Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIPIEMONTE

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Plico del fotografo: trattato teorico-pratico di fotografia

520352
Venanzio Giuseppe Sella 15 occorrenze
  • 1863
  • Tipografia G.B. Paravia e Comp.
  • Torino
  • Fotografia
  • UNIPIEMONTE
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Da questo nasce, che con un diaframma molto piccolo si può avere una immagine abbastanza nitida anche a notevole distanza dal vero foco, per cui in essa si possono avere nitidi nel tempo stesso oggetti vicini ed oggetti lontani. In questo caso si ha realmente una profondità di foco, ed una lente di pochissimo valore può dare una immagine nitida quando viene usata con un piccolo diaframma.

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Quando invece si mette avanti alla lente un diaframma abbastanza piccolo, il diametro dell’immagine prodotto dalla lente con buoni dettagli è così grande, da quasi eguagliare la lunghezza focale della lente, o, in altre parole, l’immagine, che in tal circostanza la lente è capace di produrre in una superficie piana, è nitida ed uniformemente illuminata quando essa è compresa da un campo visuale angolare di 35 a 40 gradi. Questa immagine è limpida, non è guastata dalla falsa luce, che si produce molto facilmente con oggettivi più complicati, per causa delle ripetute riflessioni di luce nelle interne superficie delle lenti; ma la quantità della luce, che forma l’immagine, è poco grande, epperciò l’oggettivo semplice è destinato soltanto a ritrarre oggetti inanimati, e che permettono al fotografo una lunga posa. La quantità della luce al centro dell’immagine è circa di 1/4 maggiore di quella che illumina le parti estreme di essa, il che è prodotto principalmente da ciò; che i raggi diretti apportano sull’immagine maggior quantità di luce che non i raggi obliqui; da ciò ne segue che nel far uso dell’oggettivo semplice conviene sempre, quando è possibile, fare in modo che gli oggetti più illuminati vengano a produrre la loro immagine lungi dal centro del campo (a), che deve esser riservato per gli oggetti meno illuminati, e, se si vuole avere sulle immagini una nitidezza uniforme, bisogna disporsi in modo che gli oggetti del mezzo, cui si presenta l’oggettivo, siano più distanti di quelli ai lati. E ciò è una conseguenza della proprietà che hanno tutte le lenti convergenti di produrre una immagine piana di una superficie curva, mentre producono un’immagine curva di un originale piano. Quando l’operatore può trovarsi in così favorevole circostanza da avere oggetti disposti sopra una superficie curva da riprodurre colla camera oscura, può far uso di un diaframma di una apertura più grande, ed ottenere tuttavia una perfetta nitidezza; e ciò gli dà il modo di ottenere l’impressione fotografica colla più grande rapidità possibile. La curva, sopra cui si fa l’immagine degli oggetti lontani, ha presso a poco lo stesso centro che ha la convessa superficie posteriore della lente.

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Ma alla distanza di 8 a 10 centimetri dal foro l’intensità della luce sull’immagine è 10 volte più grande, e si trova essere abbastanza considerevole da permettere in un tempo non troppo lungo una perfetta impressione sopra uno strato di collodio sensibilizzato.

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Vi fu una lunga discussione nei giornali fotografici, e nelle adunanze delle varie Società fotografiche, circa alla distanza, che più conviene adottare da una stazione all’altra nel prendere le vedute stereografiche, e si finì generalmente per convenire: 1° Che per oggetti vicini si deve operare colla distanza di 12 centimetri circa dal centro di una lente al centro dell’altra, onde poter produrre simultaneamente due immagini abbastanza grandi con una camera a duplice oggettivo; una tale disposizione è specialmente utile per fare i ritratti stereoscopici; 2° Che per oggetti lontani si può crescere la distanza sino a due o tre metri, ed anche di più, operando con due camere distinte, o con una camera sola che si porta da una stazione all’altra, ma conservando agli assi della camera il loro parallelismo. Relativamente a queste distanze ed a questo parallelismo i fotografi non si attengono sempre a tali prescrizioni, trovando che la trasfigurazione che viene dalla distanza e dalla convergenza degli assi è poco sensibile, perchè il rapporto della distanza degli oggetti a quello della distanza delle camere oscure è comunemente assai piccolo e trascurabile. La distanza delle due stazioni deve essere piccola se si vuole un rilievo poco diverso dal naturale, maggiore se si vuole un maggior rilievo. Allorquando esaminansi delle stereografie in uno stereoscopio, e si trova, che alcune di esse presentano un rilievo troppo esagerato, si può conchiudere, che la distanza delle due camere era troppo grande.

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Al fotografo non conviene lo spendere il suo tempo per preparare l’etere e ciò pel principio economico della divisione del lavoro, ed anche perchè la preparazione dell’etere va accompagnata da qualche pericolo di esplosione e di incendio, e perchè dai farmacisti si può avere l’etere lavato e rettificato della densità di 0,725, ossia di gradi 63, abbastanza puro e conveniente per le operazioni del fotografo. Ma l’etere essendo soggetto ad alterarsi col tempo in modo da diventare inservibile per la fabbricazione del collodio fotografico, così non sarà inutile il dire in qual modo si debba operare per purificare l’etere quando esso ha subito una tale alterazione. Si prende l’etere che si vuole purificare, e si mescola col suo volume di acqua. Si lascia riposare il miscuglio sino a che si siano formati due strati distinti. Si decanta lo strato superiore in una storta di vetro, e si rigetta lo strato inferiore come inservibile. Ora s’introduce nella storta stessa 1/20 del peso dell’etere di calce viva polverizzata, si agita il mescuglio e dopo un riposo di 12 ore si porta

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. — Quando la carta di girasole, oppure la carta di campeggio, posta per 10 minuti in contatto del cotone fulminante ancora umido, non cambia di colore, si può ritenere che il cotone sia abbastanza ben lavato, perchè l’acqua che lo inumidisce non conterrà più nemmeno 1/500.000 (V. Appendice, pag. 280) del suo peso di acido solforico; ma per maggiore precauzione gioverà lasciarlo ancora per qualche tempo immerso nell’acqua. Per riconoscere se il cotone contiene ancora del bisolfato di potassa e dell’acido solforico, si introduce nell’ultimo bagno che ha servito a lavarlo alcune goccie di cloruro di bario. La formazione di un intorbidamento lattiginoso sarà certo indizio che il cotone non è ancor lavato a sufficienza, che contiene ancora l’una o l’altra di queste due sostanze.

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Quando nel collodio domina un alcali, ossia si manifesta con reazione alcalina sulle carte reagenti, allora conviene che il sensibilizzatore sia acido, e se questo fosse neutro, non produrrebbe prove abbastanza pure e nitide nei bianchi. Quando invece il collodio è rubicondo, predominano in esso le proprietà acide, si avrebbe troppa lentezza di azione fotogenica se si facesse uso di un sensibilizzatore acido. In tal caso bisognerebbe che questo fosse neutro. Un sensibilizzatore con proprietà alcaline sarebbe di cattivo uso, perchè non mancherebbe di macchiare le prove che venissero in esso sensibilizzate.

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Che si abbia una tale nitidezza per oggetti inegualmente distanti, si comprende: 1° Se si considera che per causa del piccol diaframma i pennelli luminosi rifratti dalla lente sono così ridotti, che il foco fuori del suo vero punto è ancor abbastanza nitido da non lasciare scorgere alcuna differenza all’occhio disarmato; 2° Se si considera che la lente non è assolutamente corretta riguardo all’aberrazione sferica, e ciò per rendere il campo più piano, e che il foco non è realmente giammai un punto geometrico, perchè nell’acromatizzare la lente non si tien conto di tutti, ma solo di due raggi dello spettro, per cui il foco non è esattamente l’apice di un cono di raggi convergenti, ma una superficie di uno stretto cilindro che può essere intersecato entro certi limiti senza alcun divario sensibile nella relativa nitidezza risultante.

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Se la prova si giudica infatti abbastanza ben venuta, e vigorosa la si lava nell’acqua per fermare ogni ulteriore azione del liquido sviluppatore.

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E quando si dovesse aspettare più di dieci giorni prima di farne uso, la carta sensibile finisce per acquistare una tinta così intensa che l'iposolfito non la può distruggere, e resta impossibile la produzione di una prova con bianchi abbastanza puri. L'umidità è quella che fa imbrunire la carta sensibile posta all'oscuro. Perciò la sensibilità della carta può conservarsi all'indefinito se essa si pone in una scatola ben chiusa contenente del cloruro di calcio.

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Basta un’esposizione di pochi secondi alla luce diffusa del giorno per produrre un’impressione abbastanza efficace. Qui la luce non forma direttamente il disegno, ma poichè si opera sull'ioduro d'argento, bisogna svilupparlo con acido gallico ed aceto-nitrato d argento. Nell’ottimo trattato del signor cavaliere E. De Valicourt (a) si trova descritto il procedimento per ottenere prove positive, per sviluppamento, col mezzo del cloruro d’argento.

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Ciò succede perchè l’iposolfito d'oro che si forma non può esistere in contatto col cloruro d'oro senza decomporsi; mentre se si trova in contatto coll’iposolfito di soda forma con questo un sale doppio abbastanza permanente nel nostro caso. Si trova convenienza di applicare questo miscuglio nel virare il colore delle prove, sia prima di passarle all'iposolfito, sia dopo di averle trattate con questo ultimo sale; ma prima di venir a contatto con questo bagno, la prova deve venire lavata molto bene nell'acqua per eliminare ogni traccia di iposolfito che ha servito a fissare.

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Quando la trasparenza della carta avrà raggiunto il suo maximum, ossia quando con una nuova immersione non si fa maggiore, si può arguire con abbastanza di certezza che la prova sia stata sufficientemente travagliata dall’iposolfito di soda, e che altro più non occorra che di doverla terminare di fissare con un lavamento nell’acqua.

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Ma questi due modi se indicano in alcuni casi un insufficiente lavamento, non sono abbastanza esatti per indicare un lavamento sufficiente.

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Quando si giudica la prova abbastanza intensa, si estrae dalla cassetta, si esamina di nuovo attentamente, e se si stima sviluppata a dovere, si procede alla sua fissazione. In caso diverso, riponendo la lamina nella camera mercuriatrice, si prolunga l’azione dei vapori mercurei sino a che lo sviluppamento dell’immagine sia arrivato alla desiderata intensità e vigorìa.

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