sposa Carlo - disse Miranda, crudele e sicura delle proprie attrattive. - Non ha mai avuto nessun altro corteggiatore. E lui non è mai stato molto carino con lei, benché siano fidanzati. Ti ricordi, Rossella, come ti stava intorno, a Natale... - Non far la pettegola, madamigella - la interruppe sua madre. - I cugini non si dovrebbero mai sposare fra loro; neanche i secondi cugini. Il sangue si indebolisce. Non è come per i cavalli. Potete unire una giumenta a suo fratello o uno stallone a sua sorella e avete ottimi risultati, se conoscete la razza; ma fra uomini la cosa non va. I figli potranno avere dei bei lineamenti, ma punto robustezza. E... - Qui, signora, non sono d'accordo con voi! Potete citarmi gente piú bella e robusta dei Wilkes? E si sono sempre sposati fra cugini, fin da quando Briano Boru era un ragazzo. - Ma sarebbe tempo che la smettessero, perché ora si comincia ad accorgersi del danno. Oh, non dico per Ashley, che è un bel ragazzo, quantunque anche lui... Ma guardate quelle due figliuole, che pena! Belline, senza dubbio, ma cosí pallide! E guardate la piccola Melania. Sottile come un crostino e tanto delicata che basta un soffio di vento a darle un raffreddore; e senza ombra di spirito. Non sa nulla di nulla. «Sí, signora! No, signora!» è tutto ciò che sa dire. Capite quello che intendo? Quella famiglia ha bisogno di un bel sangue vigoroso, come le mie testoline rosse o la vostra Rossella. Non mi fraintendete. I Wilkes sono persone simpatiche sotto tanti punti di vista e sapete benissimo che io voglio loro bene; ma siamo schietti! Sono troppo educati e anche poco naturali, non vi pare? Faranno buona figura su una carraia asciutta, ma badate a quello che dico: non credo che i Wilkes sappiano galoppare sulla strada infangata. Mi pare che non abbiano energia; e ritengo che non siano capaci di superare gli ostacoli che potrebbero presentarsi. Animali che hanno bisogno del bel tempo. Datemi un bravo cavallone che corra con tutti i tempi! E i loro matrimoni fra consanguinei li hanno resi diversi da tutti gli altri. Sempre a gingillarsi col pianoforte o sprofondati nei libri! Scommetto che Ashley preferisce leggere che andare a caccia! Sí, ne sono convinta, Mr. O'Hara! E guardate che ossa. Troppo sottili. Hanno bisogno di giumente e stalloni robusti... - Ah... hhum... - fece improvvisamente Geraldo, rendendosi conto che la conversazione, che per lui era adatta e interessante, non sarebbe sembrata tale a Elena. La quale non avrebbe mai perdonato se avesse saputo che le sue figliuole erano state esposte ad ascoltare dei discorsi cosí espliciti. Ma la signora Tarleton era, come sempre, sorda ad ogni altra idea quando si ingolfava nel suo tema favorito: l'allevamento, di cavalli o di uomini che fosse. - So quel che dico perché ho avuto dei cugini che si sono sposati fra loro e vi assicuro che i loro bambini vennero tutti con gli occhi sporgenti come dei ranocchi, povere creature! E quando la mia famiglia voleva che io sposassi un secondo cugino, mi impennai come un puledro. Dissi: «No, mamma. Non fa per me. I miei figli devono avere spalle e fianchi, da buoni galoppatori». La mamma svenne sentendomi parlare di galoppatori, ma io rimasi imperterrita e la nonna mi sostenne. Anche lei era molto pratica di allevamento di cavalli, e disse che avevo ragione. E mi aiutò a fuggire con Mr. Tarleton! E guardate i miei figli! Grandi e grossi e in buona salute, senza mai un raffreddore, benché Boys sia alto solo un metro e sessantacinque. Ora, Wilkes... - Non vi dispiacerebbe cambiare argomento, signora? - interruppe frettolosamente Geraldo che aveva notato lo sguardo sbalordito di Carolene e l'avida curiosità dipinta sul viso di Súsele e temeva che al ritorno a casa esse potessero rivolgere a Elena domande imbarazzanti le quali rivelerebbero che egli era un pessimo «chaperon». Fu lieto di notare che la sua Gattina sembrava pensare a tutt'altro. Etta gli venne in aiuto. - Ma sí, mamma, andiamo! - esclamò con impazienza. - C'è un sole che scotta e sento che mi stanno già venendo le lentiggini sul collo. - Un minuto, signora, prima di avviarci. Che cosa avete deciso di fare per i cavalli che vi abbiamo pregato di venderci per Io Squadrone? La guerra può scoppiare da un giorno all'altro e i ragazzi desiderano che la cosa sia sistemata. È uno squadrone della Contea di Clayton e noi desideriamo per loro dei cavalli di Clayton. Ma voi, creature ostinate, rifiutate di venderci le vostre belle bestie. - Forse la guerra non ci sarà - temporeggiò la signora, completamente distratta, ora, dal pensiero delle abitudini matrimoniali dei Wilkes. - Ma signora, non potete... - Mamma - interruppe nuovamente Etta - non potete, tu e Mr. O'Hara parlar di questo quando saremo alle Dodici Querce? - È giusto, miss Etta - annuí Geraldo - e non vi trattengo piú di un altro minuto d'orologio. Fra poco saremo alle Dodici Querce e tutti quanti, giovani e vecchi, vorranno sapere dei cavalli. Ma mi spezza il cuore vedere una brava signora come la vostra mamma cosí avara delle sue bestie! Dov'è il vostro patriottismo, Mrs. Tarleton? La Confederazione non ha nessuna importanza per voi? - Mamma - gridò Bettina - Miranda è seduta sul mio abito e me lo sgualcisce tutto! - Spingila perché si levi, e sta zitta. Quanto a voi, Geraldo O'Hara, ascoltatemi. - E i suoi occhi si accesero. - Non mi gettate in faccia la Confederazione! Reputo che essa abbia tanta importanza per me come per voi, avendo io quattro ragazzi nello Squadrone mentre voi non ne avete nessuno. Ma i miei ragazzi sanno badare a se stessi e i miei cavalli no. Li darei volentieri anche gratis, se sapessi che saranno cavalcati da ragazzi che conosco, signori abituati ai purosangue. No, non esiterei un minuto. Ma lasciare i miei tesori alla mercé di boscaioli e Crackers che sono abituati ad andare a dorso di mulo! No, signore! È un incubo per me il pensiero che siano sellati con selle umide e che non siano governati come si deve! Credete che io voglia affidare le mie bestie tenere di bocca a degli ignoranti, per vederle ridotte con la bocca insanguinata e rovinata; ignoranti che li frusterebbero fino a far perder loro ogni vivacità! Mi viene la pelle d'oca solo a pensarci! No, Mr. O'Hara; siete molto gentile chiedendo i miei cavalli, ma è meglio che andiate ad Atlanta a comprare per i vostri villani dei vecchi ronzini. - Mamma, vogliamo andare, per piacere? - Era Camilla che si univa al coro impaziente. - Sai benissimo che finirai col cedere e dare i tuoi tesori. Quando il babbo e i ragazzi ti convinceranno che la Confederazione ne ha bisogno, ti metterai a piangere e glieli darai. La signora Tarleton ridacchiò e crollò le spalle. - Non lo farò - disse poi, toccando leggermente i cavalli con la punta dello sverzino. La carrozza si mosse velocemente. - È una brava donna - disse Geraldo rimettendosi il cappello e riprendendo il suo posto a fianco del proprio veicolo. - Vai, Tobia. La persuaderemo e avremo i cavalli. Senza dubbio ha ragione. Ha ragione. Se uno non è un signore, il cavallo non è affar suo. Il posto per lui è in fanteria. Ma purtroppo, in questa Contea non vi sono abbastanza figli di piantatori per fare un intero Squadrone. Che avevi detto, Gattina? - Ti prego, babbo, di andare davanti alla carrozza o dietro. Sollevi una tal quantità di polvere che soffochiamo - rispose Rossella che sentiva di non poter sopportare piú a lungo la conversazione. La distraeva dai suoi pensieri; ed ella desiderava rendere questi e il proprio volto ugualmente simpatici prima di giungere alle Dodici Querce. Geraldo, ubbidiente, spronò il cavallo e si allontanò in una nube rossastra per raggiungere la carrozza dei Tarleton. Avrebbe potuto cosí continuare la sua conversazione di argomento equino.

Pagina 86

Sono stata tanto contenta che almeno la Georgia abbia aspettato dopo Natale a separarsi, altrimenti anche i ricevimenti natalizi sarebbero andati a monte. Se pronunciate ancora la parola «guerra» me ne vado in casa. E lo avrebbe fatto, perché era incapace di sopportare per molto tempo una conversazione di cui ella non fosse l'argomento principale. Ma sorrideva nel parlare, sicché sulle sue guance si formavano due graziose fossette, e le sue lunghe ciglia nere palpitavano come ali di farfalla. I ragazzi furono affascinati, com'ella aveva previsto, e si affrettarono a chiederle scusa per averla annoiata. La sua mancanza di interessamento non la diminuiva ai loro occhi; essi pensavano che la guerra era una cosa che riguardava gli uomini e non le donne, e il suo atteggiamento parve anzi a loro una prova della sua femminilità. Essendo riuscita a sviarli dal noioso argomento della guerra, ella tornò ad interessarsi della loro situazione immediata. - Che cosa ha detto la mamma del fatto che siete stati nuovamente espulsi? I ragazzi si sentirono a disagio, ricordando qual era stata la condotta della mamma tre mesi prima, quando essi erano tornati dall'Università di Virginia. - Veramente - disse Stuart - non ha ancora avuto occasione di dir nulla. Stamattina noi e Tom siamo usciti presto, prima che si alzasse; Tom si è fermato dai Fontaine mentre noi siamo venuti qui. - E ieri sera, quando siete arrivati, non ha detto nulla? - Oh, siamo stati fortunati. Poco prima del nostro arrivo, era stato portato il nuovo stallone che Mammà si è procurato il mese scorso nel Kentucky, e tutti erano sottosopra. Quel bestione - è un gran cavallo, Rossella; devi dire a tuo padre di venirlo a vedere - aveva già dato un morso, cammin facendo, al garzone che lo aveva condotto e aveva calpestato due negri di Mammà che erano andati all'arrivo del treno a Jonesboro. E pochi minuti prima del nostro arrivo aveva mezzo demolito la stalla a calci e quasi ammazzato Strawberry, il vecchio stallone di Mammà. Abbiamo visto Mammà fuori della stalla con un sacchetto di zucchero, che cercava di ammansirlo, e vi riusciva. I negri, tutti spaventati, stavano a guardare Mammà che parlava col cavallo come se fosse una persona e gli dava da mangiare in mano. Nessuno sa trattare i cavalli come Mamma. Quando ci ha visti ha detto: «In nome del cielo, che diamine siete tornati a fare a casa? Siete peggio delle piaghe d'Egitto!» Allora il cavallo cominciò a sbuffare e a impennarsi, e Mammà a gridare: «Via, andate via! Non vedete che è nervoso, questo tesoro? Andate, mi occuperò di voi domattina!» Cosí ce ne andammo a letto e stamattina ci siamo alzati prima di lei e abbiamo lasciato Boyd a casa per parlarle. - Credi che lo picchierà? - Come tutti gli abitanti della Contea, Rossella non riusciva a capire come la piccola signora Tarleton trattasse cosí tirannicamente i figliuoli grandi e li percuotesse col suo frustino quando l'occasione lo richiedeva. Beatrice Tarleton era una donna attiva, che dirigeva non solo la sua grande piantagione di cotone, con un centinaio di negri, e otto figliuoli, ma anche il piú grande allevamento di cavalli della contrada. Era di umor vivo e facilmente irritata dalle frequenti scappate dei suoi quattro figli; e, mentre a nessuno era permesso di frustare un cavallo o uno schiavo, ella riteneva che una bastonata ogni tanto non facesse alcun male ai ragazzi. - Oh, non lo batterà di certo. Non lo ha mai picchiato molto perché è il piú vecchio ed è anche il nano della famiglia - riprese Stuart fiero del suo metro e novanta. - Perciò lo abbiamo lasciato a casa a darle le spiegazioni. Dio benedetto, Mammà dovrebbe smetterla di frustarci! Abbiamo diciannove anni e Tom ne ha ventuno e lei ci tratta come se fossimo bambini di sei anni! - E cavalcherà il suo nuovo cavallo domani; alla riunione dei Wilkes? - Ne avrebbe il desiderio, ma il Babbo dice che è troppo pericoloso. E poi, le ragazze non glielo permetteranno. Vogliono vederla intervenire almeno una volta a una riunione in carrozza, come una signora. - Speriamo che non piova, domani - prosegui Rossella; - da una settimana piove tutti i giorni. Non c'è niente di piú noioso di una merenda fatta in casa. - Oh, sarà bel tempo e caldo come in giugno - affermò Stuart. - Guarda il tramonto: non ne ho mai visto di piú rossi. Sai che dal tramonto si può sempre prevedere che tempo farà il giorno seguente. Guardarono verso l'orizzonte vermiglio, oltre gli sterminati campi di cotone di Geraldo O'Hara. Ora che il sole stava declinando avvolto di porpora dietro le colline al di là del fiume Flint, il calore della giornata d'aprile dava luogo a una piacevole frescura. La primavera era giunta in anticipo quell'anno, con piogge tepide e un improvviso spumeggiare di rosei fiori di pesco; i còrnioli macchiavano di grosse chiazze candide la palude scura e le colline lontane. L'aratura era quasi terminata e la gloria sanguigna del tramonto dava ai solchi di rossa terra della Georgia una tinta anche piú ardente, il terriccio umido che attendeva avidamente i semi del cotone appariva roseo nel fondo sabbioso dei solchi, vermiglio, scarlatto e focato dove si stendevano le ombre sui lati dei fossati. La casa di pietra intonacata di bianco sembrava un'isola in un selvaggio mare purpureo, un mare le cui onde si fossero improvvisamente pietrificate nel momento in cui si frangevano. Perché quivi non erano solchi lunghi e dritti come si vedevano nei campi di argilla giallastra della piatta Georgia centrale o nella terra nera delle piantagioni che sorgevano sulla costa. L'ondulosa e collinosa campagna della Georgia settentrionale era lavorata in un'infinità di curve per impedire che la terra generosa franasse e andasse a finire in fondo al fiume. Era un terriccio di un violento colore sanguigno dopo le piogge, simile a polvere di mattone durante i periodi di siccità; la migliore del mondo per la coltivazione del cotone. Un piacevole paesaggio di case bianche, di campi tranquilli e ben lavorati, di pigri fiumi dall'acqua giallastra; ma pieno di contrasti, di sole abbagliante e di ombre dense. Le zone dissodate e le vaste estensioni di campi di cotone sorridevano a un sole caldo, placido e compiacente. Ai loro margini sorgevano le foreste vergini, fresche ed oscure anche nei meriggi piú ardenti, misteriose, un po' sinistre, ove i pini sembravano attendere con secolare pazienza e mormorare minacciosi: «Badate! State attenti! Vi abbiamo avuti una volta. Possiamo riprendervi nuovamente». All'orecchio dei tre sotto al porticato giunse uno strepito di zoccoli, un tintinnar di catene di bardature e il riso stridente dei negri, poiché lavoratori e mule tornavano dai campi. Dall'interno della casa si udí la voce dolce della madre di Rossella, Elena O'Hara, chiamare la bimba negra che portava il suo cestello di chiavi. La voce acuta infantile rispose: - Eccomi, signora - e vi fu uno scalpiccío nel retro della casa, verso il luogo dove si conservavano i viveri affumicati e dove Elena doveva misurare il cibo per i coltivatori che tornavano a casa. Vi fu un acciottolio di porcellane e un tramestio di argenti quando Pork, il domestico-maggiordomo di Tara, apparecchiò la tavola per la cena. Udendo questi ultimi rumori, i gemelli si accorsero che era ora di muoversi per tornare a casa. Ma non avevano nessuna voglia di trovarsi di fronte alla madre e rimasero ancora a gingillarsi sotto al porticato aspettando da un momento all'altro che Rossella li invitasse a rimanere a cena. - A proposito, Rossella. E per domani? - cominciò Brent. - Non sarebbe giusto che essendo stati via e ignorando dell'invito e del ballo, dovessimo essere privati di ballare con te domani sera. Non avrai promesso tutti i balli, spero? - Sicuro che li ho promessi! Come potevo sapere che sareste tornati? Non potevo correre il rischio di rimanere a far tappezzeria per aspettarvi! - Tu, far tappezzeria! - i ragazzi risero saporitamente. - Senti, cara - riprese Brent. - Mi darai il primo valzer e darai l'ultimo a Stu; e cenerai con noi. Staremo seduti sulla scaletta dell'approdo come abbiamo fatto all'ultimo ballo e ci faremo dire nuovamente la buona ventura da Mammy Jincy. - Non mi piacciono le predizioni di Mammy Jincy. Sapete benissimo che ha detto che dovevo sposare un signore coi capelli nerissimi e lunghi baffi neri; e sapete che non mi piacciono gli uomini bruni. - Ti piacciono i fulvi, non è vero, gioia? - rise Brent. - Via, promettici tutti i valzer e la cena. - Se ce li prometti, ti riveliamo un segreto - soggiunse Stuart. - Quale? - esclamò Rossella, ansiosa come una bambina. - Quello che abbiamo saputo ieri ad Atlanta, Stu? Se è quello, sai che abbiamo promesso di non parlare. - Sicuro; ce l'ha detto la signorina Pitty. - La signorina chi? - Sai, quella cugina di Ashley Wilkes che sta ad Atlanta: la signorina Pittypat Hamilton; la zia di Carlo e di Melania Hamilton. - La conosco; non ho mai conosciuto una vecchia piú stupida. - Ebbene: ieri mentre eravamo ad Atlanta aspettando il treno per venire qui, la incontrammo in carrozza; si fermò a parlarci e ci disse che domani sera al ballo di Wilkes verrà annunziato un fidanzamento. - Oh, lo so! - esclamò Rossella delusa. - Quell'idiota di suo nipote, Carletto Hamilton, con Gioia Wilkes. Lo sappiamo da anni che un giorno o l'altro dovevano sposarsi, benché lui sia abbastanza tiepido. - Credi che sia un idiota? - chiese Brent. - A Natale hai lasciato che ti ronzasse intorno parecchio. - Non potevo impedirgli di ronzare - e Rossella alzò le spalle negligentemente. - Ma credo che sia proprio uno scemo. - Del resto, non è il suo fidanzamento quello che sarà annunciato - dichiarò Stuart trionfante - ma quello di Ashley con la sorella di Carletto, Melania. Il volto di Rossella non mutò, ma le sue labbra si sbiancarono, come capita a chi riceve un colpo violento senza preavviso e che, nel primo momento, non si rende ben conto di quanto accade. La sua espressione era cosí calma che Stuart, poco osservatore, ritenne per certo che ella fosse soltanto sorpresa e molto incuriosita. - La signorina Pitty ci ha detto che non volevano annunciarlo ufficialmente fino all'anno venturo, perché Melania è stata poco bene; ma con le voci di guerra che ci sono in giro, le famiglie hanno pensato che era meglio sollecitare il matrimonio. Cosí il fidanzamento sarà annunciato domani sera, durante la cena. Ora che ti abbiamo detto il segreto, devi prometterci di cenare con noi. - Senza dubbio - rispose Rossella automaticamente. - E tutti i valzer? - Tutti. - Sei un tesoro! Scommetto che gli altri saranno furenti. - Che ce ne importa? - disse Brent. - In caso l'avranno da fare con noi. Un'altra cosa, Rossella: domattina, a mangiare la porchetta, siedi accanto a noi. - Che cosa? Stuart ripeté la domanda. - Va bene. I gemelli si guardarono giubilanti ma con una certa sorpresa. Benché si ritenessero i corteggiatori favoriti di Rossella, non avevano mai fino ad ora ottenuto cosí facilmente dei segni del suo favore. Di solito ella lasciava che pregassero e supplicassero, prendendoli in giro, rifiutando di dire un sí o un no, ridendo quando si imbronciavano, diventando glaciale quando si adiravano. Ed ora aveva promesso praticamente di trascorrer con loro tutta la giornata seguente: stare con loro durante quella colazione all'aperto in cui si mangiava la porchetta arrostita intera, e poi tutti i valzer (avrebbero pensato loro a far suonare soltanto dei valzer!) e la cena. Valeva la pena di farsi espellere dall'Università. Pieni di nuovo entusiasmo per il loro successo, si gingillarono parlando del pic-nic, del ballo e di Ashley Wilkes e di Melania Hamilton, interrompendosi l'un l'altro, scherzando e ridendo e cercando di farsi invitare a cena. Passò un po' di tempo prima che si accorgessero che Rossella non parlava. L'atmosfera era mutata. I gemelli non capirono perché, ma lo splendore del pomeriggio era scomparso. Sembrava che Rossella prestasse poca attenzione a ciò che essi dicevano, benché rispondesse correttamente. Intuendo qualche cosa che non riuscivano a comprendere, annoiati e contrariati, i gemelli esitarono alquanto; quindi si alzarono con riluttanza, guardando i loro orologi. Il sole era basso al di là dei campi arati, e i grandi boschi oltre il fiume apparivano piú grandi nei loro neri profili. Le ombre dei comignoli spiccavano sul cortile; e galline, anatre, tacchini attraversavano i campi barcollando sulle gambe corte. Stuart urlò: - Jeems! - Dopo un istante un giovinotto negro della loro età, alto e robusto, corse ansante, girando attorno alla casa verso i cavalli legati. Era il loro servitore e, come i cani, li accompagnava dovunque. Era stato il compagno di giochi della loro infanzia, regalato poi ai gemelli, in loro proprietà, per il loro decimo compleanno. Vedendolo, i cani dei Tarleton si alzarono dalla rossa polvere e rimasero ad attendere i loro padroni. I ragazzi si inchinarono e strinsero la mano a Rossella dicendole che l'indomani mattina si sarebbero trovati di buon'ora ad attenderla dinanzi alla casa dei Wilkes. Quindi si affrettarono a raggiungere i loro cavalli, balzarono in sella e, seguiti da Jeems, si avviarono al galoppo lungo il viale di cedri, agitando i cappelli ed emettendo grida di saluto. Oltrepassata la curva della strada polverosa che li nascondeva alla vista di Tara, Brent fermò il suo cavallo sotto a una macchia di còrnioli. Anche Stuart si fermò e il ragazzo negro rimase a qualche passo di distanza. I cavalli, sentendo che le redini erano lente, allungarono il collo a brucare le tenere erbette primaverili, e i cani pazienti si sdraiarono nuovamente nella soffice polvere rossa e guardarono con bramosa nostalgia il fumo dei comignoli che svaniva nel cielo crepuscolare. La larga faccia ingenua di Brent aveva un'espressione di stupore e di lieve indignazione. - Senti: non ti pare che avrebbe dovuto invitarci a cena? - disse a suo fratello. - Infatti - rispose Stuart. - Credevo che lo avrebbe fatto. Lo aspettavo. E invece non ci ha detto nulla. Che ne dici? - Niente. Ma mi pare che avrebbe dovuto invitarci. Dopo tutto, è il primo giorno che siamo a casa, e avevamo tante altre cose da dirle. - Quando siamo arrivati, mi è sembrato che fosse molto contenta di vederci. - È sembrato anche a me. - E poi, circa mezz'ora fa, è diventata silenziosa come se avesse mal di capo. - Infatti; ma lí per lí non ci ho badato. Che cosa credi che avesse? - Non saprei. Abbiamo forse detto qualche cosa che l'ha irritata? Rimasero per un minuto a riflettere. - Non ne ho nessun'idea. Del resto, quando Rossella si irrita, se ne accorgono tutti. Non si comporta come le altre ragazze. - Sí, e questo è quello che mi piace in lei. Non diventa fredda e astiosa, ma dice le sue ragioni. Sarà qualche cosa che abbiamo fatto o detto che l'ha fatta diventare silenziosa e quasi annoiata. Giurerei che quando siamo arrivati è stata contenta e aveva l'idea d'invitarci a cena. - Non sarà perché siamo stati espulsi? - Ma no! Non dire sciocchezze. Ha riso tanto quando glielo abbiamo raccontato... - E poi Rossella non ha maggior passione pei libri di quanta ne abbiamo noi. Si volse sulla sella e chiamò il negro. - Jeems! - Badrone? - Hai sentito di che cosa parlavamo con la signorina Rossella? - Mai piú, Mr. Brent! Come bensare che io stare a spiare signori bianchi? - Spiare! Voialtri negri sapete sempre tutto quello che succede. Del resto, bugiardo che sei, ti ho visto coi miei occhi gironzolare attorno al porticato e accoccolarti nel cespuglio dei gelsomini accanto al muro. Dunque: ci hai sentito dire qualche cosa che può avere irritato la signorina Rossella o aver ferito i suoi sentimenti? Interrogato in questo modo, Jeems smise di fingere di non aver udito la conversazione e aggrottò la sua nera fronte. - Veramende io non essere accorto che aver detto niente che botere irritarla. Mi è sembrato che essere molto condenda di vedere miei badroni, ed essere felice come un uccellino fino a quando avere barlato del fidanzamento di Mr. Ashley con miss Melly Hamilton. Allora essere diventata silenziosa come uccello quando vede volare falco. I gemelli si guardarono e annuirono, ma senza capire. - Jeems ha ragione. Ma non vedo perché - disse Stuart. - Dio mio! Ashley è soltanto un amico per lei. Non è innamorata di lui. È innamorata di noi. Brent annuí. - Forse si sarà adirata perché Ashley non le ha dato la notizia prima che agli altri. Sono amici da tanti anni; e poi le ragazze tengono molto ad essere informate per prime di queste cose. - Può darsi. Ma che ci sarebbe di male? Doveva essere un segreto, una sorpresa... e uno ha bene il diritto di serbare il silenzio sul proprio fidanzamento, no? Noi non lo avremmo saputo se non ce lo avesse detto la zia di miss Melania. Ma Rossella doveva sapere che un giorno o l'altro ci sarebbe stato questo matrimonio. Noialtri, infatti, lo sapevamo da anni. I Wilkes e gli Hamilton si sposano sempre tra cugini. Tutti sapevano che l'avrebbe probabilmente sposata, come Gioia Wilkes sposerà il fratello di Melania, Carletto. - E va bene, sarà cosí. Ma mi secca che non ci abbia trattenuti a cena. Ti giuro che non ho nessuna voglia di andare a casa e sentire quello che dirà la Mamma per la nostra espulsione. Non è la prima volta! - Forse a quest'ora Boyd l'avrà calmata. Ci riesce sempre, con le sue chiacchiere, quel vermiciattolo! - Sí, ci riesce, ma gli ci vuole del tempo. Parla, parla finché la confonde e allora la Mamma gli dice che la smetta e si risparmi la voce per quando farà l'avvocato. Ma in queste poche ore non è stato certo possibile. Scommetto che la Mamma è cosí eccitata per il suo nuovo cavallo che non si ricorderà neppure che siamo tornati, finché non siederà a cena e vedrà Boyd. E prima che la cena sia finita farà fuoco e fiamme. Arriveranno le dieci prima che Boyd trovi il momento opportuno per dirle che non sarebbe stato onorevole che uno della famiglia fosse rimasto in collegio dopo che il rettore ha trattato te e me in quel modo. E ci vorranno due ore perché Boyd le faccia cambiare umore; a mezzanotte sarà diventata furibonda contro il rettore e chiederà a Boyd perché non lo ha ammazzato. No, non possiamo andare a casa prima di mezzanotte. I gemelli si guardarono cupamente. Non avevano paura dei cavalli selvaggi, delle risse e delle questioni che finivano a rivoltellate, ma avevano un sacro terrore delle sgridate della loro fulva genitrice e dello scudiscio che ella maneggiava senza ritegno. - Facciamo una cosa - riprese Brent. - Andiamo dai Wilkes. Ashley e le ragazze saranno contenti di averci a cena. Stuart crollò il capo, sconfortato. - No, non ci possiamo andare. Saranno sottosopra a preparar tutto per domani; e poi... - Oh, non ci pensavo piú - interruppe Brent. - Hai ragione; non ci andiamo. Diedero la voce ai cavalli e per un po' di tempo cavalcarono in silenzio; sulle abbronzate guance di Stuart era apparso un rossore di imbarazzo. Fino all'estate precedente Stuart aveva fatto la corte a Lydia Wilkes con l'approvazione di entrambe le famiglie e dell'intera contea. Tutti pensavano che la fredda e contegnosa Lydia avrebbe prodotto su lui l'effetto di un calmante. O almeno, lo speravano vivamente. E Stuart l'avrebbe sposata volentieri; ma Brent non approvò. Lydia gli piaceva, ma la trovava troppo semplice e innocua; impossibile innamorarsene anche lui, per far compagnia a Stuart. Era la prima volta che i gemelli non la pensavano allo stesso modo; e Brent era seccatissimo che suo fratello avesse delle attenzioni verso la fanciulla che a lui sembrava insignificante. E poi, l'estate precedente era accaduto che a una riunione politica che aveva luogo in un boschetto di querce, tutti e due avevano improvvisamente notato Rossella O'Hara. La conoscevano da molti anni e fin dalla loro infanzia era stata una delle compagne di giochi preferite, perché era capace di andare a cavallo e di arrampicarsi sugli alberi quasi tanto bene quanto loro. Ma adesso, con loro sorpresa, era diventata una giovine donna; ed era la piú graziosa e la piú simpatica del mondo. Per la prima volta si erano accorti che i suoi occhi verdi erano vivi e mobilissimi, che quando rideva faceva le fossette, che aveva mani e piedi piccini e una vita sottile. Queste loro osservazioni l'avevano fatta ridere clamorosamente e, solleticati dall'idea che essa li riteneva una coppia notevole, i due avevano sorpassato se stessi. Era stata una giornata memorabile nella vita dei gemelli. In seguito, ogni qualvolta ne parlavano, essi si chiedevano sempre come mai non avevano prima d'allora notato le qualità di Rossella. E non riuscivano a trovare la soluzione dell'enigma; cioè che Rossella aveva deciso, quel giorno, di farsi notare da loro. Ella era costituzionalmente incapace di sopportare che un uomo - chiunque fosse - si innamorasse di una donna che non era lei; e la vista di Lydia Wilkes che discorreva con Stuart era stata intollerabile per il suo carattere predace. Non contenta del solo Stuart, aveva gettato l'amo anche a Brent, ed era riuscita nel suo intento con una perfezione che sbalordiva entrambi i giovani. Ora erano tutti e due innamorati di lei, e tanto Lydia Wilkes quanto Enrichetta Munroe, di Lovejoy, a cui Brent aveva fatto una corte discreta, eran ben lontane dalla loro mente. Essi non si chiedevano quale sarebbe stato il perdente, qualora Rossella avesse scelto uno dei due. Avrebbero superato questa difficoltà quando fosse giunto il momento. Per ora erano contenti di essere nuovamente d'accordo sul conto della fanciulla, poiché fra loro non esisteva gelosia. Era una situazione che divertiva il vicinato e infastidiva la loro madre, la quale non aveva alcuna simpatia per Rossella. - Vi starà bene, se quella furbacchiona accetta uno di voi - soleva dire. - Oppure, può darsi che vi accetti entrambi, e allora dovrete andare a stare a Utah, se i Mormoni vorranno accogliervi... cosa di cui dubito... Quello che mi preoccupa è che un bel giorno vi picchierete perché sarete gelosi uno dell'altro a causa di quella piccola e falsa creatura dagli occhi verdi, e vi ammazzerete. D'altronde, anche questa non sarebbe una cattiva idea. Dal giorno della riunione politica, Stuart si era sempre trovato a disagio dinanzi a Lydia. Non che essa gli avesse mai mosso alcun rimprovero o avesse dato a divedere menomamente di essersi accorta del suo mutamento. Era troppo signora per farlo. Ma Stuart si sentiva colpevole verso di lei. Sapeva di essere riuscito a farsi amare e che Lydia lo amava ancora; e, nel profondo del cuore, sentiva di non essersi comportato da gentiluomo. Continuava a trovarla molto simpatica e la rispettava per il suo contegno freddo ed educato, per la sua istruzione e per tutte le sue qualità. Ma, accidenti!, era sempre cosí pallida e poco interessante e monotona, paragonata al fascino brillante e mutevole di Rossella. Con Lydia si sapeva sempre a che punto si era, mentre con Rossella non lo si sapeva mai. Questo poteva portare un uomo alla demenza, ma aveva il suo fascino. - Allora, andiamo da Cade Calvert e ceniamo da lui. Rossella ha detto che Caterina è tornata da Charleston. Forse avrà qualche notizia di Forte Sumter che ancora ignoriamo. - Caterina? Sono pronto a scommettere due contro uno che non sa neppure che il Forte era sopra al porto, e tanto meno che era pieno di yankees prima che noi li scacciassimo. Lei sa soltanto parlare dei balli a cui è stata e dei corteggiatori di cui ha fatto collezione. - Ad ogni modo, quando chiacchiera è divertente. Ed è un modo di passare il tempo finché Mammà sarà andata a letto. - E va bene, perbacco! Caterina è simpatica e piacevole, e sarò contento di aver notizie di Càrolo Rhett e dell'altra gente di Charleston; ma che il diavolo mi porti se tollero di mangiare ancora una volta avendo a tavola quella yankee della sua matrigna. - Non essere cosí aspro verso di lei, Stuart. È piena di buone intenzioni. - Non sono aspro. È una donna che mi fa pena, ma non mi piace la gente che mi fa pena. E poi continua a girare intorno, cercando di fare del suo meglio perché uno si senta come a casa sua; ma riesce sempre a fare e dire tutto il contrario di quello che dovrebbe. Mi dà ai nervi! E crede che i meridionali siano selvaggi. Lo ha detto alla Mamma. Ha paura della gente del Sud. Quando siamo da lei, è terrorizzata. Mi dà l'idea di una gallina pelle e ossa, arrampicata su una sedia, con gli occhi brillanti e spauriti, pronta a starnazzare e schiamazzare al piú piccolo movimento dei presenti. - Dopo tutto, non puoi biasimarla. Ricordati che hai ferito Cade in una gamba. - Ero esasperato perché ero stato picchiato, altrimenti non lo avrei fatto. E Cade non me ne ha serbato alcun rancore. E neanche Catina, né Raiford, né il signor Calvert. Solo quella matrigna yankee ha strepitato dicendo che ero un selvaggio e che le persone perbene non potevano stare in mezzo a questi meridionali incivili. - Non si può darle torto. È yankee ed ha avuto un'ottima educazione; e poi, hai ferito il suo figliastro. - Vai all'inferno! Non è una buona ragione per insultarmi! Tu sei figlio, vero figlio, di Mammà; ma si è forse risentita quella volta che Tony Fontaine ti ha ferito alla gamba? Niente affatto; si limitò a mandare a chiamare il vecchio dottor Fontaine per medicarti e gli chiese come mai Tony mirasse cosí male. E disse che secondo lei le frustate danneggiavano l'abilità di un tiratore. Ti ricordi come si infuriò Tony per questo? I due ragazzi risero saporitamene. - La Mamma è un tipo! - approvò affettuosamente Brent. - Si può sempre esser sicuri che sa come regolarsi e che non vi fa mai fare brutta figura di fronte agli estranei. - Sí; ma è capacissima di farci fare una figura pessima dinanzi al Babbo e alle ragazze stasera quando arriviamo a casa - replicò Stuart abbattuto. - Sono sicuro, Brent, che in questo modo non riusciremo ad andare in Europa. Sai che la Mamma ha detto che se ci facevamo espellere da un altro collegio non avremmo fatto il nostro viaggio. - Beh! E che ce n'importa? Che c'è da vedere in Europa? Scommetto che quegli stranieri non hanno da mostrarci nulla che noi non abbiamo già in Georgia. I loro cavalli non sono piú veloci dei nostri né le loro ragazze piú graziose; e sono sicuro che il loro wisky di segala non può stare a paragone di quello del Babbo. - Ashley Wilkes ha detto che hanno un'infinità di teatri e di musica. Ad Ashley l'Europa piace molto. Non fa che parlarne. - Oh, sai bene come sono i Wilkes. Smaniosi di libri, di teatri, di musica. Mammà dice che è perché il loro nonno veniva dalla Virginia, e i Virginiani attribuiscono un grande valore a queste cose. - Beh, facciano pure. Quanto a me, con un buon cavallo e un buon liquore e una brava ragazza da corteggiare e un'altra... non brava con la quale divertirmi, sto benone qui come in Europa! Che ce n'importa di non fare il viaggio? Figúrati, se fossimo in Europa adesso e scoppiasse la guerra? Non avremmo altro pensiero che di tornare a casa al piú presto. Preferisco infinitamente andare alla guerra che in Europa. - Anch'io, il giorno in cui... Oh, senti! Ho pensato dove possiamo andare a cena. Attraversiamo la palude e andiamo a dire ad Abele Winder che siamo tornati tutti e quattro e siamo pronti per le esercitazioni militari. - Ottima idea! - esclamò Brent con entusiasmo. - Sapremo cosí tutte le notizie dello squadrone, e che colore hanno scelto finalmente per le uniformi. - Se sono uniformi da zuavo, mi faccio impiccare piuttosto che andare a fare il soldato! Con quei calzoni larghi, rossi, mi sembrerebbe di essere una donnetta. Somigliano alle mutande da donna di flanella rossa. - Badroni avere intenzione di andare da Mist' Wynder? - chiese Jeems. - Perché se avere quest'idea, gredo che non trovare molto da mangiare. Loro guoco morto e non avere angora gombrato altro. Fare gucinare da una donna, e un negro avere detto che essere peggiore guoca di tutta regione. - Dio benedetto! E perché non lo hanno comprato? - Gosa volere che può gombrare bovero bianco straccione? Non avere mai avuto molti negri e non di buona razza. Nella voce di Jeemes era uno schietto disprezzo. Egli era sicuro della propria condizione sociale, perché i Tarleton possedevano cento negri, e - come tutti gli schiavi delle grandi piantagioni - guardava dall'alto in basso i piccoli coltivatori che possedevano pochi schiavi. - Bada che ti levo la pelle! - gridò Stuart irritato. - Non ti permetto di chiamare Abele Wynder un «bianco straccione». Sarà povero, ma non straccione. E nessuno dei miei uomini, nero o bianco che sia, deve arrischiarsi a parlar male. Non vi è uomo migliore nella Contea; altrimenti perché lo squadrone lo avrebbe eletto luogotenente? - Non avere mai dubitato, badrone - riprese Jeems senza scomporsi per la sfuriata del suo padrone. - Ma io bensare che loro fare meglio scegliere ufficiali fra giovani ricchi invece che fra miserabili della palude. - Non è un miserabile! Vorresti forse paragonarlo ai bianchi veramente poveri, come gli Slattery? Soltanto, non è ricco. È un piccolo coltivatore, non un piantatore in grande; e se i ragazzi hanno avuto tanta stima di lui da eleggerlo luogotenente, nessun negro può arrischiarsi a parlarne impudentemente. Lo squadrone sa quello che fa. Lo squadrone di cavalleria era stato organizzato tre mesi prima, lo stesso giorno in cui la Georgia si era separata dall'Unione; da allora, però, le reclute non avevano piú molta speranza che si facesse la guerra. Il reparto non aveva ancora un nome, benché non mancassero i suggerimenti: ciascuno aveva un'idea in proposito e non aveva voglia di rinunciarvi; come ciascuno aveva anche un'idea intorno al colore e alla foggia delle uniformi. «I gatti selvaggi di Clayton» - «I mangiatori di fuoco» - «Zuavi» - «Fucilieri dell'Interno» (benché lo squadrone dovesse essere armato di pistole, sciabole, pugnali e non di fucili) «Gli sterminatori» - «Rapidi e violenti» - tutti avevano i loro aderenti. Ma finché non si prendeva una decisione, tutti parlavano dell'organizzazione come dello squadrone e malgrado il nome sonoro finalmente adottato, esso fu conosciuto sino alla fine come «Lo Squadrone». Gli ufficiali erano eletti dai membri, perché nessuno nella Contea aveva esperienza militare, ad eccezione di pochi veterani delle guerre col Messico e coi Seminoli; d'altronde, lo Squadrone avrebbe disprezzato un veterano come capo, se non lo avesse personalmente amato e stimato. Tutti quanti avevano simpatia per i quattro ragazzi Tarleton e per i tre Fontaine, ma purtroppo non li avevano potuti eleggere, perché i Tarleton erano troppo vivaci e amavano far delle mattane e i Fontaine avevano un carattere troppo impetuoso e attaccabrighe. Ashley Wilkes era stato eletto capitano perché era il miglior cavallerizzo della Contea e perché si faceva assegnamento sulla sua calma per mantenere un poco d'ordine; Raiford Calvert era stato fatto primo luogotenente perché tutti gli volevano bene, e Abele Wynder, figlio di un cacciatore delle paludi e piccolo coltivatore per conto suo, era stato nominato secondo luogotenente. Abele era un gigante, grave, furbo, illetterato, pieno di cuore, maggiore di età degli altri ragazzi, ma altrettanto educato, e anche di piú, in presenza delle signore. Vi era poco snobismo nello Squadrone. Troppi, fra i padri e i nonni dei componenti, erano arrivati alla loro attuale situazione cominciando con l'essere dei piccoli coltivatori. Inoltre, Abele era il piú bravo tiratore dello Squadrone, un vero puntatore che colpiva la testa di uno scoiattolo a settanta metri; ed era pratico di vita all'aperto, capace di accendere il fuoco sotto la pioggia, di scoprire sorgenti, di catturare animali. Lo Squadrone si inchinava dinanzi al merito; e siccome avevano anche simpatia per lui, lo nominarono ufficiale. Egli accettò l'onore gravemente senza eccessiva ritrosia, come se gli fosse dovuto. Ma le mogli e gli schiavi dei piantatori non potevano lasciar passare il fatto che egli non era nato gentiluomo, benché i loro signori e padroni lo trascurassero. Da principio, lo Squadrone era stato reclutato soltanto tra i figli dei piantatori: una truppa di signori, ciascuno dei quali provvedeva il proprio cavallo, l'equipaggiamento, l'uniforme e l'attendente. Ma i ricchi piantatori non erano numerosi nel giovine paese di Clayton; e per mettere assieme uno squadrone degno di tal nome si era dovuto estendere il reclutamento anche ai figli dei piccoli coltivatori, ai cacciatori della foresta, a quelli che tendevano i lacciuoli nelle paludi, e, in pochissimi casi, anche ai bianchi poveri, se erano al disopra della media della loro classe. Questi ultimi giovinotti erano ansiosi di combattere contro gli inglesi - il giorno in cui scoppiasse la guerra - non meno dei loro ricchi vicini; ma vi era la delicata questione del denaro. Ben pochi fra i piccoli coltivatori possedevano cavalli. Per i lavori della loro proprietà si servivano di muli; e anche di questi, non ne avevano d'avanzo: raramente piú di quattro. Non si poteva privarsene per mandarli in guerra, anche se lo Squadrone li avesse accettati, ciò che non avvenne. Quanto ai rifiuti bianchi della palude, questi stimavano di essere già in condizione abbastanza buona quando possedevano una mula. I cacciatori della foresta e quelli della palude non avevano né cavalli né muli. Essi vivevano esclusivamente dei prodotti della loro terra e di caccia, commerciavano generalmente col sistema degli scambi e vedevano raramente cinque dollari in un anno; quindi cavalli e uniformi erano per loro irraggiungibili. Ma erano tanto orgogliosi nella loro povertà quanto i piantatori nella loro ricchezza; e non avrebbero accettato nulla, da quelli, che potesse apparire un'elemosina. Cosí, per salvaguardare i sentimenti di tutti e per dare allo Squadrone tutta la necessaria efficienza, il padre di Rossella, John Wilkes, Buck Monroe, Giacomo Tarleton, Ugo Calvert, tutti, insomma, i grandi piantatori della Contea con l'unica eccezione di Angus MacIntosh, si erano quotati per equipaggiare completamente lo Squadrone: uomini e cavalli. L'essenza dell'affare fu che ogni piantatore convenne di pagare l'equipaggiamento dei propri figli e di un certo numero di altri; ma la cosa fu trattata in modo che i membri meno ricchi potettero accettare cavalli ed uniformi senza offesa per il loro onore. Lo Squadrone si riuniva due volte la settimana a Jonesboro per fare le esercitazioni e pregare che la guerra cominciasse. Non erano ancora state completate le disposizioni per procurare tutti i cavalli occorrenti, ma quelli che avevano già i cavalli compivano ciò che immaginavano fossero manovre di cavalleria, dietro al Tribunale, sollevando un'enorme quantità di polvere, emettendo grida rauche e agitando le sciabole della Guerra Rivoluzionaria che erano state staccate dalle pareti del salone. Quelli che non avevano ancora il cavallo sedevano sull'orlo del marciapiedi dinanzi alla bottega di Bullard, e osservavano i loro camerati, masticando tabacco e raccontando delle storie. Oppure facevano delle gare di tiro. Non occorreva insegnare a nessuno a tirare a segno. La maggior parte dei meridionali era nata col fucile in mano; e la vita del cacciatore aveva fatto di tutti loro dei tiratori scelti. Dalle case dei piantatori e dalle capanne fra le paludi venne fuori una quantità di armi da fuoco svariate. Lunghi fucili da caccia che datavano dall'epoca della prima traversata degli Alleghany, vecchi tromboni ad avancarica, pistole da cavallo che erano servite nel 1812, pistole da duello con l'impugnatura ageminata d'argento, pistole a canna corta, moschetti a doppia canna e carabine inglesi di nuovo modello, col calcio di legno prezioso. Le esercitazioni terminavano sempre nei saloni di Jonesboro e al cader della notte erano già scoppiate tante risse, che gli ufficiali avevano il loro da fare per evitare ferimenti prima che questi fossero inflitti dagli inglesi. Era stato durante uno di questi tafferugli che Stuart Tarleton aveva ferito Cade Calvert e Tony Fontaine aveva ferito Brent. I gemelli erano appena tornati a casa, espulsi dall'Università di Virginia; lo Squadrone era stato organizzato in quei giorni ed essi avevano aderito con entusiasmo; ma dopo la rissa, avvenuta due mesi prima, la madre li aveva impacchettati e spediti all'Università statale, con l'ordine di non muoversi. Durante la loro assenza, essi avevano penosamente sentito la mancanza dell'eccitazione data dagli esercizi militari; ritenevano che la loro educazione fosse incompleta se non potevano cavalcare, gridare e sparar fucilate in compagnia dei loro amici. - Bene, allora andiamo da Abele - concluse Brent. - Attraversando il fiume degli O'Hara e il prato dei Fontaine, arriviamo in un momento. - Non drovare nulla di mangiare; solo garne di sariga e un po' di legumi - obbiettò, Jeems. - Tu non avrai un bel niente - sghignazzò Stuart. - Andrai a casa ad avvertire la Mamma che non torniamo a cena. - Oh no, no! - esclamò Jeems spaventato. - No, no! non piacere assaggiare scudiscio di miss Beatrice piú forte che con badroni! Brima di tutto lei arrabiarsi con me perché badroni nuovamente espulsi. E poi, perché io non avervi fatti tornare a casa stasera e lei potervi dare grossa lezione. E poi diventare furia come se tutto questo essere colpa mia e frustarmi forte. Se non volete portarmi da mist' Wynder, io restare nei boschi tutta la notte e forse guardie pattuglie prendere povero Jeems, ma io preferire guardie piuttosto che miss Beatrice quando essere infuriata. I gemelli guardarono con perplessità e indignazione il risoluto ragazzo negro. - Sarebbe capace davvero di farsi prendere dalle guardie, e questo darebbe argomento ai discorsi di Mammà per qualche settimana. Giuro che i negri sono un bel fastidio. A volte penso che gli abolizionisti abbiano ragione. - In fondo, non è giusto fare affrontare a Jeems quello che non vogliamo affrontare noi. Lo porteremo con noi. Ma guarda, negraccio impudente, che se ti sogni di darti delle arie coi negri di Wynder e di raccontar loro che da noi si mangia pollo e prosciutto mentre loro non hanno che coniglio e sariga, ti... lo dirò alla Mamma. E non ti faremo neanche venire alla guerra con noi. - Arie? Io darmi arie con quei miserabili? No, badrone; io avere educazione! E miss Beatrice avermi insegnato modo di gomportarmi come avere insegnato a tutti voi. - Non ha avuto un gran risultato con nessuno dei tre - rise Stuart. - Via, andiamo. Diede la voce al suo cavallo rossiccio e spronandolo leggermente gli fece saltare con facilità lo steccato divisorio della proprietà di Geraldo O'Hara, e si trovò nel soffice campo. Il cavallo di Brent lo seguí e dopo di lui quello di Jeems, col negro afferrato alla criniera e al pomo della sella. A Jeems non piaceva saltare gli ostacoli; ma ne aveva saltato anche dei piú alti per seguire i suoi padroni. Mentre si avviavano attraverso i solchi purpurei e scendevano la collina verso il fiume nel crepuscolo che diventava sempre piú cupo, Brent gridò a suo fratello: - Senti un po', Stu! Non ti pare che Rossella avrebbe dovuto invitarci a cena? - Infatti credevo che lo facesse - gridò a sua volta Stuart. - Ma perché...

Pagina 9

. - Non vi è ragione che tu non abbia il tuo bicchierino, anche se io commetto la villania di essere in casa. Vuoi che te lo versi? - Non voglio bere - rispose Rossella rigida - Avevo udito rumore e sono scesa per... - Non hai udito nulla. Non saresti scesa se avessi saputo che io ero in casa. Sono stato qui seduto e ti ho sentita camminare avanti e indietro... Hai molto bisogno eli un bicchierino. Prendilo. Egli prese la bottiglia e riempí un bicchiere fino all'orlo. - Tieni - disse mettendoglielo in mano. - Tremi come una foglia. Oh, non darti delle arie. So che bevi di nascosto e so quanto bevi. A volte ho pensato di dirti di smettere le finzioni e di bere apertamente, se ti fa piacere. Credi che me ne importi se ti piace l'acquavite? Ella prese il bicchiere, maledicendolo in cuor suo. Quell'uomo leggeva in lei come in un libro. Aveva sempre letto in lei; ed era il solo uomo al mondo al quale ella avrebbe voluto nascondere i suoi veri pensieri. - Bevi, ti dico. Ella sollevò il bicchiere e vuotò il contenuto con un movimento brusco del braccio, il polso rigido, come aveva sempre fatto Geraldo; lo vuotò prima di ricordarsi che quel gesto mostrava la lunga pratica e non era molto elegante. Rhett notò il gesto e torse un angolo della bocca. - Siedi; avremo una piacevole discussione domestica sull'elegante ricevimento a cui abbiamo assistito. - Tu sei ubriaco - rispose Rossella freddamente - ed io me ne vado a letto. - Sono ubriaco e lo sarò piú ancora prima che la notte sia trascorsa. Ma tu non andrai a letto... non ancora. Siedi. La sua voce aveva ancora un residuo della consueta cadenza, ma sotto le parole tranquille ella sentí la violenza che voleva salire alla superficie; una violenza crudele come uno scoppio di frusta. Rimase incerta, ed egli fu immediatamente al suo fianco, afferrandole il braccio in una stretta che le fece male. Glielo torse anche leggermente, ed ella sedette in fretta, con un piccolo grido di dolore. Adesso aveva veramente paura; piú di quanta ne avesse mai avuta in vita sua. Vide che il volto di lui era cupo e che nei suoi occhi durava sempre quel lampo inquietante. Nella loro profondità era qualche cosa che ella non conosceva, qualche cosa piú ardente della collera, piú forte del dolore, qualche cosa che gli faceva brillare le pupille come carboni ardenti. La fissò a lungo costringendola finalmente ad abbassare lo sguardo che era rivolto a lui con atto di sfida; allora sedette di faccia a lei e si versò un altro bicchiere di liquore. Rossella cercò di riflettere rapidamente per trovare una linea di difesa. Ma ciò non le era possibile finché egli non parlava, poiché non sapeva che specie di accusa le sarebbe fatta. Rhett beveva lentamente, guardandola da sopra al bicchiere; ella cercava di dominare i suoi nervi per non tremare. Per un po' di tempo il volto di lui non mutò espressione; finalmente scoppiò in una risata, continuando a fissarla; e quella sghignazzata la fece nuovamente tremare. - Una commedia divertente quella di stasera, vero? Ella non rispose, ma contorse le dita dei piedi nelle pantofole, nello sforzo di dominare il suo tremito. - Una commedia piacevole, con tutti i suoi personaggi. Il villaggio riunito per lapidare la donna colpevole; il marito ingannato che assume la difesa di sua moglie come deve fare un gentiluomo; la donna tradita che sopporta tutto con spirito cristiano e copre i colpevoli col manto della sua immacolata reputazione. L'amante... - Ti prego! - Niente affatto. È troppo divertente. L'amante con l'aria di un maledetto imbecille che si augurava la morte. Che impressione si prova, cara, nell'avere accanto la donna che detesti e che cerca di nascondere i tuoi peccati? Stai seduta! Ella sedette. - Non credo che dopo questo il tuo affetto per lei aumenterà. Senza dubbio ti domandi se ella sa tutto di te e di Ashley... ti domandi perché ha agito cosí, sapendo... e se lo ha fatto per salvare la propria faccia. E pensi che è stata una sciocca, anche se il suo gesto ti ha salvato la pelle; ma... - Non ti voglio ascoltare. - Sí, mi ascolterai. E ti dico questo per alleviare la tua preoccupazione. Melania è una sciocca, ma non nella maniera che credi tu. È ovvio che qualcuno le ha raccontato; ma lei non ha creduto. Non avrebbe creduto neanche se avesse visto coi suoi occhi. È troppo onesta per poter concepire la disonestà nelle persone che ama. Non so che stupidaggine le ha raccontato Ashley; ma lei avrebbe creduto qualunque cosa perché vuol bene a lui e a te. Non so perché ti voglia bene, ma ti ama. E questa sarà una delle tue croci. - Se tu non fossi cosí ubriaco e insolente, ti spiegherei tutto - ribatté Rossella ricuperando un po' di dignità. - Ma ora... - Le tue spiegazioni non mi interessano. Conosco la verità meglio di te. E se ti alzi ancora una volta, giuro a Dio... Ciò che è ancor piú divertente della commedia di stasera, è il fatto che mentre mi negavi cosí virtuosamente le gioie del tuo letto a causa dei miei molti peccati, nel fondo del tuo cuore bramavi ardentemente Ashley. «Nel fondo del tuo cuore bramavi ardentemente...» Bella frase, no? Vi sono molte belle frasi in quel Libro, vero? «Quale libro?» si chiese affannosamente, follemente Rossella, mentre i suoi occhi erravano frenetici per la stanza, osservando il cupo scintillare delle massicce argenterie nella debole luce, la tenebra spaventosa degli angoli. - E io sono stato messo fuori perché i miei rozzi ardori erano troppo violenti per la tua raffinatezza... perché non volevi avere piú bambini. Ed ho trovato fuori di qui il modo di consolarmi piacevolmente dei tuoi rigori. Intanto tu passavi il tempo a seguire la pesta del sofferente signor Wilkes. Ma perché soffre, che Dio lo fulmini? Perché non può esser fedele a sua moglie col cuore e infedele col corpo. Perché non si decide? Tu non avresti obiezione, vero?, ad avere dei bambini da lui... facendoli passare per miei? Ella balzò in piedi con un grido; e Rhett rise di quel riso sardonico che le faceva gelare il sangue. La respinse nella sua sedia con la sua grande mano bruna e si curvò sopra di lei. - Osserva le mie mani, cara - disse aprendole e chiudendole dinanzi ai suoi occhi. - Ti potrei fare a brani senza fatica; e lo farei se questo giovasse a toglierti dalla mente Ashley per sempre. Ma sarebbe inutile. Quindi farò in altro modo. Metterò le mie mani cosí, ai lati della tua testa, e scrollerò il tuo cranio come una noce: cosí riuscirò a farne uscire quel pensiero. Le aveva afferrato il capo ficcando le mani tra i capelli sciolti; erano mani dure e carezzevoli e il volto verso il quale egli rivolse la faccia di lei era quello di un estraneo con una voce strascicata da ubriaco. Il coraggio materiale non aveva mai fatto difetto a Rossella; di fronte al pericolo esso le ritornò facendole irrigidire la spina dorsale e socchiudere gli occhi. - Lasciami, pazzo ubriaco. Con sua sorpresa, egli la lasciò e sedendo sull'orlo della tavola si versò un altro bicchierino. - Ho sempre ammirato la tua presenza di spirito, mia cara. E mai piú di adesso che sei con le spalle al muro. Ella si strinse maggiormente nello scialle. Se potesse tornare in camera sua, girare la chiave nella serratura e sentirsi sola! Bisognava farsi credere non impaurita da quel Rhett che non aveva mai conosciuto. Si alzò senza fretta, benché le tremassero le ginocchia, si strinse lo scialle attorno ai fianchi, rigettò i capelli dal viso. - Non sono con le spalle al muro - profferí con voce tagliente. - Non mi metterai mai con le spalle al muro, Rhett, né mi farai paura. Non sei altro che un ubriacone il quale è stato per tanto tempo con delle donnacce, che non comprende altro se non infamia e disonestà. Non puoi capire Ashley né me. Hai vissuto troppo a lungo nel sudiciume. E sei geloso di ciò che non puoi capire. Buona notte. Si volse con indifferenza e si avviò verso la porta; ma uno scoppio di risa la fece fermare. Si voltò e lo vide attraversare la stanza avvicinandosi a lei. Se almeno cessasse quella tremenda risata, in nome di Dio! Che c'era da ridere in tutto questo? Le si accostò; e Rossella volle indietreggiare verso l'uscio, ma si trovò contro al muro. Egli le posò le mani pesantemente sulle spalle e la inchiodò alla parete. - Smetti di ridere. - Rido perché mi fai pena. - Pena? Pensa a te stesso, piuttosto! - Ma sí; mi fai pena, mia graziosa scioccherella. Ti offende, non è vero? Perché tu non sopporti né la beffa né la pietà; non è cosí? Smise di ridere premendole sulle spalle cosí forte da farle male. L'espressione del suo volto mutò; ed egli si chinò su lei cosí da vicino che il forte odore di whisky del suo alito la costrinse a volgere il capo. - Geloso, io? E perché no? Sí, sono geloso di Ashley Wilkes. Perché no? Oh, puoi fare a meno delle spiegazioni. So che fisicamente mi sei stata fedele. Era questo che volevi dirmi? L'ho sempre saputo. Conosco troppo bene Ashley Wilkes e la sua razza. So che è un uomo onesto e un gentiluomo. Mentre tu ed io non siamo né onesti né gentiluomini; non è vero? Per questo prosperiamo! - Lasciami andare. Non voglio stare qui a farmi insultare. - Non ti insulto affatto. Sto lodando le tue virtú fisiche. Ma non credere con questo di avermela data a bere. Tu credi che gli uomini siano degli imbecilli, Rossella; e non apprezzi mai l'intelligenza e la forza dei tuoi avversari. Io non sono punto sciocco. Credi che non sappia che quando eri fra le mie braccia ti figuravi che io fossi Ashley Wilkes? Ella spalancò la bocca: sul suo volto apparvero terrore e meraviglia. - Una cosa piacevolissima. Piuttosto fantastica. Come se si fosse stati in tre in un letto dove si sarebbe dovuto essere in due. - Le scrollò le spalle, ebbe un singulto, e sorrise beffardo. - Sicuro; mi sei stata fedele perché Ashley non ti ha voluta. Ma non gli avrei davvero rifiutato il tuo corpo, che diamine! So che cosa vale un corpicino, specialmente di donna. Ma gli invidio il tuo cuore e il tuo caro spirito caparbio e senza scrupoli. Quell'imbecille non desidera il tuo spirito, ed io non desidero il tuo corpo. Posso comprare delle donne a minor prezzo. Ma desidero il tuo cervello e il tuo cuore e non li avrò mai; come tu non avrai mai il cervello di Ashley. E perciò mi fai pena. Anche attraverso il suo terrore, la beffa di lui la punse. - Ti faccio pena? - Sí; perché sei una bambina. Una bimba che piange perché vuole la luna. Che ne farebbe, se l'avesse? E tu che faresti di Ashley se lo avessi? Mi fa pena vederti gettar via la felicità e cercare di avere qualche cosa che non ti renderebbe mai felice. Perché sei una sciocca e non sai che si può esser felici solo coi propri simili. Se io e la signora Melly fossimo morti e tu potessi avere il tuo caro innamorato, credi che saresti felice con lui? No, perdio! Perché non lo conoscerai mai, non saprai mai ciò che pensa, non lo comprenderai mai come non comprendi musica, poesia, libri e tutto ciò che non è dollari e centesimi. Mentre noi due, cara moglie del cuor mio, avremmo potuto esser perfettamente felici, se tu avessi voluto, perché ci somigliamo. Siamo due furfanti, Rossella; e nessun ostacolo ci arresta quando desideriamo una cosa. Avremmo potuto esser felici, perché io ti amavo e perché ti conosco, Rossella, cosí perfettamente come Ashley non potrebbe mai... E se ti conoscesse, ti disprezzerebbe... Ma no; tu devi continuare per tutta la vita a cercar di avere un uomo che non puoi comprendere. E io, mia cara, continuerò a cercare delle prostitute. E credo che saremo una coppia migliore di molte altre. La lasciò bruscamente e si avviò barcollando verso la bottiglia. Per un attimo Rossella rimase inchiodata al suolo, col cervello attraversato da tanti pensieri che non riuscí a soffermarsi su nessuno per esaminarlo. Rhett aveva detto che l'amava. Era vero? O lo aveva detto perché era ubriaco? O era uno dei suoi cattivi scherzi? E Ashley... la luna. Attraversò di corsa il vestibolo buio, come se fosse inseguita da mille demoni. Poter arrivare alla sua stanza! Si torse una caviglia e perse una pantofola. Mentre si fermava a raccoglierla, sentí di avere accanto nell'oscurità Rhett, che correva leggermente come un indiano. Sentí sul viso il suo alito ardente e le mani di lui la afferrarono violentemente sotto lo scialle, sulla pelle nuda. - Mi hai mandato in giro per la città mentre cercavi di avere lui. Perdio, questa è la notte in cui nel mio letto saremo soltanto in due! La sollevò e cominciò a salire le scale. La testa di lei posava sul suo petto e Rossella udiva il martellare del suo cuore. Si sentiva soffocare; provò a gridare, sgomenta. Egli continuò a salire nelle tenebre. Era un estraneo, un pazzo; e quell'oscurità che l'atterriva era piú buia della notte. Lui stesso era come la morte; e la trasportava su braccia nodose che le facevano male. Egli si fermò sul pianerottolo e voltandole improvvisamente il capo la baciò con una violenza che distrusse in lei ogni altra sensazione, eccetto il buio in cui si sentiva sprofondare e quelle labbra sulle sue. L'uomo tremava, come se fosse scosso da un vento di tempesta; e le sue labbra scendendo dalla bocca di lei, trovarono la carne morbida che lo scialle, cadendo, aveva lasciato scoperta. Mormorava parole che ella non udiva; le sue labbra suscitavano in lei sensazioni mai provate. Ella era immedesimata nella tenebra, ed egli pure era tenebra; nulla era mai esistito prima di quel momento se non l'oscurità e quelle labbra di fuoco. Cercò di parlare, ma egli le chiuse ancora la bocca con la sua. E ad un tratto ella provò un brivido che non aveva mai conosciuto: gioia, terrore, follia, eccitazione, abbandono a braccia che erano troppo forti, labbra troppo cocenti, fato troppo rapido. Per la prima volta in vita sua aveva trovato qualcuno piú forte di lei, qualcuno che non poteva tiranneggiare né spezzare, qualcuno che la tiranneggiava e la spezzava. E le morbide braccia di lei si strinsero intorno al collo maschile e le sue labbra tremarono sotto quelle di lui mentre essi salivano ancora nell'oscurità, un'oscurità dolce e vorticosa che li avvolgeva completamente.

Pagina 932

Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222622
Misteri del chiostro napoletano 2 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Ma io temo davvero che del suo Limen Grammaticum, appreso nell'Eterna Città, abbia egli ritenuto in mente ben poco: il modo, cioè, di coniugare il presente e futuro d'un solo verbo: del verbo amare. Tale pur è l'opinione di due buoni terzi della romana società. Riario era allora in concetto di bell'uomo: intorno ai gusti non c'è da disputare. Egli è peraltro indubitato che ciascuna delle sue visite elettrizzava le giovani benedettine. Appena uscito del parlatorio, si radunavano esse in diversi crocchi, dove ciascheduna ingegnavasi di sorpassare le altre nel panegirico delle doti materiali e spirituali di Sua Eminenza. Chi diceva: - Come è bello! che nobile portamento! che sguardo fascinatore! che mano fatta al tornio! - Chi diceva: - Quanto è dotto ed istruito! da quella bocca scorre il miele! - Io diceva tra me: - Egli non ha imparato che a star ben ritto su due piedi! - In somma per più giorni e più notti altro in convento non facevasi, che pascersi dell'olezzo delle sue parole; quelle poi alle quali gli odorosi mazzetti erano stati diretti, rosse, palpitanti e distratte divenivano per la gran commozione. Io non m'era fatta giammai vedere nè gli avea parlato. Provava per la sua persona una di quelle ripuguanze insuperabili che si sentono a prima vista e non si sanno giustificare. Non so perchè, ma sin dal primo incontro egli mi sembrò un Dandino, travestito da principe ecclesiastico. Volendo una volta far mostra di galanteria, mandò in dono alla comunità un gran canestro di fravole: le monache diedero una piastra al cameriere, e non rifinirono di magnificare la garbatezza del così detto nuovo superiore. Credo che questo fattarello trapelasse fuori del chiostro, e pervenisse a notizia di qualche bello spirito propenso alle burle, che avrà dovuto esclamare: In qual parte del mondo non s'infiltra la commedia? Di lì a pochi giorni ci arrivò un secondo regalo. Un facchino, condotto da un cameriere, recò un pesce di enorme grossezza, tutto coperto di foglie d'arancio. Nel presentare quella mole, che nominò storione, sciorinò costui a nome di Sua Eminenza un'interminabile litania di complimenti, mentre il pesce faceva grondar sudore dalla fronte del portatore. Un'altra piastra fu offerta per mancia al cameriere, oltre due carlini dati al facchino. Le monache, tutte ansanti, affollate nella porteria, ne giubbilavano, e quelle di loro che si appropriavano il complimento facevano a gara a proporre in favor del cameriere in livrea più lauta la mancia. Giunse in quel mentre il ragioniere. "Sapete, Don Giuseppe, che il cardinale ci manda un altro dono più magnifico del primo? preparatevi a scrivergli una seconda lettera di ringraziamento in nome della comunità." "Davvero!" sclamò con un salto d'allegrezza il ragioniere. "E cosa vi manda?" "Un pesce!.... ma che pesce! ce ne sarà per le converse!" "E ne avanzerà!" Le converse leste leste tirarono l'ingente storione presso la porta. Il ragioniere si pose gli occhiali, lo guardò dal capo alla coda, lo fece voltare e rivoltare, e, dopo d'avere ruminato tutto ciò che sapeva d'ittiologia, disse atterrito: "Sapete, mo, signora badessa, e voi altre reverende, che questo mi sembra un pesce da museo di storia naturale?" "Un pesce da museo!" ripeterono in coro più di cento voci. "Il regalo è dunque molto più splendido che non avevamo creduto da prima!" "Chè! chè! l'è una burla bell'e buona! È un pesce che non si mangia!" "Ma, se l'ha portato il cameriere dell'altra volta!" soggiunsero le monache. "Ho l'onore di dirvi che questo è un mostro!" "Don Giuseppe mio, farneticate!" "Ebbene, fatelo vedere a qualche marinaio!" Mentre le suore tutte stavano ancora sclamando: Gesù! Gesù! sopravvenne il pescatore dalla vicina piazza del Purgatorio, il quale, gettato uno sguardo sul regalo, gridò: "È un vitello marino: buttatelo via!" "Una foca:" riprese Don Giuseppe; "ve l'ho ben detto io che è un mostro da museo!" Figuratevi il dispetto delle monache, massimamente di quelle che si erano appropriate il complimento! - Fatto sta, che la burla giunse all'orecchio del cardinale, il quale comprese che la galanteria costava più cara in Napoli che in Roma. Fu anzi detto che nel giorno medesimo avesse ricevuta una bella lettera di ringraziamento da parte della comunità di San Gregorio. Comunque siasi, d'allora innanzi si astenne di dare altre prove d'affetto a quelle suore. Venuto un'altra volta in San Gregorio si trattenne egli lungamente colla superiora e colla solita monaca, sua pedissequa. Le altre aspettavano impazienti di essere, secondo il solito, chiamate alla sua presenza. Furono invece dati al campanello i tócchi miei. Scesi alla porteria e trovai l'abbadessa che usciva appena del parlatorio. "Il cardinale vuole parlarti," mi disse. Balzommi il cuore: la mente mi ricorse subito alla domanda di assenza, da già due mesi inviata alla Santa Sede. Il cardinale era solo, e stavasi adagiato sul seggiolone. Al primo colpo d'occhio mi parve attillato con molta ricercatezza, ed un leggero profumo d'acqua di Colonia spandevasi dalla sua persona nell'ambiente del parlatorio. M'inginocchiai dinanzi al porporato, siccome l'uso o meglio l'abuso vuole. Egli alzò la mano, mi benedisse, mi fissò a lungo in silenzio, indi: "Voi avete avanzata una domanda alla Santa Sede per uscire del chiostro?" mi domandò con voce sdolcinata e melliflua. "Eminenza sì," risposi, tremante non meno di timore che di speranza. "E per qual motivo?" "Per cagione di salute." Si atteggiò ad ironico sorriso, tornò a fissarmi ben bene, poi soggiunse: "Ma voi non mi avete l'aria di ammalata." "Eppure se sono ammalata Dio lo sa!" "Di che soffrite?" "Di mal di nervi." "E chi non soffre di questo male!" "Di convulsioni," ripigliai. "Eh, tutte le donne ne patiscono. Isterismi, isterismi, e nient'altro! Voi altre monache vi andate più soggette ancora delle femmine secolari." Dopo una breve pausa gli dissi essere stata la mia domanda accompagnata dal certificato del medico curante. "Ho poca fede nei medici: chi più, chi meno, sono tutti impostori." "Ma il mio era giurato." "Tutti miscredenti, tutti spergiuri, capissi j'à." Mi tacqui allora, e dopo un'altra pausa ripigliò: "Voi sapete che tutte le petizioni mandate a Roma dalla mia diocesi sono dalla Santa Sede rimandate a me. La vostra domanda dunque trovasi nelle mie mani, acciocchè io ne verifichi l'esposto e dia conseguentemente il mio voto. Ora, per non permettere che vi pasciate di vane speranze, debbo dichiararvi che il mio voto è contrario; lasciate ogni speranza di uscire!" Credetti d'essere percossa dal fulmine. Onde maravigliato egli dal mio sommo turbamento, m'invitò a sedere, poi, raddolcendo la voce, inasprita nelle ultime frasi: "Ho parlato testè colla superiora," disse, "ed ella mi assicura motivo della vostra petizione non essere veramente la salute, ma sibbene l'affare del chierico." Io conosceva appieno la parte che il cardinale aveva presa in quell'argomento. A siffatta rimembranza, destata da lui stesso, il sangue mi rifluì nella faccia, e gli volsi un'occhiata di sdegno. "Vostra Eminenza," dissi, sforzandomi a contenere l'alterazione nervosa che m'agitava, "Vostra Eminenza dovrebbe sdegnare di scendere a sì bassi ed ignominiosi intrighi...." "Non vi sgomentate," riprese egli interrompendomi; "a quell'inezia non annetto alcuna importanza, essendo convinto che nulla di positivo sia passato fra voi e lui. Scenderebbe mai a livello d'un semplice chierico una nobile.... voglio dire una monaca, qual voi siete? Nondimeno l'idea di lasciare il chiostro è assurda: bisogna deporla." Fredda e impavida, gli dissi non credere che Iddio e il Santo Padre, e Sua Eminenza avessero di comune accordo decretata la mia morte col prolungamento della chiusura. Ma egli, troncatami la parola, passò a intrattenermi per qualche tempo in estranei e futili ragionamenti; quindi, alzatosi di repente: "Tornerò spesso a visitarti," mi disse, dandomi quella volta del tu; "fàtti dunque vedere di buon grado, nè ti nascondere, come hai fatto finora, e dammi inoltre il contento di sentire, che hai discacciata dal cuore la tentazione di restituirti all'inferno del secolo, capissi j'à!" Ritornai nella mia cella, ove m'abbandonai alla disperazione, che pur veniva esasperata dal sogghigno delle monache. Io le sfuggiva tutte. Adempiti che aveva i doveri del coro, e gli altri d'infermiera, per la più breve via mi riduceva nella mia stanza, dove o leggeva, o meditava, o piangendo lavorava: e là, più per bisogno di distrazione, che per vaghezza di pubblicità, incominciai a scrivacchiare queste Memorie. Maria Giuseppa, la buona mia conversa, l'unica compagna della mia solitudine, non si moveva dal mio fianco, che per urgente servizio, e, meno esperta di me sulla pretesca simulazione, andava immaginando, per confortarmi, le più folli e chimeriche speranze; alle quali spesso, traendo un sospiro, io rispondeva con quella dantesca apostrofe dell'Astigiano: «. . . . . Stirpe malnata e cruda, Che degli altrui perigli, all'ombra ride!» Mia madre, del pari, fu inconsolabile, avendo da me saputo che ad altre monache, meno sofferenti, meno accasciate, era stato concesso quello che or veniva vietato a me. Il canonico tentava invano di rattemprarmi il cruccio; non fu possibile. Io mi abbandonava alla più sfrenata desolazione. Feci una nuova e più vigorosa istanza, e la mandai a Roma. Coerente intanto alla sua promessa. Riario venne più di frequente al monastero. Ogni volta che il campanello chiamava la comunità al parlatorio, io mi sentiva rabbrividire. Per evitare quel disgustoso incontro, avrei dato non so che: ma come fare? Non appena giunto, egli diceva; "E la vostra Caracciolo dov'e?" - Benchè fremente di dispetto, doveva farmi innanzi e udirmi domandare con voce melliflua come stessi di salute, e se fossi tranquilla d'animo: complimenti del carnefice al condannato. "Povera figliuola! È così buona! Non si vede, nè si fa sentire:" rispondeva per me l'ipocrita badessa, solita sempre a lodare le persone nella loro presenza. "Brava!" soggiungeva l'eminente visitatore: "così va bene." Un giorno la superiora mi fece mettere nella prima fila. Tale studiata preferenza indignò le monache, le quali bisbigliarono contro la badessa, e dissero, dietro le mie spalle: "Che fastidio! si parlerà dunque in eterno della Caracciolo?" "Eminenza," fece la superiora, "debbo denunziarvi questa signora monachella che ogni giorno più si atteggia a misantropa. Fugge la compagnia, passa gran parte della giornata rinserrata nella sua cella, e nelle ore di ricreazione non si vuol unire colle altre monache. "Lasciatela un momento sola con me," disse l'arcivescovo in tuono di potestà patriarcale. Le monache uscirono malcontente, ed io mi sedetti a qualche distanza, curiosa di vedere come Sua Eminenza avrebbe intavolata la sua orazione. Ei si compose in atto affabile, affine di ispirarmi fiducia, si terse il sudor del volto colla pezzuola di batista, poscia m'interrogò: "Per qual motivo ve ne state sempre sola e pensierosa?" "Sarebbe anche questo un delitto? Quando adempio a' miei doveri ed obbedisco a' precetti, mi pare che gli altri non dovrebbero brigarsi delle mie abitudini." "Però vorrei poter vedere traverso le pareti ciò che fate per tante ore sola nella vostra stanza. Il confessore non deve internarsi in tutto?" "Leggo, scarabocchio, lavoro: è forse anche questa un'infrazione?" "Sicuramente. Non vi è lecito leggere o scrivere se non opere di devozione. E, di grazia, che state leggendo e scrivendo?" "Cerco nella lettura di qualche libro istruttivo un conforto alla oppressione che m'abbrutisce; sbozzo le memorie di questa mia captività per lasciarne un ricordo, se mi verrà fatto." "Oppressione..... memorie..... captività....! A maraviglia! Dove diamine avete attinto questo frasario da Carbonaro? Sapete che dovrei castigarvi severamente per tali fantasie spropositate?" "Potete fare anche questo. Mi manca solamente la catena al piede: ordinatela." "Non me lo permette l'interesse che sento per voi. Pur nondimeno vorrei farvi deporre quella smania maledetta di ricuperare la libertà; su questo argomento sono assoluto, implacabile, inesorabile, nè vi acconsentirò mai." "Tentate invano di togliermi l'ultimo barlume di speranza. Ho riscritto alla Santa Sede." "Lo so, lo so, ed io controscriverò sempre negativamente. Vogliate per altro confidarmi dove vorreste andarvene, uscita che foste di convento." "In casa di mia madre. Ormai non ho bisogno di tutela, ma credo che nessuna donna possa custodire una giovine meglio della propria genitrice." Nel pronunziare quest'ultime parole, gli occhi mi si gonfiarono di lagrime: mi era balenata alla monte la memoria di mio padre. - Il cardinale proruppe in un riso mefistofelico, e disse: "Pastocchie! Vorreste piuttosto uscire per ballare: in casa di vostra madre si danno feste di ballo a' liberali; ma badi bene a quello che fa, altrimenti ci baderà la polizia!" Quest'ultimo tratto esaurì la mia pazienza. Afferrato il lembo dello scapolare, "Con quest'abito abborrito da tutti," gli dissi, "avrei vergogna di farmi vedere, ed ancor più di prendere parte ad una festa. Non chiedo la liberazione, altro che per riconquistare un bene supremo, al cui godimento ho rinunziato per inesperienza, per debolezza, per forza d'avverso destino." "Non posso," ripetè più volte il cardinale, rinforzando ad ogni passo il tuono. "Per ora," soggiunse, "sto per ripartire alla volta di Roma; appena tornato, vi rivedrò." "Ed io, da parte mia, non cesserò giammai d'aspirare al mio riscatto. Buon viaggio!" E quand'ebbe voltate le spalle, gli dissi: "Vattene alla malora!" Ciò nondimeno l'abbattimento mio andava crescendo di giorno in giorno, ed il cervello cominciava realmente a risentirsene. Io confrontava le mie sofferenze morali con quelle delle due converse impazzite, e temetti di trovarmi anch'io vicina a diventar pazza. Le speranze, riposte da me nell'animo liberale di Pio IX, andavano frattanto dileguandosi. Erasi prima parlato di scioglimento di voti; si disse poi d'una quinquennale rinnovazione degli stessi; in ultimo si spacciò che tale rinnovazione sarebbe stata ristretta soltanto a quanti avevano fatta la professione dopo il Breve; finalmente si cessò di parlare su tale argomento. - Nell'animo di Pio IX l'emancipazione monastica e la patria carità subirono la medesima sorte: «E quando Roma non voltò mantello?» Mio primo intendimento, come ho già detto, era quello di uscire per soli sei mesi, riservandomi di rinnovare il permesso al termine di questo periodo, e di passare da quello in altro chiostro, nel caso che negate mi fosse il prolungamento. La capricciosa repulsa, l'avermi ricusato quello che tutti i giorni si concedeva a tante che ammorbavano Napoli; massimamente in tempo d'estate; queste cose mi punsero al vivo. Era evidentemente un tratto di personalità, cui piuttosto che soccombere avrei rinunziato all'esistenza stessa. Da quel momento diedi l'addio ad ogni sorta di palliativo, di mezzo termine, e mirai a dirittura al definitivo scioglimento dei voti. Raccolte adunque delle informazioni intorno a tale bisogna, letti più libri su questa materia, ed abboccatami con un dottore in gius canonico, seppi che conveniva anzi tutto mandare il reclamo prima che fosse spirato il quinto anno della professione: che bisognava poi provare la violenza morale nell'atto della monacazione: infine che la causa doveva trattarsi prima alla curia di Napoli, e poi a quella di Roma, locchè avrebbe preso molto tempo e moltissimo danaro con iscarsa probabilità di riuscita. Questi ragguagli mi sconcertarono. Prossimo a spirare era il quint'anno della mia professione..... E poi, la curia di Napoli avrebbe essa urtate di fronte le disposizioni d'un cardinale arcivescovo per esaudire i reclami d'una monaca priva di protettori......? E poi, dove mi sarei procacciata il denaro necessario per spedire personalmente l'avvocato a Roma, e per dare l'inevitabile boccone alle signorie reverendissime di quella capitale? - Questa trista prospettiva, dico, mi sbigottì. Nulladimeno, per non cadere nella prescrizione, deliberai di mandare il ricorso alla curia napoletana; e così feci, mettendo in luce le circostanze tutte che fecero violenza alla mia volontà dal punto ch'entrai nel convento sino al giorno de' voti. Quale fu la sorte di questa istanza? fu essa intercettata alla curia di Napoli che non le diede alcuno sfogo, od invece cadde negli artigli del cardinale che se ne impossessò? Non mi venne mai fatto di penetrare questo mistero: certo si è, peraltro, che l'istanza mia sparì, senza lasciar dietro di sè alcuna traccia. Trovatami pertanto alle strette, nè più sapendo che mi fare, divisai di scrivere a dirittura al Santo Padre, affine di aprirgli il mio cuore, manifestargli le mie disposizioni con filiale franchezza, muoverlo a pietà del mio stato. Pio IX era allora in grido d'uomo d'alto ingegno e d'uomo di mondo. Nella relazione, che per lui in particolare scrissi, credetti acconcio non tenergli soltanto parola della mia salute, che di giorno in giorno deperiva, ma notificargli eziandio alcun che di non meno rilevante: cioè, che avendo avuto sin da giovinetta inclinazione pel matrimonio, sarei passata a marito, ov'egli avesse condisceso a svincolarmi dagli obblighi, che mio malgrado aveva contratti trasportata dalla corrente di disastrose e fatali circostanze. - Per rendere inviolabile il segreto della relazione, immaginai di premettere a quell'istanza il confiteor, orazione la quale, come ben si sa, precede la confessione auricolare. Il cardinale era frattanto ritornato da Roma. Venuto al monastero, volle trovarsi di bel nuovo a quattr'occhi con me. Inaugurò il colloquio facendomi dono di una corona benedetta, portata dalla Santa Città, e chiese in ricambio un qualche lavoretto di mia mano. Il regalo mi parve di cattivo augurio. Più bramosa della mia libertà, che vaga di tali ninnoli da santocchia, dissi corrucciata a Sua Eminenza ch'io non sapea fare nulla di lavori donneschi. "Non è vero," diss'egli leziosamente: "non mi sono ignoti i vostri lavori. Applicatevi a qualche cosa; ad un elegante ricamo, per esempio: ciò vi servirà di distrazione." In questo mentre si fece innanzi l'abbadessa e saputo dal cardinale il mio rifiuto, torse sdegnata il viso. "Il lavoro sarà fatto immancabilmente," disse in tuono imperioso al cardinale: "glielo farò avviare e terminare io stessa." Per più giorni m'annoiò, reiterandomi la domanda, se già l'avessi incominciato, e di quale sorte sarebbe stato. Stizzita alfine dall'incessante molestia le dissi: "Vorreste forse impormelo per disciplina?" "Ohibò! spero che lo farete di buon grado." "Allora con vostra buona pace, fatela finita! Io detesto quell'uomo quanto un prigioniero di Stato detesta l'autore del suo imprigionamento. Non è forse desso che a viva forza mi trattiene in questo stato di violenza?" "Ma lo fa perchè ti vuol bene." "Mi vuol bene? obbligatissima! Dio voglia che mi porti odio, invece di quella funesta amicizia." "Ora però," soggiunse l'abbadessa con affettazione, "ora dovresti passarlela più tranquillamente. Quelle fraschette delle monache giovani non t'importunano più." "Me ne accorgo," risposi: "temono che io, uscita per avventura dal chiostro, non le paghi a contanti come si meritano." La superiora si morse le lebbra. Seppi di poi che l'argomento del mio congedo, considerato come peccato politico, e messo nel numero degli affari di Stato, preoccupava più ch'io non immaginassi, le autorità; e che tra il Riario, la badessa e il confessore regnava su tal proposito un'intelligenza non meno arcana che intiera. Un'altra volta, avendo saputo che dall'ufficio d'infermiera io era stata trasferita a quello di panettiera, il cardinale venne a recarmi le sue congratulazioni (!), e di più a domandarmi de' dolci, fatti di mia propria mano. - Egli ebbe la stessa negativa. Dovette più tardi visitare il convento per affari della comunità. Disbrigata la faccenda che ve l'avea menato, si fece condurre dalle monache nella mia cella, che prese ad esplorare a parte a parte; quindi, uscito sul terrazzo, e scorto lì di faccia il Vesuvio colle adiacenti colline e coll'ameno paesaggio che intorno intorno lo corteggia disse: "Di quale magnifico prospetto gode la vostra stanza! che immenso orizzonte! questa vista solleva il cuore e edifica lo spirito!.... E voi volete lasciarla!" "Questo prospetto," risposi, "non fa che rendere più sospirato al prigioniero il bene della libertà." "Ma voi siete libera quanto basta: chi sa, che una dose maggiore di libertà non vi tornasse dannosa!" "Con simili detti era pure confortato dal suo tiranno l'afflitto popolo d'Agrigento," risposi a Sua Eccellenza, accompagnando l'ironia con un sorriso. M'intese, si tacque, e partì. Era quello il tempo de' monsignori Apuzzo, de' Pietrocola, de' Del Carretto; il tempo, in cui a furia di sofismi erasi elevata a dignità d'assioma la dottrina, che il popolo delle Due Sicilie, troppo felice nello stato d'innocenza pecorina in cui viveva, non dovesse punto correre il rischio di restarne defraudato col cercar di spingere le sue letterarie cognizioni più in là dell'abbiccì. In qual parte del mondo cristiano non risuona l'ignominia del Catechismo di monsignor Apuzzo? Potevano l'oscurantismo clericale e il dispotismo borbonico lasciarsi addietro un monumento più infame di questo? Circa un mese e mezzo dacchè aveva spedita la lettera al Santo Padre, mi venne incontro il confessore tutto contristato, e di pessimo umore. Veniva dal palazzo arcivescovile. Chi lo crederebbe? quella lettera, di cui io sperava aver fatto un mistero allo stesso canonico, era stata rimessa tal quale originalmente al cardinale arcivescovo! E il segreto epistolare? - Violato! E il sigillo della confessione? - Infranto! Sua Eminenza voleva sapere dal canonico il come, il quando, il perchè avesse costui permesso che tale scritto fosse stato diretto a Sua Beatitudine, e chiedeva inoltre se qualche procellosa passione mi avesse suggerito tale spediente. Il canonico asserì di non saperne nulla: almeno così mi disse. - Son tutti d'una buccia. È certo però, che nella confessione io m'era fatta una legge di non rivelargli, se non le mere infrazioni alla disciplina. Il cardinale, saltato in collera per questo tratto novello di ciò ch'egli piacevasi di qualificare col nome di mia irrefrenabile cospirazione, lasciò trascorrere lungo tempo, senza venire a trovarmi. Intanto quella lettera, caduta in sua mano, troncava l'ultima mia speranza di vedere prossimamente terminato il mio purgatorio. Se non che, in luogo di quelle illusioni, che di mano in mano svanivano in sul nascere, andava per me spuntando un diverso, e più chiaro lume di salvezza. Ridesto nel sepolcro, ove chiuso da già ventisett'anni giacevasi, il genio dell'italica libertà scuoteva dal crine la polvere della tomba, e riprendeva più bella e più forte l'antica sua vita.

Pagina 202

Non ha immagini la poesia profana, non sofismi la rettorica, non scaltre interpretazioni la parola di Dio, ch'egli non abbia adoperate per convertirmi alle sue voglie. Dare un saggio succinto della sua dialettica: "Bella figliuola," mi disse un dì, "sai tu quello che veramente sia Iddio?" "È il Creatore dell’universo," risposi io seccamente. "No, no, no, no! non basta questo," riprese egli, ridendosi della mia ignoranza. "Dio è amore, ma amore astratto, che riceve la sua incarnazione nel mutuo affetto di due cuori che s'idolatrano. Tu, adunque, non puoi nè devi amare Iddio nell'esistenza astratta: devi altresì amarlo nella sua incarnazione, ossia nell'esclusivo amore di un uomo che ti adori, quod Deus est amor.... nec colitur, nisi amanda." "Dunque, nell'atto di adorare il proprio amante, la donna nubile adorerebbe la stessa Divinità!" diss'io. "Sicuramente!" ripetè dieci volte il prete, ripigliando coraggio della mia conclusione, e lieto pel felice effetto del suo catechismo. "In tal caso," ripresi io prestamente, "mi sceglierei per amante un uomo del mondo, piuttosto che un prete...." "Dio ti liberi! figlia mia: Dio ti liberi da quella peste!" soggiunse inorridito il mio interlocutore...... "Amare un uomo del mondo, un profano, un empio, un miscredente, un infedele! Ma, tu andresti inevitabilmente all'inferno! L'amore del sacerdote è amore sacro; quello del profano è vituperio; la fede del prete emana dalla stessa fede prestata alla santa Chiesa: quella, del profano è menzognera, quanto è falsa la vanità del secolo; il prete purifica giornalmente l'affetto suo nella comunione della santissima sostanza: l'uomo del mondo (seppur sente amore) spazza dì e notte coll'amor suo tutti i fangosi ruscelli del trivio." "Ma tanto il cuore, che la coscienza mia rifuggono dal prete," rispos'io. "Ebbene, se non volete amarmi, perchè sono vostro confessore, avrò il mezzo di togliervene gli scrupoli. Alle nostre amorose espansioni premetteremo sempre il nome di Gesù Cristo; così l'amore nostro sarà un'offerta gratissima al Signore, e monterà pregno di profumi al Cielo, siccome fumo d'incenso nel santuario. Ditemi, per esempio: - Vi amo in Gesù Cristo; - questa notte ho sognato di voi, in Gesù Cristo: avrete la coscienza tranquillissima, poichè, così facendo, santificherete qualunque trasporto." Talune circostanze, non indicate qui che alla sfuggita, m'obbligavano a ritrovarmi in frequente contatto con questo prete, di cui taccio il nome. Se non che, ad un monaco, rispettabile per l'età e per la morale, avendo io domandato che mai significasse quel premettere il nome di Gesiù Cristo alle amorose apostrofi, "È," mi disse, "una setta orrenda, e sfortunatamente troppo estesa, la quale, abusando del nome di Cristo, si fa lecite le maggiori nefandità."

Pagina 77

Cerca

Modifica ricerca