Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonata

Numero di risultati: 122 in 3 pagine

  • Pagina 2 di 3

Sull'Oceano

170935
De Amicis, Edmondo 2 occorrenze
  • 1890
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
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Ma la vista di tutte quelle canizie misere, di tutte quelle madri senza casa e senza pane, dormenti sopra l'oceano, a migliaia di miglia dalla patria abbandonata e dalla terra promessa, gli teneva lontano dalla mente ogni pensiero sensuale, anche davanti alle molte nudità ostentate o inconsapevoli che gli occorreva di vedere. Egli passava là sotto come un medico in un ospedale, non meno inaccessibile a ogni tentazione di quello che lo fosse quel povero vecchio annaspo di marinaio, che l'accompagnava con una lanterna alla mano. Infelice gobbetto! Per lui, non protetto dalla dignità della carica, il mestiere era ben più duro; tanto più quando, uscito il commissario, egli rimaneva solo nel dormitorio, col secchiolino dell'acqua e il ramaiolo a disposizione di tutte le assetate. - Vien qua, vecio - A mi, omm di persi - Dessédet, pivel! - Acqua! -Æqua! - Eva! - De bev! - Da baver! - In presenza sua, leticavano forte, infischiandosi del regolamento, e ridevan di lui; e quando le redarguiva, lo rimpolpettavano in tutte le regole; qualcuna anche, per disprezzo, le mostrava la faccia a cui si danno gli schiaffi coi piedi; di levata, soprattutto, quando si trattava di pescar la roba in quel guazzabuglio, gli facevan perder la testa, e allora scappava come da un vespaio, e si rifugiava in coperta, tutto sudato e ansimante. E quella mattina appunto, all'ora critica, lo trovai davanti alla porta del dormitorio, con l'anima per traverso. - Ebbene, - gli dissi, - vi fanno fare il sangue verde, non è vero ? - Ah! - rispose, buttando via con dispetto la cicca. - No ne posso ciù! - Ed è così in ogni viaggio? - domandai. - Eh no, grazie a Dio! - rispose. - Va a viaggi. Alle volte, per combinazione, capita un carego di brave donne. Altre volte.... questa volta, per esempio, a l'è na raffega de donne maleduchæ Una raffica, di donne maleducate, un vero carego d'açidenti! - Poi, ripigliando la sua compostezza filosofica e alzando l'indice, mi disse confidenzialmente nell'orecchio: - Scià sente (stia a sentire). Scià no pigge moggê! (non prenda moglie). E voltatomi lo scrigno, tirò via.

Pagina 186

Vedevo qua e là, tra 'l buio, delle donne sedute, coi bambini stretti al petto, con la testa abbandonata fra le mani. Vicino al castello di prua una voce rauca e solitaria gridò in tuono di sarcasmo: - Viva l'Italia! - e alzando gli occhi, vidi un vecchio lungo che mostrava il pugno alla patria. Quando fummo fuori del porto, era notte. Rattristato da quello spettacolo, tornai a poppa, e discesi nel dormitorio di prima classe, a cercare il mio camerino. Bisogna dire che la prima discesa in questa specie di alberghi sottomarini somiglia deplorevolmente ad una prima entrata nelle carceri cellulari. In quei corridoi stretti e schiacciati, impregnati delle esalazioni saline dei legnami, di puzzo di lumi a olio, d'odor di pelle di bulgaro e di profumi di signore, mi ritrovai in mezzo a un andirivieni di gente affaccendata, che si disputavano i camerieri e le cameriere con quell'egoismo villano che è proprio dei viaggiatori nella furia del primo installamento. In quella confusione, rischiarata inegualmente qua e là, vidi di sfuggita il viso ridente d'una bella signora bionda, tre o quattro barboni neri, un prete altissimo, e una larga faccia tosta di cameriera irritata, e udii parole genovesi, francesi, italiane, spagnuole. Allo svolto d'un corridoio m'imbattei in una negra. Da un camerino usciva il solfeggio d'una voce di tenore. E di faccia a quel camerino trovai il mio, un gabbiotto di una mezza dozzina di metri cubi, con un letto di Procuste da un lato, un divano dall'altro, e nel terzo uno specchio da barbiere, posto sopra una catinella incastrata nella parete, accanto a un lume a bilico, che dondolava con l'aria di dirmi: Che matta idea t'è venuta d'andare in America! Sopra il divano luccicava un finestrino rotondo somigliante a un grand'occhio di vetro, in cui mi venne fatto di fissare lo sguardo, come in un occhio umano, che mi ammiccasse, con un'espressione di canzonatura. E in fatti, l'idea di aver da dormire ventiquattro notti in quel cubicolo soffocante, il presentimento dell'uggia e dei calori della zona torrida, e delle capate che avrei dato nelle pareti i giorni di cattivo tempo, e dei mille pensieri inquieti o tristi che avrei dovuto ruminare là dentro per lo spazio di seimila miglia.... Ma oramai non valeva pentirsi. Guardai le mie valigie, che mi dicevano tante cose in quei momenti, e le palpai come avrei fatto di cani fedeli, ultimi resti viventi della mia casa; pregai Dominedio che non mi facesse pentire d'aver rifiutato le proposte d'un impiegato di una Società d'assicurazione, che era venuto a tentarmi il giorno prima della partenza; e benedicendo nel mio cuore i buoni e fidi amici che m'erano stati accanto fino all'ultimo momento, cullato dal caro mare della mia patria, m'addormentai.

Pagina 3

L'angelo in famiglia

182991
Albini Crosta Maddalena 3 occorrenze
  • 1883
  • P. Clerc, Librajo Editore
  • Milano
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Quella famiglia quasi priva da un onere, continua a vieppiù prosperare, i figli si fanno essi pure un ridente ed agiatissimo stato... ma un giorno di morte repentina muore il capo di casa... un altro dì uno di quegli individui che incorniciati dal credito e dal buon nome pajono lanciati dal demonio nella società per sfasciarla, per annichilarla, quell'individuo fa morire di dolore una figlia, getta quasi nella miseria gli altri due; uno di questi ripristina la propria fortuna, ma a spese della pace e forse dell'onestà: l'altro maledice la madre, la quale se ne rimane così isolata nel mondo, abbandonata, infelice! Il mondo se degna di uno sguardo quelle membra staccate che formavano già un corpo solo, o non le cura o le disprezza; ma chi conosce quella storia oscura, non può a meno di ritornar con amarezza al pensiero una voce fioca ma concitata; una cuffia bianca ed un crine canuto su cui sdegnava posarsi la mano filiale... Buon Dio! perdona, perdona a tutti i loro errori; perdona a quel figlio forse più debole e sventurato che colpevole, perdona le sue colpe. Da quella famiglia dove tu sei sbandito, dove è sbandita fino l'immagine tua, leva i flagelli; ritorna tu colla tua presenza, porta la tua fede, la tua speranza, la tua carità, e quando tu avrai fatto ritorno in quella casa, tornerà il sereno, tornerà la calma, cesseranno le ire, cresceranno i figliuoletti nella tua legge, ed al fuoco delle passioni subentrerà il fuoco dell'amor tuo verace! Ma più frequenti, molto più frequenti io amo credere i casi in cui, non una prosperità fittizia, ma una prosperità vera, è il premio da Dio accordato a coloro i quali devoti al comandamento onorerai il padre e la madre tua venerano i cadenti genitori, o gli avi che la Provvidenza ha loro conservato per moltissimi anni. E se tu hai la grande ventura di avere ancora i tuoi nonni, ricordati di venerarne la canizie, perchè quella canizie riflette qualche cosa della maestà stessa dell'Onnipotente, perchè a quella canizie vanno attaccate le benedizioni del Signore. Te beata, se nel sentiero spinoso della vita avrai il conforto di non aver conturbato i vecchi anni degli avi tuoi! Te beata se, vecchia tu pure un giorno, potrai ricordare con compiacenza e con commozione che un dì sulla tua testa s'è posata una mano tremola e scarna, che una voce conosciuta presso a spegnersi per sempre, ha fatto un ultimo sforzo per benedirti... Oh! quella benedizione Iddio l'ha confermata, la conferma ogni giorno in cielo, e sarà feconda d'ogni bene al tuo corpo e all'anima tua!

Pagina 354

Io ti ho vista cogli occhi umidi, io ti ho sentita abbandonata e stretta al mio seno sfogare in esso la piena del tuo, dirmi che è pesante il tuo giogo, umiliante, difficile: io ti ho baciata in fronte, ti ho stretta la mano, ti ho susurrato all'orecchio: Coraggio, coraggio, e ti ho additato il cielo; ma ora ho meditato sul tuo dolore, sulla tua condizione, e mi pare di poterti dire qualche parola di più, di poterti dare perfino qualche consiglio. Lascia alla cognata od alla madre sua il maneggio della casa; la sposa ha il diritto ove non vi sia la suocera, di essere la padrona; tu hai quello più prezioso di essere premiata da Dio dei tuoi sacrificj; ma per ottenere il tuo premio, sei tenuta a rinunciare coraggiosamente adesso a quanto va unito allo stato conjugale al quale tu hai eroicamente rinunciato. Talvolta vedi camminare le cose a rovescio? Ove non t'inganni od esageri, il che pur avviene sovente, fa di volgerle a meglio se le son cose di qualche rilievo, e lascia andar l'acqua per la sua china se si tratta di cose indifferenti o senza importanza, ovvero di cose che direttamente non ti appartengono. Se nella cognata, nelle cognate, o negli altri di casa avverti qualche grave mancanza o difetto o peccato, colla penetrazione e colla dolcezza d'un angelo, non mai coll'asprezza e col comando, correggi e consiglia; ma guardati bene dal parlare mai collo sposo o colla sposa delle colpe del compagno, tranne il caso che il tuo Confessore tel comandi. Lo vedo, il tuo stato visto coll'occhio materiale è tutt'altro che invidiabile; ma se tu lo circonderai di annegazione, di amore, di operosità, non anderà molto e ti sarà resa giustizia, se non apertamente, almeno nel cuore dei parenti e degli amici. Ho sentito dire più fiate: se non fosse lei, poveretta, mia cognata o mia zia, che pensa a tutto, che ha occhio e cuore ad ogni cosa, io sarei disperata; essa è un angelo, Iddio l'ha conservata a benedizione della mia casa e dei miei figli. - Coraggio, amica, se per colpa tua o altrui, o per colpa delle circostanze, od in causa della generosità e tenerezza dell'animo tuo, ti trovi di aver passato il meriggio senza aver provveduto a crearti una famiglia, un avvenire, fa di essere angelo nella famiglia che ti alberga, angelo di pace e di conforto. Se tu invece hai rinunciato a crearti una famiglia in casa tua, od a trovarne una nel chiostro, per solo amore di serbar puro il tuo giglio in mezzo alle lotte del secolo, per combatterne gli errori a forza di virtù e di buon esempio, io m'inchino a te dinanzi e ti addito il cielo dove ti è serbato un premio ineffabile. Ma sulla terra anche gli angeli non sono creduti o sono contristati; a te pure potrà toccare in parte l'amarezza: ma Iddio, se tu operi per Lui solo, volgerà quell'amarezza in gaudio inenarrabile, e facendo brillare sul tuo seno il giglio della verginità, ti porrà in capo le rose dell'amor santo, di un amore che sarà coronato e premiato in eterno, e ti compenserà largamente dei dolori patiti.

Pagina 578

A questo proposito mi fece molta impressione il leggere che Sant'Agostino, quando tuttor manicheo dubitando della sua religione ne cercava una vera, diceva a sè stesso: Se vi ha una religione vera, e ci dev' essere, essa deve avere un codice infallibile ed un maestro infallibile, poichè egli pensava giustamente al solo lume della ragione che Dio non poteva averla abbandonata agli uomini senza prima fornirla dei mezzi indispensabili affinchè fosse conservata ed insegnata nella sua verità, nella sua integrità e nella sua purezza naturale. Ora noi abbiamo il codice ed è il Vangelo; noi abbiamo il Maestro infallibile ed è la Romana Chiesa con a capo il Pontefice, la quale ci spiega il Vangelo e ci rende facile l'adempimento dei comandamenti di Dio, additandoci pratiche speciali per seguirli. Il Signore ci ordina la santificazione delle feste, il cibarci delle Carni del Verbo umanato, sacramentato, e ad ogni passo del suo Santo Vangelo ci va ripetendo penitenza, penitenza; la Santa Madre Chiesa con cuore veramente materno, per toglierci ed alleggerirci la grave responsabilità del precetto divino, ce ne prescrive la pratica con amorevole indulgenza, imponendoci la Messa festiva, la Comunione Pasquale, l'astinenza di alcuni cibi in alcuni giorni, e il digiuno nella quaresima e nelle vigilie delle maggiori solennità. Un tale, pranzando un venerdì ad un albergo, era fatto oggetto dello scherno di alcuni giovinastri, perchè si cibava di vivande da magro; ad un tratto egli ordina una costoletta, poi gettandola al suo cane, che accovacciato gli stava ai piedi, gli disse: To', mangia, la tua religione non te lo proibisce. Quei giovinastri, piccati, ma mortificati, si morsero le labbra e uscirono. Non ribelliamoci no alla Santa Chiesa, ma obbediamola fedelmente sempre sempre; che se per ragioni di salute o per circostanze specialissime ci è impedito l'adempimento materiale di quanto essa ci comanda, noi ne avremo adempito lo spirito, se umilmente e con cuor di figli le chiederemo di esserne dispensati. Ricordati bene, mia cara amica, di non farti giudice o mormoratrîce dei trasgressori delle leggi ecclesiastiche; bensì, ove ti sia dato, fa di ammonirli piacevolmente, facendo loro sentire l'obbligo che tutti stringe di osservarle; ma più specialmente quand'anche tu fossi fatta soggetto di biasimo o di derisione, segui coraggiosamente la tua via, e quell'Altissimo che tien conto fino dei capelli del tuo capo, terrà conto della tua costanza, e te l'ascriverà a merito ed a merito grande. Vi hanno alcune circostanze in cui il tuo Confessore non solo ti permetterà, ma ti ordinerà fors'anche di mangiar grasso e di astenerti dal digiuno, per sollevare la tua coscienza da ogni turbamento; ma io credo che anche in proposito tu sii obbligata ad accennargli tutte le circostanze, come sarebbe quella del mostrarsi pubblicamente o ad un caffè, o ad un pranzo diplomatico o no, ma tale che il tuo esempio possa riuscire di scandalo o di appiglio ai tristi per appoggiare o giustificare la trasgressione delle leggi della Chiesa. Se tu non fossi figlia di famiglia, io ti direi recisamente di affatto astenerti da quei convegni dove apertamente si viola il precetto della Chiesa e quindi di Dio; ma siccome può darsi il caso in cui tu sii obbligata a prendervi parte, solo in questo caso vi ti puoi recare, previo sempre il permesso ed il consiglio del tuo Confessore. Che se per avventura ti trovassi in villa od in luogo in cui non hai l'ordinario tuo direttore, potrai attenerti a quei consigli che egli ti avrà forniti in altra simigliante occasione, o potrai dirigerti ad un Confessore del luogo. Vi hanno delle anime tanto deboli e meschine, le quali non sanno adattarsi a dire le loro colpe al Sacerdote del villaggio, o perchè se lo vedono frequente in casa, o perchè ne conoscono i particolari difetti, o per qualunque altro perchè, inconcludentissimo quando si pensi che colui che esse vedono in casa, o pieno di difetti, od anche grandemente colpevole, è l'uomo, mentre colui, al quale si confessano non è più l'uomo, ma il Sacerdote, vale a dire il rappresentante di Dio. Tu sei obbligata a contentarti ed a prendere quello che ti viene offerto da quelli di casa, tanto nel vestire, che nel mangiare, ed in tutto: cioè... cioè, tu veramente saresti obbligata ad obbedire i tuoi genitori quando il loro comando non implichi trasgressione al comando della Santa Chiesa; però in questo caso la Santa Chiesa, svisceratamente amorosa ed indulgente, ti dirà anche dispensata da questo; ma tu però farai bene a rivolgerti umilmente a Lei. Ma se tu sarai prudente, discreta, amabile, ti sarà facile ottenere dai tuoi di casa i mezzi per l'osservanza dei precetti; questi certo diverranno scala a grandissimi meriti, ed i meriti a loro volta diverranno scala a grandissimo premio... in Paradiso.

Pagina 709

Il pollo non si mangia con le mani. Galateo moderno

189201
Pitigrilli (Dino Segre) 1 occorrenze
  • 1957
  • Milano
  • Casa Editrice Sonzogno
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La prima forma è stata abbandonata anche dai commessi viaggiatori in budella secche. In ogni lettera ripetete il vostro indirizzo per non costringere il destinatario a fare, bestemmiando, delle ricerche. Usate carta bianca; sono da scartarsi senz'altro il viola e il crème, questi colori delle camicie delle serve. Evitate le buste foderate di carta velina. Non scrivete mai con lapis a pallina, immondo strumento che sputacchia un'anilina viscida, depositando una scrittura impersonale e impiegatizia. Se scrivete per la prima volta, o per la centesima, fate che il vostro nome risulti chiaro. Raccomandazione generica: che sia chiara la firma. Che gli N non sembrino U e che gli M non manchino di una gamba. Una I senza puntino e una T senza taglio non sono segni dell'alfabeto; sono segni di cattiva educazione.

Pagina 326

La gente per bene

191881
Marchesa Colombi 1 occorrenze
  • 2007
  • Interlinea
  • Novara
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Una moglie che viene abbandonata a se stessa è come un gioiello che si lascia sopra una tavola d'anticamera, coll'uscio aperto. Non importa che venga rubato, o si giudica talmente privo di valore, da non poter attirare nessun ladro. E qualche volta il bisogno di affermare il proprio valore al marito, che non lo riconosce, induce la moglie a lasciar venire il ladro. Quando una signora va ad un ballo il marito deve accompagnarla; e se non può farlo, deve persuaderla a rinunciarvi anche lei. Soltanto nel caso in cui vi fossero delle figliole grandi, per non privarle di quel divertimento tanto caro alla loro età, se anche il capo di casa e nell' impossibilità di accompagnarle, potrà permettere alla moglie d'andarvi colle signorine, purchè vi sia un fratello maggiore, o un parente a cui affidarle. Se una signora ha una serata per ricevere il marito dovrà trovarsi in casa almeno una mezz'ora, tanto da mostrare che gradisce la presenza degli ospiti in casa sua, e non si considera estraneo alle conoscenze della sua signora. Giungendo in campagna dove la moglie passa l'estate, o tornando da un viaggio, chiunque siano le persone che si trovano al suo arrivo la prima a salutare sarà sempre la moglie, poi i figli. Uno che credesse di mostrarsi cortese salutando prima i forastieri, mostrerebbe che la sua cortesia è superficiale e non ha radice nel sentimento. E si farebbe torto, perchè, credano signori lettori, per quanto queste possano sembrare semplici formalità o leggerezze, la vera cortesia è strettamente legata ai sentimenti di umanità. Non c'e atto cortese che non s' inspiri ad un buon sentimento. Non c'è scortesia che non ferisca qualche cuore. Un amico che ci trascuri, che non ci visiti, che non ci scriva a tempo, che ci manchi di un riguardo, non possiamo considerarlo un uomo superiore che non si curi di quegli atti gentili perchè li crede pure formalità, e si riservi a dimostrare la sua amicizia nelle grandi circostanze. Le grandi circostanze, il caso di buttarsi nell'acqua o nel fuoco per salvarci, o di scendere in campo chiuso a spezzare delle lancie in nostro favore non accadono mai; quasi tutti si traversa la vita senza trovarsi nel caso di mettere un uomo a quella prova eroica. Ma si può apprezzarne ogni giorno la sua gentilezza d'animo, nelle piccole cortesie, e si può soffrire ogni giorno della sua rozzezza nelle scortesie che non sono mai piccole. E non serve la scusa pretenziosa ed assurda alla quale alcuni si aggrappano: - Sono un originale ! Saranno originali, si, ma brutti originali ed è da desiderare che non abbiano copie. Del resto, quegli originali là non saranno quelli di certo che mi avranno fatto l'onore di arrivare fino a questa pagina 230 del mio libro; ed è per questo appunto che ho intitolato il capitolo: Parole al vento. Quanto agli altri, agli uomini gentili di animo e di modi, se l'hanno letto, e se vi hanno trovato qualche cosuccia di buono, raccomandino il mio lavoro alle loro mamme, alle loro spose, alle loro figliole; ed io, che apprezzo ed ambisco l'approvazione delle graziose lettrici, ne sarò riconoscente

Pagina 222

Galateo della borghesia

201987
Emilia Nevers 2 occorrenze
  • 1883
  • Torino
  • presso l'Ufficio del Giornale delle donne
  • paraletteratura-galateo
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La ceralacca e le ostie essendo bandite, la carta a fiori ed emblemi (rose che si aprono, cuori trapassati da freccie) essendo abbandonata ai coscritti od agli scolaretti, la busta ingommata tenendo lo campo, diventa assai più facile scrivere e piegare le lettere in modo conveniente. Infatti, con un foglio di cartoncino bianco e sodo ed una larga busta si può scrivere a chiunque. Noterò soltanto alcune gradazioni. Per le lettere a superiori od uguali, si prenda carta di formato mezzano con cifra, busta adatta, cioè tale che basti piegare il foglio in due; per gli intimi o parenti, si firma il nome solo, per gli altri, nome e cognome. Scrivendo ad un uomo, una signora metterà iniziale e cognome. Per inferiori si scelga il biglietto di visita dove il nome serve di firma e si scrive in terza persona, o, meglio del viglietto, dei cartoncini quadrati appositi. Per esempio: « MARIA FORTINI » prega la signora Merli di terminare la frangia commessale, » avendo urgenza di servirsene ». Per bigliettini da spedirsi in città, inviti ed altro, si prende carta di piccolo formato. Non si deve mai impiegare dei mezzi fogli o dei fogli sgualciti e macchiati, nè mandar lettere senza busta: se si spedissero simili fogli ai proprii superiori sarebbe un mancar di rispetto, agli uguali un mancar di cortesia, ai congiunti un mancar di riguardo, agli inferiori un mancar di delicatezza. Vedo ancora la fisionomia d'un certo ottimo babbo campagnuolo che aveva fatto educare la figlia in un collegio: un dì, madamigella, che era in città, scrive al babbo, e lui, alla posta, dice: - Eh! vedrete che letterina! Mia figlia ha una scrittura! Ed uno stile! Apre la busta: c'era dentro un foglio sgualcito, macchiato, di carta comune, con due sgorbi, degni d'una lavandaia. Figuratevi come il pover'uomo rimase! Certo, quella signorina, per scrivere alle amiche, si valeva di carta profumata e faceva dei modelli di calligrafia: ma pel vecchio babbo, non metteva conto! Ebbene, per essere veramente persone ammodo, bisogna sempre ed in ogni cosa mostrarsi accurato e cortese; non bisogna mai dar vacanza all'urbanità ed alla nitidezza: non bisogna mai dire: non mette conto! È fuori d'uso ormai porre l'intestazione in cima e cominciare la lettera affatto al piede della carta, per modo che nella prima pagina non vi sieno che due o tre righe. Per le lettere famigliari si mette l'intestazione quasi in cima della pagina, poi la data e si comincia a poca distanza; per le lettere di cerimonia ai superiori si mette il nome e titolo incirca a metà pagina, si comincia nell' ultimo terzo, lasciando molto margine a sinistra; si mette la data dopo la firma. (Ai superiori non si scrivono che lettere, non bigliettini). Nelle lettere commerciali la data si mette in iscritto in quella riga stampata, dove sta il nome della città dello scrivente. In mezzo si pone una prima intestazione che reca il nome, cognome e paese della persona che scrive o la ditta. Sotto una seconda intestazione molto semplice. Per esempio: REVELLI E C° - Via Orso, 1, Milano Milano, 3 luglio 1882. Signori Marini e C° RAVENNA. Egregi Signori, ........ Per le petizioni o suppliche si prende della carta di grandissimo formato, con molto margine, e si scrive da una parte sola del foglio. Queste lettere, come in generale quelle ai superiori, convien meglio suggellarle. Si suol deridere quelli che scrivono sulle buste la parola urgente: ma un'autrice francese assicura, con giustezza, che se questa raccomandazione è certamente superflua per la posta, può essere utile e per la servitù che imposta e pel destinatario, che così verrà spinto a leggere e rispondere con maggior sollecitudine. Sulla busta non si metta scialo di epiteti, e soprattutto si formuli chiaramente l'indirizzo lasciando le spiegazioni fantaisistes, come: la casa delle colonne, la casa accanto al Duomo, la prima casa a destra, ed altre ingenuità, inutili per la posta, non servendo che il nome della via ed il numero della casa. In generale per uomini e per signora attempata il titolo d'egregio, per signora giovane o signorina quello di gentilissima, sono sufficienti: chiarissimo, colendissimo, spettabile, illustre.... non sono epiteti necessari, nemmeno scrivendo a delle cime: scrivendo a qualche onesto commerciante o babbo sono ridicoli. Ai ministri si dà dell'Eccellenza. Per lo più nelle lettere si tien la norma seguente: Francobollo Egregia Signora Luisa Geronimi via Palermo, n°5 UDINE (Friuli) I Francesi però consigliano un altro sistema. La scelta è libera: noterò solo che non si deve ripetere il titolo di « signora ». È un uso antiquato. Quindi se dicessi: egregia signora - signora Luisa Geronimi, non andrebbe bene. Ma ecco il modello francese: Francobollo ITALIA Signora Luigia Geronimi via Palermo, n° 6 UDINE (Friuli) Quando si danno lettere da affrancare alla servitù, è buona norma scrivervi su la parola affrancata. Quando si dà ad un amico qualche lettera di raccomandazione si consegna aperta. Per le formole di conclusione si adopera il dev.mo pei non intimi, l'aff.moper gli intimi. Per gli inferiori, basta il nome dopo i saluti. Una signora mette dopo il proprio nome il cognome del marito, da ultimo il proprio casato da ragazza. Non s'usa firmare il titolo: è accennato dalla corona o dallo stemma, che molti nobili usano sulla propria carta da lettera. In Francia le dame firmano - non il nome, nè il titolo - ma il casato patrizio: se è la duchessa Rose de Mauprat nata Dovenal, metterebbe Mauprat-Dovenal. È anche di voga ora in campagna mettere sulla carta un piccolo disegno rappresentante il palazzo o la villa che si abita; però è una moda un po' vanitosa. Una vedova firmerà a scelta il nome del marito od il proprio o tutti e due, ma in fila e senza la parola di vedova. Per esempio: Luisa Geromini - Marti e non: Luisa Marti vedova Geromini, il che non è elegante. La prima condizione d'una lettera è di essere scritta con chiarezza, sì da non affaticare la vista e stancare la pazienza di chi la riceve e di non dar luogo ad equivoci: le cancellature vanno evitate. Per chiudere si può metter a scelta: Coi sensi della più alta stima - con stima - con affetto - col massimo rispetto - mi dico, mi rassegno, ecc., ecc., badando alla maggiore o minore opportunità della scelta. In francese (credo far cosa grata accennando ad alcune forme di questa lingua), in francese si dice cher monsieur nell' intimità, e monsieur soltanto ai superiori; chère madame, chère mademoiselle, o solo madame e mademoiselle (mai: chère dame,chère demoiselle). Salutando si dice nell'intimità: Tout à vous, mille amitiés, votre affectionnée - ai superiori: Veuillez agréer l'expression de mon profond respect, de mon dévouement -agli uguali: De mes sentiments les plus distingués, affectueux - a persona altolocata: De mon estime, de ma considération distinguée - in commercio: Agréez mes salutations distinguées o empressées - agli inferiori: Je vous salue, o agréez mes salutations. Questa la parte teorica. Riguardo all'opportunità morale: Si scrive ai proprii parenti ed amici pel capo d'anno o pel loro onomastico. Per congratulazione o condoglianza,venendo a sapere di qualche loro gioia o dolore. Per accompagnare un dono o ringraziare. Per annunziare nascite, matrimoni o decessi. Agli ospiti, appena s'è tornati a casa, per ringraziarli. Le persone molto cortesi, lasciando una città od un luogo di bagni, scrivono ad una persona del loro circolo, perché questa trasmetta a tutti i loro saluti. Una signorina non scriverà mai ad un uomo giovine. Lo stile rientra nella mia competenza, inquantochè dev' essere adatto alla persona a cui si scrive ed all'occasione. La lettera commerciale sarà di stile chiaro e conciso. La lettera di congratulazione o ringraziamento, breve, ma animata da schietta cordialità. La lettera di domanda a superiori, breve, semplice, seria. La lettera agli intimi, lunga finchè si vuole, scherzosa, variata. La lettera a bimbi, un pochino didattica con una certa spruzzatura di faceto, come quelle graziosissime di Giusti ai nipoti. La lettera di capo d'anno o d'onomastico dovrebb'essere..... nuova! Ma qui credo che sarà difficile seguire il mio parere e trovare una formola diversa, una frase inedita per dire: « Domani comincierà un anno nuovo e vi auguro di passarlo nella felicità ». E non potendo far cosa nuova - consiglio di far cosa schietta e semplice: sarà il meglio. La semplicità costituisce il vero e solo merito d'una lettera. Intendiamoci: la semplicità dello stile, non della lettera. Limitarsi a dire: Ho ricevuto la cara vostra, da cui vedo che state bene e sto bene anch'io, o giù di lì - è povertà di fantasia o pigrizia, non semplicità. La lettera dev'essere spontanea, chiara, palpitante di vita; essa surroga la parola, e deve quindi più che può imitare lo stile parlato; più vi si sente lo slancio d'un cuore verso l'altro, d'una mente verso l'altra, la verità, la naturalezza, più piace. Perciò in genere, le donne vive, impressionabili, sensibili al bello, sanno scrivere delle lettere stupende, anche senza essere letterate e talvolta perfino senza conoscere la grammatica: citerò in prova della prima asserzione, le francesi, la Sévigné, - ed in prova della seconda la tragica Rachel, la quale, con un'ortografia delle più fantastiche, dettava delle lettere di cui la grazia e l'eloquenza erano impareggiabili. Trovo anzi che nelle lettere - le quali rappresentano affatto la persona - ogni studio di rettorica, ogni ricercatezza, nuoce, e invece di dar piacere, di far sorridere o di commuovere, fa sclamare a chi la riceve: Oh! quanto deve aver sudato l'amico a mettere insieme tutta questa roba! La brutta copia quindi non giova punto allo stile epistolario; convien abituarsi a farne senza; compor la lettera a memoria e poi buttarla giù, senza badare a qualche neo, a, qualche ripetizione. Che sia di stile schietto e spigliato, ecco quanto preme. Finalmente, per ultima norma,noterò che non si deve mai scrivere sotto l'influenza dell'ira. Se è cosa inurbana, illecita, uno sfogo a parole, figurarsi che cosa è uno sfogo in iscritto! La parola sfuma: verba volant, come dicevano gli antichi; lo scritto invece se ne sta sempre lì, immutabile, anche quando l'ira è svanita, anche quando si sarebbe disposti a cancellarlo con le lagrime. Ciò che si scrive acquista appunto dalla sua durata una forza speciale; l'offeso può aiutare la propria memoria col rileggerlo e così, la freccia che il tempo avrebbe smussato, conserva la sua malefica virtù, ed impedisce il perdono od il ravvicinamento. È anche doveroso custodire con riguardo la propria corrispondenza; se si ricevono lettere un po' imprudenti od appunto scritte in ore di eccezionale impressionabilità, distruggerle. Mai lasciarle di qua e di là, a portata della servitù o degli indiscreti. Non par vero quanti guai hanno prodotto le vecchie lettere! C'è una fatalità nella smania di custodirle. Credo che non si sbaglierebbe aggiungendo al noto assioma: cherchez la femme! quello di: cherchez la lettre! poichè in fondo a gran parte dei guazzabugli di questo mondo sta un cencio di carta con due sgorbi. È quindi una norma di prudenza e civiltà sopprimere o chiudere la propria corrispondenza. Aprire le lettere altrui, o leggerle se si trovano, è la massima indelicatezza. Non è lecito che ai genitori in rarissimi casi. In qualunque altro, anche - anzi - fra marito e moglie è biasimevolissimo; denota bassa curiosità, intenzioni maligne o sospetti offensivi.

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Eva Regina

203710
Jolanda (Marchesa Plattis Maiocchi) 1 occorrenze
  • 1912
  • Milano
  • Luigi Perrella
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  • UNICT
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La misero poscia a Napoli in una scuola Evangelica, dove forse attinse quei solidi principi di rettitudine che non l'hanno mai abbandonata tra tutti i pericoli a cui è stata esposta. Esordì a Torre del Greco in una Compagnia Sociale di terz'ordine col ruolo di prima attrice assoluta, e non ancora quattordicenne commoveva il pubblico con Dionisia che rimase poi sempre nel suo repertorio come una delle sue interpretazioni preferite. Narrare la rapida ascesa e i fasti della vita artistica di Tina, è inutile perchè l' Italia tutta la conosce e la vezzeggia come una figliuola prediletta, e nel suo villino all' Ardenza, fuori Livorno, si dànno lieto convegno colleghi ed ammiratori. Nella sua esistenza privata Tina è mamma tenerissima e sposa innamorata e fedele di colui ch'ella scelse tra i suoi compagni d' arte, dimostrando anche in questo la spontaneità semplice della sua indole e della sua anima, che avrebbe potuto cercare la ricchezza, íl nome, la posizione sociale, e non volle che l' armonia e l'amore. Eleonora Duse, la più eminente fra le interpreti nostre contemporanee, non ebbe in dono la bellezza, ma uno spirito vibrante, dominatore sul fisico che imprime dei caratteri dell'anima che assume. Nacque da Alessandro Duse e da Angelica Copelletti di Vicenza, il 3 ottobre 1859. A quattro anni faceva Cosetta nei Miserabili. A Trieste aveva il ruolo d'ingenua. Crebbe nella miseria, la madre le morì all' ospedale dove ella mangiava metà della zuppa che l' ammalata le lasciava. Emerse in Teresa Raquin, e Giacinta Pezzana accese in lei il sacro fuoco dell'arte. Assistendo ad una rappresentazione della Princesse de Bagdad, protagonista Sarah Bernhardt, la Duse ebbe la rivelazione della propria personalità artistica. E si affermò in Dionisia, in Francillon, nella Moglie di Claudio. Il Teatro di Ibsen, di Maeterlinck e del D' Annunzio affinò ancor più l' arte sua, la portò alla perfezione : giacchè la grandezza della Duse è grandezza d'analisi, di riproduzione viva della natura. Il celebre ritrattista tedesco Franz Lemback si divertiva a fissare le diverse impressioni che coglieva a volo in teatro sul volto della Duse ed aveva tappezzato il suo studio di trenta schizzi che personificavano i diversi stati dell'anima umana. A queste due stelle massime fanno corona Irma ed Emma Gramatica che incarnano mirabilmente la personalità della donna moderna, nella sua nervosità la prima, nel suo spirito brillante e un po' scettico, la seconda. Virginia Reiter, audace ed efficacissima; Teresa Franchini, fine ed accurata Edvige Reinach, semplice e soave; Ines Cristina, intelligente coadiutrice del talento del Zacconi ; Alda Borelli di così squisita intellettualità, Teresa Mariani, Dina Galli, e molte e molte altre che sarebbe troppo lungo enumerare. Meno ricca è, nel momento presente, la pleiade delle artiste di canto di prim'ordine. L' Italia, la terra classica delle melodie, si è lasciata vincere dalla concorrenza straniera, e la Francia, la Germania, la Polonia dànno ora le migliori interpreti musicali, per potenza ed estensione di voce, per esattezza di metodo ; risultati che queste straniere debbono, forse più che alle doti naturali, alla diligenza della loro lunga preparazione al palcoscenico che le giovani cantanti italiane vogliono conquistare di slancio, appena uscite dagli Istituti. Pure, la fama della Patti è ancor recente ; e i nomi di Luisa Tetrazzini, di Eugenia Burzio, di Resina Storchio suscitano echi di entusiasmi e di sommo diletto intellettuale : e chi ebbe la fortuna di udire Gemma Bellincioni nella Traviata, la Jacobi nel Lohengrin, la Giovannoni-Zacchi nella Bohème, la Meyer nel Mefistofele, la Merolla nella Manon, la Toresella nei Puritani, la Pantaleoni nella Cavalleria Rusticana non le potrà più dimenticare.

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Angiola Maria

207264
Carcano, Giulio 7 occorrenze
  • 1874
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Intanto Maria, in tutto quel tempo, e furono due lunghi mesi, visse quasi sempre abbandonata e solitaria, in mezze al tumulto della città, fra il continuo udir ricordare le feste del dì passato e il vedere gli altri apparecchiarsi a' piaceri del domani, feste e piaceri che non erano per lei! E quante volte desiderò di trovarsi a casa sua, al fianco di sua madre, accanto al suo arcolaio; e sentiva un accoramento di vedersi così negletta, e divorava in segreto le lagrime dell'amore e dell' abbandono! Quando rimaneva in casa, in quelle lunghe sere invernali che sembrano eterne a chi, nella solitudine, ha de' dolori a cui meditare; quando altro non le giungeva all' orecchio fuor del lontano mormorare, ch'è l' indizio della vita notturna d' una città, e pensava che nessuno poneva mente allo sfogo del suo dolore; allora, dopo aver tentato inutilmente d' occuparsi in una o in altra cosa, per disviar gli assidui pensieri che aveva in cuore, rimembrava la pace che non doveva trovar mai più, cercava di persuadersi della stoltezza di quell' amore che l'aveva fatta smarrire, e degli anni inutili, desolati, che ormai le restavano a passare. Nelle prove del dolore la sua anima confidente e pura aveva trovato la forza di conoscer In vita e la funesta sua realtà; poichè pare, pur troppo, che la conquista d'una ferma ragione debba valere il prezzo dell' innocenza e del disinganno : così bisogna che l' albero perda i suoi fiori, perché si fecondi il frutto. Maria, la quale non aveva veduto il mondo, non aveva trovato sul suo cammino se non persone amiche e liete di poterla amare, Maria, in quell' ore di solitaria tristezza, divenne una creatura nuova. Allora la vita, che un tempo si dipingeva dinanzi a lei così serena e bella, spogliavasi di tutta la sua magia; anch' essa la timida fanciulla provava in cuore una pena ignota, muta, indistinta, poi la puntura segreta del primo rimorso; anch' essa aveva una parola, un' acerba parola per domandare al Signore con che ragione l' avesse resa infelice! E non le parevano più cosa impossibile la malizia degli uomini e la fortuna de' cattivi; per la prima volta, l'amaro sorriso dell' odio aveva sfiorato la sua bocca; ella pure sentiva dentro di sè una forza intima, potente, la forza di disprezzare chi le aveva fatto del male. In que' momenti angosciosi, si metteva a scrivere al fratello lunghe lettere, nelle quali versava tutta l' amarezza dell' anima e il compianto del suo misero destino: erano fogli sparsi più di lagrime che di parole; era la pietosa 'onfessione d' un cuore che non sa reggere al primo colpo del dolore. E poi lacerava, bruciava ciò che aveva scritto; si sforzava d' essere tranquilla; e raccolti i pensieri, ponevasi a leggere con voce commossa í suo libro di preghiere, Così passarono per lei giorni e settimane di quel tristissimo inverno. Ben vide che sarebbe stato una follia il domandare alle amiche, perchè non la conducessero con loro, dopo ch' ella stessa s' era tante volte mostrata ritrosa d'accompagnarle; nè le fanciulle ebbero più cuore di pregarnela, quando si accòrsero che il padre repuguava all'intima confidenza da loro messa in Maria. La giovinetta, dunque, soffocava il suo affanno, e tremando sempre che una, parola, un gesto, un' occhiata potesse tradire quel segreto, il primo ch' ella avesse avuto, e che avrebbe voluto nascondere anche a sè medesima, cercava d' ingannar chiunque appena le volgesse uno sguardo; cercava di parer lieta, quando il suo cuore non era pieno che d'una sola malinconica idea. Era pur doloroso il veder sempre un mesto pallore sulla sua fronte, e un sorriso di gioia sulle sue labbra Ma, in quel tempo, il segreto turbamento d' altri e più gravi pensieri agitava la mente di Arnoldo. La quiete della meditazione, che fa nascere la necessità di conoscere e di sapere; la libertà dell' anima, che conduce allo studio di quanto v' è di più riposto nelle cose, e ché in mezzo al tumulto degli uomini è così facilmente dimenticato e perduto; la volontà, non più tentata da esterne apparenze e scevra d' ira o di timore, avevano fatto maturo l' intelletto del giovine a uno studio nuovo e più severo della vita. Troppo spesso la sana mente e la fredda ragione sono umiliate da una specie di vago abbattimento, da un amaro disgusto di tutto, perchè possano essere capaci di grandi e virtuose risoluzioni. La coscienza del dovere, senza l' alito segreto dell' affetto, non è virtù; perchè la virtù viva nel cuore, non basta la persuasione indotta dalla chiara evidenza del fatto; è forza che al fatto si trovi una spiegazione, un principio sovrano, il misterioso legame dell' anima con la vita. Arnoldo aveva conosciuto nella nostra città uno di quegli uomini di semplici costumi e d'animo incorrotto, i quali, in mezzo al mondo, seguono con passo sicuro una via negletta e taciturna, la via dell'onesta saggezza. Gli applausi e la gloria non sono per loro, anime grandi e oscure; ma sono per loro la tranquillità dell' uomo modesto e la forza del giusto: vengono sulla terra ignoti, passano dimenticati, e se ne vanno del pari; ma il frutto delle parole e dell'esempio loro sopravvive, nè può andar perduto. Quest' uomo, del quale non dirò il nome, perchè i buoni non cercano quaggiù lode nè invidia, paghi dell'amore de' pochi, nel piccolo cerchio di coloro che si ricordano del bene ricevuto; quest' uomo, colla dolcezza dei consigli e con la forza mite d' un senno angelico e consapevole del cuore umano, indirizzò e sostenne i pensieri di Arnoldo a quel fine a cui l'anima sua da tanto tempo anelava. Egli lo preparava a' gravi studi, lo nutriva di ferventi meditazioni e di calda volontà, ne accendeva il coraggio, e rinfrancava la vigilanza; gli prometteva la vittoria dopo la battaglia, e dopo la fatica il sospirato riposo. Alle severe lezioni di lui Arnoldo consacrava allora la maggior parte del suo tempo; ond' avveniva che si rimanesse, talvolta anche per interi giorni, lontano dalla suo casa e dall' amata giovinetta. E poi, al ritornarvi, quasi sempre lo videro mesto, chiuso ne' suoi pensieri; non parlava, e passava lunghe ore intento a nuove e severe letture, coll' animo combattuto da strane e inquiete fantasie. Nondimeno, con gran cautela, tenne nascosta a tutti la ragione di quelle sue assenze quotidiane, di quell' assidua e muta preoccupazione. Maria sola se n' era accorta, ma taceva; e per il suo cuore era un tormento di più. Pure, in mezzo a quest' ignota cura d' Arnoldo, vi era de' giorni ne' quali l'amore, quasi divenuto in lui una quieta abitudine, si faceva più forte del suo proposito, più grande della sua virtù. Allora egli s'abbandonava a' suoi sogni antichi, a quei fallaci disegni che fa sempre l' incauta giovinezza, persuasa la scusa dell' amore rendere tutto facile e giusto. Allora la leggiadra immagine di Maria non rallegrava più, come prima, tutti i suoi pensieri; il suo cuore era ardente, gravato; cercava spesso di lei; ma poi venutole vicino, sentiva conturbarsi; voleva parlarle, spiegarle l'amor suo, nè sapeva con che parole. E se mai avvenisse che i timidi occhi della fanciulla s'incontrassero per un momento ne' suoi, ella era colta da un terrore nascosto, non mai provato. Una mattina - era in febbraio - le due sorelle e Maria sedevano silenziose presso un tavolino di lavoro, non lontano dalla finestra, dalla quale penetrava una luce fosca attraverso i cristalli, dalla gelata nebbia notturna infiorati coi più bizzarri rabeschi. Arnoldo, appoggiato alla spalla del camino, volgeva distratto le pagine d'un volume che teneva fra mano. Poco di poi, essendo annunziata una mercantessa di mode, le due sorelle uscirono; e Arnoldo rimase solo con la fanciulla. Tacevano entrambi, e Maria non osava levar gli occhi dal lavoro, al quale pareva intenta. Arnoldo aveva posto giù il libro, e la rimirava, tutt'occupato in quella idea d'amore. Alla fine se le avvicinò, e con voce concitata e commossa, « Maria! » le disse « è tanto tempo che devo parlarvi, e voi.... » Maria taceva; ma il suo cuore era tremante, batteva rapido e forte.

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In quella sera, quando si ritirò nella sua camera abbandonata, Maria benedisse il cielo di potere finalmente lasciar libero sfogo a' suoi sospiri. Sentivasi più che mai agitata la mente da mille imagini dolorose; ma sopratutto l'angustiava un dubbio, un sospetto, un pensiero spaventoso, che non osava confessare al suo cuore. Si pose a sedere: meditava sopra di sè, sulla propria vita, e le pupille le si gonfiavano di lagrime. La folle allegria delle compagne, i loro ghiribizzi, que' motti, que' consigli facili e maliziosi, non rispondevano al suo costume timido e dolce, alle dolenti sue ricordanze; ella si accorava di dover tacere sempre, di vedersi negletta, perchè non aveva il cuore come le altre; pativa di non esser amata, e pur pensava che non avrebbe potuto confidarsi a nessuna Ma tutto questo era nulla ancora; il peso della vita essa l'aveva portato in silenzio e con rassegnazione fino a quel dì; e in quel di appunto, un'improvvisa circostanza bastò a risvegliar nel suo cuore, appena riposato, un antico e fiero contrasto. - Quella stessa mattina, un giovine era passato più d'una volta dinanzi la bottega (se vi ricordate, i furbi occhietti della Luisa l' avevano ben notato); e Maria, nel gettare uno sguardo involontario su la via, lo vide anch'essa, lo riconobbe.... Era lui, era il suo Arnoldo! - Le parve ch'egli pure la conoscesse: le parve che gli occhi del giovine si fossero incontrati ne' suoi.... Poi non si ricordava più di nulla; non l'aveva più veduto. Fu un sogno, un'illusione?... No, no; l'anima sua era troppo in pace nel punto ch'egli passò, perchè quella vista fosse un inganno de' pensieri. Già il rivederlo aveva rinnovato tutti i dolori di sua vita, e vinto il suo cuore; il rivederlo sola una volta bastava a rapirle di nuovo la calma e la forza in tutto quel tempo riavute, la memoria stessa di sua madre, e di tutto il piangere che aveva fatto.... Ella ebbe ancora un momento, un fuggitivo momento di speranza e di gioja! - Ma come si trovava egli qui?... e perchè tornava, e che voleva da lei? Dunque, non era tutto finito fra loro, non erano come morti l'uno per l'altro? non era dessa la povera orfana, alla quale non restava più nulla in terra, più nulla, fuorchè la virtù? Questo segreto patimento, che solo un' anima pura e addolorata può intendere, tolse a Maria il sonno di quella notte. Ma al mattino, appena per le fessure, delle imposte il primo chiarore penetrò nella stanzuccia, essa, lasciato il letto, pregò più vivamente dell'usato; e quando si levò dal suolo, la sua deliberazione era già presa. Salì serena e composta, come soleva, alle camere della crestaja; e poi che la seppe levata, bussò leggermente all'uscio di lei. La buona donna aveva preso ad amarla; cosicchè, sentitane appena la voce, la fece venire a sè, e le dimandò che volesse, dandole animo a parlare. La fanciulla rispose aver un segreto a scoprirle, una grazia a chiederle; si trattenne un pezzo con lei, e le aperse tutto il suo cuore. Quella mattina, non discese nella bottega, e la sua seggiola rimase vota: le compagne n' ebbero gran maraviglia, e bisbigliarono fra loro mille congetture di quest' improvvisa assenza; per tutto il dì non parlarono d' altro, nemmeno de' loro amorosi. Poi, la mattina appresso, la crestaja annunziava alle curiose alunne che Maria era partita di casa sua; ma per tentar che facesse, or l' una or l' altra, di aver la chiave del segreto, non riuscirono a saperne nulla; la brava donna mantenne a Maria il silenzio promesso. Alla fine, venuta la sera, le fanciulle, prima del rintocco delle sospirate ott' ore, svolazzarono fuor della bottega: e ciascuna ebbe a raccontare al suo fedele la storia della scena del giorno passato e della compagna scomparsa. Noi lasceremo le altre, e terrem dietro con passo leggero alla Ghita; la quale, camminando stretta stretta al braccio del suo Eugenio, gli parlava con quell' ingenuo cicaleccio che nelle giovani crestaje ha pure il suo vezzo. Perchè, dove nol pensaste, la Ghita era una buona ragazza, fresca come un botton di rosa, un po' capricciosetta , ma savia: essa, quantunque alunna d'una crestaja, era graziosa, onesta; e le piaceva ch' Eugenio l'accompagnasse, perché, poverina! aveva troppo paura di correr sola per le vie, nè il suo innamorato poteva ancora vantarsi d'averle mai car- pito un solo bacio. Egli poi, Eugenio, era un giovine come ce n' è tanti, allegro, buon tempone, ma di cuor mite e sincero; e benché facesse all'amore, per non saper fare di meglio, pur egli credeva ancore all'amore. Unico figlio d'un vecchio impiegato di scarse fortune, era scritturale in una buona casa di commercio. Una mattina, stando sul terrazzino, gli venne veduta, al terzo piano della casa dirimpetto, una giovine, la quale inaffiava due vasetti di fiori sulla sua. finestruola; stette a contemplarla lungamente, gli parve bella: era Ghita. E poi, vista la fanciulla uscire, le si mise dietro, la seguitò come la sua ombra fedele, e così fece per un mese. Passato il quale, essa non ebbe cuore di far la ritrosa, chè se n'era accorta: un giorno, rispose al saluto del suo bel vicino; il giorno appresso gli concesse un' occhiata e un bel sorriso; poi venne una buona parola, e poi se n'andarono in compagnia; sicchè il povero giovine, a poco a poco, s' innamorò da vero della fedele sua dea del terzo piano. « Senti, mio caro! » diceva in quella sera Ghita all'amico; « l'altro giorno, tu m' hai raccontata la storia d'un bel giovine forestiero, quello.... del nome non mi ricordo più.... quel bravo giovine con cui t'ho veduto passare più d'una volta. Tu m' hai pur detto ch' egli voleva sposare la mia compagna, la Maria, che gli piaceva tanto da un pezzo; ma che poi tutto era andato a monte; nè s'eran più veduti, e.... » « Sì, » rispondeva il giovine; « or bene? avresti forse detto alla tua compagna, che l'amico suo è qui, e a qualunque costo vuoi parlare con essa? » « No, no, t'avevo promesso di tacere, e ho taciuto.... benchè avessi una tentazione, a dirtela schietta, di mostrare che sapevo tutto anch' io, e di farla arrossire un po' quella Maria... un'acqua morta, che fa l' innocentina.... » « Via, cosa vuoi dirmi dunque, che mi fai gli occhietti? » « Voleva dirti che tu non mi vuoi bene, che sei un cattivo arnese, e non avresti cuore di fare come quel tuo bravo amico, che vuole un ben dell'anima alla Maria.... » « Di far che, maliziosa? « Di sposarmi, signorino! » gli susurrò all'orecchio, con una graziosa moina: « non m' hai promesso ancora, ma lo farai, non è vero? appena sarai padrone del fatto tuo : perchè adesso sei un buon giovine, e null' altro, com' io una buona tosa.... » « Tu sei una matterella; e appena fuor del guscio, pensi già.... » « Oh se tu mettessi un po' di giudizio, mi sposeresti... » « Non mi parlar di malinconie, o ti pianto qui su' due piedi. Dimmi piuttosto cosa c' è di nuovo di quella Maria, perchè mi preme di sapere.... » « Oh vedi! una certa idea me l'aveva fatta già dimenticare. Maria dunque, Maria non c' è più » « Come non c' è più? dici da vero? » « Se n' è andata, e non si sa come, nè dove.... » « È fuggita?... » « Chi lo sa? Certo, la cosa non è chiara; ma credo che lei non ne voglia saper altro di quel tuo amico; e io ci vedo! Oh! la è così; essa l'avrà riconosciuto, quando passava con te per la via; e per paura di far dire, e per non voler anche lei adattarsi come tutte le altre, avrà pensato di schivar l'occasione e di fuggire.... » « È impossibile! e perchè dunque? e dove mai? » « Io la conosco quella giovine; ha le idee storte, certe fantasie, ch' io non so proprio dove se le peschi. Figurati, non fa che pensare o piangere; se parla, se ride, è un miracolo.... Io per me, la compatisco, poverina! così giovine, e non aver più nessuno ; ma, suo danno, se la è così semplice da scappar via quando c' è chi l'ama, la cerca..., e, di più, la vuole sposare! Non è vero, ch' è peggio per lei? « Sì, sì! Ma intanto, come fare a dirlo a lui ? Non so da vero, in che modo si possa esser matto, incocciato così per una come lei; e venir apposta d' Inghilterra, e star un mese a cercarla.... Io per me, a quest' ora, l'avrei mandata.... Dio sa dove! » Ma essi, allo svoltar della via, si guardano indietro camminano con passi presti e spessi, si parlan così davvicino, ch' è impossibile seguitarli ancora e rubar loro le parole.... E poi, il più ladro mestiere della terra! Lasciamo dunque che la giovine coppia se ne vada in pace per la sua via.

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Ella s' era abbandonata mollemente sul poggiolo del terrazzo, distratta guardava l'acqua del lago, che rompevasi con monotono gorgoglio al piede del sasso, e diceva sotto voce, parlando con sè stessa: - O mia povera madre! se tu pure fossi qui con noi! io t' ho conosciuta appena: ero così piccina ancora, quando ci abbandonasti per andare in paradiso!... Ma pure mi ricordo di te, mi ricordo de' tuoi baci, delle tue carezze.... Tu eri malinconica! Oh se tu fossi qui con noi; non piangerei, ma così!... - E sollevava la faccia al sereno del cielo. Venne in quella sul terrazzo un vecchio signore, d'alta statura, di contegno serio e severo; il quale salutò d' un cenno della mano le due giovinette, poi si mise a sedere. Vittorina gli corse al fianco, e lo baciò in fronte, con una tenerezza infantile, dicendogli: «Buon giorno, padre mio! come state? » « Bene. » « Volete ch'io serva il tè? farei subito colezione ben volentieri! Via, non siate così brusco: l'aria di questo paese non vi rallegra? » « Si, quel che vuoi, cara. Ma Elisa che fa? » « Eccomi, padre mio! perdonate, ero distratta ne' miei pensieri.» Intanto che le due sorelle apprestavano il tè, lord Guglielmo Leslie se ne stava taciturno, corrucciato in viso, e le gomita appoggiate alla tavola, in atto d'interno dispetto; le due' giovinette si sogguardavano tacitamente a ora a ora. Ma la fronte di Vittorina era serena e gaia, e sulla sua bocca scherzava sempre un ingenuo sorriso; Elisa invece levava gli occhi azzurri, intenti, e pareva voler leggere nella cupa meditazione del padre, come sentisse il bisogno di dividere il suo dolore e di confortarlo. Quella era dunque una mattina assai mesta, in faccia a un cielo incantevole, nel giorno più bello della primavera. Dopo un lungo silenzio, e finita la colezione, Elisa si volgeva a suo padre, e vincendo una certa titubanza, dicevagli con tutta soavità: «Perdonategli, padre mio, perdonate al nostro buon Arnoldo! Ditemi che non è vero che voi non l'amiate più!... Dunque, se l'amate ancora....» « Chi mi parla di colui?... » rispose con piglio severo il lord. « È la vostra Elisa, padre mio, la vostra Elisa, a cui pur volete tanto bene.- Ma ne volete anche ad Arnoldo, e nel vostro cuore gli perdonate, non è vero?» « Finitela, » riprese il padre, « finitela! Guai a chi mi parla di riconciliazione con quell' uomo indegno!... È troppo! » - E battè con tal impeto di rabbia il pugno sulla tavola, che la povera Elisa si levò sbigottita; e Vittorina, che già stava per aggiunger la sua alla preghiera della sorella, balzò indietro, e mise un grido di spavento. Il vecchio lord, mormorando ancora: - È troppo! - aggrottava le ciglia; poi, alzatosi dispettosamente, voltava le spalle alle figliuole; e rientrato in casa, chiudevasi dietro le imposte. Elisa e Vittorina rimasero guardandosi l' una l'altra, senza osare seguirlo cogli occhi, nè dir parola. Lord Guglielmo Leslie discendeva da una famiglia antica e chiara. I Leslie avevano avuta non l' ultima parte nelle vicende politiche del loro paese; e quantunque scaduti da quell'antico splendore di potenza famigliare che i secoli e le ricchezze avevano sancita, serbavano tuttavia gli avanzi di quell'orgoglio aristocratico, e di quella superbia, direi quasi dinastica, che i severi Inglesi, più che tutti gli altri, seppero mantenere in mezzo a tutte le loro cittadine libertà e a' loro civili progressi. Non c' è popolo, che al pari dell' Inglese sia così ostinato e sdegnoso sostenitore de' privilegi e delle franchigie che i nobili vantano sui cittadini, e che mentre combatte in pace e in guerra per la causa della libertà delle nazioni, conservi con tanta gelosia le sue prerogative, i suoi diritti; i quali almeno non sono colà, come altrove, una boria ridicola, poichè posano saldi sopra una base di fatto, come il cammino degli avvenimenti e le vicende del potere civile ve li hanno essenzialmente stabiliti. I Leslie di Falconbridge tenevano ancora alcuni vasti poderi in una delle più colte contrade del mezzodì d'Inghilterra. Al principiar del nostro secolo, non erano rimasti di quella famiglia che due fratelli, lord Giorgio e sir Guglielmo. Il primo, dopo che sostenne una grave magistratura dello Stato, andò a ritirarsi nelle sue terre, in seguito d'una mutazione del ministero: il re aveva premiato le sue fatiche e il suo ritirarsi a tempo, col titolo di barone. Ma lord Giorgio non aveva figliuoli, e la sua recente dignità doveva passare nella linea cadetta. Sir Guglielmo dunque tenne aperti gli occhi sull' andar delle cose; accarezzò sempre le opinioni di suo fratello, e aspettò quel giorno che doveva dargli nuovi diritti e nuovi doveri. Nella futura grandezza dell' unico suo figliuolo Arnoldo egli concentrava tutta la propria potenza, tutta quella del nome della sua famiglia, del quale era così geloso veneratore. Altero per costume e per educazione, tenace, fino allo scrupolo, di sua antica nobiltà e delle domestiche abitudini alle quali era stato ligio per tant' anni, dal tempo che viveva nell' antico castello di suo padre, là nell'Hampshire, sir Guglielmo pareva, dispettoso d'invecchiare, senza vedere che le sue speranze s' avverassero mai. Non dirò che avesse desiderata la morte di suo fratello lord Giorgio, per venire in possessione delle sue grandi tenute e per andarne esso pure a sedersi nel parlamento; ma stava ad aspettarla, essendo Giorgio d' alcuni anni più vecchio di lui, e di salute logora e fiacca. A quarant' anni, sir Guglielmo s' era ammogliato con Arabella Randale, che l' aveva fatto padre d' Arnoldo e di quelle due care giovinette, Elisa e Vittorina. La povera Arabella non era stata felice! Sacrificata, come pur troppo avviene spesso anche fra noi, all' orgoglio e all' interesse, era stata gettata, qual vittima, nelle braccia d'un uomo da lei non amato, e che le tolse il suo per darle un nome, che non le fece palpitare soavemente il cuore, se non quando divenne il nome de' suoi figli. Ma l' anima sua era pia, la sua volontà docile e rassegnata. Tutta la vita di lei, che non fu lunga, era stata uno studio costante e secreto d' amar l'uomo ch' girale toccato a compagno, di cercare le più sane e oneste idee della mente di quest' uomo, le sue virtù sebben piccole, e le affezioni del suo cuore, per rispettarlo e amarlo in quelle. Ma sir Guglielmo era uno di coloro a' quali la natura sembra aver rifiutato il dovere amoroso di marito e di padre. Agitato da continui pensieri di fumo e d'ambizione, travagliato da mala vicenda nella domestica economia, era quasi sempre meditabondo, accigliato, dispettoso : fosse il cielo torbido o sereno, si raccontasse di fortune o di miserie, si spargesse la gioia o il dolore nella famiglia o ne' circoli, sempre la stessa nube era sulla sua fronte, lo stesso amaro sorriso sulle sue labbra. Non mai egli sovvenne la disgraziata sua donna di quelle consolazioni che cancellano tante memorie penose, nè mai le fu largo di quelle sollecite cure che medicano anche le più triste piaghe della vita. Arabella avea vent'anni quando fu maritata a sir Guglielmo; a trentadue ella moriva, moriva portando con sè tutto il cordoglio della sua vita sconosciuta e negletta. Aveva compiuto il sacrifizio di tutto ciò che v'ha di più sacro, la fede e l' amore, e non lasciava in terra che un pensiero di rammarico e un ultimo ardente desiderio; il pensiero de' suoi tre figliuoli, i quali, così giovani ancora, restavano senza di lei; il desiderio ch'essi almeno, più di lei, potessero esser felici. Dopo la morte di sua moglie, sir Guglielmo si mise dentro, assai più che prima non avesse fatto, nelle pubbliche cose. Si dimostrò allora uno de' più caldi sostenitori della parte de' tory, come già era sempre stato, e adoperò nome, fatiche e promesse al trionfo di quella. Sebbene non fosse quel che si chiama uom di Stato, e i più lo tenessero in conto di persona di comune levatura, nondimeno aveva quella prudenza politica che insegna di non arrischiar mai troppo, e quell'accorgimento che consiglia i mediocri d'appoggiarsi a' potenti senza farseli necessarii, e di giovarsene a tempo, facendo sembiante d'aiutarli. Mandò, com' è quasi legge pe' ricchi Inglesi, il suo Arnoldo a viaggiare sul continente; affinchè poi, tornato in

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Abbandonata ch' ebbe la bottega della crestaia, si gettò nelle braccia dell'unica co- noscente che le restasse, la signora Giuditta; e pianse, raccontando il pericolo che correva, e la scongiurò di allogarla altrove, in qualche casa onesta, dove potesse vivere più sicura, e nascosta a tutti. Appunto alcuni giorni prima, la signora Barbara s' era raccomandata alla Giuditta (da un pezzo si conoscevano) ché facesse di trovarle una brava e savia giovine, la quale, contenta di poco, s' acconciasse presso di lei. Dunque, la cosa fu presto combinata i e Maria, altro non sospirando che un' esistenza casalinga, solitaria, ringraziò il cielo che le avesse conceduto quel ricovero. Ell' era così docile e buona, che la signora Barbara prese a volerle bene: il suo costume, le sue parole, avevano un incanto cosi gentile e dolce, che anche la giovinetta Savina le pose molto amore, e volle subito che tra loro si dessero del tu. Maria le apparecchiava ogni mattina il più fresco e mondo vestito, che pareva sempre del dì delle feste, un candido grembiale coli' orlo a traforo, un bel collare a pieghette, e la cuffietta la più leggiadra, ch'era una grazia a vederla. E la madre si ringalluzziva tutta, non capiva in sè dalla gioja, trovando così bellina e compita d' ogni cosa la figliuola, che tutt' altra sembrava quella di prima. Tutta la casa poi, in quel breve tempo, risentiva già della presenza d'una sollecita regolatrice, a cui il buon ordine e la mondezza sono necessità e abitudine; i vecchi mobili polverosi, muffati, del signor Cipriano, le tende delle finestre e le cortine de' letti luride e cadenti, avevan ripigliata un'aria di giovinezza e di pretensione. Fino quel semplice di Michele, il famiglio, voleva farsi in quattro per ripulire e rassettar le camere, il salotto e la cucina; e lavorava a tutta schiena a rigovernar le pentole, le casseruole, le stoviglie, obbediente come un cagnolino a tutto quel che Maria gli dicesse; perchè glielo diceva con un far così benevolo, ch' egli, usato a ricevere buone lavate di capo dal padrone per cose da nulla, sarebbe per essa ito nel fuoco. L'avaro era il solo che più di frequente brontolasse di coteste novità; nè ci voleva meno di tutto l' accorgimento e di tutta la pazienza della sorella, a persuaderlo che un uomo della sua qualità, con ventimila lire e più di rendita, doveva tenersi in credito, e avere una casa da cristiano; ma la ragione che lo faceva star più cheto, era che non gli toccasse di far vedere la luce a un soldo di più. Dopo che venne in quella casa, Maria non usciva mai, fuorchè là domenica di buon' ora, per andare alla messa nella chiesa più vicina. L' inverno si rabbruscava sempre più; il cielo era quasi sempre rannuvolato, piovoso, e le prime nevi avevano già messo nell' aria quella muta malinconia, che par s'acconci tanto bene a una vita rassegnata e oscura. Sbrigate le faccende di casa, tutta la gioia di Maria era di potersi ritirare nel silenzio della sua camera. E allora, rialzata una cortina del balcone che metteva su la ringhiera sedeva assidua al lavoro, colà presso, sotto la poca luce; e le pianticene d'un vaso di garofani, che teneva su d'un vicino armadietto, lasciavano talvolta caderle in grembo alcune secche fogliette. Quel piccolo vaso, senza un fiore, quell'arida pianticella, quegli steli d'un pallido verde, ricadenti su l' orlo del vaso, bastavano a risvegliarle il dolore del tempo passato, il mesto desiderio d'un avvenire più felice. Si ricordava che nella casa di suo padre, sovra la soglia della sua finestra verso il lago, ella soleva una volta educare una famigliuola de' suoi fiori più amati; e via via, di pensiero in pensiero, il cuore la rapiva.... Essa non era più là, era con sua madre e con la vecchia Marta, era con suo fratello.... e con un altro. E dimenticava tutto, per ricordarsi solamente d' una appassionata canzoncina, che un giorno era tanto piaciuta all'amico suo: ROSA.

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Abbandonata nella disgrazia, benchè avesse molto patito, essa ignorava ancora che sciagure più atroci e prove più dolorose sovrastino alla povera innocenza; ignorava che l'uomo par quasi compiacersi di gettar la contaminazione dov' è la miseria, come se questa sia la scusa della colpa. Ma in quella sera, le si svegliò nell' anima un turbamento, un timor muto, del quale non sapeva spiegar la cagione. Quando si ritirò, sentiva un' inquietudine ne' pensieri, un raccapriccio in ogni fibra, come il senso arcano d'una nuova sciagura; tremava di trovarsi tutta sola. Le risonavano tuttora all'orecchio le parole dette dal padrone; ancora vedeva il suo volto, contraffatto dal ghignar di quella sua strana giovialità, i suoi sguardi di fuoco, gli atti schifi, e il maligno saluto. Quelle parole, quell'aspetto le somigliavano un orribile scherno, le mettevano in cuore un gelo, un ribrezzo non provato mai. Volgeva intorno gli occhi sbigottiti, e il viso sparso di freddo sudore; trattenendo il respiro, tendeva l'orecchio al più leggiero strepito che si facesse nell'altre stanze. E, nel terrore dell' abbandono, domandava al cielo d'essere liberata da quell' affanno, che le pareva effetto d' una visione spaventosa. A poco a poco tornata in pace, s'avvicinò al suo letto, e slacciando il fazzoletto che le copriva la testa, si sgruppò la bella treccia bruna, che si diffuse tutta sulle spalle e sul seno.... In quel momento, le percosse l'orecchio d' improvviso un quieto strisciar di pianelle, come il passo d'alcuno che s' accostasse alla porta. Sollevò al cielo il volto supplichevole; e poi, serrando le braccia strettamente al seno, si raccolse tutta in sè stessa, e rimase senza movimento e quasi senza vita. Così una giovinetta indiana, la quale, fuggita dalla sferza del sole, riposavasi all' ombra del fedele sicomoro, si risveglia Con subitano balzo da' suoi sogni dorati, e sta muta, fredda, tremante, sotto la malia degli accesi occhi del serpente, che vede trascinarsi col lubrico ventre su per la zolla di muschio, ov' essa poco dianzi dormiva. Allora, quel cauto stropiccio di passi le parve allontanarsi, di poi cessar del tutto. Palpitava ancora, ma io sgomento che la comprese divenne meno; diede un sospiro, le si allargò il cuore: se non che, quando fece per ispogliarsi il modesto vestito, un segreto istinto di pudore, nascendole nell' animo, quasi il gemito dell' innocenza, la persuase di coricarsi vestita com' era, senza che pure osasse domandarne a sè medesima il perchè. Si gettò dunque sul letto, ma per tutta la lunga notte non potè chiuder gli occhi al sonno, nè trovar un istante di quiete. A ogni poco, il più lontano suono la riscoteva. E balzando a sedere sulla coltre, ascoltava, tremava. E quei risalti, quelle paure erano per nulla: una volta era lo stillare d'alcuni ghiacciajuoli che staccatisi dalla grondaja battevano su la balconata; poi, un gatto che, saltando dall'abbaìno, attraversava il lungo ballatojo della casa; poi, qualche povero diavolo, di que' che non han luogo nè fuoco; il quale, cacciato dalla porta del vicino tavernajo, n'andava in ronda gagnolando qualche rozza canzone, e faceva scricchiolare sotto i passi la neve gelata, camminando a sghembo, come si dipinge la saetta. Oh come la fanciulla benedisse il ritorno della mattina! Ma gli ultimi giorni del dicembre, sotto l' umida coperta delle nebbie, nascono così tardi su le tetre vie della città, e stillano i brividi della tristezza nel cuore. Pure, essa spalancò il balcone, e tutta consolata bevendo quell'aria cruda ma aperta, credette di tornare alla vita. Quando fece per uscire della sua camera, un dubbio inquieto le arrestò ancora il passo; perchè, più che altro, temeva d' incontrarsi sola col vecchio padrone. In casa nessuno erasi levato, fuori di quel poveraccio del Michele: e Maria lo pregò con tanto buon modo le desse una mano a rassettar le camere, che quel dabbene non sel fece dire due volte; e in manco di mezz'ora rimuginò, ripose tutte le masserizie, che si sarebbe potuto specchiarvisi. Poi, per tutto il dì, Maria non si tolse mai dal fianco della padrona, schivando sempre, con uno o con altro pretesto,

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Ma egli, a cui era toccato d'assaggiare innanzi tempo di ben più fieri dolori, egli che nella sua ora aveva, com' uom disperato, combattuto e vinto, sentì allora una segreta e dolce compassione di quell' abbandonata giovinezza, e si compiacque nella fiducia di consolarla, di sostenerla. Così, dopo pochi amichevoli ragionamenti, l'uno e l'altro furon lieti di loro fortuita conoscenza, e s' erano raccontati a vicenda que' riposti segreti che apprezza e serba la sola amicizia. Intanto Arnoldo tenne gran ventura che il vicecurato, per alcune domestiche ragioni e per il ritardo messo dalla pretura di**** a regolar la tutela della giovine Maria, dovesse rimanere più a lungo che prima non pensasse. E, dal canto suo, don Carlo divideva di buon grado col giovine forestiero le ore di libertà. Essi furono veramente amici. In que' luoghi pieni di vita, nella tranquillità di quelle rive sempre liete e sempre nuove, i loro cuori sentivano più forte il bisogno di rallegrarsi nella concordia de' pensieri, nell' adorazione della bellezza, e, più di tutto, di gustare il sublime del desiderio e il dolce del compianto. - Allorchè il tumulto del mondo non disturba la maestà di natura; oh come il cuore si versa nel contraccambio delle più intime virtù consigliate dalla religiosa estasi della contemplaione! oh come è bello e grande il credere e lo sperare insieme! Un giorno abbandonati all'inquieto corso d' una barca leggiera , quand' era il lago conturbato del più rapido ondeggiamento, sotto lo spirare del tivàno dell'Alpi, essi confidavano i liberi pensieri, i voti misteriosi d' una più lieta aspettativa, al cielo schietto e azzurro; e nell'alterna vicenda del remigare, vedevano fuggirsi a fianco le rive, i palazzi, le ville; poi, quando il vento taceva e il lago tornava quieto miravano l'acqua disotto ripetere, come un' instabile interminata scena, il bel paese; e disopra le nubi abbracciarsi e ravvolgersi sorvolando i vertici della montagna - come se l'anima arcana della natura tutta si risentisse in un'armonica commozione di vita. Un altro giorno, invece, seguivano le viottole più erte e dirupate della costiera, e su su pel monte a lungo inerpicandosi salivano con gioia selvaggia di libertà; contenti di trovarsi soli e dimenticati su le più ardue vette, di guardare di là, per ogni parte, fin dove l' occhio poteva, l'ampio orizzonte delle pianure, de' laghi, delle Alpi e del cielo, come un immenso oceano di luce e di colori - E là, tra quelle cime, sedevano su la dispersa rovina d' un casolare sfasciato dalle acque montane, o sul tronco d' un vecchio albero sradicato dal fulmine, marcito dal tempo; e sopra i loro capi non vedevano sollevarsi che qualche rado cucuzzolo di monte, con la sua veste di neve agghiacciata, o qualche rozza croce di legno, piantata nel crepaccio d'un masso, forse da un povero pastore, chi sa da quant' anni. E, più d'una volta, cercavano nuovi sentieri su' fianchi dell' alpe, dove il terreno, scemo d' umori e di fecondità, cessa d'esser ricoperto d'erba e ombreggiato di piante, dove non altro s' incontra che qualche rara segreta sorgente col suo fresco zampillo d' un fil d'acqua, o un' ampia zolla rivestita di muscosa verzura, o d' un rosato tappeto di ciclamini. E là, per que' dossi, il giovine Arnoldo andava cercando con mano paziente l'erbe più rare, le pianticelle mi- rabili e sconosciute, che pare l'aria vi cresca con più facile germoglio, solo per la pastura d'un branco errante di capre. Giacchè egli aveva messo studio e amore a quella cara scienza dell'erbe e delle piante, che ama, intende la natura, e insegna con solitaria consolazione che in ogni angolo della terra v' è una virtù misteriosa, una bellezza. Una mattina, Arnoldo e don Carlo sedevano su d'uno degli alti terrazzi della malinconica e deserta Pliniana. Il cielo era cenericcio e nebbioso; i loro pensieri sentivano di quella solenne quiete della natura, che pare più muta e mesta, qnand'è una giornata av versa della più bella stagione. Arnoldo tenevasi spiegato sulle ginocchia il suo albo, disegnando lo schizzo della veduta che gli s' apriva dinanzi - quella fuga di monti dietro un monotono velo di nebbia; lo spumoso torrente che si rovesciava da un' erta cima a fianco del vetusto palazzo; quel cielo bigio, uniforme, che gli richiamava al pensiero il cielo della patria, una delle scene della sua mesta e cara contrada, quel sacro cantuccio di terra, in cui riposavano le ossa di sua madre. Don Carlo, poco lontano da lui, meditava scrivendo sopra un foglietto, che appoggiato a un volume della Bibbia teneva fra mano. Quando Arnoldo ebbe finito il suo disegno, a' avvicinò all' amico, e gli sì mise accanto, in atto d' aspettare: ma quegli non si riscosse, e continuava a scrivere. « Che scrivete, don Carlo? » domandò Arnoldo. « Amico mio, sono pensieri che vo gettando su questa carta, tali quali m'ardono in cuore, schietti, nudi; è un ritorno innocente alla giovinezza gia passata per me, la quale non m' è più che una memoria. Che volete? Noi Italiani, noi figli di questo cielo e di questa terra, oh no! non possiamo distaccarlo dal nostro cuore l' amor della poesia, che succhiamo forse col latte delle nostre madri, che beviamo coll'aria del nostro paese.... L'armonia del cauto è la più pura voce dell' anima!... E io, vedete, qui in quest' ora di solitudine, in questo luogo sublime, sento che mi si risvegliano nel pensiero i sogni d una volta, palmi ancora d'esser giovine, italiano, poeta!... » « Oh il vostro sentire è nobile e bello! Ditemi, ve ne prego, leggetemi il vostro canto; chè anche il cuore di chi nacque di là dell' Alpi sente e batte più forte, se la parola della bellezza lo scuote. » « Deh! che volete mai ch' io pensi e scriva? Non è, ve l' ho detto, che la tarda rimembranza d' un tempo che non torna più. Ora, la mia sorte è certa e tranquilla, il mio cuore contento. Fare a' miei fratelli quel poco di bene che per me si possa, nella condizione in che mi pose la Provvidenza, questo fu il primo mio voto, e sarà l'ultimo. » « Ma come potete voi, col cuor sì caldo, con la mente fatta pura dal fuoco dell' ingegno?... » lo interruppe Arnoldo. « Dimenticate l'uomo, e non guardate in me che il po- vero prete. Io sono un nulla agli occhi del mondo, ma c'è delle anime che non mi disprezzano. Sono que' pochi miei fratelli che vedono in me il loro unico protettore; per essi, io sono il mediatore tra i travagli di questa terra e la consolazione del Signore. Io parlo loro di semplici e sublimi verità, ed essi m'ascoltano; io raccolgo la confessione della loro debolezza, e li conforto al meglio; me li veggo inginocchiati ai piedi, e fo sopra di loro il segno della croce, il segno del perdono; io battezzo i loro bambini, e seggo accanto del loro letto di morte, e le anime n' accompagno al Creatore, benedicendole.... Che altra umana felicità poss' io invidiare?... Oh! chi intende la grandezza di codesta divina missione e la compie , con quella forza che sola la fede può dare, non ha altro affetto quaggiù, non ha altro voto, se non che sia fatta la volontà del Signore sulla terra come nel cielo! » « Queste son cose sublimi; e il vostro proposito è grande, come la virtù ch' è necessaria per adempirlo. Ma io credo, amico, che il dir addio alla gloria della scienza, alla dolcezza della vita, all'onore della patria stessa, vi deva esser costato un gran sacrifizio! e forse.... » - Ma chi mi assicurava che sarei venuto in fama, che avrei trovato nella gloria il compenso della vita spesa per la sapienza? e ciò foss' anche, è poi vero che sia questa una felicità, o almeno un riposo de' nostri desiderii?... Ah! credetelo a me! io, dimenticato nella mia oscurità, vivo più contento di voi.... E la sola cosa che adesso sparga di mestizia i miei giorni è il pensiero di mia madre e di mia sorella. Povere e buone creature esse non avranno l'appoggio che di me aspettavano.... » « Ma che potreste far di più per esse? Nel tempo che siete qui, non avete già preparata loro una condizione onesta e sicura?... » « Sì; ma dovrò abbandonarle. Pochi giorni ancora, e tornerò dove mi chiama, il mio debito sacro; che già per troppo tempo ho dimenticato. Oh! Dio mi conceda ch' io possa una volta vederle tutte e due vicine a me, sotto il mio tetto, eh' io viva con loro, sì.... perchè le amo, vedete! sono i soli legami che mi uniscono alla terra; mia madre, la donna amorevole e pietosa! mia sorella, angelo di modestia e di pazienza!... » « Non v'affliggete per loro; la virtù che si nasconde è sempre felice. Su via, aprite l'animo a più lieti pensieri; e, se non esigo troppo, leggetemi quello che avete scritto stamane, ve ne prego! » Il vicecurato stette alquanto a guardar taciturno il suo giovine amico; e poi levatosi lesse: LA VOCE DELLA FEDE.

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Il Plutarco femminile

217282
Pietro Fanfano 2 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
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"Non dica al pari, ma molto più delle ricordate sin quì; perchè, se le donne poetesse, guerriere, pittrici e filosofo meritano ogni lode, per avere in ciò agguagliato parecchi valentuomini ed ajutate le arti, le scienze e le lettere; la nostra buona Rosa tanto è da chiamarsi più illustre di loro quanto la opera sua è più efficacemente utile alla civil compagnia, e benefica verso quella parte dell' uman genere, che più è abbandonata dalla fortuna: senza dire che tale opera è veramente la santificazione del lavoro, e promotrice di un' arte di prima necessità a tutti quanti. "La carità verso i poveri non si può negare che sia una delle più belle virtù. sociali; e non senza gran ragione fu posto il precetto evangelico che dice: Vendete quel che avete per far limosine. Ed a questo proposito mi ricordo di aver letto che un certo arcivescovo di Napoli, stando proprio alla lettera del Vangelo, vendè tutta l'argenteria del suo palazzo, e no fece tante limosine; la qual cosa venuta agli orecchi di un gran signore, ricomprò l' argenteria o la, rimandò all'arcivescovo; il quale la rivendè da capo, e da capo fece tanto limosine: o così fece anche per la terza volta. All' ultimo, non volendo l' arcivescovo esser vinto dall'amore di carità, scrisse a quel generoso signore che se non due ma cento volte gli rimandasse l'argenteria, cento volte la rivenderebbe per darla a'poveri; perchè non era di necessità che, in tempi scarsi com' erano allora, l' argento dovesse stare ozioso in casa sua." Questo racconto lo aveva fatto una delle signorine, alla quale la direttrice rivolse queste parole: "La carità del suo arcivescovo è cosa lodevole; ma non è certo per altro che fosse efficace ed operosa. Molti di questi che vivono di limosina sono gente oziosa e viziosa; nè si potrebbe chiamare benefattore della umanità chi a gente sì fatta desse anche tutto il suo: anzi gli accattoni sono una vera piaga della società, ed in paesi bene ordinati non si tollerano. Quante sieno le arti da loro usate per ingannare la dabbenaggine altrui, e per abusare l' altrui bontà, non istarò a dirlo; ma c'è un libretto che tutte le descrive, ed io ne leggerò a loro ogni tanto qualche pagina, acciocchè imparino a guardarsi da tali birbanti. I poveri veri non sono essi: sono quelli detti vergognosi, che non si attentano a chiedere, benchè siano nella miseria; sono i vecchi impotenti e malati: il fare a ',questi la limosina è opera veramente meritoria; il farla agli altri è un mantenere l' ozio ed il vizio; e spesso è un dare a chi ha più di noi, perchè si sono dati parecchi casi, di accattoni, che alla lor morte sono stati trovati ricchi e possessori di cose preziose. Chi per altro vuole acquistar titolo di benefattore dell' umanità, ed aver fama nel tempo avvenire, cerca, sì, di sollevare dalla miseria i bisognosi, ma ordinando la sua carità ad un fine santo e civile, o tal carità sposando al lavoro, che, non solo educa gli uomini al bene, ma è la cagione unica della prosperità delle nazioni, come appunto la buona Rosa Govona; e per lasciare stare altri molti, come ha fatto a' dì nostri Gaetano Magnolfi di Prato." "Anch' io, continuò la signora Nina, quando la direttrice si tacque, non mi sento muover punto a compassione per gli accattoni, specialmente da poi che lessi il fatto di un esercito di costoro, ai quali fece quella saporita celia Ezelino da Romano." "Che celia? disse la direttrice; io non l' ho a mente." E alcuna delle ragazze: "Raccontacela, Nina, raccontacela. "Che si contenta, signora direttrice? "Racconti pure, che la udrò volontieri anch'io. Allora la Nina cominciò: "Antichissimamente comandava a Padova, e in tutti quei paesi d' attorno, un gran signore chiamato Ezelino da Romano. Costui non sapeva rendersi ragione come mai ci fossero nel suo Stato un numero sbalorditojo di poveri; ed investigando venne a sapere com' essi erano gente oziosa ed avara, datasi a limosinar per mestiere, e che tutto ciò che raccoglievano il cambiavano in oro, e lo tenevano cucito dentro agli stracci che portavano addosso. Allora che ti fa il bravo Ezelino? Come se volesse ringraziare Dio per una vittoria avuta sopra i nemici, fece bandire che il tal giorno avrebbe fatto generosa limosina a tutti i poveri dello Stato: però chi fosse veramente bisognoso, venisse a mezzogiorno sulla piazza maggiore di Padova,e lì vi sarebbe stato egli stesso a farla distribuire. Venuto quel giorno, i poveri piovevano a Padova da ogni parte; e tutti erano avviati sulla piazza maggiore, che era cinta di armati; nè il numero di quei cialtroni era certo minore di duemila. Scoccato il mezzogiorno, comparve Ezelino a cavallo, seguito da un drappello di soldati a cavallo, e da una filata di carri che non finiva mai, dove erano un gran numero di vestiti di panno albagio: e postosi egli in mezzo alla piazza, e guardandosi attorno, dopo un poco di tempo parlò agli orecchi a uno dei suoi cavalieri, il quale fece bandire la carità con queste parole: "Il magnifico signore Ezelino, in rendimento di grazie a Dio per la vittoria ottenuta, vuol fare questa segnalata limosina; e sapendo come questa povera gente è mezza ignuda e tutta lacera, gli è parso che cosa più accetta a Dio non potesse fare, che rivestirla tutta quanta di nuovo in su questo avvicinarsi del verno; e però comanda a tutti che, spogliatisi i vecchi stracci, ciascuno si rivesta dei nuovi; e poi così vestiti avranno un buon pasto quì sulla piazza." Il comando fu eseguito: il pasto venne; e furono licenziati. Ma qui fu il busillis. Ciascuno aveva fatto il suo fagottino de' cenci vecchi, per portarselo dietro; ma Ezelino comandò che quegli stracci dovessero lasciarsi lì, e coloro che tentarono di infrangere il comando sentirono quanto pesavano e come ferivano le alabarde dei soldati; sicchè andarono via tutti sconsolati. Si raccolsero poi i loro stracci, che furono bruciati, e vi si trovò tanto oro e tanto argento che Ezelino se ne avvantaggiò molto bene." E la direttrice, e il maestro, e tutte le signorine, risero di cuore a questo racconto; il quale chiuse saporitamente la conversazione di quella mattina.

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Anche la Chiesa era afflitta e travagliata: il Papa, abbandonata Roma, teneva la corte ad Avignone, e la religione ne pativa. Di tanta jattura la Caterina era afflitta; e come di già la fama della santità� sua era grande, non temè di volgersi arditamente al Papa, con riverente libertà rimproverandolo del pensare più alle cose terrene che alle celesti; ed esortandolo a riportare la sedia papale a Roma. Venuti in discordia i Fiorentini col Papa, la Signoria di Firenze la pregò che trattasse ella di rappacificargli con lui; ed ella non curando disagi e pericoli, andò fino ad Avignone, e riuscì a comporre le differenze; benchè i Fiorentini durassero poco nel buon proposito. La Santa non si partì d'Avignone; ma volle rimanervi, per vedere di recare il Pontefice a ricondurre la sedia a Roma; e tanto fu costante il suo proposito, e tanta accesa la sua carità, che alla fine Gregorio XI riportò la sedia papale a Roma. Santa Caterina allora tornò alla quiete della sua Siena; dove per altro stette poco, dacchè papa Urbano VI, succeduto a Gregorio, la chiamò presso di sè per giovarsi del suo consiglio, e perchè la sua infiammata parola fosse più autorevole. Quando poi fu fatto ad Avignone l'antipapa Clemente VII, virilmente combattè per il papa legittimo, contro avversarj di ogni maniera. Ma tanto ardore e tanta caritàconsunsero le forze del suo fragile corpo, e morì di soli trentatrè anni. "Le sue virtù,la sublimità del suo intelletto, la sue dottrina, l'ardente sua carità, sono fedelmente ritratte nelle sue Lettere, e in altri suoi Trattati, che anche per la lingua sono cosa d'oro in oro." Gli applausi ci furono anche per la signora Sofia; ma non furono così pieni nè così vivi come le altre domeniche; solo il maestro e la direttrice dissero una o due volte brava a quella fanciulla, la quale, se aveva fatto un poco viso di dispetto nel sentirsi così freddamente applaudire dalle compagne, ringraziò per altro con atto e voce umanissima ambedue, dicendo che più le valeva l'approvazione loro, che le lodi di chi giudica senza ragione. La direttrice e le ragazze tutte compresero il veleno di queste parole, ma dissimularono; e siccome niuna osservazione vollero fare lo compagne della Sofia, salvo che una voce partita di mezzo a loro disse che certe parolacce non lo avevano intese, così il maestro ne prese materia di fare a tutte una lezioncina del modo dello scrivere in italiano; e disse così: "La signora Sofia non ha posto nel suo racconto delle parolacce; ma solo alcune voci o frasi un poco fuori d' uso, le quali, se si leggono nei classici, non sono per altro intese così bene da tutti, e rendono un poco affettata una scrittura: come sarebbero recata nel novero de' santi - di piccola nazione - non fate di me ragione di niuna spesa - con ogni possa - porgersi caritatevolmente amorosa - tanta jattura - cosa d'oro in oro, per cosa eccellente; ed alcune poche altre: ma questo è, se può dirsi così, un bel difetto, perchè nasce da assiduo studio, e può agevolmente correggersi. Lo tengano bene a mente, signorine mie: bisogna servirsi delle parole come dei denari: dei denari non si spendono so non quelli che hanno corso; delle parole solo quello s' hanno a parlare ed a scrivere che sono intese da tutti. Bisogna studiare assiduamente gli antichi, perchè nelle loro scritture vi è la semplicità, la purità e la proprietà; ma chi crede che ogni voce da loro usata sia da, usarsi ora, erra assai, perchè le parole muojono anch' esse, come tutte le cose del mondo. Lo studio dei classici deve dunque avvezzarci a far l' orecchio al bello scrivere, ed a conoscere le doti principali della favella; ma quando scriviamo dobbiamo aver sempre l' occhio all' uso presente; il quale però, come spesso diventa abuso sulle labbra del popolo, così, anche a fuggir tale abuso ci sarà ajuto efficacissimo lo studio degli antichi. Ad ogni modo, lo ripeto, è sempre più comportabile il difetto del mescolare alle voci d' uso qualche voce un po' antiquata, ma bella e propria, che il seminare, o parlando o scrivendo, voci barbare e forestiere. Non si debb' esser pedanti; ma è però molto peggio esser barbari."

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Il ponte della felicità

219165
Neppi Fanello 3 occorrenze
  • 1950
  • Salani Editore
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Alvise continuò: - Dio mi mandò un amico a conforto della mia solitudine in quella terra abbandonata. Lo conoscerai anche tu, il mio caro Agnolo, e sono sicuro che lo amerai come lo amo io. - Certo, Alvise. - E poi, Lori, avevo il tuo leone di san Marco. Mi ha portato sempre fortuna, e nei momenti di maggior pericolo mi ha infuso forza e coraggio. - Poi a bassa voce, con grande dolcezza: - Mi pareva di averti vicina e che tu m'incitassi a proseguire. - Sei stato bravo, Alvise! - Ma tu, Lori, sei stata più brava di me. Chi avrebbe mai pensato di ritrovarti, ammirata da tutti, nella tua vecchia casa? Il babbo ed io eravamo andati a cercarti in quell'orribile stamberga. - E l'avete trovata vuota! - disse Loredana ridendo per vincere la commozione che la dominava. Nonna Bettina mi ha detto quante delicate cure le hai prodigate. Te ne sono veramente grato, Lori! - Non ho fatto che il mio dovere. Non me l'avevi forse affidata, Alvise? Ho mantenuto la mia promessa come tu hai mantenuto la tua. Un brillante avvenire ti attende, ora, Alvise. - Tutta bontà di Sebastiano Veniero che mi ha compensato più del mio merito. - Ma anch'io devo eterna gratitudine al nostro ammiraglio, perchè è stato lui che ci ha consigliato di rivolgerci al medico che ha reso la vista alla mamma! - soggiunse Loredana, mentre il suo sguardo si volgeva ai genitori beatamente seduti, insieme con nonna Bettina, vicino alla casa; poi aveva aggiunto con voce scherzosa: E ora, Alvise, tornerai a gettare l'antica asse sul rio per venire a trovarmi? - Mai più, Lori mia! Con una parte del tesoro dei corsari farò costruire un bel ponte di marmo candido e lo chiamerò il Ponte della Felicità. - Si guardarono a lungo negli occhi, e il loro sguardo era ilare e amorevole. In quegli istanti compresero che la loro antica tenerezza fraterna si era mutata nel sentimento più forte e più profondo che si chiama Amore. Fine

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. - Loredana baciò teneramente la mano di Lucrezia, abbandonata sulle coltri come un bianco fiore, e andò a raggiungere Alvise che nel frattempo aveva ricoperto il quadro con un panno. Afferrarono la cornice, uno da un lato, uno dall'altro, e s'incamminarono verso le fabbriche vecchie di Rialto. In una stretta calle teneva bottega un certo messer Antonio Foscarin, rivenditore di oggetti artistici: un bel vecchio, già molto avanti negli anni, con una fluente barba candida che lo faceva somigliare a un profeta biblico. Egli era conosciuto in tutto l'estuario per la bontà del suo cuore e per la generosità con la quale sovveniva ai bisogni di quanti ricorrevano a lui. Loredana e Alvise lo trovarono seduto nel suo fondaco buio e polveroso, intento a lucidare un'artistica lucerna in ottone di evidente provenienza. araba. - Buon giorno, ragazzi! - egli esclamò con la sua voce un po' tremolante di vegliardo. Si alzò e aiutò Alvise a togliere il quadro dal panno. - Vediamo che cosa mi avete portato di nuovo, - soggiunse poi, avvicinandosi alla porta per poter meglio osservare il dipinto. Era veramente bello, e in tempi normali non gli sarebbe stato difficile venderlo a qualche famiglia patrizia. Ma ora, dopo il disastro dell'arsenale e dopo i prestiti fatti alla Repubblica, nessuno spendeva più denaro in cose non strettamente necessarie. Il quadro era dunque destinato a rimanere nel fondaco insieme con qualche altro ch'egli aveva già comperato da Loredana. Il vecchio mercante sospirò. Le sue risorse, purtroppo, non erano illimitate; ma poteva rimandare quella graziosa bambina che con tanto coraggio assisteva la mamma inferma? Egli avrebbe continuato ad aiutarla; Dio, poi, aiuterebbe anche lui a tirare avanti. - Va bene, piccola Sagredo, lo acquisto molto volentieri il Corteo di San Marco. - Diede a Loredana una bella somma e soggiunse, mentre le accarezzava le trecce lucenti: - Brava piccina; cura bene la tua mamma e il Signore ti benedirà! - Usciti dal fondaco, i due ragazzi fecero un giro piuttosto lungo perchè dovevano andare in fondo alla calle dei Fabbri dove si trovava uno speziale che si diceva vendesse farmachi miracolosi per tutti i mali. E Loredana desiderava che la sua mamma guarisse. Camminavano, contenti di respirare l'aria pura del mattino e il fresco odore salso che veniva dal largo. La vita a Venezia aveva ripreso il suo ritmo tranquillamente laborioso, e solo qua e là si scorgevano ancora le rovine dell'esplosione. Buon numero di manovali, infarinati come pagliacci, lavoravano alla rimozione delle macerie annerite dal fumo degli incendi. Si capiva, data l'alacrità degli operai, che presto quel triste spettacolo non sarebbe stato più che un ricordo e che altri edifici, ben più sontuosi, avrebbero preso il posto di quelli rovinati. Attraversarono piazza San Marco, meravigliosa per marmi, ori e sole, mentre dall'alto della torre dell'orologio i «Mori» battevano le nove. Piegarono a destra, di fianco al grandioso campanile sulla cuspide del quale volteggiavano i gabbiani, e si diressero verso il molo. Lo spettacolo che si offrì ai loro sguardi riempì di gioia Alvise. Il vasto bacino di San Marco brulicava d'imbarcazioni. Navi da guerra e navi mercantili si apprestavano a salpare verso i mari lontani: le une per consolidare e difendere la potenza, marinara della Repubblica, le altre per fare acquisto di stoffe preziose e dei ricercatissimi aromi e spezie dell'Oriente. Chiatte di ogni grandezza e «bissone» variopinte trasportavano sul casserò delle navi acqua, viveri e munizioni. Di quando in quando un'elegante e sottile gondola scivolava leggera fra tutto quel brulicare di navi, portando a bordo qualche ricco mercante o qualche marinaro della Serenissima. Alvise non si. sarebbe mai stancato di osservare quanto avveniva lì intorno, ma Loredana gli tirò la manica della giubba. - Andiamo, Alvise, si fa tardi. - Eccomi, eccomi, Lori, - rispose il ragazzo incamminandosi a malincuore a fianco della fanciulla. Ma passato il ponte sul Canal Grande e giunti in campo San Trovaso, un altro spettacolo, che piacque anche a Loredana, fermò di nuovo i loro passi. Si trattava di un vecchio sonatore girovago intento a far ballare, al suono di un piffero, una scimmietta infagottata in un giubbettino vermiglio. Ed erano così leziose le contorsioni della bestiola che nessuno poteva trattenere il riso. Di fianco al sonatore stava accucciato un cane lupo, ispido e feroce come solo i cani lupo sanno essere. Finito il suo buffonesco saltellare, la scimmietta corse ad arrampicarsi sulle spalle del sonatore, il quale le offrì in premio una nocciolina che il piccolo quadrumane si affrettò a sgranocchiare. Subito dopo il cane lupo, afferrato con i denti il sudicio casco del vecchio e tenendolo a mo' di borsa, fece il giro degli astanti camminando sulle zampe posteriori. Loredana e Alvise, che non avevano mai visto una cosa simile, rimasero lì a guardare, a occhi spalancati, anche quando gli altri spettatori se ne furono andati, la maggior parte senza neppur lasciare una monetina in compenso. ....la scimmietta corse ad arrampicarsi.... Piano piano, attirati dal fascino che esercitavano su di loro l'esotica bestiola e il suo rustico padrone, i due ragazzi si erano avvicinati, incuranti del sordo brontolio del cane che evidentemente aveva assaggiato più di una volta la cattiveria umana e non si fidava più di nessuno. Loredana tolse dalla sua borsetta una bella moneta d'argento e la porse al senatore girovago; poi accarezzò il cane, ormai suo amico. Il vecchio, commosso, fece di nuovo ballare la scimmietta per l'esclusivo godimento dei due ragazzi, i quali avrebbero desiderato che quel balletto non avesse mai fine; quindi se ne andò, dopo essersi rimesso il casco in testa e il piffero sotto il braccio. Alvise e Loredana si accòrsero solo allora che il tempo era volato e che il sole era molto alto nel cielo. Messe, dunque, come si suol dire, le gambe in spalla, si diressero verso. casa con il fermo proposito di non lasciarsi sedurre da altri spettacoli. Vi giunsero tutti ansanti e in orgasmo, pronti a subire una buona ramanzina. Ma il grande cuore di nonna Bettina li aveva già scusati, sicchè i due ragazzi furono ben lieti di sentirsi accolti con la consueta, amorevole condiscendenza. - La mamma è stata tranquilla, e dorme ancora. - Grazie, nonna Bettina. - Quando si desterà, le darai la medicina che hai comprato. E ora addio, Lori. - Uscita la nonna., Loredana si sedette ai piedi del letto di Lucrezia, sopra uno sgabello. Era stanca della lunga camminata e della corsa fatta. Un leggero incarnato le coloriva le guance, e i capelli arruffati le folleggiavano intorno al visino assorto. Pensava ancora alla scimmietta danzatrice e al cane lupo che sembrava tanto feroce e che invece si era dimostrato mite come un agnellino. Quando la mamma fosse guarita, la condurrebbe a vedere lo spettacolo grazioso, e allora si divertirebbero insieme. Fuori, il venticello di marzo agitava mollemente i rami ingemmati delle acacie, e sulle zolle dell'orto e sul muretto del rio cresceva una tenera erbetta smeraldina. Loredana contemplava la pace sognante del suo orticello nel quale l'ombra violacea degli alberi, il verde delle zolle, le rosse pietre corrose del muricciolo si univano in una squisita armonia. Com'era bello il suo orto! Piccolo e quasi umile, ma tutto suo, racchiudeva per lei i sogni dei rosei tramonti e delle notti incantevoli. Anche gli uccellini, tornati lì a costruire il loro nido, sembravano appartenerle, come l'olezzo delle corolle che si mescolava nell'atmosfera con l'odore della salsedine. Si voltò per tornare a sedersi sullo sgabello ai piedi del letto e vide che la mamma era sveglia, con gli occhi bene aperti e il viso tranquillo. Le si avvicinò rapidamente. - Mamma! - le sussurrò, ansiosa. - Mamma cara! - Al suono di quella voce Lucrezia Sagredo ritrovò il gesto amorevole che da tanto tempo aveva dimenticato. Sollevò la mano scarna e accarezzò la testolina della sua bimba. - Mia piccola Lori! - Una gioia immensa invase il cuore di Loredana. Finalmente la sua mamma la riconosceva! Il triste incantesimo che da oltre due mesi l'aveva tenuta lontana dalla sua piccola era dunque cessato. - Oh, mamma! - singhiozzò Loredana affondando il viso nel guanciale, accosto a quello di Lucrezia. La scarna mano della mamma continuava ad accarezzare le trecce lucide di Lori, quasi volesse calmare quel singhiozzo che solo rompeva il tranquillo silenzio della camera. - Lori, sono stata molto malata, vero? - SI, mamma, molto. - E quanto è durata la mia malattia? - Non so.... - rispose la bambina, che non aveva pensato a tener conto del tempo trascorso. - Aspetta, ora ricordo. Mi venne male alla notizia - della caduta di Famagosta. - Sì, mamma. - Lucrezia Sagredo emise un sospiro profondo che pareva un gemito. - Il dubbio atroce che il babbo non potesse più ritornare mi abbattè. - Oh, mamma! - E Loredana continuò a singhiozzare, con il visino affondato nel guanciale. Ma non c'era desolazione in quel pianto. Loredana aveva ritrovato la sua mamma, che grazie a Dio non era più, come nelle trascorse settimane, una povera creatura smarrita in un mondo di dolore, come un misero uccellino al quale un'immane bufera abbia distrutto il nido e non sappia più dove posarsi per nascondere il capino sotto l'ala. La sua mamma era ritornata dal dolente paese delle ombre, e con lei erano ritornati tutti gl'incanti dell'infanzia. I singhiozzi alleggerivano il cuore di Loredana. - Piccina mia, non pianger più. - Com'era dolce la debole voce della mamma!... A poco a poco il pianto convulso andava calmandosi, cullato dalle parole e dalle carezze materne. Il viso di Loredana risplendeva di tutta la gioia del suo cuore. - Senti, Lori: vuoi accendere per un momentino la lucerna? - La lucerna, mamma? E perchè? - chiese la bimba, meravigliata. - È così profonda la notte e io non riesco a vederti! E ne ho tanto desiderio, piccina mia! - Loredana indietreggiò, piena di spavento. Tutta la gioia di poco prima era svanita: la mamma si smarriva di nuovo nel sentiero delle ombre. - Vuoi accendere, Lori? - ripetè Lucrezia dolcemente. - Ma c'è il sole, mamma! - gridò la bimba. disperata. - Il sole? - ripetè Lucrezia come un'eco. Con grande sforzo cercò di sollevare il capo dal guanciale e di guardare intorno. - Ma.... allora, io sono cieca, Lori! - Due grosse lacrime scesero dagli occhi spenti, rigarono le tempie e si persero nella massa aurea dei capelli. - Lori, vieni qui, vicino a me. Non dobbiamo più rattristarci. Io offro a Dio la mia pena perchè faccia ritornare il babbo. - Compiuto il sublime olocausto, una grande pace distese i lineamenti di Lucrezia Sagredo. Le sue palpebre velarono le pupille senza luce e la sua mano si posò lieve sui riccioli della figliuola stretta a lei. Così le trovò nonna Bettina quando tornò dalla sua vicina di casa.

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La fanciulla, sussultò, e toltasi rapidamente alla sua contemplazione corse a cingere con le braccia il collo della donna abbandonata sulla sedia a braccioli ricoperta di logoro damasco verde. - Sono qui, mamma, sono qui. - Non ti sentivo più, piccola mia! - mormorò la madre, abbracciando a sua volta la fiorente giovinetta che le era corsa vicino. Madre e figlia si somigliavano moltissimo. Avevano entrambe lineamenti fini, il colorito roseo, i capelli fiammanti, il portamento eretto. Ma gli occhi della fanciulla erano fulgidi come stelle, e quelli della madre, opachi e spenti. Loredana pose con gesto carezzevole la bionda testa sulle ginocchia materne e rimase immobile, chiusa nel cerchio dei suoi mesti pensieri. Quattro anni erano ormai trascorsi da quando il babbo era partito per Famagosta condottovi da Marco Antonio Bragadin, e due anni e mezzo da quando la mamma era rimasta cieca in seguito alla sua malattia. Un velo si stendeva ora su quegli occhi, che un tempo avevano sprigionato tanta luce di amore e di dedizione. Loredana non era più la bimba spensierata che si divertiva in mille modi nella quiete del suo orto bagnato dal rio Canal; era ormai una giovinetta alta e snella, con le trecce avvolte intorno al capo come un lucido casco d'oro che la faceva sembrare una regina, benchè fosse vestita con vecchi panni della mamma, scoloriti e logori. Aveva inoltre una tale riservatezza di modi e una grazia così pudica che conquistava chiunque la vedeva. Quanto erano stati duri gli anni passati! Tutti intessuti di rinunzie silenziose e di eroici sacrifici per la giovinetta buona e coraggiosa. Piano piano, tutte le belle opere d'arte accumulate da Lorenzo Sagredo erano state vendute da Loredana, prima per assistere la madre durante la lunga malattia, poi per sovvenire ai loro quotidiani bisogni. Il bisogno le aveva anche costrette ai cedere la loro graziosa casetta nell'assolato campielo, così piena di tenero verde e di pispiglianti voli di uccelli, per rinchiudersi in quella soffitta nuda e gelida come una caverna. Eppure avevano sopportato tutto, Lucrezia e Loredana, sorrette dall'aiuto di Dio e dalla radiosa speranza che il pellegrino dei luoghi santi aveva fatto loro balenare. Intanto Lorenzo Sagredo non era più schiavo sulle galee turche, ma nella residenza di Alì pascià. Nella sontuosa dimora del potente signore mussulmano, egli poteva almeno dedicarsi al suo amato lavoro che lo avrebbe certamente consolato di tante cose e distratto dai suoi amari pensieri. Lucrezia Sagredo aveva collocato l'autoritratto del marito, uno stupendo disegno a punta d'argento, sotto il quadro della Madonna, quasi a chiedere che la Vergine sublime lo accogliesse sotto il suo manto e lo proteggesse contro ogni pericolo. Tutte le sere le due Sagredo s'inginocchiavano e pregavano a lungo; poi le labbra della sposa e della figlia sfioravano la fronte del caro assente e le mani affilate della cieca indugiavano con muta carezza, sul viso amato, come ad attingerne aiuto e conforto. Ma anche l'autoritratto del Sagredo, ultimo residuo dei beni scomparsi, doveva essere venduto tra qualche giorno. Perchè la madre non se ne accorgesse, Loredana aveva pensato di toglierlo e dalla cornice dorata e sostituirlo con una tavoletta spoglia di ogni immagine. Ma il cuore le si stringeva al pensiero di quell'inganno. Sarebbe riuscita a frenare i singhiozzi quando le bianche mani della mamma avrebbero sfiorato la nuda superficie? E che cosa avrebbe detto l'infelice donna? Dal basso continuavano a salire, ideale richiamo, le note soavi del clavicembalo di Teodora Pisani Moretta. Loredana si cullava in quei suoni armoniosi, quasi dimentica di tutto quello che la vita le aveva fatto soffrire e quasi aspettasse dalla nobile giovinetta speranza e conforto. Era un sentimento di fraternità umana che avrebbe voluto chiedere alla gentile sonatrice, quel sentimento che dovrebbe legare tra loro tutte le creature viventi e aiutarle a superare le prove, spesso amarissime, della vita. La fanciulla aveva sollevato il capo dalle ginocchia materne e i suoi begli occhi scuri guardavano intorno le squallide pareti, che sarebbero sembrate ancora più squallide, prive della virile immagine del padre. A un tratto le balenò un'idea. Se si fosse provata a ritrarre le sembianze paterne? Loredana ripensava al tempo in cui assisteva al lavoro del padre, e alle lezioni di pittura che aveva ricevuto da lui. Come si divertiva a passare le polveri per la composizione dei colori, e a mischiarle poi, in compagnia di Alvise, laggiù, sotto l'ombra delle acacie, per vedere quali altri colori avrebbero combinato! Piano piano si alzò, si avvicinò al cavalletto e lo trascinò sotto l'abbaino; staccò dal muro l'autoritratto del babbo e se lo mise davanti. - Che fai, Lori? - Mamma, voglio eseguire un piccolo disegno. - Ne sarai ancora capace? - chiese la madre con aria di dubbio. - Forse sì, mamma. - Brava Lori! Così, quando il babbo tornerà, vedrà che, la sua bimbetta è stata saggia, - mormorò Lucrezia con grande tenerezza; poi chinò la testa e s'immerse nei suoi profondi pensieri. Il silenzio regnò assoluto nella stamberga. Un Loredana lavorava.... obliquo raggio di sole si insinuava tra l'apertura dell'abbaino, accendeva, i capelli d'oro di Loredana e metteva un'aureola luminosa intorno al capo della fanciulla. Ogni tanto una nuvola nascondeva il sole e tutto si spengeva in un grigio di cenere; poi, d'improvviso, ogni cosa si riaccendeva più di prima.. Loredana lavorava senza posa. Le pareva che una mano invisibile la guidasse nella ricostruzione delle sembianze paterne. Ed ecco che a poco a poco sullo sfondo grigio della tavoletta fiorivano gli occhi imperiosi e pur dolci del babbo, il suo naso diritto, le labbra serrate tra il fluire del pizzo castano e l'ardita, piega dei baffi. A tratti la matita a punta d'argento che scorreva agile e sicura, guidata dalle sue dita, rimaneva sospesa e gli occhi di Loredana si fissavano in un punto lontano, come a ricostruire svaniti contorni; poi riprendeva febbrilmente il lavoro. La madre, nel suo angolo, si era assopita, cullata, dal profondo silenzio di quel pomeriggio di prima estate. Un calabrone di velluto era entrato nella scìa dei raggi solari e svolazzava intorno con un ronzio metallico; ma Loredana non lo vedeva e non lo sentiva. Si svegliò da quella specie d'incanto quando il sole stava per tramontare, in una gloria di luce sanguigna, salutato dalle strida gioconde delle rondini e dal dolce pigolo dei passeri, pronti a ritirarsi nei loro nidi alle prime ombre del crepuscolo. Per più di tre ore la fanciulla aveva lavorato senza interruzione e senza quasi accorgersene; e adesso si sentiva a un tratto stanca, ma di una stanchezza che le faceva bene al cuore. In punta di piedi, perchè la madre non la sentisse, tornò ad appendere il ritratto alla parete, e allora finalmente la grande angoscia che fin dalla mattina teneva chiuso il suo cuore in una morsa di ferro si dileguò, come un pipistrello che s'invola al timido spuntare dell'alba. Ormai non avrebbe più ingannato la cara cieca facendole baciare una nuda tavoletta. Lucrezia Sagredo, la sposa fedele e amorosa, avrebbe pregato sempre davanti all'effige dello sposo lontano, senza che sua figlia si sentisse salire alla fronte il rossore della vergogna e dell'ambascia.

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Al tempo dei tempi

219269
Emma Perodi 1 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Accanto alla cucina, giù a terreno, c'è una bottega abbandonata. Sfonda la porta marcita e troverai una stalla, e davanti alla mangiatoia un cavallo arabo, tutto bardato. - Ruggiero le ringraziò con effusione di tutto il bene di cui lo colmavano, e le Fate, ritornate civette, volaron via silenziose. Figuriamoci che folla quella mattina nel cortile, che chiacchierio e che vocìo! La sora Maruzza e la sora Leonora, quando scesero con la testa fasciata per non prender malanni, videro la gente, videro i gesti coi quali la folla accennava il terrazzino di Ruggiero, ma non capirono nulla, e neppure udirono raspare e nitrire il cavallo. Ma incuriosite da quei gesti e da quegli accenni, così presto come glielo permettevano la gobba e le gambe intirizzite dalla vecchiaia, salirono in camera di Ruggiero, spalancarono l'uscio; non potettero però fare un passo avanti e rimasero ferme sulla soglia. Chi era mai colui che se ne stava a pancia all'aria steso sul letto di Ruggiero? Chi era quel bel giovane così lungo, che con i piedi toccava il fondo del letto, con tanto di baffi e con tanto di barba? Forse qualche ladro? Forse qualche assassino? Non era certo Ruggiero, che a letto doveva stare sempre a sedere con un mucchio di guanciali e guancialini dietro la schiena. E Ruggiero dov'era? Ma in quel mentre Ruggiero aprì gli occhi, sorrise alle due donne e le chiamò: - Nonnina! Mammina! - La voce era la sua, ma più chiara, più forte. - Ruggiero! - risposero tremando le due donne. - È un secolo che non vi ho vedute. Ieri sera quando mi svegliai già dormivate e non vi potetti dare la gran notizia, ma oggi ne ho un'altra da darvene; così le saprete a coppia, come le ciliege. - E senza aggiunger altro, buttò via le coperte, balzò dal letto e si presentò alle due donne dritto, fiero, impettito e lisciandosi la barba. La nonna e la mamma non sapevano se piangere o ridere, ma subito si fecero il segno della croce e incominciarono a recitare le preghiere quando lo videro ballare in camicia, mentre lo avevano sempre veduto evitare qualsiasi movimento per non soffiare come un mantice. Esse non ebbero la forza di parlare e andarono in camera e accesero tutte le lampade a San Giuseppe, alla Bedda Matri, al Bambino e rimasero in orazione senza più pensare ad accendere il fuoco nè a pulir la casa, perchè in quel cambiamento di Ruggiero non vedevano chiaro. Il giovane intanto s'era vestito e lisciato e, aprendo l'armadio aveva trovato giustacuori bellissimi tutti trapunti d'oro e d'argento, calze fini che gli fasciavano le gambe ben tornite, scarpe all'ultima moda, fiocchi, guanti, cinturini preziosi e spade ornate di pietre di gran valore. Figuriamoci se lui, assuefatto a far ribrezzo a sè stesso, gongolasse nel vedere tanta bella roba che lo avrebbe fatto apparire più avvenente e più seducente! Scelse un giustacore di velluto color granato, con una stella d'oro ricamata sul petto, delle calze di seta color perla, un tocco nero con penne bianche, un mantello di velluto nero, e dopo aver cinto la più ricca fra le sue spade, scese giù. I nitriti e le zampate del cavallo arabo lo guidarono alla stalla. Il bell'animale, che aveva in fronte una stella bianca, era già bardato e sellato. Il giovane lo montò agilmente, lo toccò con gli sproni e via per il Cassaro al Palazzo Reale. Era l'ora della passeggiata e tutte le dame chi in lettiga, chi a cavallo, con lungo stuolo di cavalieri e dietro a questi palafrenieri in gran numero, riempivano le vie. La bellezza di Ruggiero, la sua eleganza, la ricchezza della bardatura del cavallo arabo, fremente sotto la mano del cavaliere, attrassero su questo tutti gli occhi delle dame, principesse, duchesse, marchese, contesse e baronesse, ma egli passava quasi senza vederle, finché i suoi occhi non furono attratti dalla figlia del Re, montata su una bianca giumenta. La Principessa era tutta vestita di bianco a ricami d'argento, e un velo ricamato di perle le avvolgeva la leggiadra persona come un fiocco di sottilissima nebbia. Ruggiero vide che era circondata di guardie, che i cavalieri fermarono i cavalli per lasciarla passare, che le dame si alzavano dalle lettighe per inchinarla e capì chi fosse, senza domandarlo a nessuno. Egli mise il suo cavallo dietro al corteo e l'accompagnò fino al Palazzo Reale. Ormai per lui non c'era che la figlia del Re, e voleva ad ogni costo averla in isposa. Quella sera le sette civette volarono in camera di Ruggiero e lo trovarono con la fronte appoggiata alla mano, in atteggiamento pensoso. Appena entrate, ciascuna si toccò con la propria bacchetta prima sulla testa, e la testa si convertì in quella di una bellissima giovane, poi sulle due ali che si mutarono in due braccia bianche, poi sulle gambe e finalmente sul petto e sul collo. Quelle sette giovani erano davvero le sette bellezze e non si sarebbe saputo chi scegliere. - Stanotte, - disse quella che parlava - tu devi fare fra noi la scelta di una sposa, e le altre saranno le sue serve. Guardaci bene a una a una e indica quella che più ti piace. Sono io forse? -

Contessa Lara (Evelina Cattermole)

220261
Storie d'amore e di dolore 2 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Questa anzi è una posizione che non ho mai abbandonata per cinquant'anni di seguito, e mi par d'aver avuto un coraggio non comune! Ma ora che da un lustro quella posizione felice è soltanto un ricordo, mi stimerei un vecchio matto da legare, se certe corbellerie mi saltassero in testa: certe corbellerie che del resto — soggiunse in tono più grave — a te meno che mai possono venire, perchè, se non mi sbaglio, tu mi sei d'un bel po' più maturo, mio povero Sampieri. Questi tacque, e tirato fuori un fazzolettone di seta rossa a quadrelli, cancellò, a malincuore, si vedeva, la grossa E poc'anzi tracciata. Ma dopo un silenzio di qualche minuto riprese: - Bencini, posso confidarti un segreto? - Di', di' pure, mio caro, foss'anche un segreto di Stato; pur che amore non ci abbia.... - In questo caso posso risparmiarti la noia — interruppe il conte un po' stizzito. L'avvocato che in tanto s'era messo a passeggiar su e giù per la sala, gingillandosi con la catenella dell'orologio, si fermò di botto davanti al suo compagno, e tra commosso e incredulo gli domandò lentamente: - Ma Tonino, che dici su 'l serio o mi canzoni? Innamorato? Innamorato, tu? Contessa Lara. 19 L'uomo da' sospiri sospirò di bel nuovo, rivolto ancora al cristallo confidente, su cui si ripreparava a tracciar l'iniziale misteriosa. - Oh, Bencini mio! — scoppiò finalmente a dire — se tu avessi un briciolo di cuore, me lo dimostreresti in quest'occasione! - Sì, carissimo, to lo dimostrerei se; Dio liberi, ti vedessi affogare, bruciare, restar sotto un tranvai, e che so io? Vale a dire se ti vedessi correre un pericolo vero e proprio, ma ti confesso sinceramente che non mi sento capace a stemperarmi in lacrime perchè un vecchio collezionista di flauti s'innamora alla fresca età di sessant'anni, e di più, per la prima volta in vita sua! Questa è carina da vero, e non me l'aspettavo. Ma sentiamo, dunque, il tuo romanzo, perchè capisco che tu spiri dalla voglia di raccontarmelo. Butta fuori! - E a chi dovrei parlarne se non a chi n'è la causa? — sospirò il conte. - Io ne sono la causa? Io? — gridava l'avvocato cascando dalle nuvole, preso, questa volta, da un impeto d'ilarità romorosa. - Sì, tu, tu solo — insistè il poveraccio — perchè se non eri tu, non avrei mai messo piede nè a Napoli, nè in questa fatale pensione! - Sì che è proprio una urì di questo paradiso che t'ha rubato il cuore, eh? — continuava, ridendo, l'amico. — E mi permetti di nominarla? Sampieri anch'egli sorrideva con una strana smorfia a fior di labbra, e consentendo col capo mostrava grande soddisfazione d'esser finalmente giunto a intrattenersi col compagno dell'oggetto de' suoi sospiri. — L'indovino subito. La bella è certo Miss Gingerly, quell' inglese sui cinquanta, lunga, magra, angolosa come un angiolo del Cimabue, con due riccioli che sembrano due trucioli calanti sopra gli orecchi; Miss Gingerly, inseparabile da tre cose: le scarpe di gomma elastica, l'ombrello da acqua e il velo verde pisello; Miss Gingerly, che c'empie le tasche di libriccini evangelici... e.... - Stupido! - l'interruppe il conte in tono di supremo disgusto. - Dunque, non è lei? E allora sarà la contessa Bobriskoff, quella russa divisa dal marito che pare una tavolozza ambulante, tanti sono i colori coi quali s'illude di appianarsi e rifarsi il viso; ti avrà preso al laccio con le sue trecce sciolte a uso bambina, e incantato con le romanze slave che la ci bela tutte le sere in un trillo continuato quanto stonato. È lei, eh? Sampieri scrollava la testa, negando. - Come? — ripigliava l'altro — e tu macchineresti di portar la discordia e il disonore in quella coppia di pacifici olandesi de' quali ora non ricordo più il nome — un nome in ick o in ock — che mangiano silenziosamente e formidabilmente accosto accosto come due colombi? Oh, uomo immorale! Ma che seduzioni hanno mai per te gli occhi tondi, chiari e a fior di testa della signora e il suo naso largo all'insù ampiamente sottolineato dalla bocca?... - Grullo, grullissimo! — opponeva l'amoroso con aria fatua. — Smetti, per carità! Quella non è roba alla quale io tiri. - In questo caso non si sbaglia: sfido io, non c'è ora altre donne nella casa! Tu vagheggi le cupolesche rotondità e la facciona di luna rossa della vedova Alford, la proprietaria della pensione; ma perdincibacco, perdi il tempo, sai, caro! oh, se lo perdi! perchè il posto è bell'e accaparrato dal capitano Borise, quel Lupo di mare napoletano, brav'uomo, sì, ma tagliato con l'accetta. Lui, nella grassa vedova ha subodorati parecchi soldi, e non se la lascia sfuggire. - Cretino! Vero cretino! — masticava, come bestemmiando, il buon Sampieri, questa volta in collera per da vero. — Non c'è altre donne nella casa? E Emma, Miss Alford? - Che? Tu pretenderesti — chiese l'avvocato — di far la corte a quella bambina? - No, caro; intendo semplicemente d'offrirle il titolo di contessa Sampieri. - A quella bimba? - Bimba! Bimba, poi, non tanto. A sentir te parrebbe che quella figliuola fosse ancora nelle fasce! Miss Emma ha diciassette anni. Io... io ne ho certo parecchi di più, ma ho anche in compenso un bravo milioncino e mezzo che mi ringiovanisce non poco. Che te ne pare, eh, de' miei progettini? L'amico si fece quasi serio. - Sampieri mio, sono i progetti d'un matto, null'altro; tanto più che ci deve esser di mezzo anche un amoretto, perchè parecchie volte ho intesa Miss Alford parlare con la madre di un certo Toto.... E lo nominava in un tono.... — Nominava me, povero angelo! — esclamò il conte tutto lieto. — Che forse io non mi chiamo Antonio... Tonino? Lo diceva in napoletano, ecco. Ora — seguitava ragionando - se pretendessi combinar le cose da un giorno all'altro, sarebbe troppo pretendere; nè io sono uso a schiccherar dichiarazioni a bruciapelo, come uno studentino senza cervello; ma a forza di manovre abili e coperte, che so io? d'attenzioni mute e delicate, come dice appunto Emma che le piacciono, a forza di piccole finezze, di galanterie, e sopra tutto lasciando tempo al tempo, finirò per impadronirmi di quel coricino; perchè le donne, vedi, vogliono esser vinte così. L'avvocato ascoltava guardandolo fisso; poi domandò: - E quando intendi di cominciar l'assedio... spirituale? Il conte volse gli occhi in torno per assicurarsi ch'erano proprio soli, poi confessò sottovoce, visibilmente contento di sè: - Il primo passo è fatto, e secondo me proprio da grande stratega. Senti: sai di quel romanzo di Paoli, uscito ora, che si titola Lei sola? A te Paoli non piace, capisco, perchè scrive in barbarico, ma non si tratta di ciò; l'autore è il preferito di Miss Alford, e il titolo del suo nuovo libro mi conviene perfettamente. Io dunque non a pena questo volume è uscito l'ho comprato; ho posto un nodo di nastro celeste tessuto d'oro fra le pagine, alla scena — un po' ardita, se vogliamo — in cui l'eroina si leva in presenza dell'amante, lì seduto su 'l tappeto, certe calzette a trafori... - stile moderno, ma che fa? — e l'ho mandato alla mia Emma. Non ti pare un pensiero delicato farle pervenire in questo modo quel romanzo che certo ella desiderava? Con quel titolo eloquente, per di più? Con quel nastro simbolico, sopra tutto? - Amico, le mie congratulazioni sincere; quest'idea è il più bel giorno della tua vita! – declamò con enfasi canzonatoria il Bencini. — Soltanto io direi.... La conversazione sarebbe durata dell'altro se il leggiadro lupus in fabula non avesse spalancata proprio in quel momento la porta del salone. Emma Alford era una figura tutta settentrionale, alta e sottile, con un visetto ovale dalla pelle diafana come una bimba. I suoi larghi occhi d'una tinta luminosa, tra l'azzurro cupo e il grigio, si velavan sotto le ciglia nere che ne raddolcivano l'espressione un po' birichina. Ma la maggior bellezza di Emma erano i capelli, rossicci, ondulati, e lucidi come finissima seta; li portava rialzati su la nuca da un pettine di tartaruga bionda, senz'alcun artifizio, ma in una foggia grecamente elegante, e dietro il collo gliene cadeva qualche ciocca giù per le spalle. La bocca era rosea, un po' larga, fatta per ridere e per cantare, guarnita di dentini bianchi e uniti; e Miss Alford passava, a Napoli, per una gran bella ragazza. La fanciulla salutò con disinvoltura i due ospiti della pensione materna; poi si diresse verso la tavola di mezzo dove posò un libro, subito riconosciuto dal donatore. Impacciato e tremante, questi dichiarò ch'e' stava su 'l punto d'uscire, e balbettando qualche scusa lanciò una grottesca occhiata di desiderio alla donna, un'occhiata supplichevole all'amico, come per raccomandarsi all'alleanza di lui, e sparve. - Quant'è curioso! — saltò su a dire Emma, non a pena il conte ebbe richiuso l'uscio, eseguendo l'ultimo inchino. - Ahi, si comincia male! — pensava l'avvocato, mentre la signorina continuava ridendo: - È tutto cambiato dai primi giorni che venne. Prima era espansivo, loquace; ora dice sì e no quattro parole.... Ma in vece dà certi sguardi paurosi! lersera mamma e il capitano risero Dio sa quanto di lui. Io presi le sue difese, perchè, poveretto, tutt'assieme non è poi un vecchio antipatico, soltanto... bisognerebbe consigliarlo a mettersi una parrucchina; con quella zucca pelata fa un certo senso — (qui ebbe un gesto di ribrezzo, passandosi rapidamente il fazzolettino su la bocca). - De malo in peius... — badava a pensare il Bencini; pure non volendo darsi subito per vinto, s'arrischiò a dire: - Cara signora Emma, lei è troppo severa. Il mio amico Sampieri non è un Adone, glielo concedo, ma non è nè pure vecchio... cioè non è tanto vecchio quanto lei si figura. È d'una delle piu antiche famiglie d'Italia, e poi... è tanto ricco! — concluse enfaticamente l'avvocato. Queste parole erano destinate a produrre un grande effetto: e lo produssero. - Ah, è molto ricco ? — chiese con vivo interessamento Miss Alford. — Peccato che non sia mio nonno! Dev'essere un gran brav'uomo co' nipoti. Allora l'amico, che in qualche modo voleva entrare in argomento, dichiarò alla signorina, che il conte Sampieri, essendo scapolo e perfettamente libero, non aveva figli e... per conseguenza nè pure nipoti; poi abbordò il soggetto del libro: - Vedo che lei legge il nuovo romanzo del Paoli. - Sissignore. S'è pubblicato proprio ora. - Lo so. Volevo leggerlo anch'io, ma va a ruba; è difficile averlo. Anzi, lei è stata fortunata.... - Che dice? Per conto mio temo che lo avrei desiderato un anno, se non fosse per... una persona anonima... che conosce bene i miei gusti, che indovina i miei pensieri.... L'avvocato la guardava e mormorò: - Ah, da vero?... - Si figuri, — riprese la fanciulla — ho trovato fra queste pagine perfino un nodo di nastro celeste — il mio colore — alla scena... a una scena che fa venire i brividi... Il visino roseo le si era fatto rosso come una fragola matura. Ella si vergognava non poco di quella confidenza d'amore, ma la faceva, non ostante, vinta dalla manìa che hanno quasi tutte le donne di raccontar le loro faccende intime. Il Bencini, stuzzicato da una certa curiosità, le si fece piu vicino: - E... mi dica, signora Emma, — domandò — lei dunque sa presso a poco chi le ha mandato questo romanzo? - Se lo so! È il più bel giovane del mondo, e pieno di delicatezza, di delicatezza muta.... Oh, se sapesse.... In quel punto il conte Sampieri rientrò nel salone, impaziente, agitato, nervoso, e di lì a pochi minuti una cameriera venne ad avvertire Emma che sua madre la chiamava. - E bene? — chiese il timido amatore, quando si ritrovò solo con l'amico. — T'ha ella parlato di me? - Me ne ha parlato. - Le ha fatto buon effetto l'invio anonimo del libro? - Ottimo. - T'ha detto qualcosa della scena della dichiarazione e del nodo celeste proprio in quel punto.... - Molte cose. - Dunque vedi, Bencini mio, che avevo ragione dicendoti che le donne vanno prese con garbo, vanno conquistate a furia di delicatezze? E il bravo conte fissava l'amico , piantato dinanzi a lui co' pollici infilati al panciotto sotto le ascelle, agitando su 'l petto le altre dita tese e dimenando il capo con piglio di profonda soddisfazione. - Mio povero Sampieri, che posso dirti per farti persuaso che... che quel nodo celeste è proprio un nodo gordiano.... Ma nè anche a farlo a posta, ecco che la campana annunziante il pranzo a tavola rotonda principiò il suo gaio squillo per l'appunto in quell'istante; e mentre il Bencini, determinato a salvar a ogni costo dal ridicolo il suo compagno, si preparava a combatterne la follia amorosa, magari ripetendogli parola per parola tutta la conversazione testè avuta con la ragazza, il conte, infatuato e felice, se lo prese a braccetto e se lo trascinò fuori della stanza senza nulla ascoltare.

Se Emma si fosse subito abbandonata alla mia prima manifestazione d'amore non l'avrei stimata come ora la stimo. Ma la sua riservatezza, la sua modestia... quel desiderio di farsi accompagnare da me, ch'ella non ha osato esprimere.... - Che desiderio e non desiderio, se avevan già tutto combinato col suo tenente? Già, a me, ecco, questi usi americani e inglesi di mandar fuori le ragazze sole con gli amici, mi garbano poco. Le donne.... - Le donne, mio caro, non son mica delle schiave! — sentenziò Sampieri, il quale nella pensione Alford si era sciolto da parecchi pregiudizi tutti nostrani. — Anzi, nella libertà che si accorda loro da fanciulle, vale a dire quando non hanno nè obblighi nè legami, si rivelano le loro vere inclinazioni senza convenzionalismo e senza ipocrisia, e un uomo che le frequenti giudica dalla fanciulla quel che sarà la donna. L'altro scrollava il capo con ciera incredula; il conte ripigliava: - E vedi, se stasera quell'imbecille non fosse saltato su a strapparmela con quell'invito a bruciapelo: un invito che lei non ha potuto ricusare, si capisce, perchè ci sarebbe stata poca modestia a far vedere che preferiva la mia compagnia a quella d'altre ragazze, lei, credi.... - Sampieri, fammi il piacere di smettere, perchè mi fai uscire da' gangheri, con questi ragionamenti da grullo! — disse l'avvocato, visibilmente stizzito. Ma il vecchio ostinato non cedeva. — Va bene, va bene, acqua in bocca! Ma vedrai se a forza d'attenzioni discrete e gentili io non arrivo a far di Emma la mia signora!

Pagina 304

Mitchell, Margaret

221555
Via col vento 5 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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La signora Meade cercò di sorridere e fargli cenni di saluto finché fu passato; poi appoggiò la testa sulla spalla di Rossella come se le forze l'avessero improvvisamente abbandonata. Molti erano completamente disarmati: la Confederazione non aveva piú fucili né munizioni. Questi uomini speravano di provvedersi di armi, togliendole agli yankees uccisi o prigionieri. Parecchi portavano dei pugnali infilati negli stivali, e in mano lunghe aste di ferro appuntite. I piú fortunati avevano dei vecchi moschetti appoggiati alla spalla e fiaschette di polvere alla cintura. «Johnston aveva perduto diecimila uomini nella sua ritirata; aveva quindi bisogno di altrettanti uomini freschi. Ed ecco che cosa gli giungeva!» pensò Rossella terrorizzata. Al passaggio dell'artiglieria che spruzzava di fango la folla ammassata, l'occhio di Rossella fu colpito da un negro che cavalcava un mulo di fianco a un cannone. Era un giovinotto color sabbia e Rossella vedendolo esclamò: - Ma è Mosè! L'ordinanza di Ashley! Che cosa fa qui? - Si aperse un varco tra la folla e gridò: - Mosè! Fermati! Il giovine negro, vedendola, tirò le redini, sorrise contento e fece per scendere dal mulo. Ma un sergente che cavalcava dietro a lui urlò: - Non ti muovere dalla sella, altrimenti guai a te! Ti faccio vedere io... Incerto, Mosè volse lo sguardo dal sergente a Rossella; questa, incurante della mota e della vicinanza delle ruote, giunse ad afferrare la staffa di Mosè. - Solo un momento, sergente! Non scendere, Mosè. Che diamine fai qui? - Andare di nuovo alla guerra, Miss Rossella. Questa volta con vecchio Mist' John invece che con Mist' Ashley. - Mr. Wilkes! - Rossella rimase sbalordita; il signor Wilkes aveva quasi settant'anni. - Dov'è? - Dietro, con ultimo cannone. Là, in fondo. - Scusate, signora. Avanti, ragazzo! Rossella rimase immobile, col fango sino alla caviglia, mentre i cannoni passavano. «No!» pensò. «È impossibile. È troppo vecchio. E non ama la guerra, come Ashley!» Si ritrasse di qualche passo, verso il marciapiede e scrutò i volti di quelli che passavano. Accanto all'ultimo cannone lo vide, magro, dritto, coi lunghi capelli d'argento sul collo, a cavallo di una piccola giumenta baia, che zampettava tra il fango come una signora in abito di raso. «Ma è Nellie! La cavalla della signora Tarleton! La prediletta di Beatrice, rossa come lei!» Vedendola, il signor Wilkes tirò le redini con un sorriso di contentezza e scese a terra movendole incontro. - Speravo di venire da voi, Rossella. Debbo dirvi tante cose da parte dei vostri. Ma non ho avuto tempo. Siamo arrivati stamattina, e come vedete proseguiamo subito. - Oh, non andate, Mr. Wilkes - gridò Rossella disperatamente tendendo le braccia. - Perché dovete andare? - Vi sembro troppo vecchio? - E sorrise con lo stesso sorriso di Ashley. - Forse per marciare; ma non per cavalcare e per sparare. E Mrs. Tarleton è stata tanto buona da prestarmi Nellie... spero non le capiti nulla, altrimenti non avrei piú il coraggio di guardarla in faccia! Nellie era l'ultimo cavallo rimastole! - Rideva; e Rossella sentí svanire i suoi terrori. - Vostra madre e il babbo e le sorelle stanno bene e vi mandano tutte le loro tenerezze. Vostro padre stava per venire con noi! - Oh no, non il babbo! - esclamò la giovine, terrorizzata. - No! Non vorrà andare alla guerra?! - Voleva. Non può camminare, col suo ginocchio rigido; ma voleva venire a cavallo. Vostra madre ha acconsentito, purché egli riuscisse a saltare la barriera del pascolo; vostro padre ha creduto che fosse cosa facile ma... lo credereste? Il cavallo, arrivato alla barriera, si fermò bruscamente e vostro padre gli filò per le orecchie. Non so come non si è rotto il collo! Con la sua consueta ostinazione, volle ritentare. La terza volta la signora O'Hara e Pork dovettero aiutarlo a mettersi a letto. Era furibondo e diceva che vostra madre doveva «essersi messa d'accordo col cavallo»! Del resto, non c'è da vergognarsi. E bisogna bene che qualcuno rimanga a casa, altrimenti chi procura la farina per le truppe? Rossella non provava alcuna vergogna; soltanto un senso di profondo sollievo. - Ho mandato Lydia e Gioia dai Burr, a Macon - proseguí il vecchio Wilkes - e Geraldo si occuperà delle Dodici Querce come di Tara... Debbo andare, figliuola. Lasciate che baci il vostro bel visino. Rossella ricambiò il bacio con un dolore acuto che le stringeva la gola. Voleva molto bene al signor Wilkes; e una volta, tanto tempo fa, aveva sperato di diventare sua nuora. - E date questo bacio per me a Zia Pitty e quest'altro a Melania. Come sta, la cara Melly? - Sta bene. - Ah! - I suoi occhi grigi la fissarono, ma come se guardasse al di là, nella stessa maniera che aveva guardato Ashley. - Mi sarebbe piaciuto vedere il mio primo nipotino... Addio, mia cara. Balzò su Nellie e si avviò, tenendo il cappello in mano, coi capelli d'argento esposti alla pioggia. Rossella aveva raggiunto Maribella e la signora Meade prima di aver compreso la portata di quelle ultime parole. Ma improvvisamente l'afferrò, con un superstizioso terrore, e tentò di pregare. Aveva parlato di morte! E mentre le tre donne tornavano all'ospedale sotto la pioggia, Rossella non fece che pregare silenziosamente. - Non fate morire anche lui, Dio onnipotente, anche lui oltre ad Ashley! Le giornate piovose di giugno passarono per dar luogo ad un luglio cattivo. I confederati, battendosi disperatamente attorno alle alture fortificate, riuscivano a tenere ancora Sherman in scacco; sicché una selvaggia gaiezza si impadronì di Atlanta. La speranza dava alla testa come lo champagne. Hurrah! Hurrah! Li teniamo a bada! Fu un'epidemia di balli e di ricevimenti. Ogni volta che qualche gruppo di uomini veniva dal campo di battaglia in città, si organizzavano pranzi in loro onore, seguiti da danze; le ragazze, che erano dieci per ogni uomo, facevano a gara per poter ballare con loro. Atlanta era affollata di visitatori, profughi, famiglie di feriti, madri e mogli di combattenti. Rossella era occupatissima, fra il servizio ospedaliero e i divertimenti. A differenza della altre signore, che portavano abiti rivoltati e scarpe rattoppate ella era sempre elegantissima, grazie al materiale che Rhett Butler le aveva portato dal suo ultimo viaggio. Nelle calde notti estive le case di Atlanta erano aperte ai soldati, difensori della città. Suoni di banjo e di violini venivano dalle finestre illuminate, insieme a scalpiccii e a risate che l'aria notturna portava lontano. Attorno ai pianoforti erano gruppi numerosi che cantavano allegramente le tristi parole di «La tua lettera giunse, ma troppo tardi», mentre i giovani valorosi rivolgevano alle fanciulle ridenti dietro ai ventagli di penne di tacchino sguardi che chiedevano di non aspettare che fosse troppo tardi. E nessuna delle fanciulle aspettava, se poteva. I matrimoni erano affrettati; matrimoni con la sposa che arrossiva negli ornamenti presi frettolosamente in prestito, e lo sposo la cui sciabola batteva sui calzoni rattoppati. Quanta eccitazione! Urrà! Johnson teneva in iscacco gli yankees a ventidue miglia dalla città!

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Quando si rialzò e vide nuovamente le rovine delle Dodici Querce, le parve che gioventú e bellezza l'avessero abbandonata per sempre. Il passato era passato. I morti erano morti. La beata indolenza di altri tempi era sparita e non tornerebbe piú. Impossibile indietreggiare: bisognava andare avanti. Per cinquant'anni negli Stati del Sud vi sarebbero donne desolate che guarderebbero indietro; che rievocherebbero i loro morti e i ricordi della vita trascorsa, sopportando orgogliosamente la povertà, perché ricche di memorie. Ma Rossella non guarderebbe mai piú indietro. Fissò le pietre annerite e per l'ultima volta rivide le Dodici Querce com'erano una volta, simbolo di una razza e di un sistema di vita. Poi riprese la strada verso Tara, col cestino pesante che le affaticava il braccio. La fame le torturava nuovamente lo stomaco vuoto, ed ella disse ad alta voce: - Dio mi è testimone che gli yankees non mi abbatteranno. Supererò questo; e quando sarà passato, non soffrirò mai piú la fame. Né io né i miei. Dovessi rubare o uccidere... Dio mi è testimone che non soffrirò la fame mai piú.

Pagina 433

Avrebbe preferito quest'ultima ipotesi a quella di essere stata dimenticata; perché almeno vi era una certa dignità nell'aver perduto il fidanzato, come Carolene e Gioia Wilkes, piuttosto che essere stata abbandonata. - Sssst! - fece Rossella. - Già, tu puoi parlare - singhiozzò Súsele - perché tu sei stata sposata e hai un bambino e tutti sanno che hai avuto la tua parte... Ma venire a farmi capire che morirò zitellona! Sei odiosa, ecco! - Smettila! Com'è insopportabile la gente che piange sempre! Sai benissimo che il tuo vecchio non è morto e che tornerà per sposarti. Quantunque, io personalmente preferirei rimaner zitella piuttosto che sposarlo! Vi fu un silenzio durante il quale Carolene cercò di confortare la sorella accarezzandola, ma con lo spirito assente, tutta al ricordo delle sue cavalcate di tre anni prima con Brent Tarleton accanto. - Ah - sospirò Melania - che cosa sarà il Sud senza tutti i nostri bei ragazzi? Pensa, invece, se potessimo usare il loro coraggio, la loro energia, i loro cervelli! Tutte noi che abbiamo dei bambini, Rossella, dobbiamo educarli per prendere il loro posto, per essere bravi e coraggiosi come loro. - Come loro non ve ne saranno mai piú - disse Carolene sottovoce. - Nessuno può sostituirli. E percorsero il resto della strada in silenzio.

Pagina 494

Nel suo intimo egli si torturava all'idea che Súsele non saprebbe mai la verità e vivrebbe nella persuasione di essere stata abbandonata senza motivo. Probabilmente anche altri pensavano questo e lo criticavano; comunque, egli si sentiva in una posizione falsa. Né aveva modo di uscirne, perché un uomo non può dire che ha perso la testa, e un gentiluomo non può rivelare che sua moglie lo ha preso in trappola con una bugia. Rossella era sua moglie; e una moglie dev'essere rispettata. Inoltre, la sua vanità non gli consentiva di credere che essa lo aveva sposato freddamente e senza nessun affetto. Era piú piacevole credere che si era cosí improvvisamente innamorata di lui che era stata capace di mentire per averlo come marito. Ma Franco tenne per sé le sue osservazioni e la sua sorpresa; egli non poteva insultare sua moglie rivolgendole domande indiscrete che, d'altronde, non avrebbero rimediato a nulla. D'altra parte, non era forse il caso di rimediar nulla, perché il matrimonio prometteva di esser felice. Rossella era una donna deliziosa ed egli la credeva perfetta in tutto; eccettuato il fatto di essere troppo ostinata. Finché le si lasciava libertà d'azione, tutto andava bene; ma quando la si contraddiceva... Nel primo caso era gaia e fanciullesca, rideva, scherzava, gli sedeva sulle ginocchia tirandogli la barba e facendogli desiderare di aver venti anni di meno. Sapeva essere gentile e affettuosa; gli faceva trovare le pantofole accanto al fuoco quando tornava a casa la sera, si preoccupava dei suoi raffreddori, ricordava che del pollo gli piaceva il ventriglio e che metteva tre cucchiaini di zucchero nel caffè. Sí, la vita era piacevole: con Rossella... finché le si lasciava libertà d'azione.

Pagina 612

No, Rossella non ricordava volentieri l'aspetto della contea abbandonata. Sembrava ancor piú triste di quanto non fosse in realtà, a paragone del movimento di Atlanta. - E qui, c'è niente di nuovo? - chiese quando furono finalmente a casa, seduti sotto al porticato. Per tutta la strada aveva continuato a discorrere, per paura del silenzio. Non aveva scambiato una parola da sola con Rhett dal giorno della sua caduta, e non era troppo ansiosa di restare a quattr'occhi con lui. Ignorava quali fossero i suoi sentimenti verso di lei. Era stato di una grande bontà durante la sua convalescenza; ma era la bontà di un estraneo indifferente. Aveva prevenuto i suoi desideri, impedito ai bambini di infastidirla, sorvegliato il negozio e l'azienda. Ma non aveva mai detto «Perdonami». Forse non era neanche addolorato. Forse continuava a credere che il bambino che non era nato non era suo figlio. Come poteva, Rossella, sapere ciò che si nascondeva dietro a quel viso bruno e simpatico? Però, in quel periodo aveva mostrato una certa disposizione alla cortesia, per la prima volta da quando erano sposati; e il desiderio di lasciare che la vita proseguisse come se fra loro non vi fosse mai stato nulla di spiacevole. «Come se...» pensa tristemente Rossella «fra loro non vi fosse mai stato nulla addirittura.» Ebbene, se era questo che desiderava, lei si comporterebbe nello stesso modo. - Tutto va bene - ripeté. - Hai avuto i nuovi embrici per la bottega? Hai cambiato le mule? Per carità, Rhett, togliti quelle penne dal cappello. Sembri uno scervellato, e sei capace di andare in città senza ricordarti di levarle! - No - fece Diletta prendendo il cappello di suo padre. - Tutto va bene qui - rispose Rhett. - Diletta ed io ci siamo divertiti; credo che non sia mai stata pettinata dopo la tua partenza. Non rosicchiare le penne, tesoro; sono cattive. Sí, gli embrici sono a posto; per le mule ho fatto un buon affare. Veramente non c'è niente di nuovo: tutto procede regolarmente. Poi, dopo un attimo riprese: - L'egregio Ashley è stato qui ieri sera. Voleva sapere se tu saresti disposta a cedergli il tuo stabilimento e la parte che hai nel suo. Rossella che si stava cullando in una sedia a dondolo e sventolando con un ventaglio di penne di tacchino, si fermò bruscamente. - Cedere? E dove diamine ha preso il denaro? Sai che non hanno mai un centesimo. Melania spende subito tutto quello che suo marito porta in casa. Rhett si strinse nelle spalle. - Ho sempre pensato ch'ella fosse una personcina molto economa. Ma non sono informato sui particolari delle finanze dei Wilkes come sembri esserlo tu. Era una frase nel vecchio stile di Rhett e Rossella ne fu seccata. - Vai, cara - ella disse a Diletta. - La mamma ha bisogno di discorrere col babbo. - No - rispose risolutamente Diletta arrampicandosi sulle ginocchia paterne. Rossella aggrottò le sopracciglia e Diletta la guardò a sua volta con un cipiglio tanto rassomigliante a quello di Geraldo O'Hara che sua madre quasi rise. - Lasciala stare - intervenne Rhett. - Quanto al denaro, pare che gli sia stato mandato da un tale a cui egli prestò assistenza a Rock Island, quando costui aveva il vaiolo. Il fatto che la riconoscenza esista ancora rinnova la mia fede nella natura umana. - Chi è? Una persona che conosciamo? - La lettera non era firmata e veniva da Washington. Ashley ha stentato a capire chi poteva averla mandata. Ma è naturale che un individuo come Ashley vada compiendo tante buone azioni nel mondo che gli è impossibile ricordarle tutte. Se non fosse stata enormemente stupita per la fortuna inattesa di Ashley, Rossella avrebbe raccolto il guanto, quantunque durante il suo soggiorno a Tara si fosse proposta di non lasciarsi mai piú trascinare a litigare con Rhett a proposito di Ashley. I suoi rapporti coi due uomini erano troppo incerti: ed ella non aveva intenzione di eccitarsi in proposito finché non fosse sicura del fatto suo. - E vuol comprare? - Sí. Ma gli ho detto che certamente tu non pensi di vendere. - Ti prego di lasciare che mi occupi io dei miei affari. - Mah, so che non hai nessuna voglia di rinunziare all'azienda. Gli ho detto che tu non sopporteresti di non ficcare il naso negli affari altrui... - Hai osato dirgli questo? - Perché no? Non è la verità? Credo che in cuor suo fosse d'accordo con me; ma è troppo gentiluomo per convenirne. - Non è vero! Gli venderò l'azienda! - esclamò Rossella. Fino a quel momento non aveva pensato affatto ad abbandonare la sua industria. Per molte ragioni desiderava conservarla; e il suo valore finanziario era il motivo meno importante. Negli ultimi anni aveva avuto piú volte occasione di venderla ad ottime condizioni, ma aveva sempre rifiutato. Gli stabilimenti erano la prova evidente di ciò che aveva fatto con le sole sue forze, ed ella ne era orgogliosa. Inoltre rappresentavano il solo contatto possibile con Ashley. Se li avesse venduti, avrebbe avuto assai raramente occasione di vederlo, e probabilmente non lo avrebbe mai visto solo. E voleva vederlo; voleva sapere quali erano adesso i suoi sentimenti verso di lei, se il suo amore era morto, seppellito dalla vergogna, in quella terribile sera del ricevimento. Rimanendo in rapporti di affari, avrebbe avuto l'opportunità di parlargli, senza che nessuno potesse fare osservazioni. E col tempo, ella avrebbe certo riconquistato il terreno che forse aveva perduto nel suo cuore. Ma se vendeva gli stabilimenti... No; non aveva voglia di venderli; ma stimolata dall'idea che Rhett l'aveva fatta apparire ad Ashley in cosí cattiva luce, aveva immediatamente mutato pensiero. Ashley avrebbe l'azienda, e a prezzo cosí favorevole che sarebbe costretto a riconoscere la sua generosità. - Voglio vendere!... - esclamò adirata. - Che ne pensi, adesso? Negli occhi di Rhett passò una lievissima luce di trionfo mentre egli si curvava ad allacciare una scarpina di Diletta. - Credo che te ne pentirai - rispose. Ella era già pentita delle sue parole impulsive. Se le avesse dette dinanzi a chiunque altri che Rhett, le avrebbe ritrattate senza vergogna. Perché precipitare in quel modo? Guardò suo marito con la fronte aggrondata e vide che la stava osservando col suo antico sguardo ansioso di gatto dinanzi alla tana di un topo. Quando le vide aggrottare le ciglia, rise improvvisamente, con un balenío dei suoi denti bianchi. Rossella intuí vagamente che egli l'aveva costretta in quella posizione. - C'entri per qualche cosa in questo? - gli chiese furibonda. - Io? - Inarcò le sopracciglia con sorpresa beffarda. - Dovresti conoscermi meglio. Non compio mai delle buone azioni io... se posso farne a meno.

Pagina 973

Il romanzo della bambola

222118
Contessa Lara 2 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • paraletteratura - romanzi
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Un giorno la governante, avvezza com'era alle stravaganze della Marietta, perch'ella l'aveva veduta nascere, s'accostò alla pupattola abbandonata, se la prese in braccio e la ripose in un armadio, dicendo a voce alta, con un sorriso malinconico: - Tanto, prima che ti ricerchino ci sarà un pezzo! Se un lungo spillo avesse trapassato il petto della Giulia, le avrebbe fatto meno male di quelle parole. Dunque, ella non era più un oggetto di desiderio! Era inutile, finita. La Marietta, fanatica del Moro, non pensava che alle sue passeggiate a cavallo. Già era stata tre volte fino a Bellavista, una tenuta de' Rivani, fuori di porta San Sebastiano; e raccontava, rossa dal piacere, come l'ammirassero quando passava sul suo puledro cosi piccolo, con dietro il servitore montato sur un cavallo grande. Gli occhi della gente erano tutti per lei. Le faceva fare una cosi bella figura, il Moro! La povera Giulia ripensava tutto ciò nel buio dell'armadio, più nero d'una prigione, e ripensava anche ai giorni di malattia della Marietta, quando ella le avea tenuto una compagnia buona e fedele distraendola e divertendola. Più dell'esser lasciata lì sola, senza che la bimba richiedesse di lei; più ancora dell'averle tolto la luce e l'aria, l'addolorava l'ingratitudine della sua piccola amica. Questo strazio poteva perdonarglielo, ma dimenticarlo giammai! Un dopo pranzo, intese aprire l'armadio in fretta. Erano le donne, venute a prendervi della tela per fasciare una gamba alla Marietta, che il cavallino aveva buttata a terra. Se la bambola fosse stata d' animo cattivo avrebbe detto: - Ben le sta, perchè ha lasciata me per il Moro! - invece ella sofferse del brutto accidente, sperando, in cuor suo, che mentre la bambina stava in letto, avrebbe richiamata lei vicino a sè, lei che non le aveva mai fatto il più piccolo male dacchè s'erano conosciute. Ma i giorni passarono; passarono forse dei mesi, che nella vita di una bambola rappresentano tanti anni de' nostri; e nessuno venne a tirarla fuori, a consolare la sua profonda afflizione. L'oscurità, la solitudine; la solitudine, l'oscurità, non altro, in quell'armadio, dov'ella era in mezzo ai vecchi vestitini della Marietta: certi spogli destinati a darsi per elemosina. E si era addormentata d'un sonno grave, senza sogni, un sonno da cosa, non da essere che sente e pensa e gode e soffre. Così avrebbe voluto, magari, finir la sua piccola vita, cominciata troppo bene per poter andar avanti sempre allo stesso modo: perchè a questo mondo non durano di continuo nè il bene nè il male, e bisogna contentarsi, pigliando con coraggio quello che Dio ci manda. Se ne stava, dunque, immobile e triste, le braccia aperte, il corpicino coperto di polvere, quando, una notte, le parve udire un rumor leggiero, insistente, eguale, come quello d'una piccola sega che lavori. Stette in ascolto un pezzo. Non era la chiave che girava nella serratura; la chiave non fa quel rumore. O allora, che cosa poteva essere? I ladri? Ma i ladri, se per disgrazia càpitano in casa, scassinano i mobili, presto e senza dare l'allarme. I topi, dunque? I topi, Dio mio! Uno spavento terribile la invase. Aveva inteso, una volta, la signora de' Rivani dire che i topi le avevano rovinato una dozzina di lenzuoli in tela di Fiandra, de' merletti antichi di grande valore e anche altra roba. Sicchè i topi erano terribili se, affamati come sogliono essere, arrivano a buttarsi su qualcosa. Il rumore della piccola sega durò tutta la notte: tacque il giorno, perchè qualcuno, entrando in guardaroba per cavarne una cosa o un'altra, impauriva il topo, che ricominciava però subito il suo lavoro monotono, non appena il silenzio tornava a regnare in casa. Ah, se la Giulia avesse potuto chiamare, avvertire che c'era il nemico lì accosto, lì dentro; chiedere aiuto, misericordia, pregando che la si levasse da quel luogo dove aveva paura come una povera bimba in pericolo!... Ma no, no, sempre no! Non poteva da sè sola metter fuori la voce, non poteva alzar le mani e bussare, bussar disperatamente come avrebbe voluto, co' piccoli pugni stretti... Bisognava aspettare, come un pezzo di stoffa qualunque, l'ora de' patimenti più atroci, forse chi sa? l'ora della morte, s'egli era destinato ch'ella dovesse morire così, senza più rivedere il sole. Il topo si avanzò nell'ombra, sicuro di non essere disturbato da alcuno nella sua opera di distruzione; corse qua e là per l'armadio, fiutò, tornando indietro, andando avanti... Se le bambole potessero sudar freddo, la povera Giulia avrebbe avuto i bei capelli biondi tutti intrisi alle tempie, tanto era il suo terrore. Si raccomandò al cielo; ma in cielo ci sono i santi che, a volte, proteggono le bestie, perchè le amarono in vita, come sant'Antonio, san Francesco, san Benedetto, san Rocco; nessuno protegge i giocattoli, abbandonati da tutti quando li abbandonano i bambini. Nelle sue corse rapide, il sorcio le si accostò parecchie volte; poi, da bravo, forse perchè glie n'era piaciuto l'odore, si mise a rosicchiarle una scarpina, una delle sue belle scarpine di cuoio bronzato. Dati i primi morsi, staccò un pezzetto della suola sottile di pelle di guanto; e per un poco, finchè non ebbe terminato il boccone, la Giulia non sentì più scosse. Ah, fosse finito lì il suo spavento! Ma che! L'animale, fatto un foro nella scarpa, attaccò la calza di seta, che i suoi denti lunghi e puntuti ragnarono tutta. Allora principiò per l'infelice pupattola il martirio di sentirsi divorar lentamente il povero piccolo piede, senza poterlo ritirare, anzi, dovendolo abbandonare inerte, come cosa morta. Le sembrava che, insieme al piede, la bestia le dilaniasse il cuore, la testa, ogni nervo del corpicino. Perchè, perchè non veniva ora la sua Marietta a strapparla di lì, a salvarla? Nessuno! Nessuno si ricordava piú di lei, rifiutata, buttata via senza pietà, come un impiccio, come un limone spremuto. Dal buco fatto nella pelle fina del roseo pieduccio, una ferita orrenda, la segatura scorreva, e ne' sussulti impressi dal topo nel roderla, si vuotava parte della gambina; che rimase poi lì con la sua pelle floscia, cadente, quando l'animale si fu ben impinzato e volle mutar cibo. Fuori, l'inverno era finito, e la primavera, con le sue magnifiche giornate, già tiepide e odorose di fiori, invitava a lasciar la città per i semplici divertimenti all'aria aperta della bella campagna. Anche per i signori de' Rivani era prossima la partenza; e già si facevano in casa tutti i preparativi. Il Moro era stato il primo a esser nominato dalla Marietta tra le cose da portare con sé. Con lui ella avrebbe fatto chi sa quante galoppate allegre per il bosco, sotto gli alberi, dove anche a mezzogiorno c'è ombra. Si trattava di condurlo perfino ai bagni di Viareggio; per le gite lungo la spiaggia e le colazioni nella pineta, dove tutte le sue amiche e più ancòra le bambine conosciute colà l'avrebbero invidiata. Innanzi di lasciare Roma per tutti i mesi della villeggiatura, la signora de' Rivani soleva fare una distribuzione degli oggetti usati di vestiario alle sue persone di servizio e a' suoi poveri; ma prima che agli altri alla famiglia della propria sorella, signora Amalia Cerchi, mamma di Camilla: una signora che, come abbiamo detto, s'era maritata male ed era poco felice. Alla signora Amalia e a Camilla, dunque, venivano, quasi di diritto, gli oggetti migliori fra quelli scartati; e si dava loro anche roba addirittura nuova perchè non si mortificassero. Quell'anno, poi, c'era un monte di vestiti, di sottane, di mantelletti, una sfilata di cappelli, e scatole di guanti, e cassette di scarpe; più regali del solito, perchè anche il signor Giovanni aveva inzeppato il guardaroba al suo ritorno da Milano. Nella stanza degli armadi, davanti agli sportelli spalancati, stavano la signora de' Rivani con la signora Amalia e le due cuginette: la Marietta e Camilla. Nessuna persona di servizio assisteva a quella scelta, per non offendere la miseria della signora Cerchi. - Questo non lo prendo, sai - diceva la signora Amalia alla sorella, tenendo in mano un abitino di velluto - perchè per Camilla è troppo bello. - No, anzi, prendilo; l'ho messo da parte proprio per lei - insisteva la madre della Marietta.

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Chi sa dove era andata a finire la roba della povera Giulia, mentre la Marietta la lasciava cosi abbandonata rovinarsi in fondo a un armadio! - Non importa, non t'incomodare, zia - disse Camilla con gentilezza - io so un po' cucire, e nell'ore che non sono a scuola le farò io un vestitino con qualcosa di mio che non porto più. La Marietta, che rientrava allora in guardaroba, a corsa, dopo aver inutilmente cercato il famoso baulino, osservò che doveva esservi una bella differenza tra gli abiti che la sua pupattola aveva prima e quelli che avrebbe avuti ora: osservazione che sua madre troncò con un: - Taci! - ben meritato. Era vero; la Giulia era entrata in quella casa circondata da un lusso straordinario per una bambola; e ne usciva povera, con soltanto l'abito, ormai sgualcito, che teneva in dosso. Ma c'era entrata accolta dal capriccio, e ne usciva accompagnata dall'amore; e per un essere che ha sentimento, il cambio non era poi cattivo. Il cuore tiene luogo di molta ricchezza; Camilla non avea che il suo povero cuore di bimba diseredata da offrirle; ma la Giulia aveva sofferto abbastanza, trascinata da un mobile all'altro, rinchiusa dentro l'armadio come uno straccio in disuso, perchè non le importasse più nulla, nè di balli, nè di cene, nè di gite in carrozza, nè di case signorili. Capiva che il carattere di quella bambina era serio, che il suo cuore era buono, costante; e un benessere nuovo, un sentimento di sicurezza de' più dolci la riempivano di gioia, di serenità. Povera e felice! non si curava di tutto quanto lasciava dietro a sè di frivolo. Avrebbe fatto vita nuova... pelle nuova - almeno nel piedino straziato. Sicchè disse addio, malinconica ma senza rimpianti, alla elegante casa de' Rivani, dove aveva conosciuto la vita di chi si diverte, non quella di chi è amato davvero. La Marietta la vide andarsene senza farle una carezza, senza darle un addio, senza nè anche prenderla in braccio un'ultima volta: ormai, agli occhi suoi, la Giulia era un balocco guasto e null'altro. Nel cortile, dappiede alle scale, il Moro insellato per la passeggiata a Villa Borghese, aspettava, tenuto per la cavezza, la padroncina, sbuffando e raspando, co' segni della più viva impazienza. Girò la testa quando la signora Amalia e Camilla scesero le scale. La bambola avrebbe voluto stringersi ancòra più alla sua nuova amica; fissò gli occhi sul cavallo capriccioso come la Marietta... e se le lacrime del cuore potessero filtrare attraverso il vetro, due lacrime, forse, avrebbero rigato quel visetto di porcellana rosea, nell'ultimo distacco dalla prima persona amata.

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

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Misteri del chiostro napoletano 4 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Mi spogliò allora, assistita dalla fantesca, e mi mise in letto, dove, non sì tosto entrata, fui colta dal primo di quegli attacchi nervosi, che non mi hanno più abbandonata, e de' quali sovente fui sul punto di restar vittima. Mi fecero odorare de' sali. Il mio petto era ansante, le fauci inaridite, un fortissimo freddo facevami balzare sul letto. Dopo un'ora soltanto, le lagrime poterono farsi strada, e scorrere abbondanti per le guancie. Mio padre, dotato d'impareggiabile mansuetudine, aveva interamente abbandonata alla moglie la direzione delle figlie, nè mai si opponeva alle risoluzioni di lei, credendole sempre convenienti. Saputo adunque l'accaduto, egli acconsentiva alla sentenza che escluder doveva Domenico dalla nostra società. Questi, ignaro di tutto, non mancò di venir quella sera, secondo l'usato. Notò l'assenza mia, ma credette sul principio che qualche cura impreveduta m'avesse trattenuta in altra stanza. Frattanto il tempo scorreva; non vedendomi punto comparire, cominciò a sospettare del vero, e se ne turbò. S'accostò a mio padre, il quale, incapace d'usare scortesia a chiunque, lo trattò come sempre. S'appressò a mia madre: fu agghiacciato dalla severità di lei, ch'egli non aveva notata nell'entrare in sala. Attese adunque palpitando l'opportunità per potersi avvicinare a Giuseppina, che in quel momento stava discorrendo con giovanette della sua età. "La signora Enrichetta è malata forse?" domandò finalmente, non appena si fu aperto un varco sino alla sorellina. "Sì;" rispose questa, fissando la madre. "Ma ieri stava tanto bene!" La sorella tacque. Dopo una lunga pausa, Domenico ripigliò: "È pure strano il cangiamento della Marescialla a mio riguardo! Ditemi, signorina, ve lo chieggo in grazia, sarebbe forse la malattia di vostra sorella cagionata dall'essermi seduto un istante a lei vicino ieri sera?" "Credo di sì." "Dio buono! Pare che la signora madre sia andata in cerca d'un pretesto per allontanarmi. Sono stati tanto innocenti i nostri discorsi, tenuti d'altronde in sua presenza, che non so a qual altro motivo attribuire la mia disgrazia." Il giovine trasse un sospiro, e continuò: "Ebbene..... non verrò più! Sia fatta la volontà di vostra madre! Vogliate però assicurare vostra sorella, che niente avrà la forza di cangiare il mio cuore per lei." Si alzò, e senza prendere commiato, senza guardare alcuno, celermente uscì. - Sera nefasta della mia vita! I tuoi affanni non saranno cancellati giammai dalla mia memoria! La separazione non poteva che esacerbare le furenti gelosie di Domenico. Per mezzo dell'amico suo mi fece conoscere, che se io voleva dargli una prova della mia costanza, doveva astenermi dal ballare con chicchessia. Niente di più confacevole al mio cordoglio: promisi d'astenermene totalmente. Una sera mi posi al piano-forte mentre si ballava una quadriglia. "Perchè non balli?" venne a domandarmi la madre, atteggiata di sdegno. "Non mi sento bene." "Vorresti, ragazza darla ad intendere a me! Qui, non m'inganno, ci deve star sotto qualche divieto dell'amante....." "Vi assicuro che....." "Bada che non soffro capricci. Alzati e balla!" Mi convenne ubbidire; ma fui tratta della danza in uno stato non lontano dal deliquio. Nè s'arrestarono lì i rigori della madre. Saputosi che Domenico ronzava l'intera notte intorno alla nostra casa per osservare i passi di coloro che ci visitavano, e conoscere se fra quelli vi fosse per avventura qualche rivale, mi venne imposto di non affacciarmi ad altra finestra, se non a quella solamente che non dava sulla via maggiore, ed era riparata da ogni parte. Se l'incalzare delle restrizioni ebbe per effetto di fomentare sino allo stato di frenesia l’umore naturalmente permaloso, e la passione fosca del giovine, io, dal canto mio, mi trovai in una di quelle crudeli alternative, dalle quali impossibil cosa è l'uscir senza discapito. Relativo a questa mia situazione avvenne in quel mentre un fatto, che mi credo in dovere di non passare in silenzio. Messina, cospicua città, situata, come si sa, a dodici miglia di distanza da Reggio, e divisa da quello stretto che in tempo procelloso fa impallidire il più esperto nocchiero, suole festeggiare con pompa solenne l'Assunzione della Vergine per quattro giorni, che cominciano al 12 e finiscono al 15 d'agosto. Questa festa, singolare miscuglio di sacro e di profano, di cristiano e d'idolatrico, di costume europeo e di indiano, mette in gran movimento le genti de' paesi limitrofi e delle Calabrie. Due smisurati cavalli di carta pesta, montati da due giganti della stessa materia, veggonsi drizzati nella piazza dell'Arcivescovado. Una pelle di cammello, da' Messinesi chiamato Beato (non so perchè) copre due altri uomini della plebe. Il cammello si accosta ai venditori d'ogni genere, e questi, per devozione, intromettono nella bocca spalancata del questuante quadrupede una porzione della loro merce, la quale viene raccolta in sacchi per le spese della festa. La parte più rilevante della solennità consiste nella seguente processione: Una macchina enorme è condotta per la città. Sopra la stessa sono messi in movimento rotatorio parecchi pezzi, simboleggianti i corpi celesti, come il sole, la luna, i pianeti ec. Vi sono pur fatti rotare de' cerchi, che grandi alla base, vanno impicciolendosi alla sommità. Bella e sontuosamente fregiata è quella macchina, eretta e posta in azione ad onore di Colei che diede la luce al Dio della carità! Ma le sue funzioni ti rammentano il famoso carro di Jagganatha, o le nefande ecatombe de' Druidi. A quella vista ti rifugge il cuore, nè puoi contenerti dal gridare all'orrenda barbarie. A' raggi del sole, della luna, e intorno a' cerchi sono legati de' bambini lattanti, le cui snaturate madri, mercè il vile guadagno di pochi ducati che dà loro l'impresario dello spettacolo, li fanno simboleggiare gli angioletti che accompagnano l'Assunta al cielo. Questi innocenti pargoletti, non d'altro colpevoli se non d'essere nati figli di madri inumane, e d'aver veduto il mondo in un secolo non abbastanza dirozzato, scendono o morti o moribondi dalla ruota fatale, dopo di aver girato in sensi opposti per sette ore. Terminate la festa, o per meglio dire, giunto al termine il sagrifizio, accorrono stipate, affollate, urlanti le madri, l'una respingendo l'altra, questa bussando quella, e tutte di conserva impazienti di verificare se morta o salva sia uscita la respettiva loro creatura. Comincia allora una scena d'altro genere, che talvolta finisce con ispargimento di sangue. Non essendo, pel grande numero, facili a riconoscersi dalle madri i sopravvissuti figli, l'una disputa all'altra il frutto delle sue viscere, mentre le imprecazioni delle disputanti e i lamenti delle più addolorate si mescolano agli scherni assordanti degli spettatori e a' fischi della ciurmaglia. Quelle poi fra le devote, che tornano in casa loro prive del proprio figlio, consolansi dicendo, che Maria, invaghitasi dell'avvenente angioletto, ha voluto menarlo seco lei in paradiso. Appagate da tale convinzione, s'intrattengono a banchettare colle femmine del vicinato, infino a che scialacquato sia del tutto il prezzo ottenuto, non dubitando di percepire da' preti ulteriori soccorsi, in memoria de' loro angioletti involatisi gloriosamente a' beati Elisi. Avvicinavasi dunque il tempo di questa festa, manifestazione di uno de' sopraddetti tre F Borbonici. I nostri amici, unitamente a' miei genitori, progettarono di assistervi. La brigata era di quaranta persone, ed una sarebbe stata la casa che doveva alloggiare tutti. Io mi trovava agitata, immaginando il cruccio che avrebbe arrecato a Domenico l'annunzio di tale divertimento, perchè nella brigata s'erano insinuati dei giovani, pe' quali egli sentiva un'ingiusta, ma pure straziante gelosia. Ve n'era uno fra gli altri, il quale, ignaro del nostro amore, aveva confidato a Domenico stesso il segreto della simpatia che disgraziatamente io gli aveva ispirata. Appena seppe il progetto, si abbandonò alle più spropositate smanie, e col solito messo mi fece conoscere, che se avessi lasciato Reggio si sarebbe ucciso. Invano Paolo, l'amico suo, gli fece osservare che esigeva da me cosa superiore alla mia volontà, non essendo presumibile che i miei genitori volessero lasciarmi sola; nè d'altronde potendo io lottare contro il loro comando. Cercò persuaderlo co' più efficaci argomenti, promettendogli inoltre ch'egli stesso non si sarebbe mosso dal fianco mio, e m'avrebbe dato il braccio nelle passeggiate, per evitare ch'altri mi avesse approssimata. Gli giurò di più, in nome dell'amicizia che li univa, come schietto e sincero, che al suo ritorno gli avrebbe reso conto della mia condotta rispetto ai rivali immaginarii. Rassicurato alquanto da questa promessa, mi precedette di poche ore nel viaggio; talchè, non appena giunti al porto di Messina, lo vidi lungo il molo che stava aspettandomi. Egli ci seguì da lontano, e conosciuta la nostra dimora s'installò in un caffè, donde senza esser veduto da mia madre, potea vedere i balconi della casa da me abitata. Paolo mantenne puntualmente la promessa. Si allogò a me dappresso, come l'ombra mia stessa, facendo del corpo suo una barriera insormontabile per ogni altra persona che avesse voluto avvicinarmisi. Mi sapeva mill'anni che, scevro di qualche dispiacere, giungesse l'ultimo giorno della festa. - Disgraziatamente non fu così. Erano le nove di sera, allorchè Paolo mi disse che usciva un momento solo, per fare acquisto d'un oggetto che gli era necessario. "Fate presto, Paolo, per carità," gli dissi: "sapete bene che alle dieci dovrò seguire la brigata al palazzo della Borsa." "Sì," rispose; "ma c'è un'ora ancora di tempo, ed io chiedo solamente pochi minuti." Ciò detto, se ne partì. Non aveva appena scesa la scala, che mia madre ordinò a me e a Giuseppina di prepararci per uscir di casa. "Ma che faremo," le dissi, "sino alle dieci, ora fissata per recarci alla Borsa?" "Andremo attorno per godere della luminara." "Non siamo tutti," soggiunsi: "manca ancora qualcuno della comitiva." "Chi manca ci raggiungerà," replicò essa in tuono che non ammetteva replica. Mi tacqui, e feci lentamente gli apparecchi necessari, colla speranza che Paolo esser dovesse di ritorno per darmi il braccio. Mia madre, Giuseppina, e gli altri aspettavano già pronti che mi unissi a loro. Strappai un bottoncino dal guanto, e pregai che avessero la pazienza di attendermi, finchè con un ago me lo riattaccassi. "Inutile!" fece mia madre in collera. "Eccoti uno spillo, che farà le veci del bottoncino." Presi lo spillo, e seguii la brigata, guardando affannosamente se Paolo arrivasse. Una voce mi scosse: "Signorina, poichè il vostro cavaliere è assente, vorrete gradire il braccio mio, invece del suo?" Alzai gli occhi: era quel desso, che aveva detto a Domenico sentire particolare simpatia per me... - Oh, Dio, quale imbarazzo! Come fare per disimpegnarmene? - Restai in forse, se accettare, o bruscamente ricusare. Mia madre mi guardava fissa; parecchi altri signori avevano udita l'offerta. L'urbanità, la confusione, il timore prevalsero. Gli porsi il braccio per metà, come se paventassi qualche contagio, e seguitai il cammino senza far motto. Allo svolgere della strada, non ostante l'immensa calca di gente, chi mi veggo innanzi? Domenico. Egli moveva alla volta mia. Il lividore di un morto è forse minore di quello che copriva il suo volto: aveva l'aspetto d'un vampiro infuriato. Guardò biecamente, ferocemerte il mio compagno, indi, volto quell'occhio terribile su di me, avventossi, come per atterrarmi, pronunziando parole inintelligibili. Misi un grido. Il frastuono della strada, per buona fortuna, lo coprì. Frattanto la folla mi aveva separata da Domenico, e siccome opposte eran le vie che facevamo, egli tirò per la sua, noi proseguimmo la nostra. Non perciò sedato fu il mio spavento, chè anzi, consapevole dell’impetuoso carattere dell'innamorato, temetti non ritornasse munito di un'arma micidiale, onde attentare alla mia od alla vita del povero giovine. Mi quetai un poco, soltanto quando fui giunta alla Borsa. Entrata nella grande sala, dissi a Paolo sotto voce di seguirmi al balcone, ed ivi gli narrai l'accaduto; al che, mostratosi questi dolentissimo, disse di volere mettervi pronto riparo, correndo immantinente in cerca dell'amico suo, e rappresentandogli la mia innocenza. Chi ha provato l'amore, può di leggieri comprendere quale fosse il mio stato. Amava Domenico con amore tenero ed affettuoso; era attentissima a non dargli alcun motivo di gelosia - ed intanto passava ai suoi occhi per donna frivola ed incostante. Spuntò l'alba, sempre desiderata dagli amanti afflitti, e la gente di servizio cominciò a fare gli apparecchi del ritorno. Poche ore dopo eravamo in Reggio. Paolo fu sollecito a venir la sera prima dell'usato. Lo interrogai cogli occhi se avesse veduto Domenico. - Con un leggero chinar di capo m'accennò di sì. Mi raccontò più tardi, che il furore aveva condotto l'amico suo ad un passo di pazza disperazione. Determinato di troncare meco, ed una volta per sempre, qualunque relazione, egli avea promesso a suo padre di partire, senz'altro indugio per Napoli. La parola era già data, nè più potevasi ritrattare. Nondimeno, gli acerbi rimproveri di Paolo, e gli atti della mia giustificazione, aveano esercitato un'influenza benefica sullo spirito di lui, nè era lontano dal pentirsi del passo, che fatto aveva in un momento di folle dispetto. M'alzai, non potendo frenare la commozione prodotta dalle parole di Paolo, e ritiratami in disparte, meditai un istante. Poscia, ripresa la perduta energia, tornai ad occupare il posto abbandonato accanto al confidente delle mie pene. "Un ultimo favore vi chieggo," gli dissi con fermo accento. "Vogliate riabboccarvi con Domenico, non per altro se non per annunziargli a nome mio che la parte offesa sono io. Può partire o restate a suo agio, non me ne curo più, conoscendomi innocente della colpa che m'attribuisce. Possa trovar egli in Napoli donna più fedele di me!" Da quel momento, coerente alla risoluzione presa, e forte della mia lealtà, feci le viste di volermi totalmente staccare da lui; ma egli, sinceramente ravvedutosi, avea digià riprese le consuete passeggiate sotto le mie finestre. Era un giorno di domenica, ed il giorno fissato alla sua partenza era il seguente martedì. Come ho già detto, trovavasi nella nostra casa un coretto che dava nell'interno della chiesa di Sant'Agostino. Ivi recatami per ascoltare la messa, vidi Domenico di rimpetto a me. L'amore, che spento non era nel mio cuore, malgrado gli sforzi che faceva per soffocarvelo, mi fece volgere lo sguardo verso di lui. Finita la messa, volea ritirarmene: al patetico segno ch'egli mi fece di volermi arrestare per poco, ebbi la debolezza di condiscendere. Come tutta la gente fu uscita di chiesa, egli, avvicinatosi al cancello, e giunte le mani in atto supplichevole, mi disse: "Perdonatemi! Confesso il delirio mio!" Lo guardai: l'espressione del suo volto era tale da disarmare il più forte risentimento. Colle lagrime agli occhi risposi: "Crudele! posdomani parti, m'abbandoni, e chiedi perdono!?" "Per questo sacro luogo in cui ci ritroviamo," soggiunse, "giuro che fra un mese sarò restituito a te, malgrado gli ordini del padre, il quale mi vorrebbe allontanato per un anno intero!" "Accetto il tuo impegno: a questo patto dimentico gli oltraggi." Un leggero tossire ci avvertì essere entrato qualcuno in chiesa. "Addio!" disse Domenico. "Addio!" ripetei con voce velata dalla commozione. Allontanossi, e giunto alle spalle dell'altare, presso alla porta minore della chiesa, si volse di nuovo, e mi disse: "Non mi tradire!" -Tradirlo! Or che mi rendeva l'amor suo, qual altra fortuna poteva io desiderare?-

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In Toscana veniva ristabilito il dominio granducale per una sollevazione popolare in favor dell'antico regime, mentre Venezia, abbandonata a sè sola, e Roma strettamente assediata, lottavano: questa contro i Francesi, quella contro gli Austriaci, con sforzi eroici di prodezza. Benchè profondamente afflitta dalle infelici condizioni dell'Italia, non perdetti di vista la speranza di finirla coll'Ordine benedettino. Da me pregata, mia madre portossi a Gaeta all'incontro di Pio IX, con una supplica, nella quale io chiedeva al pontefice l'atto di secolarizzazione, coll'impegno di rimanere vincolata a' voti, non altrimenti che come semplice canonichessa. E perchè le monache di San Gregorio avevano mosso lite per indennizzazione a quel mio parente, che simulato aveva nel tempo della professione d'essermi debitore di ducati mille, io implorava inoltre dal pontefice d'esser dichiarata immune da tale ingiusta esigenza. Pio IX parve commosso alle istanze di mia madre, alle preci delle mie sorelline. Si volse attorno per vedere se nella stanza vi fosse l'occorrente da scrivere, e non avendovelo trovato, disse alla mia famiglia di ritornare dopo due giorni. Intanto il mio acerrimo persecutore, l'arcivescovo e cardinale, informatosi di queste pratiche, partiva premurosamente da Napoli alla volta di Gaeta, e vi giungeva l'indomani dell'arrivo di mia madre, latore di quella lettera famosa, da me indirizzata al papa sotto la salvaguardia della confessione, e da lui intercettata e aperta. Mia madre tornando dal pontefice lo trovò cambiato. "Signora," le disse con gravità, "fate che vostra figlia si contenti di quello che ha ottenuto finora; chi troppo vuole, niente ha. Ella vorrebbe mutar abito e condizione: non possiamo consentirvi. Che direbbero, che farebbero le altre monache, vincolate nella medesima sua condizione? Avevamo dimenticato il suo nome l'altr'ieri: ce l'ha rammentato il cardinale Riario, ed oggi stesso abbiamo letta una carta, ch'essa cindirizzava due anni fa." Era evidente, che, come quelle della povera Italia, le mie sorti andavano in rovina. Un mese dopo mi veniva dal Riario partecipato un Breve pontificio, per cui Pio IX mi concedeva la grazia di starmene stabilmente in conservatorio, sotto condizione di clausura: potendo però uscirne l'estate per i bagni di mare, purchè i medici li avessero ordinati, e di più che fosse piaciuto all'arcivescovo di permetterli. Quanto poi alla lite mossa dalle monache, ordinava ch'io dovessi versare alla cassa di San Gregorio ducati mille, e che da quel monastero percepissi, vita durante, un assegnamento mensile, proporzionato alla somma da me versata. Insino allora aveva ricevuto pel mio mantenimento ducati 14 e mezzo; da quel momento non mi vidi più consegnare che una polizzetta mensile di ducati sei, a titolo d'alimento mio, e della conversa. - Carità e munificenza fratesca! Alla necessità non resistono neanche gli Dei. Giuocoforza mi fu ristringere il vitto ad una sola pietanza, ed assuefare il palato al pane nero. Ciò dovei fare, mentre, di porpora decorato, l'autore della mia indigenza dava pranzi sontuosi a' parassiti papassi, suoi colleghi, che, da Roma trafugati, rifluivano presso i Borboni, affine di seco loro consultarsi intorno a' mezzi di ribadire più sicuramente i ferri al popolo d'Italia. Venne Pio IX in Napoli, tramutato di luogo, come di colore e di sentimenti. Sebbene uscissi spesso, reputai superfluo, anzi pericoloso, il disegno di ricorrere nuovamente alla sua misericordia. Egli, che chiudeva l'orecchio a' gemiti della sua patria, per quale supremo privilegio l'avrebbe aperto alle lamentazioni d'una povera monaca? E fiancheggiato qual era da un Ferdinando II, da un Riario, come poteva, poniamo pure che avesse voluto, dar ascolto ai miei lamenti? Il solo fanatismo della infima plebe napoletana sorreggeva ancora nel vacillante seggio que' due volgari nemici di ogni bene. E il re di Roma, debole di cuore, più debole di mente, assetato di popolarità, incapace di acquistarla durevolmente, metteva la barca sdrucita della povera Chiesa a rimorchio della loro galera. Una sera, mentre sull'imbrunire io mi ritirava, la Polizia vietò alla carrozza ov'io era di traversare la piazza delle Pigne. Ritrovandosi il Santo Padre nel Museo delle antichità pagane, Ove il principe reale gli faceva da cicerone, non sarebbesi potuto aprire un varco nella folla, senza far calpestare dai cavalli la gente. Mi convenne, voltando strada, fare un lunghissimo giro, scendere per la Vicaria e risalire per San Pietro a Majella. Quest'involontario ritardo eccitò la rabbia dell'idrofoba portinaia del conservatorio, la quale con quegli occhi biechi e sanguigni, che mi facevano rizzare i capelli in capo dalla paura, mi disse: "Se un altr'anno avremo la disgrazia di tenervi con noi, affè di Dio che non metterete più il piede fuori di questa porta!" E così dicendo, alzava minaccioso l'indice in aria, a guisa di maestro di cappella. Prima di partir da Napoli, volle il papa visitare uno ad uno tutti i monasteri di clausura. Quando toccò al monastero di San Giovanni, le suore di Costantinopoli manifestarono a quelle religiose il desiderio di vedere la persona del pontefice in un luogo, che, per la vicinanza dei due monasteri, a ciò si prestava. Salito adunque il papa sopra una certa terrazza, benedisse complessivamente tutto il gregge a lui dintorno. Non so chi m'accennasse all'attenzione sua. Fissò egli lo sguardo sopra di me, e disse: "Una benedizione particolare alla monaca claustrale!" Ed alzata la destra, mise la parola in effetto. Quell'atto non mi recò alcun conforto. Io m'augurava salute, tranquillità, ed emancipazione dall'ignobile servaggio. - Ora, quali di questi beni mi recava quella benedizione? Da lì a pochi giorni Pio IX ritornava in Roma, lieto quanto quel suo predecessore, che alla caduta di Rienzo ritornava vescovo e signore nell'Eterna Città. Il cardinale colse il momento per infierire contro di me. Mi giunse all'orecchio allora che tutti i rigori della clausura stavano per essermi scaricati addosso; per lo che mi veniva proposto di restituirmi presto al primiero carcere, di rinunziare una volta per sempre a qualsiasi speranza d'affrancamento, di rassegnarmi alla sorte delle altre monache, senza più ruminare ulteriori tentativi: e in compenso di tale atto d'abdicazione, mi si lasciava travedere l'onore d'un badessato, che per un Breve di speciale condonamento, nonostante l'età giovanile, avrei ottenuto. Quanto più attraente di tale prospetto era il pan nero che divideva colla mia buona e fidata Maria Giuseppa! Feci rispondere al porporato, ch'io preferiva soggiornare libera in una capanna, anzichè badessa in un carcere. Come rispose Sua Eminenza? - Mi tolse anche quel magrissimo assegnamento mensile di sei ducati! Me ne rimasi dunque, come i Toscani dicono, nelle secche di Barbería. Di lavori donneschi io ne sapeva un po', e l'Onnipotente, che tempera i venti per l'agnello tosato, non m'aveva privata d'operosità e d'industria. Per non viver d'accatto nel conservatorio, per non essere a carico altrui, avrei dunque preferito di guadagnarmi la vita colle proprie mani. - Ma come si fa ad industriarsi dimorando in casa di nemici, e brancolando nel buio che cuopre l'avvenire? Ad un mio parente che rinfacciava al cardinale quell'accanimento codardo contro una donna, duro come un macigno, costui rispondeva: "La madre è ricca: ci penserà lei." Distesa in quel letto di Procuste; stretta, per meglio dire, fra l'uscio e il muro; destituita al fine dei mezzi di sussistenza, feci ricorso all'energia dell'animo per cercare scampo in una disperata uscita. A mali estremi, rimedi estremi. Una sera, invece di ritirarmi secondo il solito al conservatorio, avvertii per lettera la badessa di voler chiudere la porteria tra vespro e nona, perchè, non volendo mangiare il pane altrui, sarei rimasta in casa mia.

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Il sonno, di che la madre e le sorelline godevano, mentr'io desta e abbandonata alla mia vertigine, lottava fra contrari affetti; il cupo silenzio che m'avviluppava come per separarmi più presto dal commercio de' miei cari, non servirono che a rendermi maggiormente orrida e spaventosa l'immagine dell'esilio. - Piuttosto che camminar di porta in porta, e limosinare il pane amarissimo dell'esilio, non sarebbe meglio, ripresi a dirmi, cedere al destino, rassegnarmi alla dura necessità, placare colla simulazione l'ira de' superiori, colla compiacenza insinuarmi nella loro grazia; e, non potendo rompere le catene, ottenere almeno che mi siano alleggerite al piede....? Rapiti dal mio ravvedimento, assicurati della mia devozione, non solamente mi lasceranno in pace, ma mi colmeranno inoltre di favori, m'accorderanno gradi, potere, dignità.... Alla fin fine un badessato non è pascolo tanto meschino per l'ambizione d'una monaca! - Mi rialzai sollecita, accesi il lume, trassi dallo scrittoio un foglio bianco, e intinta la penna nel calamaio, presi, con dita tuttavia tremanti dalla convulsione, a segnarvi le seguenti parole, che non saranno mai cancellate dalla mia memoria: Eminenza! Tutti nel mondo siamo soggetti a deviare dal retto sentiero; il solo Nostro Signor Gesù Cristo nacque impeccabile. Sedotta pur io da rea tentazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Qui la penna si fermò ad un tratto, poi mi cadde dalla mano sulla carta: per lungo tempo io rimasi col capo appoggiato sulla tavola....... - Sciagurata! esclamai alfine, balzando in piedi furibonda, e mettendo in pezzi quel foglio. Sciagurata! Non ti bastano i ferri che trascini al piede, ma porgi anche il collo al capestro? Hai tu dunque aspirato alla libertà solamente per disertare il suo vessillo in tempo di battaglia? E l'onore? e le generose aspirazioni, e la fede, e il cuore? Che ne hai tu fatto, vile, del cuore? E la coscienza? Ancorchè tu possa rimanertene sorda ai gemiti della tua patria, credi peter soffocare la voce della coscienza? Perchè non prendi consiglio e conforto dalla storia di questa tua patria? Spinta da contrarie passioni, governata da fiacco volere, abbandonata alle seduzioni altrui dalla propria famiglia, adescata da ogni parte, cadde la misera Italia nel servaggio, come precisamente vi cadesti anche tu. Così pur essa languì per lungo tempo carcerata nel chiostro, che principi spirituali e temporali le fabbricarono; così pianse, implorò, protestò. Conformi sono le tue vicende alle peripezie di lei: comune l'espiazione, comuni i voti al rinnovamento, comuni perfino gli sforzi recenti a ricuperar l'esercizio della propria volontà.... Ed ora tu retrocedi....! E in qual momento? Alla vigilia della redenzione; mentre allo splendore della giovine Italia si dileguano le ombre della tirannide. - Spuntato il giorno, partii con mia madre alla volta di Capua. Il cardinale Capano mi accolse con rara gentilezza; era uomo di facile accesso, scevro di pregiudizi e superiore alle basse vendette. Ei mi promise la sua protezione, e nell'udire il racconto delle mie vicende, affermò di voler operare quanto poteva, per togliermi da quell'infelice stato. Il pomeriggio dello stesso dì venne a trovarmi il suo vicario, mandato da lui per mettersi d'accordo con me. Conobbi in quell'uomo un sacerdote rispettabile. Non contento di ricevere la mia confessione, che deposi ai suoi piedi bagnata di lacrime, ei volle inoltre che mi recassi l'indomani all'arcivescovado, per narrargli tutta intera la mia vita. Assicurato che io non operava per fini men che nobili e puri, mi chiese i Brevi pontificii ricevuti fino a quel giorno. Questi Brevi erano stati, nella fretta della partenza, dimenticati; perlochè convenne che mia madre ritornasse subito in Napoli; e siccome l'affare richiedeva tempo, il buon vicario consigliò che intanto io fossi entrata in un ritiro della città. libera di uscirne in tutte le ore del giorno, purchè vi pernottassi. Uno di quella specie di ritiri portava il nome dell'Annunziata. Il vicario, trovata ivi una stanza libera, mi pregò di non prendere in mala parte il nome del locale, poichè se quello era per consuetudine il deposito delle proiette, vi dimorava pure un picciol numero di religiose, che non appartenevano a quella classe di femmine. Parte della mobilia mi fu garbatamente favorita da lui stesso, e parte ne presi a nolo dall'albergo. Io e Maria Giuseppa, che non mi abbandonava, entrammo dunque nel ritiro, e mia madre due giorni dopo se ne partì. Molti riguardi mi furono usati dai superiori dello stabilimento; veniva ogni giorno il cameriere del vicario per sapere se avessi ordini da dargli, e il cardinale aveva commesso sì alle religiose, che alle ragazze, di usarmi il massimo rispetto. Ebbi per questa ragione da esse il titolo rancidissimo di Eccellenza. Intanto scorsero parecchi giorni prima che Riario avesse scoperto il mio rifugio. Saputolo alfine, si morse le dita, e scrisse a Capano una lettera piena d'impertinenti rimproveri per avermi dato asilo. Questi rispose trattarsi d'un'onorata religiosa non d'altri scontenta, che di lui, e non già, come dal suo foglio sarebbe sembrato, d'una fuggitiva dal carcere, rea di qualche enorme misfatto; del resto, essere l'arcivescovo di Napoli in dovere più di ringraziarlo per avermi accolta, che di censurarlo. Riario sopì la collera, per ridestarla in sè a miglior tempo. Veniamo ora all'ignobile ritiro, dove il destino mi aveva balestrata. Grandiosa è l'Annunziata di Capua: ha vasto fabbricato e chiesa bellissima. Le religiose vi occupano stanze separate, ma le proiette dormono stivate in lunghi ed oscuri corridoi, ove non si può penetrare senza disgusto. Vi alloggiavano in quel tempo trecento in circa di queste femmine. Rimasi spiacevolmente colpita dello squallore, dal sudiciume, dal misero aspetto di quelle vittime di malcauti amori. Prive delle domestiche virtù e de' requisiti che nobilitano il sesso debole, destitute d'ogni elementare istruzione, rozze, garrule, petulanti, infingarde, esse convivevano lì in uno stanzone comune incatenate: parevan piuttosto un branco di bruti, che una famiglia di creature ragionevoli viventi in terra cristiana, e lì riunite sotto gli auspicii della Chiesa per uno scopo di riforma morale. A questo prospetto stomachevole aggiungevasi una scostumatezza nauseante per famigliarità ch'esse trattenevano coi soldati della guarnigione. Nè l'abbadessa delle religiose, ch'era in pari tempo superiora delle proiette, riusciva a frenare la depravazione. Addivenuta burbera ed intrattabile sì per le infermità, sì per i continui travagli che la comunità le cagionava, essa aveva deposte per intero la prudenza e l'affabilità, ch'erano indispensabili al reggimento d'un istituto tanto male accozzato ed eteroclito. Era in quel mentre afflitta Capua da gravi trambusti. I carcerati eransi rivoltati, ed avevano fatto altrettanto i seminaristi colla mira di trucidare il proprio rettore; e già si accingevano a far lo stesso quelle disgraziate dell'Annunziata, a niente meno risolute, che ad immolare la povera badessa. Le trattenne un poco il rispetto che volevano dimostrare a me. Non sì però che una di esse non le tendesse una maligna trappola. Eravi al disopra della gradinata una stanza formata a guisa di tunnel, passaggio piuttosto pericoloso; quella briccona si pone in agguato ad una finestra superiore, e nel punto che la badessa passava di lì, rovescia a perpendicolo sul mal fermo terreno un vaso di fiori pesantissimo. La misera vecchia dovè la sua salvezza alla pura combinazione d'essersi soffermata un momento prima di porre il piede sul passo fatale. Una mattina le fecero trovare, dipinte alla sua perta, due grandi croci nere, sovrapposte ad un cranio: minaccia di morte. Quelle ribalde misero in opera tutti i mezzi di seduzione onde attirare a' loro conciliaboli la mia conversa; ma Maria Giuseppa, la quale per probità e saviezza faceva eccezione al proverbio, non solo assurdo ma falso, che il tuo più gran nemico, dopo il fratello, è il servitore, Maria Giuseppa, dico, lungi dal prestare orecchio alle loro parole, si fece rigida censora del loro contegno. E le biasimò altamente nell'occasione che, essendo stata la badessa confermata dai superiori nella sua carica, elle si diedero a suonare tutte le campane a lutto. Fecero anche di peggio in un'altra circostanza. La sera d'una festa popolare, avendo la superiora proibito a quelle sciagurate di salire sul belvedere, attesochè, sotto il pretesto di vedere i fuochi artificiali, questo indispensabile condimento dello spettacolo napoletano, esse non avrebbero mancato di fare delle pezzuole altrettanti telegrafi corrispondenti col quartiere militare, esse, fortemente per tale divieto indispettite, ammonticchiarono all'uscio della badessa una dozzina dei loro pagliericci, e vi appiccarono il fuoco; poscia, come la paglia ebbe divampato, presero a saltare sulle fiamme, a modo dei monelli di Napoli, quando, riuniti d'inverno alle cantonate, possono attaccar fuoco agli avanzi di paglia delle scuderie. Chi le avesse viste a qualche distanza lacere, scalze, coi capelli scarmigliati infuriare a quel modo; chi ne avesse udito l'orribile baccano, avrebbe creduto di assistere a un sabato misterioso di streghe e di versiere. Un giorno, avendo io incontrata quella di loro che faceva più rumore delle altre, una giovine magra e spilungona, cui non moriva in bocca mai la lingua, la pregai di volersene stare, se poteva, un po' più tranquilla. Ella, dopo avermi baciata la mano: "Eccellenza, fo l'impertinente e la chiassona apposta." "Tu mi canzoni!" "Gnoranò: fo l'impertinente per pigliar marito." "Non t'intendo." "Eccellenza sì: chi non fa la pazza, qui va a pericolo di restar sempre ragazza. In questa Annunziata qui, non si fa mica come in quella di Napoli, dove i giovanotti si scelgono la sposa, buttando il fazzoletto alla ragazza che vogliono. Qui gli uomini (belli o brutti, giovani o vecchi importa poco) vengono al parlatorio; la superiora chiama allora per nome ognuna di noi una dopo l'altra, finchè al compratore non piaccia la mercanzia. Ora dovete sapere, che quella furbacchiona, le prime che chiama al parlatorio son le più impertinenti, quelle che l'hanno fatta più disperare." "Perchè?" "Per liberarsene più presto." Non potei frenar le risa a siffatto ricambio di furberia, e quando m'imbattei nella superiora, la quale più volte erasi consigliata meco rispetto al modo di regolare quel pandemonio, le suggerii lo spediente di chiamar le ragazze, non ad arbitrio, ma per età; poichè così avrebbe tolto il caso che facessero le cattive per speculazione. Tutte le mattine veniva a salutarmi una giovine contegnosa, ma pallida e molto mesta, che celava un mistero difficile molto a indovinare. Le domamdai se soffriva di qualche indisposizione: esitò sulle prime a rispondere, ma poi, con parole interrotte e sospirando, consentì a rivelarmi ch'ell'era vittima d'una malìa. Io presi l'impegno di persuaderla che le stregherie sono mere imposture, e non bisogna crederci; ma mi avvidi che pestava l'acqua nel mortaio, poichè la poveretta erasi fissata in quell'idea. Avendola pregata a raccontarmi come credeva essere stata ammaliata, ella condiscese a manifestarmelo. Aveva ella, mi disse, amoreggiato per più anni con un tale, che era andato provvisoriamente a Napoli co' suoi padroni. Prima di separarsi, recandosi costui a qualche distanza della città, vollero vicendevolmente giurarsi fedeltà inviolabile. Ma se fedele si serbò il giovine nell'assenza, non ne fece altrettanto la Capuana, perchè, contratta amicizia con un sergente, violò il giuramento. Di quest'infrazione avvertito il primo amante, volò sollecito in Capua, ove, fingendo di trattare la perfida come prima, invitatala a pranzo, le regalò delle paste che aveva portato da Napoli. Il giorno appresso, assicuratosi che la sleale amante aveva già divorato il regalo, gittò la maschera e rinfacciandole con virulenza il tradimento: "Ora sono vendicato!" le disse: "già la malìa opera nelle tue viscere.... Addio!" Da quel giorno in poi fu turbata la ragione di quella infelice: un'estrema confusione di idee e di sentimenti la condusse a quello stato lagrimevole. "Ma perchè," le domandai io, "attribuite ostinatamente alla fattucchiería quello che potrebb'essere l'effetto d'una mera combinazione, o, seppur volete, di qualche veleno messo in quelle paste?" "No, no!" rispose: "io ho il demonio in corpo; non posso entrare in chiesa, nè accostarmi ai Sacramenti." "Vieni con me: ti condurrò nel coro io stessa; il tuo diavolo avrà paura di me!" "No, no, per carità.... non posso; morirei subito." L'afferrai per la mano, e quasi trascinandola, le feci scendere le scale: essa piangeva, tremava, imprecava, tentava continuamente di svincolarsi. Dopo lunga resistenza, raddoppiata presso alla porta, al fine vi entrò. La forzai ad inginocchiarsi a piè dell'altare; ella mandò un urlo spaventevole, e fuggì come un lampo. - Povera Napoli, ad estirpare la superstizione feroce che t'insozza non basterà la libertà di mezzo secolo!

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Rassicurata dalle parole dell'eccellente missionanario, me ne ritornai a casa alquanto confortata dalla speranza che la provvidenza non m'avesse abbandonata del tutto. Passati pochi giorni, veniva Spaccapietra a riferirmi d'aver tenuto col cardinale un lungo discorso sul proposito di me. Riario aveva formalmente negato d'essersi recato dal re, ed aver ottenuto l'ordine del mio arresto. - Ei mentiva, sì, mentiva assolutamente! Spaccapietra aveva osservato non potermisi usurpare i frutti della dote: Riario condiscendeva a farmi avere le cinque mesate arretrate, e prometteva di lasciarmi in pace d'allora in poi. Trascorsero alquanti mesi di tregua. Mia madre, paga di vedermi liberata dall'accanimento dei preti, evitò nel carnevale di dare in casa festini e trattenimenti, com'era usa di fare ogni anno. Di questo provvedimento altamente mi compiacqui, risoluta com'era a schivare nuove molestie, e condurre vita ritirata, divisa fra le cure domestiche e lo studio. E perchè l'apprendimento delle storie patrie mi parve doveroso non soltanto all'uomo, ma pure alla donna italiana dei tempi nostri, trovai modo di procurarmi i migliori autori in questo ramo dell'educazione nazionale. Allora scorsi il Machiavelli, il Guicciardini, il Botta, il Santarosa, il Colletta, e qualche storico della guerra d'indipendenza dell'America, e della rigenerazione dei Greci. Nel mese di giugno una mia sorella, dimorante in Gaeta, scrisse che suo marito era gravemente malato. Mia madre partì per visitare il genero infermo; io non volli accompagnarla. Trovavasi colà Ferdinando II, il quale era allora disgustato del soggiorno di Napoli, non altrimenti che quel discendente d'Eraclio, che, fattosi assassino del proprio fratello e flagello de' sudditi, preso in disgusto e reggia e capitale, si ricoverò in Sicilia, perseguitato dì e notte dall'ombra dello sgozzato germano. Partita adunque la madre, passai con Maria Giuseppa in casa d'un'altra sorella maritata, dimorante in Napoli. Ella abitava nel Vico Canale sopra Toledo, in un sesto piano, molte in quel tempo essendo le sue ristrettezze per cagione del consorte, il quale, compromesso nelle convulsioni del 1848, era stato sospeso nell'esercizio dell'avvocatura, e viveva tuttora in angustie sotto la sorveglianza della polizia borbonica. La scarsezza de' miei mezzi e la penuria del cognato, non mi permettevano di far uso della carrozza ogni volta che qualche urgente faccenda mi chiamava fuor di casa. E fra tali faccende urgenti entrava pure la necessità di dispensare il segreto carteggio degli affiliati ad una società patriottica, allora non meno efficace che benefica, oggi superflua, se non dannosa: ufficio, che persone dell'altro sesso prestar non potevano, senza risvegliare i sospetti di qualcuna delle innumerevoli spie, che in quel tempo formicolavano per le vie, nelle case, e perfino dentro le chiese di Napoli. Ora se non m'era dato uscire ogni volta in legno, come avrei potuto girare a piedi col vestimento benedettino, in una città, ove gli scioperati giovanastri si facevano un vezzo di non lasciare libero il passo alle donne per la via? Lasciato perciò l'abito di monaca, ne presi uno di seta nera, conforme al parere che dato mi aveva il cardinale Capano, e come pure altre persone di buon senso mi consigliavano. Il padre Spaccapietra partiva frattanto pel Giappone in un colla Missione, lasciandomi in ricordo l'Imitazione di Cristo, e la memoria della sua carità esemplare. La sera del 13 giugno, ritirata nella mia stanza con Maria Giuseppa, mi tratteneva seco lei riandando le peripezie sofferte nei diversi chiostri, e scambievolmente consolandoci e rallegrandoci di poter alfine respirare liberamente. Tutto infatti d'intorno a noi spirava calma, benessere, espansione: regnava dappertutto la felicità. L'aria era tepida e imbalsamata dai profumi, che le piante innamorate del belvedere spiravano, mentre ingenue giovinette bisbigliavano nelle sottoposte finestre, mandando di tratto in tratto sospiri, manifestazione di desiderii arcani. La luna in alto proseguiva solinga il corso superba del suo splendore, framezzo un corteggio di nuvolette, frangiate, inargentate con stupenda leggiadria. Io mi sentiva rinascere al pensiero di aver ricuperato il posto che assegnato m'aveva da principio la Provvidenza, di potere liberamente ormai offerire la tenuissima mia cooperazione al servigio de' miei simili. Ma la fortuna, che tanto sovente si prende giuoco dell'umana felicità, accingevasi a farmi pagar caro quel lampo di ebbrezza. Maria Giuseppa, la più costante e fedele partecipe delle mie disgrazie, riponeva tutta la sua felicità nell'assicurarmi che non mai m'avrebbe abbandonata, finchè sarei infelice.... Chi le avrebbe detto che quella sera era l'ultima in cui stessimo insieme? Il giorno appresso, ad un'ora pomeridiama era a pranzo coi miei parenti.... Fu suonato alla porta. La vecchia fantesca di mia sorella s'affaccia alla finestra che metteva sulle scale, e tutta turbata ci dice che un prete cercava di me. "Fatelo entrare!" rispondo, credendo fosse non altri, che l'ex-vicario di Capua, uso a visitarci talora. Ma il cuore, a' disastri assuefatto, presago sempre di malore, cominciò a palpitarmi gagliardamente. Odo i passi, non d'una sola, ma di più persone. M'accosto all'uscio di sala per udire, e odo un alterco fra i venuti e mio cognato. Oltrepasso la soglia, e vedo un uomo di proporzioni colossali, di testa enorme, di faccia a luna piena, una specie di Briareo, che stavasi padronalmente adagiato sul divano; accanto a lui sedeva un prete livido, smilzo, di sinistro aspetto, mentre mio cognato, costernato, puntava entrambe le mani alla spalliera di una seggiola. Sebbene ignoti, quei due sembianti mi fecero raccapricciare. Il gigante, dato fiato alle fauci, con voce non dissimile al muggito della conca marina: "È ella la religiosa Enrichetta Caracciolo Forino?" mi domandò. "Sì," risposi: "con chi ho l'onone di parlare?" "Col commissario Morbilli." Dio, qual nome! Mi scossi, come per violenta scarica d'elettricità.... Era lo spavento di tutta Napoli. Il duca Morbilli (povera nobiltà della patria di Vico!), cagnotto fedelissimo del re, e satellite de' Del Carretto, era salito in grido meno per virtù del suo operosissimo servizio che pel terrore sparso dalle sue visite, e per la mitologica voracità che lo travagliava. Chi de' Napoletani non avrebbe preferito d'avere in casa, non dirò lo spirito maligno, ma almeno il fuoco, od il vaiuolo, od altro micidiale malanno, anzichè il Morbilli? "E questi," continuò egli a dire, accennando al compagno, "questi è un prete della curia." Capíi subito tutto quello che mi aspettava. "Che cosa vogliono da me?" domandai, a modo di carbonaro sorpreso in flagrante dal commissario. "Ella è arrestata." "Arrestata! Possibile! Perchè?" "Possibilissimo, e dovrà seguirci." "Dove?" "In convento." "In quale convento?" "Nel Ritiro di Mondragone." "Posso io sapere per sentenza di quale tribunale, od almeno per ordine di chi?" "Questo non la riguarda." Havvi dei momenti critici nei quali Dio infonde al debole magnanimità, perchè non si lasci schiacciare dalla prepotenza del più forte. "Mi riguarda più che non riguarda lei stessa," dissi con fierezza a quella strisciante Eccellenza: "nondimeno sarà seguita; vo a vestirmi." Iniziato in tutti i segreti della professione di berroviere, Morbilli volle indagare se dalla mia stanza si fosse potuta effettuare qualche evasione, e veduta una sola uscita, si compiacque di permettere ch'io mi vestissi in libertà. Fui allora seguita da Maria Giuseppa, la quale dall'estremo spavento privata di ragione e di favella, gittò la più grande confusione sì nella mia, che nella sua propria acconciatura. Mezz'ora dopo eravamo entrambe pronte. "Non vi fate così abbattuta!" dissi alla conversa, carezzandole leggermente la guancia: "ricomponetevi, prima di uscire, che quella gente non ne provi soddisfazione!" "Dite bene, signora," rispose essa: e per compiacermi si sforzò di sorridere, mentre a stento ratteneva le lagrime. "Potete andare avanti," disse il commissario al prete; "la signora non ha fatto resistenza." Il vampiro, fatta la riverenza, disparve. Morbilli, voltosi a Maria Giuseppa, che carica di scialli e d'altri oggetti, stava pronta a seguirmi, "E tu chi sei?" le domandò. "Sono la conversa." "Tu non accompagnerai la signora al convento!" soggiunse il ciclope. "Perchè?" disse l'una di noi: "Perchè?" replicò l'altra. "La signora sarà condotta al ritiro: tu verrai meco al commissariato per esservi interrogata, e quindi rimandata al tuo paese." Gli urli, le strida, i lamenti che mandò la povera giovine, il suo avviticchiarsi alla mia persona, come per cercare rifugio e protezione, poi il pianto e i gemiti e la disperazione cui davasi in preda, stavano per farmi perdere il contegno. Se non che la commozione, repressa a forza dall'amor proprio, in tale spasimo mi metteva i muscoli della bocca, che pur volendo parlare non avrei potuto. La povera Giuseppa non cessava di abbrancare ora l'abito, ora la mano mia, e di gridare: "Oh, cara, adorata signora, se non volete staccarvi dalla vostra povera conversa, perchè non scacciate questi birboni?" Il commissario, chiamato un ispettore che attendeva all'uscio, gliela consegnò. Io non parlai punto, per tema di prorompere in pianto, ma diedi soltanto a Giuseppa un bacio d'ultimo addio, e pregai la vecchia fantesca di non abbandonarla finchè non fosse rimandata ai suoi parenti. Indi volta al commissario, "Spero," dissi, "che sapendo di chi io son figlia; non vorrete farmi fare il tragitto a piedi." "Nè impedirete che io e sua sorella l'accompagniamo," soggiunse mio cognato. Morbilli fece venire una carrozza, e permise che i congiunti mi accompagnassero. Intanto Maria Giuseppa non cessava di stringermi le mani e coprirle di baci; era tanto straziante la desolazione di quella infelice, che n'ebbe pietà perfino.... un Morbilli. "Coraggio!" le dissi finalmente; e, svincolandomi da lei, uscii la prima dalla porta. Le scale erano tutte gremite di birri, come se si fosse trattato di sorprendere nella macchia una banda di briganti, e più di cento persone eransi radunate fuori del portone per godere dello spettacolo. La chiesa e l'edifizio di Santa Maria delle Grazie di Mondragone posti presso San Carlo alle Mortelle formano il ricovero che Elena Aldobrandini, duchessa di Mondragone, preparava nel 1653 per le dame napoletane, che, venute in basso stato e rimaste vedove, volessero trarvi vita tranquilla e monastica. Oggi vi è pur ammessa qualche educanda, ma in sostanza lo stabilimento è destinato all'uso di ergastolo. Giuntavi poco innanzi alle 3, montai la scalinata, che dalla prima porta di strada conduce sopra; all'ingresso della seconda trovai postati due preti, e presso a loro la superiora che colà chiamasi priora. Uno dei preti era quello spettro di Banco, che condotto aveva Morbilli pel mio arresto; era l'altro il superiore ecclesiastico del locale, quel desso che per la sua furibonda reazione lasciò nel 1848 tristissima rinomanza del suo carattere, quel desso, che come regio revisore cancellava sempre da' manoscritti l'italiano vocabolo eziandio, forse perchè ricordava nella desinenza il nome d'un vindice supremo. Per l'immensa sua devozione alla dinastia Borbonica, e pel famigerato suo oscurantismo decorato coll'ordine di Francesco I, non voleva esser chiamato altrimenti che cavaliere. Dagl'inchini che fece costui al commissario, e dalle parole che si scambiarono fra loro, compresi ch'erano amici di vecchia data: cagnotti attaccati allo stesso guinzaglio. Mio cognato, che a stento aveva fino a quel punto rattenuto lo sdegno, proruppe in acerbe rimostranze contro la condotta del cardinale. "Se non tacete all'istante," gli disse il superiore ecclesiastico, "vi ricaccerò le parole in gola con due schiaffi." "Se non andate, e subito, pe' fatti vostri," soggiunse il commissario, "vi manderò in prigione." Afferrai il cognato per un braccio, e scossolo fortemente, "Perchè vi riscaldate voi," gli dissi; "mentre io che son la vittima taccio? Ora sono giunta al carcere: potete ricondurre la sorella." Tutti serbarono silenzio. Il commissario, avuto dal prete della curia la ricevuta della mia persona, se ne partì, ed io accennai alla sorella di alzarsi per non dare al marito l'occasione di compromettersi. "Scrivi tosto a Gaeta," le dissi nell'atto d'abbracciarla: "scrivi tutto alla mamma, e, per carità prendi per Maria Griuseppa le stesse cure che ti saresti presa per me!" Rimasta sola col birro e coi due carcerieri al fianco, mi fecero salire al terzo piano del fabbricato, quindi mi menarono in una vasta e tetra camera, che aveva l'aspetto d'una prigione da suppliziato: due soli pertugi vi davano luce, ma luce scarsa e cupa, per cagione dell'alto palazzo Villanova che vi era di faccia. Le pareti ignude e insudiciate, la soffitta a travatura, il pavimento a mattoni rotti, per mobilia due sole sedie apopletiche, e null'altro. La priora e il prete superiore dell'inquisizione letteraria uscirono fuori per discorrere a bassa voce; rimase meco il solo prete della curia. Chi crederebbe alla galanteria d'un vampiro? Vedutami sola, derelitta, sconsolata, e priva d'ogni difesa, quel prete, che non era vecchio, pensò di trarre profitto dall'opportunità, facendomi travedere il vantaggio della sua protezione; preso dunque un atteggiamento da cascamorto, che fece maggiormente spiccare la sua ributtante fisionomia, stendendo le scarne mani verso di me: "Se qualche cosa vi occorre," mi disse, "ditelo pur liberamente alla priora, colla quale avrete già simpatizzato; come, suppongo, vorrete simpatizzare anche col vostro devoto servitore." Accompagnarono l'ultima frase un profondo inchino ed un sorriso, che mise allo scoperto l'orrida sua dentatura. "Mostro esecrando!" gridai cogli occhi stralunati, e additandogli la porta coll'indice. "Vattene in malora, e riferisci a chi ti manda qui, che spero coll'aiuto del Cielo di vedere ben presto e lui e te e tutti quelli che vi somigliano mandati, in perdizione!" Non diede alcun indizio di rossore, ma ripreso il cappello, quatto quatto guadagnò l'uscio, che io richiusi con furia alle sue spalle. Allora, ritornata nel mezzo della stanza, m'inginocchiai, giunsi le mani, e, sollevati gli occhi al cielo, il cuore a Dio, pregai dal più profondo dell'anima per la calunniata innocenza. - Il Signore non ributta, ma esaudisce il cuore contrito ed umiliato! -

Pagina 260

Passa l'amore. Novelle

241490
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1908
  • Fratelli Treves editori
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Abbandonata da Dio, mi rivolgeva al diavolo, che almeno mi prometteva quella felicità.... Ah sono stata ingannata anche da lui!... Mi sentivo morire dal terrore, e leggevo, leggevo quella preghiera di cui capivo soltanto poche parole, con la fronte bagnata di sudore diaccio, col cuore che quasi non mi batteva più, con la voce che mi moriva in gola, ginocchioni presso la finestra aperta di quella stanzaccia dove mi recavo a notte avanzata, brancolando nel buio, portando i fiammiferi e la candela benedetta della Candelora, perchè, occorreva una candela benedetta.... E poi ho continuato per mesi e mesi, qui, in questa camera, invocando, persistente, colui che non appariva, che non è apparso mai! Mai!... - Domine, ignosce illae! - balbettava il canonico, alzando pietosamente gli occhi. E soggiungeva: - Dio misericordioso.... Tu, povera figliuola, non sapevi quel che facevi. - Lo sapevo, padre; lo facevo a posta!... - Ma era un'aberrazione, un suggerimento del demonio.... Ora che ti accusi del peccato, ora che, pentita, domandi perdono.... - Sono dannata!... Sono dannata! - tornava a singhiozzare Rosaria desolatamente. - Ah, figliuola! Questo, questo peccato ancora più grande: disperare della misericordia di Dio!... Sei già perdonata! In nome di Colui che me n'ha dato potestà, ego te absolvo!... E ora che intendi di fare, figliuola mia? - Voglio andar via, lontano, Suora di Carità!... Partire sùbito.... sùbito!

Pagina 117

Cosima

243775
Grazia Deledda 1 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
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La trovò insolitamente calma, troppo calma, abbandonata sul letto pallidissima, coi grandi occhi spauriti. Non parlava, non si moveva; ma un odore sgradevole e caldo esalava dal letto, e quando Cosima, con un coraggio superiore alla sua età, cercò di scoprire il mistero si accorse che l'infelice Enza giaceva in una pozza di sangue nero. Arrivò il medico e disse che si trattava di un aborto. Alla meglio tentarono di riparare; ma era tardi; prima che il marito tornasse da una seduta al Tribunale, Enza era morta. Morta, senza dolore, senza coscienza, vuota di tutto il suo sangue malato e turbolento: adesso era bianca, bella, purificata, come una statua di marmo scolpita sul suo modello. Prima di avvertire la madre e le sorelle, prima ancora che Gioanmario rientrasse, Cosima, da sola, chiuse i grandi occhi vitrei di Enza, ne lavò il corpo, trasportato in un lettuccio della camera attigua a quella matrimoniale; lo profumò; compose i bei capelli castani intorno al viso diafano e infine la rivesti del modesto abito bianco di sposa e le calzò anche le scarpette di raso. Agiva sotto l'impulso di una forza quasi sovrannaturale, come in uno stato di ebbrezza. Ebbrezza di dolore, di disinganno, di spavento della vita, che, come tutte le ubriachezze violente, le lasciò un fondo di amarezza, anzi di terrore; un terrore che non l'abbandonò mai piú, sebbene accuratamente sepolto da lei in fondo al cuore come il segreto di una colpa misteriosa e involontaria: l'antica colpa dei primi padri, quella che attirò sul mondo il dolore e ricade indistintamente su tutti gli uomini.

Pagina 68

Documenti umani

244655
Federico De Roberto 4 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
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Abbandonata sopra una poltroncina, nella sua stanza da letto, con la testa fra le mani ella chiudeva gli occhi dinanzi al crollo repentino dell'edifizio pazientemente costrutto. Egli amava ancora la morta! Egli non l'aveva mai dimenticata! Egli rileggeva le sue lettere, baciava il suo ritratto, rievocava la sua memoria!... Egli non le aveva dato ascolto quando gli aveva parlato della loro creatura! Egli avea pianto - per lei, per la morta! - quando avrebbe dovuto sorridere alla nuova vita che si agitava nelle sue viscere!... Tutto era stato inutile! Tutti i suoi sforzi erano stati invano sprecati! L'amor suo non era bastato! Quando egli le aveva detto di amarla, non aveva detto a lei; aveva detto all'altra, alla morta!... Che forza aveva dunque costei, se dal fondo di un sepolcro lo attirava ancora, lo possedeva più interamente, più saldamente che non l'avesse posseduto viva?... Il suo spirito si confondeva: ella non sapeva darsi una spiegazione altrimenti che balbettando delle parole: l'amore!... la passione!.... con quella meraviglia che si prova dinanzi alle cose più strane. Che cosa sapeva ella dell'amore, delle passioni? Che cosa sapea della vita? Quel poco che egli le aveva rivelato. V'era stato qualcuno che avesse mai pensato a lei, che si fosse interessato a lei?... Riandando col pensiero la sua vita passata, ella si rivedeva fanciulla, nella solitudine che l'aveva circondata fin dalla nascita, a curare i suoi vecchi zii malaticci, a coltivare i suoi fiori, ad educare il suo spirito alla disciplina di studii severi. Egli era venuto, e il sole aveva sorriso!... Come pretendeva ella di giudicarlo? Si giudica l'aria che vi mantiene in vita? Non viveva ella per lui, non era ella la sua creatura, la sua cosa?... "L'amore!... le passioni!.." Ella non intendeva quelle grosse parole; ella sapeva soltanto che egli era il suo culto, che bisognava stargli innanzi in ginocchio, aspettando l'elemosina di un suo sguardo benigno. Egli era fatto per una vita di comando e di gloria; ella per l'abnegazione e per il sacrifizio. Egli si era abbassato fino a raccoglierla, bisognava adorare quelle mani che si erano tese verso lei. Che cosa aveva ella fatto per meritare questo premio insigne? Quante la guardavano con invidia gelosa? Non avrebbe egli avute tutte, tutte quelle che avrebbe desiderate? No, egli non ne desiderava nessuna! La morta lo aveva preso con sè.... Come aveva dovuto amarlo!... Più di lei! di un amore più cieco ed assoluto del suo, contro cui la gelosia nulla poteva, che si faceva invece più saldo ora che si vedeva meno apprezzato!... Che cosa voleva dire esser gelosi?... Ella avrebbe voluto amarlo come lei, avrebbe voluto essere lei, sollevarla dalla bara in cui era stata composta, spirarle la sua propria vita, per ridarla a lui, per farlo felice.... Ella se ne sarebbe andata lontano, in qualche parte; o piuttosto lo avrebbe scongiurato di tenerla ancora con lui, in un angolo, per servirlo, contenta dello spettacolo della sua felicità.... No, la morta non era da compiangere; la morta era degna d'invidia! Ella avrebbe voluto essere morta ed essere amata così, di un amore che l'eterna lontananza della persona amata rendeva ancor più potente!... No, la morta non era da compiangere; da compiangere era lui, ridotto a combattere contro tutto ciò che cospirava per portargli via la sua pietosa memoria. Infine, era una colpa se la povera morta aveva ancora un posto nel suo cuore? Come essere gelosa di chi non era più?... Se ella avesse osato!... Gli avrebbe parlato di lei, avrebbe ascoltato tutto ciò che egli le avrebbe detto di lei, avrebbe saputo trovargli un rimedio contro l'infinita amarezza del suo ricordo.... L'uscio si schiuse. Nella semi-oscurità che al sopravvenire del crepuscolo aveva invaso la stanza, ella scorse la figura di Roberto. Prima ancora che avesse avuto il tempo di ricomporsi, se lo vide inginocchiato dinanzi nasconderle la testa in grembo. - Emma! perdono.... Ella lo attirò a sè, lo baciò in fronte, lo accarezzò, passandogli e ripassandogli una mano fra i capelli. - Oh sì, Roberto... povero Roberto mio!... Vi fu un istante di silenzio. La donna riprese: - Senti, Roberto... io vorrei dirti una cosa.... - Ella parlava pianissimo. - Se sarà una bambina... nostra figlia si chiamerà... Bianca.... - O buona!... o Emma mia buona!... Le loro teste si confusero di nuovo. Come era già buio, egli non potè vedere gli occhi di lei, dove luccicavano due lacrime.

I soffici tappeti, le tendine pesanti isolavano ancora più completamente quel remoto boudoir che la duchessa preferiva per passare il suo tempo leggendo o lavorando, e dove ora restava, abbandonata, con le mani sul viso, mentre l'ultimo romanzo del Bourget mostrava il tagliacarte di tartaruga posto fra le pagine, e un filo di seta partente da un canestrino e perdentesi sotto uno sgabello tradiva ancora il gesto scomposto che aveva fatto ruzzolare il gomitolo del ricamo. A un tratto la duchessa si scosse, si levò in piedi e si diresse verso lo specchio. Giunta lì dinanzi, sporse il capo; poi lo ritirò. Pareva avesse una tentazione di guardarsi, ma ne fosse trattenuta dalla paura di vedere uno spettacolo raccapricciante.... Ora teneva il gomito appoggiato allo spigolo del caminetto, e l'indice fra le labbra, rodendosi lentamente l'unghia battendo con vivacità la punta del piede. Ancora una volta si strappò alla sua cogitazione; avanzossi verso la finestra, la schiuse e tirò su la stuoia. Alla chiara luce che inondò il boudoir azzurro ella si riaffacciò, questa volta risolutamente, allo specchio e vi restò a lungo, guardandosi. .... Nessun dubbio era più possibile. Aveva sperato un momento che fosse stata un'allucinazione, un giuoco di luce, un riflesso; ora il dubbio non era più possibile. I suoi capelli imbiancavano, sulle tempie, sulla fronte, dove si potevano meno nascondere! Da principio, qualche anno innanzi, erano stati dei fili d'argento per cui si erano destate in lei le prime vaghe malinconie del tramonto, ma che ella aveva presto dimenticati dopo aver dato loro la caccia, strappandoli dalla radice, con cura scrupolosa, senza dimenticarne uno solo. Per un pezzo non erano ricomparsi. Poi, timidamente, nascosti, perduti tra le selve folte e nerissime, i fili bianchi erano spuntati di nuovo; ma così pochi, così radi, che ella, veramente, non se n'era curata. A trentotto anni la marchesa Crollanza non ricorreva alle tinture? E la piccola Annina Fiorelli, a diciotto anni - una bambina! - non era quasi grigia? Che meraviglia dunque se, alla sua età, qualche filo d'argento s'intrecciava fra le chiome corvine?... Però, da quella volta, non si era più guardata attentamente, come di consueto; mentre la cameriera la pettinava, ella volgeva altrove gli sguardi; un movimento istintivo le faceva evitare di rivedere quelle macchie che le annunziavano la prossima fine della propria bellezza. Ed ecco che quel giorno, avvicinatasi inavvertitamente allo specchio accusatore, aveva scoperto le ciocche bianche miste al lucente ebano della sua chioma!... Il dubbio non era più possibile, l'illusione non era più permessa, eppure ella non sapeva rassegnarsi alla triste scoperta.... Con un gesto nervoso, portò le mani alla testa, buttò via il pettine a palo e le forcine, e cominciò a disfare rapidamente il sapiente edifizio della sua acconciatura. Dapprima le due grosse bande della nuca caddero, disciolte, sulle spalle; poi quelle delle tempie le velarono il viso. Visti così, un poco a distanza, in masse copiose, i. suoi capelli erano sempre meravigliosamente belli; bisognava avvicinarsi allo specchio, bisognava prenderne delle ciocche in mano, dividerle, allargarle, perchè i fili deturpatori apparissero. Quanti!... Quanti!... Come non se ne era accorta finora? E ad ogni nuovo ciuffo che ne scopriva, una vampa le saliva al viso. Avrebbe voluto chiudere gli occhi, sottrarsi a quella vista angosciosa; ma non glie ne restava la forza nella specie di fascinazione, di ipnotismo che le aveva spalancato gli occhi e inchiodato lo sguardo. Ella invecchiava! Fatalmente, inesorabilmente, il fiore della sua bellezza intristiva, appassiva, moriva! Oggi erano i capelli che imbiancavano, domani sarebbero state le rughe che si sarebbero scavate nel marmo della fronte, nel velluto delle guancie; poi gli smalti dei denti che si sarebbero scossi, che sarebbero caduti.... Era finita! Il suo regno di donna cessava. Cessava allo stesso modo con cui era cominciato: inutilmente.... - Inutilmente! La parola, pronunziata con accento di profonda amarezza, si perdette nel silenzio del boudoir. La duchessa di Neli si tolse dallo specchio, e riannodati alla meglio i capelli andò a rovesciarsi sulla sedia lunga. Ora tutta la sua vita, la sua vita monotona e vuota di donna onesta le sfilava dinanzi. Meglio così! - si diceva - meglio la vecchiaia! meglio la bruttezza! poichè bellezza e gioventù non erano valse a nulla. Meglio che i suoi capelli imbiancassero: qualcuno forse se ne sarebbe accorto, glie lo avrebbe detto! Che cosa avrebbe dunque fatto di quella carnagione soave come polpa di frutta mature, di quella bocca grande, vermiglia, odorosa, di quelle mani aristocraticamente scarne, dalle dita lunghe e sfilate, di quelle braccia forti e delicate ad un tempo, di quelle forme agili, eleganti, piene di grazia; che cosa ne avrebbe fatto, lei che nessuno aveva amato, che nessuno amerebbe? Avrebbe dovuto esser ancora bella per suo marito, per quell'egoismo fatto persona, per quell'uomo che le procurava tutti i fastidii della gelosia senza nessuno dei compensi dell'amore?... Erano dieci anni che durava la sua condanna, dieci anni durante i quali un coro di lodi e di ammirazioni le si era levato dintorno. Il gran pro che ella aveva ricavato dalla sua onestà! La gratitudine di cui l'aveva pagata suo marito, le avventure del quale formavano la favola della provincia e la colmavano di ridicolo!... Infine, le era diventata di peso quella inutile onestà! Una voce di ribellione le saliva alle labbra. Erano dieci anni che durava la sua condanna, ma ella ne aveva trentacinque, degli anni! Trentacinque, nè più nè meno; perchè nasconderlo ancora? perchè mentire ancora a sè stessa? con quale profitto? Non lo portava ora scritto nella persona, in quei capelli bianchi che fra poco avrebbero preso il sopravvento? E a trentacinque anni ella era ridotta ancora a fantasticare come a quindici! Nell'età in cui le altre cominciavano a vivere di ricordi, ella era condannata a nutrirsi di speranze, di speranze che si facevano ogni giorno più chimeriche, e di cui presto ella stessa avrebbe apprezzato tutto il ridicolo! Ancora una volta, la duchessa di Neli si scosse dalla sua meditazione e sollevò la testa. Una semioscurità regnava nella stanza. Ella si alzò e si fece alla finestra. La giornata si era coperta; dei nuvoloni grigiastri si rincorrevano, sospinti da un vento che scuoteva le foglie appassite dagli alberi del viale, e le spargeva turbinosamente dintorno. Non una carrozza, non un passante. Il grigio plumbeo di quel cielo autunnale pareva pesasse sulla terra, la opprimesse, togliesse il respiro ad ogni creatura vivente. - Meglio così.... - disse ancora a bassa voce la duchessa di Neli, guardando quel cielo schiacciato, la cerchia ristretta dell'orizzonte, gli alberi mezzo spogli, e trovando una secreta corrispondenza fra la malinconia delle cose in quella stagione e la disposizione del proprio spirito. Era l'autunno che oramai le conveniva, l'autunno in campagna, dove è ancor più visibile il mancare del verde, il ritirarsi del sole, tutti i sintomi dell'agonia della natura. E come ella si compiaceva di aver fatto portar via il mazzo recatole dal suo giardiniere, il domestico comparve di nuovo sull'uscio. - La signora duchessa è servita. Passata nella sala da pranzo, preso posto alla tavola dove il duca batteva la marcia con le posate, fiutando ogni cosa, allungando la testa da una parte e dall'altra come un ragazzo malavvezzo, la duchessa disse, con voce breve: - Domani andrò in villa. Il marito la guardò, sorpreso da quell'insolito accento di risoluzione. Ma un sentimento di soddisfazione gli si dipinse subito in volto. - Era quello.... - Poi, quasi pentito. - Non è una bella stagione. Del resto, fai come ti piace. Puoi dare gli ordini opportuni.

Quel marito che l'aveva oltraggiata ed abbandonata, tornava ora da lei, pentito, ma non abbastanza da riparare alla luce del giorno i propri torti! Veniva a trovarla, di quando in quando; non si faceva veder da nessuno in città, restava nascosto il giorno, passava le notti da lei.... Ah! ah! non avevo io l'anima sua! "Che importa il resto?" ella mi domandava "il resto non esiste!" rispondeva quest'uomo accomodante! E appena io andavo via, quell'altro veniva ad esercitare i suoi diritti; faceva, secondo ogni probabilità, le grasse risate alle mie spalle! E colei, da economa esperta, dava l'anima a me, il resto all'altro! Io le schiudevo le gioie del cuore, l'altro... Oh! in nome di Dio, io vorrei scendere in istrada e fermare i passanti, il primo galantuomo che passa; io vorrei domandare: Di qual nome è degna costei? Che perfidia deve annidarsi nel suo petto, di quali transazioni è capace, se avendo dei pretesi doveri da custodire, allettava me di lusinghe; se giurandomi di non amare che me, non sapeva rinunziare a quell'altro; se si ridava a chi l'aveva offesa, se vilipendeva il sentimento sacro di cui le avevo fatto l'omaggio?... Come aveva mentito, sapientemente, dal primo all'ultimo giorno! Come aveva dovuto prendersi beffe di me!... In nome di Dio, perchè non mi aveva detto, se non era libera: "Andatevene, io non sono per voi?" Perchè quando volli io andarmene, mi trattenne? Perchè non mi disse da principio, subito, la verità; e mi derise invece con quella fatalità assurda, inverosimile, da lei stessa creata? Come mi accecai così; come caddi in tanto ridicolo? Guardi, io piango di rabbia! Che cosa aspettava, dunque; che cosa sperava? Che una vampa di desiderio mi avesse un giorno fatto perdere la ragione e che io avessi preso i resti di quell'altro? Che mi fossi accomodato di questa divisione amichevole?... Guardi, piango di umiliazione.... "Andiamo, via; ho torto di prendermela così calda. "Perfida come l'onda" il giudizio è antico; ma sono soltanto gli ammaestramenti della propria esperienza quelli che ci s'inchiodano nella mente. Ella mi perdoni queste lunghe ed inutili geremiadi; ma gli ammalati non provano una soddisfazione lor propria nel parlare del loro male? "Io non so ancora quel che farò; il presente è incerto e l'avvenire più tenebroso che mai. Si ricordi di me." Come il Darsi ebbe decifrato la firma: Alessandro Morea, la signora Auriti domandò: - Ebbene, che cosa ne dice? - Ecco un uomo - esclamò vivacemente il Darsi, credendo di aver trovato un argomento in suo favore - a cui la passione strappa accenti di una grande eloquenza! Lei non mi sosterrà, credo, che quest'uomo non sia sincero, che egli faccia delle frasi, se ha abbandonato il suo paese, se ha distrutta la sua vita.... - Non è vero che egli ha ragione? Non pare anche a lei che sarebbe difficile giustificare la parte avversa, e più difficile ancora ritorcere le accuse contro di lui?... Stia dunque a sentire. E questa volta, presa un'altra lettera dalla stessa cassetta dell'armadio, la signora Auriti cominciò a leggere ella stessa: "Amica mia, "Partito? per sempre?... Egli è partito, dopo avermi giurato di attendere dei mesi, degli anni, un'eternità? Di attendere la confessione di tutta la mia vita, dello strazio dell'anima mia? Partito, lui, senza ascoltarmi, abbandonandomi vilmente dopo aver rubata la mia pace, la tranquillità del mio povero cuore che io custodivo gelosamente, come il supremo dei beni? "Ah, se potessi credere che non è vero, che sono vittima d'una dolorosa allucinazione! Vorrei poterlo credere per me, ed anche per lui, per non disistimare quell'uomo che avevo messo molto in alto, in cima ai miei pensieri!... Non è possibile è vero? La realtà è schiacciante! Non è possibile neppure il pianto: gli occhi sono aridi, lo sguardo è inebetito.... "Mio Dio, mio Dio! perchè ha egli fatto questo! Che cosa aveva da rimproverarmi? Dici tu, amica, quali sono i miei torti? Non fui forse sincera con lui fino all'eroismo? La confessione che gli avevo promesso non mi avrebbe fatta l'anima a brani? La triste storia non mi avrebbe bruciato le labbra?... Eppure, avevo deciso di farlo ad ogni costo, come una espiazione, come un primo sacrifizio a quest'uomo che mi aveva dischiuso degli arcani dolcissimi, che mi aveva richiamata alla vita del cuore, mentre mi reputavo morta per essa! "Quest'uomo che io stimavo tanto diverso dagli altri sulla fede delle sue nobili parole, dei giudizii che gli altri, tu stessa per la prima, ne davano, aveva destato in me una grande simpatia; ma se io non ero padrona del mio sentimento, ero padrona della mia ragione; e può egli dire di essere stato da me incoraggiato, sia pure con la più innocente civetteria di cui nessuna donna va esente, a tentar di mutare la natura dei nostri rapporti? Se egli mi avesse subito fatto comprendere quali speranze nutriva, io avrei potuto farmi forza, disilluderlo fin dal principio, non vederlo più; egli invece seppe abilmente aspettare fino a quando io caddi in una fitta rete, quando la mia simpatia era diventata amore, amore potente, del quale non potevo più fare a meno, come non si fa a meno dell'aria che si respira!... ciò malgrado, che cosa gli risposi io? Chiedilo a lui stesso; mi affido alla sua coscienza, se ne ha una; che cosa gli risposi? Gli diedi forse allora qualche speranza vaga, lontana? Io gli dissi che non doveva concepirne nessuna, che non potevo amarlo se non come un amico, come un fratello; che una fatalità pesava sulla mia vita! "Una fatalità, la più triste, la più terribile: essere legata, indissolubilmente, a chi non si ama e non si può amare; esser libera agli occhi di tutti e sentire tutto il peso del dovere nell'intimo della coscienza! Tu lo sai, tu che sei stata presente alle mie dolorose vicende dal momento che fui legata a quell'uomo fino ad oggi, tu lo sai quel che mi fece soffrire! Ebbene, per ragione di queste sofferenze medesime, potevo io cacciarlo da me quand'egli era tornato pentito, umile, supplice, quando a sua volta tradito, invocava il mio perdono, quando io stessa avevo apprezzate tutte le tristi conseguenze della mia falsa posizione, i sospetti che la malignità sempre desta andava gettando su di me? "Il mio cuore era libero, allora; io non conoscevo ancora lui; avevo creduto che tutto fosse finito per me; non ebbi la forza di respingere mio marito che veniva in nome del nostro passato, che prometteva di riparare pubblicamente, alla luce del giorno, tutti i suoi torti, di smentire per ciò stesso le voci malvagie di cui ero l'oggetto. Quand'anche l'avessi avuta, questa forza, come resistere a lungo? Non aveva egli il diritto dalla sua parte? Non era mio marito?... Fu allora che conobbi lui, e puoi tu imaginare un tormento più grande del mio, spinta com'ero a gettarmi ai piedi dell'uomo amato, e incatenata intanto a chi avevo giurata la fede? Non erano tanto più grandi i miei doveri verso costui, quanto più grande era la mia apparente libertà, quanto più ero sottratta alla sua sorveglianza?... E non lo ingannavo, intanto? non gli mentivo? non avevo dato l'anima mia a quell'altro? Avrebbe quell'altro forse voluto che io mi fossi divisa fra loro due?... "Io non so; la mia mente si turba, la mia ragione si smarrisce! Quando io gli dissi che un triste secreto mi pesava sul cuore, che un giorno lo avrebbe saputo (non volevo, non dovevo confessarmi a lui?) io gli chiesi se avrebbe avuta la forza di affrontare una posizione tristissima, di contentarsi di quel che solo gli potevo dare. Che cosa rispose? "Non sa che forza la sicurezza di essere amato può dare ad un uomo!" Egli m'ingannava; traeva profitto del mio accecamento, contava presto o tardi di vincere in un modo o in un altro! Un galantuomo avrebbe detto "Questa forza io non l'ho; mi si chiede l'impossibile!" "Ed ancora, non gli avevo io chiesto di aver fede in me? Non aspettavo l'occasione propizia da un istante all'altro di dire a mio marito: Mantenete la vostra promessa, riprendetemi con voi dinanzi a tutti, o rinunziate per sempre a me? Non ero io quasi sicura ch'egli avrebbe esitato, nuovamente sedotto com'era da quella donna che lo aveva ammaliato, non più bisognante di me; che egli mi avrebbe presto lasciata libera, questa volta davvero, e per sempre?... Giurava di aver fede in me, lui, e mentiva; e quand'era il tempo di provarla, questa fede, mi abbandonava vilmente; vilmente, lo ripeto ancora, non mi stancherei di ripeterlo!... Dunque, il martirio che io sopportavo, i rimorsi di ogni natura che mi laceravano il cuore in tutti i sensi, la posizione di una donna che è sull'orlo della colpa, i mille pericoli cui andavo incontro, tutto questo era dunque nulla? Per chi mi aveva presa egli dunque?... "Ah, io mi lamento a torto! È forse provvidenziale che sia finita così! Egli mi avrebbe forse abbandonata dopo avermi avuta, come una cosa inutile ormai!... Mi ha lasciata prima; anche questa è una specie di lealtà di cui bisogna tenergli conto! "Non è men vero per ciò, amica mia, che sono delle nature predilette dalla sventura. Ed io sono del numero. Amami tu, per tutti gli altri, lascia che io versi nel tuo seno la piena del dolore; vieni, vieni presto, vieni a soccorrermi." La signora Auriti ebbe un piccolo sorriso di trionfo dinanzi al Darsi che restava un poco interdetto. - Vede se io avevo ragione? Sente come suona diversa l'altra campana? Mi parli dell'intesa, della compenetrazione delle anime, adesso!... - Ebbene! - esclamò il Darsi, che non si voleva arrendere. - Ciò prova che vi sono nella vita delle situazioni complesse, che ammettono per ciò stesso diverse soluzioni, tutte fino ad un certo punto legittime. Ma se queste persone giudicavano così diversamente della loro condotta di fronte al sentimento che li dominava, ella converrà meco che, almeno in questo sentimento, essi si accordavano del tutto, gettati com'erano per esso in preda al più disperato dolore... - Oh, non lo creda! - interruppe la signora Auriti, con un nuovo sorriso. - Non lo creda completamente. Certo, la scossa dovette esser sensibile; ma io penso che la previsione, in ciascuno di essi, del dolore dell'altro, dovesse essere più forte che non la personale sensazione dolorosa. - Come può dirlo? - Sa che cosa fece la mia amica, il giorno stesso in cui apprese la rottura? Andò a pranzo in casa di lady Dalty, dalla quale aveva già ricevuto un invito, dopo aver fatto un'accurata toletta. Per confessione stessa di lei - badi, io non metto una parola di mio - fattasi allo specchio, la sua meraviglia fu grande nel rivedersi la stessa, anzi più bella; il sangue affluito alla testa aveva acceso il suo volto, fatto come di bragia, coi grandi occhi sfavillanti. Quei preparativi di festa, i profumi dell'Ixora e della veloutine, le infusero quasi un benessere; a poco a poco una strana reazione si operò in lei; ebbe l'agio di trovare che il suo abito mauve, guernito di trine écrues e di jais, le stava a pennello... - Oh! - Aspetti ad esclamare. Per le vie, ella scambiava graziosi saluti e sorrisi, si sentiva ammirata da tutta quella folla; le pareva quasi che con quell'ammirazione le si rendesse giustizia... Esclami, amico mio; esclami pure; in quel momento ella pensava certo - questa è l'induzione mia, non me l'ha detto lei - alla disperazione dell'uomo, allo sconforto mortale a cui doveva essere in preda; e trovava giusto che egli soffrisse per lei e che lei si distraesse così... Egoismo, e del più puro! L'uomo invece... - L'uomo?... - Telegrafava ad un amico, per avere del danaro; il soggiorno di Parigi, anche quando ci si va per raccogliere un'eredità (suo fratello maggiore era stato colpito da paralisi, egli non fece che affrettare le sue dimissioni) non è una misura di economia. Da Milano a Torino fece il viaggio coi Marnengo; la signora conserva un gradevole ricordo dell'amabilità del capitano. Intanto che egli sfoggiava la sua più squisita galanteria, pensava probabilmente all'ambascia della donna, al rimorso che doveva divorarla, come la più giusta delle punizioni. Se gli avessero detto che in quell'ora precisa ella era a pranzo da lady Dalty, si sarebbe pentito di aver avuta tanta fretta!... - È disperante! - disse il Darsi, che vedeva l'inutilità dei suoi tentativi e cercava di lanciare un gran colpo. - Ella dunque crede che tutto sia finzione? Se io le provassi... - Mio Dio, vuol dire che non ho saputo ancora spiegarmi. Io dico che tutto è relativo, che tutto può esser vero e falso al tempo stesso, secondo il punto di vista. Lei, per esempio, è qui, nel mio salotto, a sostenere il disinteresse, l'altruismo, il sacrifizio. Questo, non è vero? è un concetto... - Del quale io non domando che darle la prova! - Allora, consideri un poco: non potrebbe anche essere un calcolo?

Per qualcun altro ella aveva disciolta una famiglia, abbandonata una posizione, sfidata una intera societa!... Ella aveva avuto degli altri amanti, prima di lui, quando ancora non lo conosceva: che cosa importa? Come credere alla sincerità delle parole che gli diceva, se parole simili, se forse quelle stesse parole erano state dette ad altri? Come aver fede nella sincerità attuale di quella donna, se ella aveva giudicato di essere stata amata, una volta, come ora, più di ora?... Egli l'amava ciecamente, con tutte le forze d'un'anima rimasta giovane malgrado l'avanzarsi degli anni, aveva sofferto per lei fino al pianto, fino alla pazzia, dei suoi dolori e delle sue gioie le aveva dato le prove più eloquenti, e quando egli le aveva chiesto se era stata mai amata così, gli aveva risposto: Una volta! Una volta! Come se non fosse già stato troppo! Ancora, sempre, malgrado tutti i suoi sforzi, lo spettro del passato gli sorgeva dinanzi, minaccioso, inevitabile. Come lottare contro l'invisibile potenza di un ricordo, se tutto quello che egli aveva fatto per lei non era bastato a vincerlo, ad eclissarlo? Quali altre prove di amore doveva egli darle per dimostrarle che si era ingannata, che mai era stata amata così?... Una volta!... E le altre? Le altre volte, dunque, non era stata amata; lo riconosceva implicitamente lei stessa! E la figura del cavaliere di Sammartino appariva ad un tratto, tanto più odiata quanto meno inverisimile diventava la sua presuntuosa vanteria... Ed era dunque possibile? Ella sarebbe discesa fino a quell'essere abietto? Ed egli avrebbe amata una donna che era stata del Sammartino?... No, no; non era possibile, era un'aberrazione dello spirito ammalato, era un incubo prodotto dalla impotente gelosia di quel passato incancellabile. Dov'era, dov'era Costanza, la sua Costanza, perchè ella dissipasse con una sola parola l'infame sospetto?... Allora, le parole del duca di Majoli gli tornavano alla memoria, come un rimprovero, come un'accusa. "Crediamo sempre d'esser sinceri, ma la sincerità di oggi fa a pugni con quella di ieri." Colui aveva dunque ragione? Perchè gli aveva dette quelle parole? Era anch'egli stato un amante della baronessa?... Ah! delirava, impazziva!... Sì, il duca aveva ragione; egli aveva creduto di esser sincero quando pensava che il passato di Costanza non esisteva per lui; che glie la rendeva, se mai, più cara - sì, le stesse parole di colui - ed era sincero anche in quel momento che le rinfacciava il suo passato come una colpa!... Come dunque accadeva, e perchè?... Perchè il suo amor proprio non ammetteva che un altro avesse potuto amarla più di lui, che ella avesse fatto per un altro più di quello che aveva fatto per lui!... Era dunque un egoista; nient'altro che un egoista sofisticatore?... No; era che egli non la sentiva più sua, più tutta sua; che qualcuno aveva ancora un posto nella memoria se non nel cuore di lei; che i fatti dai quali era stata ridotta nella condizione in cui l'aveva trovata erano di quelli che lasciano indelebili traccie. Era finita, l'amore non era più possibile; quella donna era indegna d'un amore come il suo; a momenti avrebbe voluto metterla alla tortura per farle confessare che Sammartino era stato il suo amante, per avere il diritto di disprezzarla, per abbandonarla a colui.... - No! No!... Costanza mia!... La baronessa riappariva in quel momento. Malgrado il suo braccio destro fosse irrigidito per lo sforzo di sostenere una vecchia valigia polverosa, ella entrò nella stanza con passo affrettato, con una risolutezza in tutti i suoi movimenti. Gettò la valigia per terra, s'inginocchiò per aprirla con una piccola chiave che teneva già in mano, e rialzandosi: - Ecco le lettere, - disse ad Andrea, freddamente. - Fatene quel che volete. D'un movimento istintivo egli si era gettato sulla valigia come sopra una preda. Erano dunque lì le prove materiali di quel passato che egli aveva cominciato per non curare e che, suo malgrado, gli si era imposto inesorabilmente, fino a farlo dubitare di quell'amore che aveva formato il suo più grande orgoglio! Più tangibile, più reale, più fatale ora esso gli appariva, dinanzi a quei documenti irrefutabili, dinanzi a quelle indelebili traccie che si era lasciato dietro.... E quando pure egli avesse stracciato ad una ad una quelle lettere, quando pure le avesse bruciate, quando pure ne avesse disperso al vento le ceneri, avrebbe egli abolito quel passato funesto? Quand'anche egli avesse strappato con le proprie mani il cuore della donna, quand'anche egli si fosse strappato il suo proprio cuore, lo avrebbe abolito ancora? Nulla poteva egli, nulla poteva nessuno contro quella fatalità. Chi, chi mai ne era stato la causa?... Ah! avere fra le mani uno di quegli uomini, avventarglisi alla gola, strozzarlo: ecco solo quello che avrebbe potuto ridargli la pace! Cogli occhi accesi, febbrilmente, Andrea si era messo a disfare i pacchi, di cui la valigia era piena. Le lettere ricascavano da tutte le parti, si sparpagliavano, si confondevano; ma Andrea Ludovisi non pensava a leggerne nessuna. Preso da una specie di furore, di smania distruttrice, egli si accaniva contro quei pacchi, non riusciva a sciogliere i nodi dei lacci, li spezzava con le mani, coi denti, non avvertendo neanche il dolore che quegli sforzi gli cagionavano. Come li ebbe tutti disfatti, sostò un momento, alzando gli occhi. Con la persona curvata, il collo teso come in attesa di un colpo mortale, gli occhi stranamente spalancati e fissi, le braccia protese indietro, le mani strettamente intrecciate, la baronessa aveva una tale espressione di angoscia e di smarrimento, che Andrea Ludovisi si rialzò di scatto. Il suo primo pensiero fu che ella era impazzita. - Costanza! Costanza! E fece per avvicinarsi. Ella gridò, indietreggiando: - Non mi toccare! - E mostrando le lettere, con un gesto imperioso - Leggile! - Non voglio!... Non ne ho bisogno.... Prima ancora che ella avesse potuto pensare a sfuggirgli egli l'aveva presa per le braccia. Con una forza di cui non sarebbe stata mai creduta capace, la baronessa si sciolse da quella stretta, fuggendo per la camera. Egli la raggiunse. Allora cominciò una lotta feroce, tra la donna che tentava di liberarsi e l'uomo che stringeva le bellissime forme scosse da lunghi fremiti, in preda a contorcimenti serpentini. Col viso di Porpora, le nari aperte, gli occhi sfavillanti, la baronessa era bella d'una fiera e selvaggia bellezza. Al colmo dell'indignazione, ella balbettava confuse parole. - Ah ,no!... ah, no!... è un'infarnia!... le lettere!... le lettere!... Caddero, l'una sull'altro, sopra il divano; e traendo profitto della sua momentanea superiorità, ella abbassò un braccio per prendere una delle lettere sparpagliate per terra. - Leggile!... è un'infamia!... leggile! - Costanza, soffoco!... Non voglio, ti credo.... perdono! - E con la mano rimasta libera, le strappò la lettera. Una seconda volta ella si curvò, per prenderne un'altra. - È un'infamia!... Leggile!... Come ella gli mise sotto gli occhi la busta, Andrea Ludovisi lesse: Alla baronessa Costanza di Fastalia, sue adorabili mani. Era il carattere del cavaliere di Sammartino. In quello stesso momento s'intese il cigolio dell'uscio dell'anticamera, e il cameriere entrò annunziando: - Il signor principe di Marciano.

Pagina 48

Il marito dell'amica

245109
Neera 2 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Voi a cui io la chiesi invano, orfana, abbandonata, struggendomi nel vostro amore? Ma non vi ho io amato fino al delirio, non vi ho dato i più begli anni della mia giovinezza, non ero pronta per voi a qualunque lotta? Voi solo mi respingeste. Che volete adesso? Che posso fare per voi?... Andatevene. L'ira, lo sdegno, il disprezzo fremevano nella sua voce. Emanuele avvilito mormorò: - Non mi perdonate ancora! Ella fece un gesto vivace. No, non mi avete perdonato. Ma che debbo offrirvi per placare la vostra collera? Eccomi disarmato nelle vostre mani; fate di me quello che volete... Colpitemi e sarete vendicata. - Quello che è stato è stato - disse Maria levandosi in piedi - dimentichiamo entrambi. - Null'altro? - Io vi perdono. Poi trascinata da una tenera pietà, soggiunse: - Da lungo tempo vi ho perdonato. Nelle giornate solitarie, in paese straniero, la mente ricorreva volontieri ai dolci sogni del passato. Rifacevo la vostra vita... Quando mancano tutte le gioie si tenta qualche volta la gioia crudele di rimuovere il ferro nella ferita. Io volli immaginarmi la vostra gioventù, atrofizzata da uno scetticismo precoce, rifugiarsi tutta nella idealità dei libri. Con uno sforzo del pensiero vi seguii attraverso i dedali complicati ed aridi dei vostri studi prediletti; a forza di conversare coi morti vi lasciaste sfuggire dalle dita le fila che vi univano ai viventi... eravate vecchio a trent'anni. E quando a voi si confidò il cuore ardente di una fanciulla, trasaliste di quel legger brivido dell'insetto che un bambino trapassa collo spillo, ma la ferita non fece sangue. Voi non sapeste amare. - È vero. Sono un triste scettico che non conobbe della vita altro che il lato cattivo, che non trovò in una felice serenità della mente la fede, che non seppe trarre dall'amore le sue forze maggiori: costanza e sacrificio. Ma questo disgraziato destinato a fare intorno a sé degli infelici, è egli stesso il più infelice di tutti. Se sapeste quante volte invidiai i caratteri caldi e appassionati che attirano le simpatie e che proiettano intorno tanti raggi da illuminare tutto ciò che li circonda! I poeti, gli artisti, i soldati, i martiri, tutti quelli che sorridono, che piangono, che amano, che combattono, essi sono i beniamini della natura. Noi, siamo i reietti. Ma vi è ancora peggio; quando uno dei nostri intorpidito dal lungo sonno, si sveglia, quando dopo tanti anni di tenebre e di negazione scorge improvvisamente la luce e la verità, se vuole rialzarsi, se cerca anch'egli una croce o una bandiera, allora non gli si crede. È un castigo meritato, direte, ma è molto crudele. Un leggero incarnato gli era salito alle guancie; la fiamma che prima gli brillava nelle pupille si era velata di una profonda mestizia. L'orgoglio solo gli impediva di piangere. - Se questa crudeltà esiste, essa non sta in me, ma nella forza di avvenimenti che non posso cambiare. Gli tese la mano, risoluta e calma, padrona della situazione. Egli non osò trattenerla. - Sia. Ma non troverete voi una parola di dolcezza per colui che fu il vostro primo amore? Nel cuore di Maria si combatteva una fiera battaglia; distolse gli occhi da lui: - Dite l'unico. E lo lasciò solo, nella penombra della stanza che la candela illuminava appena.

Pagina 110

Da otto anni una ciocca di capelli biondi, chiusa in un piccolo medaglione d'argento con due iniziali intrecciate non l'aveva abbandonata mai. Ma ora, credette giunto il momento di distruggere anche questo ultimo avanzo di un amore che voleva rinnegare. Maria si avvicinò al caminetto, tenendo fra l'indice e il pollice la ciocca bionda, che il tempo aveva abbrunita come fosse oro vecchio; la contemplò per pochi istanti, con tristezza, e poi la lasciò cadere in mezzo alla fiamma, che divampò subito crepitando. Un odore disgustoso, leggermente nauseabondo, si diffuse per la stanza, odore di cosa morta, che fece indietreggiare Maria, mentre i suoi occhi aridi non abbandonavano il guizzo serpentino della fiamma. Così dunque, o amore, disseccato non sei altro che una putredine - pensava - ed io ti portai otto anni sul cuore, ciocca immonda, umida dei, baci di tutte le donne ch'egli avrà conosciute prima di me!... Prima e durante; quando ella lo aspettava sitibonda d'amore alla finestra, ed egli passava le serate fuori, tornando poi pallido e tranquillo... Ella avrebbe voluto ora avventarsi su quella ciocca già distrutta, perchè il fuoco le sembrava troppo nobile fine; e rammentava, indignata, la dichiarazione di poche sere prima, una dichiarazione d'amore, adesso che era marito e padre.

Pagina 136

Il romanzo della bambola

245599
Contessa Lara 2 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • Verismo
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Un giorno la governante, avvezza com'era alle stravaganze della Marietta, perch'ella l'aveva veduta nascere, s'accostò alla pupattola abbandonata, se la prese in braccio e la ripose in un armadio, dicendo a voce alta, con un sorriso malinconico: - Tanto, prima che ti ricerchino ci sarà un pezzo! Se un lungo spillo avesse trapassato il petto della Giulia, le avrebbe fatto meno male di quelle parole. Dunque, ella non era più un oggetto di desiderio! Era inutile, finita. La Marietta, fanatica del Moro, non pensava che alle sue passeggiate a cavallo. Già era stata tre volte fino a Bellavista, una tenuta de' Rivani, fuori di porta San Sebastiano; e raccontava, rossa dal piacere, come l'ammirassero quando passava sul suo puledro cosi piccolo, con dietro il servitore montato sur un cavallo grande. Gli occhi della gente erano tutti per lei. Le faceva fare una cosi bella figura, il Moro! La povera Giulia ripensava tutto ciò nel buio dell'armadio, più nero d'una prigione, e ripensava anche ai giorni di malattia della Marietta, quando ella le avea tenuto una compagnia buona e fedele distraendola e divertendola. Più dell'esser lasciata lì sola, senza che la bimba richiedesse di lei; più ancora dell'averle tolto la luce e l'aria, l'addolorava l'ingratitudine della sua piccola amica. Questo strazio poteva perdonarglielo, ma dimenticarlo giammai! Un dopo pranzo, intese aprire l'armadio in fretta. Erano le donne, venute a prendervi della tela per fasciare una gamba alla Marietta, che il cavallino aveva buttata a terra. Se la bambola fosse stata d' animo cattivo avrebbe detto: - Ben le sta, perchè ha lasciata me per il Moro! - invece ella sofferse del brutto accidente, sperando, in cuor suo, che mentre la bambina stava in letto, avrebbe richiamata lei vicino a sè, lei che non le aveva mai fatto il più piccolo male dacchè s'erano conosciute. Ma i giorni passarono; passarono forse dei mesi, che nella vita di una bambola rappresentano tanti anni de' nostri; e nessuno venne a tirarla fuori, a consolare la sua profonda afflizione. L'oscurità, la solitudine; la solitudine, l'oscurità, non altro, in quell'armadio, dov'ella era in mezzo ai vecchi vestitini della Marietta: certi spogli destinati a darsi per elemosina. E si era addormentata d'un sonno grave, senza sogni, un sonno da cosa, non da essere che sente e pensa e gode e soffre. Così avrebbe voluto, magari, finir la sua piccola vita, cominciata troppo bene per poter andar avanti sempre allo stesso modo: perchè a questo mondo non durano di continuo nè il bene nè il male, e bisogna contentarsi, pigliando con coraggio quello che Dio ci manda. Se ne stava, dunque, immobile e triste, le braccia aperte, il corpicino coperto di polvere, quando, una notte, le parve udire un rumor leggiero, insistente, eguale, come quello d'una piccola sega che lavori. Stette in ascolto un pezzo. Non era la chiave che girava nella serratura; la chiave non fa quel rumore. O allora, che cosa poteva essere? I ladri? Ma i ladri, se per disgrazia càpitano in casa, scassinano i mobili, presto e senza dare l'allarme. I topi, dunque? I topi, Dio mio! Uno spavento terribile la invase. Aveva inteso, una volta, la signora de' Rivani dire che i topi le avevano rovinato una dozzina di lenzuoli in tela di Fiandra, de' merletti antichi di grande valore e anche altra roba. Sicchè i topi erano terribili se, affamati come sogliono essere, arrivano a buttarsi su qualcosa. Il rumore della piccola sega durò tutta la notte: tacque il giorno, perchè qualcuno, entrando in guardaroba per cavarne una cosa o un'altra, impauriva il topo, che ricominciava però subito il suo lavoro monotono, non appena il silenzio tornava a regnare in casa. Ah, se la Giulia avesse potuto chiamare, avvertire che c'era il nemico lì accosto, lì dentro; chiedere aiuto, misericordia, pregando che la si levasse da quel luogo dove aveva paura come una povera bimba in pericolo!... Ma no, no, sempre no! Non poteva da sè sola metter fuori la voce, non poteva alzar le mani e bussare, bussar disperatamente come avrebbe voluto, co' piccoli pugni stretti... Bisognava aspettare, come un pezzo di stoffa qualunque, l'ora de' patimenti più atroci, forse chi sa? l'ora della morte, s'egli era destinato ch'ella dovesse morire così, senza più rivedere il sole. Il topo si avanzò nell'ombra, sicuro di non essere disturbato da alcuno nella sua opera di distruzione; corse qua e là per l'armadio, fiutò, tornando indietro, andando avanti... Se le bambole potessero sudar freddo, la povera Giulia avrebbe avuto i bei capelli biondi tutti intrisi alle tempie, tanto era il suo terrore. Si raccomandò al cielo; ma in cielo ci sono i santi che, a volte, proteggono le bestie, perchè le amarono in vita, come sant'Antonio, san Francesco, san Benedetto, san Rocco; nessuno protegge i giocattoli, abbandonati da tutti quando li abbandonano i bambini. Nelle sue corse rapide, il sorcio le si accostò parecchie volte; poi, da bravo, forse perchè glie n'era piaciuto l'odore, si mise a rosicchiarle una scarpina, una delle sue belle scarpine di cuoio bronzato. Dati i primi morsi, staccò un pezzetto della suola sottile di pelle di guanto; e per un poco, finchè non ebbe terminato il boccone, la Giulia non sentì più scosse. Ah, fosse finito lì il suo spavento! Ma che! L'animale, fatto un foro nella scarpa, attaccò la calza di seta, che i suoi denti lunghi e puntuti ragnarono tutta. Allora principiò per l'infelice pupattola il martirio di sentirsi divorar lentamente il povero piccolo piede, senza poterlo ritirare, anzi, dovendolo abbandonare inerte, come cosa morta. Le sembrava che, insieme al piede, la bestia le dilaniasse il cuore, la testa, ogni nervo del corpicino. Perchè, perchè non veniva ora la sua Marietta a strapparla di lì, a salvarla? Nessuno! Nessuno si ricordava piú di lei, rifiutata, buttata via senza pietà, come un impiccio, come un limone spremuto. Dal buco fatto nella pelle fina del roseo pieduccio, una ferita orrenda, la segatura scorreva, e ne' sussulti impressi dal topo nel roderla, si vuotava parte della gambina; che rimase poi lì con la sua pelle floscia, cadente, quando l'animale si fu ben impinzato e volle mutar cibo. Fuori, l'inverno era finito, e la primavera, con le sue magnifiche giornate, già tiepide e odorose di fiori, invitava a lasciar la città per i semplici divertimenti all'aria aperta della bella campagna. Anche per i signori de' Rivani era prossima la partenza; e già si facevano in casa tutti i preparativi. Il Moro era stato il primo a esser nominato dalla Marietta tra le cose da portare con sé. Con lui ella avrebbe fatto chi sa quante galoppate allegre per il bosco, sotto gli alberi, dove anche a mezzogiorno c'è ombra. Si trattava di condurlo perfino ai bagni di Viareggio; per le gite lungo la spiaggia e le colazioni nella pineta, dove tutte le sue amiche e più ancòra le bambine conosciute colà l'avrebbero invidiata. Innanzi di lasciare Roma per tutti i mesi della villeggiatura, la signora de' Rivani soleva fare una distribuzione degli oggetti usati di vestiario alle sue persone di servizio e a' suoi poveri; ma prima che agli altri alla famiglia della propria sorella, signora Amalia Cerchi, mamma di Camilla: una signora che, come abbiamo detto, s'era maritata male ed era poco felice. Alla signora Amalia e a Camilla, dunque, venivano, quasi di diritto, gli oggetti migliori fra quelli scartati; e si dava loro anche roba addirittura nuova perchè non si mortificassero. Quell'anno, poi, c'era un monte di vestiti, di sottane, di mantelletti, una sfilata di cappelli, e scatole di guanti, e cassette di scarpe; più regali del solito, perchè anche il signor Giovanni aveva inzeppato il guardaroba al suo ritorno da Milano. Nella stanza degli armadi, davanti agli sportelli spalancati, stavano la signora de' Rivani con la signora Amalia e le due cuginette: la Marietta e Camilla. Nessuna persona di servizio assisteva a quella scelta, per non offendere la miseria della signora Cerchi. - Questo non lo prendo, sai - diceva la signora Amalia alla sorella, tenendo in mano un abitino di velluto - perchè per Camilla è troppo bello. - No, anzi, prendilo; l'ho messo da parte proprio per lei - insisteva la madre della Marietta.

Pagina 35

Chi sa dove era andata a finire la roba della povera Giulia, mentre la Marietta la lasciava cosi abbandonata rovinarsi in fondo a un armadio! - Non importa, non t'incomodare, zia - disse Camilla con gentilezza - io so un po' cucire, e nell'ore che non sono a scuola le farò io un vestitino con qualcosa di mio che non porto più. La Marietta, che rientrava allora in guardaroba, a corsa, dopo aver inutilmente cercato il famoso baulino, osservò che doveva esservi una bella differenza tra gli abiti che la sua pupattola aveva prima e quelli che avrebbe avuti ora: osservazione che sua madre troncò con un: - Taci! - ben meritato. Era vero; la Giulia era entrata in quella casa circondata da un lusso straordinario per una bambola; e ne usciva povera, con soltanto l'abito, ormai sgualcito, che teneva in dosso. Ma c'era entrata accolta dal capriccio, e ne usciva accompagnata dall'amore; e per un essere che ha sentimento, il cambio non era poi cattivo. Il cuore tiene luogo di molta ricchezza; Camilla non avea che il suo povero cuore di bimba diseredata da offrirle; ma la Giulia aveva sofferto abbastanza, trascinata da un mobile all'altro, rinchiusa dentro l'armadio come uno straccio in disuso, perchè non le importasse più nulla, nè di balli, nè di cene, nè di gite in carrozza, nè di case signorili. Capiva che il carattere di quella bambina era serio, che il suo cuore era buono, costante; e un benessere nuovo, un sentimento di sicurezza de' più dolci la riempivano di gioia, di serenità. Povera e felice! non si curava di tutto quanto lasciava dietro a sè di frivolo. Avrebbe fatto vita nuova... pelle nuova - almeno nel piedino straziato. Sicchè disse addio, malinconica ma senza rimpianti, alla elegante casa de' Rivani, dove aveva conosciuto la vita di chi si diverte, non quella di chi è amato davvero. La Marietta la vide andarsene senza farle una carezza, senza darle un addio, senza nè anche prenderla in braccio un'ultima volta: ormai, agli occhi suoi, la Giulia era un balocco guasto e null'altro. Nel cortile, dappiede alle scale, il Moro insellato per la passeggiata a Villa Borghese, aspettava, tenuto per la cavezza, la padroncina, sbuffando e raspando, co' segni della più viva impazienza. Girò la testa quando la signora Amalia e Camilla scesero le scale. La bambola avrebbe voluto stringersi ancòra più alla sua nuova amica; fissò gli occhi sul cavallo capriccioso come la Marietta... e se le lacrime del cuore potessero filtrare attraverso il vetro, due lacrime, forse, avrebbero rigato quel visetto di porcellana rosea, nell'ultimo distacco dalla prima persona amata.

Pagina 41

L'indomani

246171
Neera 1 occorrenze
  • 1889
  • Libreria editrice Galli
  • Milano
  • Verismo
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Abbandonata a sè stessa la sua immaginazione si smarriva. Decisa a tutto per vedere suo marito innamorato, avrebbe voluto conoscere quelle che nei libri si chiamano: le arti delle cortigiane. Anche nella storia, anche ne' suoi libri di istruzione aveva trovato esempi di quelle donne maliarde che affascinano. La morte di Oloferne, la disfatta di Cesare, non erano forse l'opera d'una donna? Recentemente aveva letto di un sultano che si innamorò di una ignobile negra addetta ai più bassi servizi del palazzo, la sposò e la fece sultana Validè, preferendola a tutte le odalische dell'harem. Non era dunque la gracilità della sue membra e il suo profilo scorretto che vietavano ad Alberto i deliri dell'amore. No certo, perchè Alberto le aveva detto tante volte, col suo accento gentile, che gli piaceva così come era, gli piaceva tutta e la trovava immensamente simpatica, co' suoi capelli castagni ondulati, la sua fronte bianca, gli occhi ridenti e la bocca seria, ciò che formava un grazioso contrasto. Ma non era ancor tutto. Il punto per lei più oscuro, più incomprensibile era che ella stessa non trovava nelle braccia di suo marito, amandolo come lo amava, la più lieve ebbrezza. E questo la persuadeva di essere una creatura imperfetta, incapace a dare ed a ricevere l'amore. I suoi scoraggiamenti avrebbero fatto pietà se Alberto li avesse osservati, se avesse potuto comprenderli, se, nella sua bontà superficiale, non si fosse appagato del malinconico sorriso di Marta e de' suoi occhi dolci che lo guardavano amorosamente. Dimagrava, è vero, e su questo fatto visibile i commenti degli amici e degli indifferenti si sbizzarrivano con le supposizioni più disparate, spesso maligne. Egli sospettava che fosse incinta, e senza cercare più in là raddoppiava i modi cortesi, sorridendo al futuro. Insieme non stavano molto; a colazione e a desinare, raramente nelle ore intermedie. Alberto. tutte le volte che usciva per i suoi affari, baciava la moglie sull'una e sull'altra guancia. Ella lo seguiva, attraverso il cortile, fino alla porta di strada; quando egli era in fondo alla via, si voltava indietro. Marta rientrava in casa momentaneamente lieta, sentendo la sua dignità di moglie e di padrona, decisa a occuparsi dei suoi doveri di massaia. Si era provveduta di un cuciniere moderno e su questo spiegava all'Appollonia una quantità di manicaretti; occupandosi ella stessa di una faccenda che interessava moltissimo Alberto, riempì la credenza di conserve, di frutta nello spirito; discese in cantina, e, aiutata da Gerolamo, vi pose un ordine nuovo; salì in soffitta, arieggiando mobili accatastati da anni ed anni, rimettendo fuori stoviglie disusate. Nell'ampio guardaroba, che la madre di Alberto aveva arricchito di ogni ben di Dio, passò giornate intere, rovistando, spiegando, ripiegando, mettendo in fila dozzine di lenzuola. Il suo istinto di donna trovava un pascolo nella casa agiata, nella vecchia casa dove le stanze erano così liete, dove tutto sorrideva nel benessere, nella pace, dove perfino la voce da ventriloquo di Gerolamo aveva intonazioni festose, ed il faccione rubicondo dell'Appollonia spiccava sulla soglia della cucina, nella sua onestà ingenua, come lo stemma della casa patriarcale. A tavola, Marta narrava tutto quello che aveva fatto nella giornata, con vivacità, con una mobilità nervosa, domandando l'approvazione di suo marito, che le veniva sempre concessa per intero. Dopo, Alberto, che era ottimo mangiatore, faceva il chilo, discorrendo dei suoi interessi, fumando in una lunga pipa che aveva appartenuto a suo padre. Erano i momenti belli di Marta, la quale stava ascoltandolo e guardandolo, tutto per sè, con una adorazione muta, sentendo il principio di quella calda intimità che aveva sempre vagheggiata, sentendo che qualche cosa di insolito si svegliava in lei, un ardore nuovo desideroso di espandersi, una attrazione che partendo da tutta la persona di Alberto la avvolgeva in un'onda dolcemente sensuale. Ma Alberto si alzava reprimendo, per convenienza, un lieve stiramento delle braccia. - Ho bisogno di muovermi - diceva. Prendeva il cappello, la canna, la baciava e andava in farmacia a raggiungere gli amici. Con le braccia inerti, svogliata, Marta passava la sera sulla stessa sedia dove aveva pranzato, prendendo spesso una tazza di camomilla che Appollonia le portava a forza, vedendola pallida, assicurandola che le avrebbe fatto bene. Dava qualche punto, leggicchiava il giornale, sbadigliava. Le ore erano lunghe, eterne. Finalmente Appollonia, dopo d'averle chiesto se le occorreva nulla, veniva a darle la buona notte. Ella udiva il rumore che facevano sul mattonato gli zoccoli della brava donna che si allontanava, ultimo frastuono della giornata; e la casa ripiombava nel silenzio. Marta aveva sonno, ma aspettava Alberto. Quando credeva prossima l'ora del ritorno, si affacciava alla finestra, tendendo l'orecchio. La luna d'agosto, rossa, brillava sul cielo senza nubi, in un aere molle, grasso di vapori, e l'afa, che mitigata dalla frescura notturna, prendeva un sembiante di carezza, le passava sul volto con l'effluvio dei prati, delle vicine campagne dormenti. Che cosa faceva Alberto laggiù? Perchè tardava tanto? L'attesa, dapprima calma e rassegnata, volgeva, col volgere delle ore, ad una inquietudine generale. Non poteva più star ferma; la finestra, la sedia, il divano, l'uscio e poi da capo la finestra, e poi più nulla. Ritta nel mezzo della stanza pareva una statua; le sue sensazioni si concentravano in un immenso, in uno sfrenato desiderio di vedere Alberto. Il tempo passava, e dall'immobilità angosciosa Marta entrava in uno stato di allucinazione sensuale. Con mano inconscia slacciava i ganci dell'abito, allentava i nastri, cedendo a una sensazione misteriosa di abbandono, con dei brividi a fior di pelle, la bocca assetata, arida, le braccia aperte disperatamente. Incapace a reggersi, piegava il capo sopra un guanciale, su una spalliera di poltrona, su tutto ciò che poteva darle l'illusione di una carezza. Perduta nelle immagini d'amore scioglieva i capelli, e, attorcigliandoseli sul volto, ne aspirava l'aroma giovanile, gemendo il proprio nome «Marta, Marta!», che la notte raccoglieva e agli echi deserti della campagna ripeteva «Marta, Marta!» Il tempo passava ancora, finchè l'eccitazione passando, la lasciava sfinita, con le membra rotte, gli occhi pesti e vacillanti. Tuttavia non andava a letto. Aspettava. Alberto la trovava quasi sempre distesa sul divano, pallida come cera, inerte. E la rimproverava; le diceva: «Dovevi coricarti, dovevi dormire.» Ella non rispondeva nulla. Barcollante terminava di svestirsi, con dei brividi nelle ossa, e si cacciava sotto le lenzuola. Ma quando suo marito avvicinandosele mormorava: «Andiamo, via....» tutto il suo corpo si irrigidiva, si gettava indietro. - Le donne - concludeva Alberto, voltandosi dall'altra parte » non si arriva mai a comprenderle. E Marta, sotto le coltri, piangeva.

Pagina 83

La ballerina (in due volumi) Volume Primo

246813
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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Perchè questa follia in lei, così povera, così meschina così abbandonata, senza risorse che le sue gambe di ballerina di cui spesso gl'impresari non volean sapere, senz'altro pane che quello guadagnato coi battements e gli entrechats che si pagano a due lire, a due lire e cinquanta la sera, quando tutto va bene, quando è San Carlo che paga? Ella camminava verso il basso della strada di Chiaia, facendo a sè stessa i più duri rimproveri per tanto orgoglio, per tanta vanità, per tanta presunzione. Che si credeva di essere? Una miserabile ballerinetta, bruttina, poco graziosa, senz'altro pregio che la gioventù, senz'altra qualità che la sua instancabilità: e osava voler portare una corona di fiori freschi ad Amina Boschetti! Ad Amina Boschetti? Ma non era stata, forse, la Boschetti, la stella più alta, più fulgida, indimenticabile, insuperabile, insuperata, del teatro San Carlo? Non era stata un'apparizione di grazia indicibile, di seduzione muliebre, una lieve forma affascinante nei suoi veli bianchi, nello scintillìo dei suoi busti tessuti di oro e di argento, come il corpo di una farfalla? E mentre camminava, così, senza meta, Carmela Minino si rammentò la figura poetica, ideale della grande Amina Boschetti nei vestiti napoletani della Muta di Portici, se la rammentava distesa per terra, con le due braccia che facevano arco alla testa, dove si ammassavano i bruni capelli, se la rammentava sorridente di quel sorriso profondo che rendeva divino quel volto dove la beltà aveva la sua sede. In quella sera Carmela Minino aveva sentito nel suo cuore di bimba, decenne, l'adorazione per quella creatura quasi sovrannaturale e aveva voluto, teneramente, baciare i due piedini alati della sua madrina. Ora, ora, come tutti i ricordi si affollavano nella sua mente, com'ella si ricordava di quell'essere bello di una bellezza strana e possente, vivente una esistenza di lusso e di piaceri, strappata ai suoi palazzi, alle sue ville, ai suoi amori in piena giovinezza, in piena beltà, Carmela Minino provava più forte, più acre il desiderio di gittare dei fiori, molti fiori, molti bei fiori e non altro, sovra una tomba simile, essa provava l'orrore della sua povertà, della sua impotenza. E tornò indietro, subito, rientrò da Lamarra coraggiosamente. - Sentite, sentite - ella disse, in fretta, emozionata, tutta pallida, toccante il braccio di Giovanni Lamarra. - Voi dovete farmi una corona di fiori freschi, per quindici lire. Costui, non rudemente, colpito dal tono fremente di quella richiesta, le rispose con familiarità: - Figliuola mia, non è possibile. - Vedete , vedete di farmela... - balbettò lei, sempre più turbata, reprimendo - i singhozzi a stento. - I fiori son cari... - osservò Lamarra, già scrollato nella, sua implacabilità di primo fioraio napoletano. - Non importa... me la fate più piccola... per quindici lire... quindici lire... - Ma ci debbo rimettere, io, forse? - gridò Lamarra, con un falso tono d'ira, ma già commosso da quella insistenza, da quel pallore, da quella voce. - Rimetteteci: fate una carità, del resto. Io non ho che quindici lire - diss'ella, a bassa voce, ebbra di umiliazione, quasi avendo chiesto la elemosina. - E va bene - disse il fioraio, subito. Tacquero. Ella teneva gli occhi bassi, si appoggiava al muro: cavò le sue quindici lire e l'occhio acuto del fioraio vide subito, in quell'esiguo portafogli, che ve ne erano solo altre tre, di lire. - Dove debbo mandarla? - disse egli. - La prendo io: la porto io stessa. - Non è fatta. - Aspetterò. Egli si allontanò, passò nell'altra stanza, ritornò. - L'avete ordinata? Come l'avete ordinata? - ella chiese, ansiosamente. - Di crisantemi bianchi. - Ah! va bene. Metteteci qualche rosa... - Rose di ogni mese, queste ci posso mettere. - Sì, sì, qualche rosa, ve ne prego. Il fioraio si allontanò di nuovo. Carmela Minino restava nella prima bottega, fra la gente che andava e veniva, in un cantuccio, paziente, fra l'umidore dell'ambiente pieno di fiori bagnati, di erba molle d'acqua, tra le fragranze molto sottili di quei fiori autunnali. Quando ritornò, Lamarra, passò vicino a Carmela per prendere un cespo di rose bianche, rose di serra, magnifico, dalla vetrina: e cominciò egli stesso ad annodarlo, sotto una grande palma verde, con sapiente cura. Questa corona serve per vostra madre? - domandò curiosamente, ma benignamente, il fioraio. - No - disse Carmela Minino - Per la mia comare. - Oh Le volevate molto bene, allora? - Sì, molto bene. Anche adesso le voglio bene. - Era vecchia quando andò in paradiso? - No, era giovane e bella. Pareva un angelo - ella mormorò, a occhi socchiusi, quasi innanzi ad una visione paradisiaca. - Che siamo noi! - disse filosoficamente il fioraio - È morta da poco? - No, da sei anni. Io ne avevo quindici - e un velo di lacrime le appannò gli occhi. - Non ci pensate - soggiunse il fioraio, seguitando ad annodare le bellissime rose bianche, sotto la palma. Ora, vi metteva intorno un nastro di amoerro bianco, dove stava scritto, a lettere di oro: «Cara Maria, aspettami - Carlo.» E Carmela Minino che tutt'osservava, disse: - Non ci si potrebbe mettere un nastro, una iscrizione, su questa mia corona? - Sì, ora ci scriviamo una lettera, sopra, coi fiori! - esclamò ironicamente Lamarra. - Almeno il nome? Il suo solo nome? - disse l'altra, congiungendo le mani, pregando. - Come si chiamava? - Si chiamava Amina Boschetti - diss'ella, più piano. - Come la ballerina, si chiamava? Come la nostra Boschetti? - - Era lei, la mia madrina - soggiunse la povera Carmela Minino, mentre due lunghe lacrime le scendevano per le gote. Egli la guardò, sorpreso assai. La giovane era così meschinamente vestita, stringeva nella mano un ombrello così vecchio, i suoi guanti neri erano così bianchi su tutte le cuciture, che il fioraio, pensando alla luminosa Dea della danza, che aveva fatto delirare di ammirazione e di amore le calde platee, quasi non le credette. - Ella mi ha fatto bene, in vita e in morte - disse Carmela, con un impetuoso accento di sincerità. - E io debbo ricordarmelo sempre. - Era una grande signora, buona, bella, generosa, rispose il fioraio. - Voi avete conosciuta, eh? - Sì - gliene ho portato fiori, sul palcoscenico, in certe serate! Ne ho guadagnato denaro, con quelli che impazzivano per lei! Ma lei se ne rideva, di tutti questi innamorati, me ne rammento. Che serate! Pareva una fata, quando ballava! - Ora è morta - soggiunse la fanciulla, con voce infranta. - Giacchè l'avete conosciuta, ve ne prego, scriveteci il nome, sopra la corona, con le rose.

La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247405
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
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Appena una di loro è abbandonata dall'amante, si sa subito: e anche le più buone ne gongolano, poichè esse stesse sono state e saranno abbandonate alla loro volta. Ella entrò in via Pignasecca, più commossa del momento in cui aveva letta e riletta l'ultima crudele missiva di Roberto Gargiulo. L'avvicinarsi alla sua casa, a tutti coloro che la conoscevano, le dava un tormento interiore che le faceva abbassare il capo sul petto. Aveva così poca fierezza ella! In piazza della Pignasecca, sulla soglia della ricca ed elegante farmacia del Caprio, il cavaliere Gabriele Scognamiglio era sulla porta, mentre un suo commesso inaffiava la via innanzi a lui. Il cavaliere stava sempre, dalle cinque alle otto, in farmacia, geloso dei suoi interessi, in fondo, sapendo bene dividere le ore dello svago da quelle del lavoro. - Oh donna Carmelina bella! - egli esclamò giocondamente - donde venite? - Dalla pruova, cavaliere - disse lei, fermandosi per cortesia. - Va presto, il Rolla, alle Varietà, cara carina? - Va sabato prossimo; fra tre giorni. - Verrò ad applaudirvi. Anzi, vi manderò dei fiori. Siete di prima fila alle Varietà? - Sì, sono guida di prima fila - mormorò ella, a occhi bassi. - Caspita, che avanzamento! - Sono teatro di estate, le Varietà: le buone ballerine mancano e allora... - No, non dite questo. Io verrò ad applaudirvi e vi manderò dei fiori. Non dirà nulla, Gargiulo? - ...No - rispose ella, dopo un momento di esitazione. Egli la guardò meglio: la squadrò, coi suoi occhietti vivi e maliziosi di uomo che capisce tutto, da una pausa, dalla velatura di una voce. - Che avete, donna Carmelina? siete malata? - No, grazie, sto benissimo, cavaliere. - Roberto Gargiulo vi ha lasciata - disse lui, crudamente. - Come lo sapete? - balbettò la poveretta, guardandolo con occhi persi. - Come se me lo avesse detto lui, Carmelina. Non poteva essere diversamente. - ...Già - sussurrò lei, a voce fioca. - Non vi disperate troppo, mia bella ragazza. - Le lagrime guastano la faccia e rovinano lo stomaco. - Io non ho pianto, cavaliere. Egli la scrutò bene: e le chiese, subito: - Dunque, non gli volevate bene? - ...No, cavaliere - rispose ella, voltandosi in - Neppure, lui, allora, ve ne voleva? - Lui, niente - ella replicò. - E allora... perchè? - Perchè?... e chi lo sa?... non si sa, il perchè. Buongiorno, cavaliere. - Ve ne andate? Restate. Ricordate che vi dissi, alla Regina d'Italia! Il vostro don Gabriele è qui, per voi. Siete una cara ragazza, io vi voglio molto bene, mi piacete assai; sono contento, in fondo, che vi siate liberata da quell'egoistaccio di Roberto. - Buongiorno, buongiorno, cavaliere - diss'ella, volendosene andare, non sopportando di udire quelle parole, ascoltandole per gentilezza e soffrendone molto. - Vi vengo a prendere questa sera. Andiamo a cena insieme? Non volete? Perchè non volete? Sono un galantuomo, sono un signore; vedrete subito la differenza con quel commesso! Non volete, siete ancora triste, eh? Andate a chiudervi in casa, un poco? Bene, bene, aspetterò, don Gabriele è un uomo paziente. Cara ragazza, non perdete tutta questa fortuna, non capita ogni giorno! E se ne rientrò in farmacia, indispettito in fondo, ma sereno nell'aspetto. La sera della prima rappresentazione del Rolla, il bel teatro estivo delle Varietà era gremito di una folla quasi simile, nella composizione, a quella che frequenta, nell'inverno, il teatro San Carlo, poichè la gente elegante napoletana lascia Napoli solo alla metà di luglio: nelle prime file di poltrone erano i soliti frequentatori del Massimo, fra cui don Gabriele Scognamiglio, e la corte che egli faceva a Carmela Minino era così evidente, i suoi bravo, Carmela! così udibili da tutta la fila, i fiori, che le aveva mandato nelle quinte, così olezzanti, che la ballerina ancora tutta triste dell'abbandono di Roberto si sentiva imbarazzata, confusa. Le compagne che l'avevano derisa per tre giorni, ora, la invidiavano, poichè, per quasi tutte loro, don Gabriele Scognamiglio rappresentava il tipo perfetto dell'amante di una ballerina, vecchio, ricco, donnaiuolo, generoso, occupato in molte ore della giornata, facile a ingannare: le sorelle Musto, scritturate anche esse, in prima fila, la tiravano in tutti gli angoli del palcoscenico, per dirle di non fare la imbecille, di non perdere questa magnifica occasione, di fare quattro giorni di buona vita, di accumulare un po' di denaro, almeno, per i tempi cattivi. E don Gabriele non era, anche, un simpaticissimo uomo, ben vestito, profumato? Carmela, stordita, confusa, crollava il capo, dicendo no, fiocamente, decisa a rifiutare, ma non sapendo farlo sgarbatamente. Così, solo per disimpegno, dichiarandoglielo, anzi, accettò di cenare, quella sera, con lui, al restaurantStarita, in Santa Lucia nova. Il restaurant Starita è collocato sulla penisoletta fra terra e mare, che è attaccata al forte Ovo: penisoletta circondata dal mare, in un piccolo porto artificiale, dove si ancorano piccoli yacht, piccoli cutters e le yoles dei due Circoli di canottieri, che sorgono dirimpetto. Colà sono delle case che furono fatte, in inizio, per albergare i marinai della vecchia strada di Santa Lucia, che è tutta in rifazione, da dieci anni; anzi, quelle poche case, a un piano, prendono il nome di Borgo Marinai. Però, veramente, marinai non ce ne sono ancora, poichè essi abitano sempre Santa Lucia vecchia, immobile sotto la lentezza della sua trasformazione: e la modicità delle pigioni di quel borgo vi ha indotto delle piccole famiglie di infima borghesia, vi ha indotto dei pittori poveri, e quasi tutti coloro che sono impiegati, in estate, al grande stabilimento di bagni Eldorado, con relativo cafè-chantant. La banchina di terrapieno, colà, fa un gomito lungo e sui due lati di questo gomito sono sorte tre o quattro trattorie, in piena aria, con le loro tavole imbandite sotto le tende, dietro alcune leggiere balaustre di legno dipinto, coi lumi che si riflettono nel mare, che è a un paio di metri di distanza. Ivi, di estate, con la vicinanza dell'Eldorado, delle Varietà, vi sono sempre persone che pranzano, che cenano, prima dello spettacolo e dopo lo spettacolo: alle famiglie borghesi si mescolano delle coppie d'innamorati; delle chanteuses, delle ballerine, delle equilibriste, delle mime, vi appaiono, in lieta compagnia. Due o tre di quelle trattorie sono più modeste, più volgari e vi va gente minuta: il restaurant Starita ne rappresenta l'aristocrazia. Si sta sul mare, al fresco, di sera: sotto le chiglie dei yacht, dei cutters ammassati si vede scintillare l'acqua bruna del piccolo porto, chiuso dalla scogliera; sulla via del Chiatamone brillano i lumi dei grandi alberghi Royal e Vésuve, passano equipaggi continuamente: alle spalle, il forte Ovo dirizza la sua singolar linea di castello tragico. Si mangiano delle zuppe di pesce, delle fritture di pesce, come al lontano Posillipo che tutti trascurano, oramai, poichè ci vogliono tre quarti d'ora per arrivarvi, e Santa Lucia nova è nel centro della città; si paga molto caro, ma è così bello, sul mare, nelle sere di estate, a un passo dal centro, sotto gli occhi di tutti gli uomini chic, scapoli specialmente, o mariti le cui mogli sono già partite per la villeggiatura, guardando tutte le bellezze vere o artifiziose che si agitano nel mondo del piacere, in estate, a Napoli! In verità, quella sera, don Gabriele Scognamiglio ebbe un tatto squisito per non impaurire Carmela Minino. Gli bastava, infine, a lui, per cominciare, che la ragazza avesse accettato di venire a cena con lui, al restaurant Starita, in un posto dove tutti quanti li avrebbero visti; non voleva altro, per allora. Egli non era innamorato di Carmela, giacchè, alla sua età, egli lo dichiarava, non si sentiva tanto stupido da innamorarsi di una donna qualsiasi, più giovane o meno giovane: forse, in tutta la sua vita, non era stato innamorato mai, sentendo, nel suo egoismo, che un tale sentimento, in tutta la sua esplicazione e in tutta la sua forza, avrebbe turbato la sua linea di condotta, dedita solo alla gioia. La ragazza gli piaceva, da più tempo, malgrado che non fosse nè bella, nè aggraziata, nè elegante: era giovine, era nuova, diceva lui, non aveva tutte le perfidie e le perversità di chi ha già troppo precocemente vissuto, e ciò gli bastava, a don Gabriele Scognamiglio. Non era una gran conquista, tanto più che vi era stato un altro prima di lui: ma, a circa sessant'anni, il gaudente farmacista sapeva contentarsi, e, quasi, quasi era contento di poter succedere a Roberto Gargiulo, senza preoccupazioni, senza rimorsi. Carmela Minino glielo aveva preferito: era troppo filosofo per seccarsi, quando le donne gli preferivano un giovane. E ora raccoglieva quella povera anima afflitta e abbandonata, la trattava con gentilezza, non le parlava d'amore, sapendo bene il modo come vanno prese le donne, esseri capricciosi, malati e incomprensibili: non incomprensibili a chi, da quarant'anni, non si occupava che di loro. Le camminava accanto, per la via del Chiatamone, senza darle il braccio, cercando di farla ridere con le sue barzellette, raccontandole qualche aneddoto spiritoso, narrandole qualche avventura di viaggio. Don Gabriele Scognamiglio presiedeva ai suoi affari, in farmacia, per dieci mesi dell'anno: ma due mesi, in primavera o in autunno, li consacrava ai viaggi all'estero, dove vi era grande vita e belle donne, o donne, senz'altro, ma donne diverse, donne varie. Più spesso andava a Parigi, anzi, malgrado la sua professione, malgrado i contatti delle sue giornate di lavoro e delle sue notti napoletane, era un parlatore di francese perfetto. Nel discorso, quando furono nella viottola che porta al forte Ovo, egli disse: - Carmelina, vi voglio portare a Parigi. Ella abbozzò un assai smorto sorriso. Sapeva che don Gabriele le diceva quello per solo atto di galanteria: ed ella, per buona educazione, non lo interrompeva. Malgrado fosse tardi, il restaurant Starita era pieno: i suoi lumi piovevano luce su tavole dove cenavano i Napoletani, a gruppi di tre, di quattro, di cinque, con un affaccendarsi di camerieri, che non bastavano alle richieste. - Vi piace, qui, Carmelina? - Sì, è bello - ella disse, guardando la città, il mare e il Vesuvio, macchinalmente. Trovarono un tavolino piccolo, per due, accanto a una tavola imbandita per otto persone, coperta di piattini di antipasto, da trionfi di frutta e da due mazzi di fiori, ma vuota. Era fissata la grande tavola, per una cena, dalla mattina. I commensali sarebbero arrivati fra un quarto d'ora: e il cameriere, che don Gabriele interrogava, sempre curioso, ne nominò qualcuno. - Il conte di Sanframondi, don Ferdinando Terzi, il conte Althan... - Tutti amici, tutte conoscenze... - approvava il farmacista gaudente, felice - di esser vicino a quella cena. Carmela Minino lo guardò con certi occhi supplici e smarriti; ora provava un imperioso bisogno di andarsene: ma non aveva il coraggio di dirlo al suo compagno. Fuggire, dove? Che avrebbe pensato, don Gabriele Scognamiglio? Che ella era una malcreata, una pazza. Come dirgli? Che cosa dirgli? E perchè fuggire? Là, o in altro posto, non era la medesima cosa? Trangugiando delle rade lacrime ardenti, che le erano salite agli occhi, ella restò al suo posto, sulle spine, rispondendo come meglio poteva a don Gabriele Scognamiglio, che le chiedeva che volesse da cena, tutta rigida nel suo vestitino di seta bianco e nero, il solo buono che possedesse, un po' terrea sotto un cappellino di velo celeste che la modista le aveva voluto fare assolutamente e che le stava abbastanza male. Così vicina, quell'altra tavola! E, infatti, dopo poco tempo, con un gran rumore di voci, di risate femminili giunsero le quattro coppie, Emilia Tromba, Concetta Giura, la chanteuse spagnuola Mariquita che cantava e ballava all'Eldorado, la mima Alina Bell che agiva nel ballo Rolla alle Varietà. Si sedettero, con gran fracasso di sedie, accanto ai quattro gentiluomini che le accompagnavano in silenzio. Carmela Minino non vedeva Concetta Giura ed Emilia Tromba dalla primavera, dalla fine della stagione di San Carlo: le due ballerine si davano il lusso di non ballare in estate. E malgrado si dicesse che Sanframondi non ne poteva più di Concetta, che Ferdinando Terzi tenesse Emilia Tromba solo per rimedio, oramai, ai sospetti di un marito geloso, i due continuavano a portare in giro le loro amanti, a pagar loro da cena. Ferdinando Terzi, nel sedersi, capitò dirimpetto a Carmela Minino. Nulla era mutato in lui: con una bottoniera di garofani bianchi allo smoking, egli era sempre il bel gentiluomo dai fini mustacchi biondi, rialzati mollemente sopra una bocca rossa e sensuale, che non sorrideva mai, dal profilo nobilissimo ma così rigorosamente aquilino che pareva tagliato col coltello, dagli occhi azzurro pallidi, freddissimi, altieri, glaciali. Per un istante li fissò sovra Carmela. Poi si curvò ad Emilia, facendole in due parole, una domanda. Carmela comprese subito che s'informava di lei, di quel posto e di quella compagnia in cui ella si trovava: e comprese anche, che, ridendo, in poche parole, Emilia Tromba gli narrava la sua caduta. Guardava Carmela intensamente e dal modo sprezzante delle labbra di Ferdinando Terzi, ella intese, sentì magicamente le due parole: - Che sciocca! Carmela guardò, nell'ombra, la città, il mare, la montagna ardente, senza vederli: e pensò che tutto, tutto era inutile.

Pagina 66

Una peccatrice

249927
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
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Giammai la donna amante avea sussultato di tale amore fra le braccia dell'uomo amato; giammai la sirena si era abbandonata più molle, più languente; giammai la maliarda avea avuto sguardo più inebbriante da fare oscillare convulsivamente le più intime fibre del cuore di lui. Sembrava che qualche cosa di più che mortale eccitasse in lei tutte le più squisite risorse, le ispirazioni più ardenti della donna affascinante, della donna ebbra anch'essa di questa voluttà che ispirava e che cercava, per formarne un fascino irresistibile, divorante. L'occhio di Pietro era raggiante; la sua parola interrotta a scosse come per delirio; le sue membra tremanti di sovrumano diletto. Egli suggeva avidamente coi baci per la fronte, pei capelli, per le labbra, per gli occhi, pel collo quelle emanazioni acri e violente di una voluttà insaziabile, che eccitava il godimento sino al delirio... - Oh! Narcisa! Narcisa! - esclamava egli come un pazzo, - Narcisa di Napoli... di Catania!... t'ho trovata alfine! sì, t'ho trovata!!... Tutt'a un tratto quel corpo affascinante di mille seduzioni ebbe un fremito che non seppe reprimere, e quasi una dolorosa contrazione. Pietro l'abbracciò più strettamente, come ebbro... poichè lo scambiò per un fremito di piacere... - Che io ti vegga, Narcisa! - esclamò egli colle mani giunte, inginocchiandosi sul tappeto, come se avesse voluto adorarla: - oh! ch'io possa vederti!... Perchè nel tempo istesso che io provo questo godimento supremo, che mi comunica il tuo corpo da fata fra le mie braccia, non posso analizzarti col mio sguardo, ed assorbire quell'altra ebbrezza sublime di divorare le tue bellezze?.... Egli si tacque, sorpreso, allarmato del pallore ch copriva i delicati lineamenti di lei, che tradivano qualche lievissima contrazione spasmodica: e che cominciavano a bagnarsi di fredde stille di sudore a fior di pelle alla radice dei capelli. Narcisa, come per nascondergli quel tristo spettacolo inebbriandolo fra le sue carezze, lo attirò fra le sue braccia, baciandolo del suo bacio languido e divorante nella sua molle seduzione; e posò il suo viso sul volto di lui, mischiando i ricci dei suoi capelli ai suoi... - Che hai, Narcisa? - le gridò Pietro spaventato dal freddo sudore di cui gli inumidiva il volto il contatto di lei. - Oh, nulla!... la felicità!... è la gioia suprema che provo... che sembra farmi svenire... Oh! come son felice!... Dio mio! come son felice!... Mentre quella testolina ricciuta si posava sulla sua, Pietro la sentì farsi più pesante sulla sua spalla. - Narcisa!... - Oh qual felicità, Pietro!... Mi pare di aver sonno... di dover sognare questi squisiti diletti... Avevo tanto sofferto!...Adagiami sul canapè... e suonami qualche cosa sul pianoforte... Provo delle sfumature sì care... dei sogni incerti sì belli!... Oh, Pietro, se li provassi anche tu!... Mi pare di dover godere di più con quei suoni tratti da te... La sua pupilla era prodigiosamente dilatata; ma lo fissava ancora coi raggi più vivi del suo sguardo. Pietro s'inginocchiò ai suoi piedi; ella ebbe il coraggio di cambiare in un sorriso la contrazione di spasimo dei suoi labbri. - Suonami il valtzer... il Bacio... fammi contenta... Pietro esitava. - Ma che hai? Dio mio! sei pallida da far paura... - È nulla, ti dico... è l'eccesso della gioia, della felicità... Son tanto felice, mio Pietro!... Fammi questo piacere, suona quel valtzer... che mi domandavi sempre... - E giunse le mani con atto infantile di preghiera. Pietro cominciò ad eseguire quella musica che faceva la più strana impressione in mezzo al silenzio della notte (nella mestizia che, suo malgrado, cominciava ad offuscarlo) ascoltata da quella donna coricata sul divano, che giungeva le mani; della quale i tratti, sussultanti di quando in quando, sembravano assorbirne le vibrazioni come delle care reminiscenze; della quale gli occhi si dilatavano colla pupilla di una spaventevole fissazione; della quale infine le labbra si aprivano anelanti come a bever l'onda di quell'armonia, in mezzo alle contrazioni spasmodiche che non poteva dissimulare; nel silenzio quasi lugubre di quel salotto che cominciava ad esser rotto dall'anelito affannoso e soffocato della respirazione di lei. Ella si era alzata lentamente, come attratta da quel suono; cogli occhi come affascinati da immagini che ella sola poteva vedere... E si era strascinata barcollante, stendendo le mani tentoni, come se non vedesse più, verso il punto dove risuonavano quelle note festanti. Ella vi giunse, anelante di fatica e di piacere, e si aggrappò alla spalla di Pietro per non cadere, gridando con accento indescrivibile. - Oh! Pietro! Pietro!... dove sei?!... E cadde inginocchiata: Le sue pupille azzurre, chiare, quasi fosforescenti, si fissavano in volto a lui, senza sguardo, come cercandolo; e allorquando sembrò ch'ella non potesse rompere quel velo che le annebbiava la vista, che le impediva di pascersi nelle sembianze di lui, i sui lineamenti, che cominciavano e contrarsi, espressero l'angoscia... un terrore nuovo, incomprensibile. - Oh, Dio! Dio mio! singhiozzò agitando Ie labbra convulsivamente, come se stentasse a trarre quei suoni dalla sua gola arida e ad articolarli colle sue labbra tremanti: - Oh! Dio!... sì prestò! sì presto!... E quando incontrò gli abiti del giovane le sue mani increspate cercarono brancolando le mani di lui, che strinsero avidamente, con tenace ostinazione, quasi temessero di lasciarsele sfuggire. La pelle del suo viso si era fatta arida, e le vene cominciavano ad iniettarsi di sangue. Pietro, stordito, spaventato, afferrò il cordone del campanello. - È giunto il signor Angiolini - disse un domestico sulla soglia. - Presto! presto! che corra .. soccorso! Ella muore! - gridò Pietro. Sollevò quel bel corpo, fattosi di un'inerte pesantezza, fra le sue braccia; stringendovela con una furibonda tenerezza; e lo coricò sul divano. In tutto quel tempo le mani convulse di lei cercavano ancora le sue; e quando le trovarono fecero atto di recarsele alle labbra, fissandolo sempre di quella pupilla cerulea, dilatata, senza sguardo. Si udirono dei passi precipitati, e comparve Raimondo, che veniva a prendere Brusio per condurlo da sua madre, come Narcisa ne avea avuto sentore. Con un solo sguardo egli vide di che si trattava, e senza perder tempo in domande inutili, corse a lei, distesa sul divano, e le prese il polso. Le pulsazioni erano deboli, lente, mancanti; osservò la pelle arida, picchettata in alcuni punti delle braccia di bollicine incolori; il volto acceso e che cominciava a farsi livido; gli occhi fissi, che operavano uno sforzo prodigioso per non cedere alla pesantezza delle palpebre, onde fissarsi ancora su di Pietro, quantunque non lo vedessero più. Toccò vivamente la regione epigastrica che tradì uno spasimo acuto. - Hai in casa dell'emetico? - domandò vivamente Raimondo al suo amico, rizzandosi con la pronta decisione che dà l'intuizione al medico di genio, e che lo fa sollevare e dominare in tali momenti. - Oh no!... Dio mio!... - Un momento! Avrete almeno questo; - e spezzò il cordone del campanello, strappandolo con violenza. - Recate un bicchiere d'acqua e del sapone, e preparate due tazze di caffè molto carico e senza zucchero; subito! - ordinò al cameriere che comparve. - Bisogna che tu passi nell'altra stanza; - soggiunse quindi rivolto a Brusio che sembrava di sasso. Narcisa, che udì forse e comprese quelle parole, strinse più vivamente le mani del giovane, quasi volesse attaccarsi a lui. - No! no! - singhiozzò Pietro cadendo inginocchiato dinanzi al canapè; no! io non la lascerò un minuto... Io sarò forte, Raimondo! Il medico si strinse con impazienza nelle spalle e tentò di far bere a Narcisa il bicchier d'acqua che gli avevano recato ove avea sciolto del sapone. Ella ne inghiottì avidamente due o tre sorsi, afferrando il bicchiere come se avesse voluto aggrapparsi alla vita che sentiva sfuggirle; provò qualche movimento di vomito, che rimase senza effetto; e ricadde pesantemente sul canapè mormorando: - Oh! la vista!... Dio mio! la vista!... vederlo almeno!... E due lagrime luccicarono sulla sua orbita. I suoi lineamenti erano orribili di questa lotta penosa che cercava vincere e dissimulare con isforzi sovrumani. Raimondo, che aveva preso la testa di lei fra le sue braccia, un minuto dopo la lasciò ricadere sul cuscino, resa di una cadaverica pesantezza; e rimase muto, disanimato. Poco dopo mormorò, come parlando a se stesso: - È l'oppio in forti dosi... Ora il delirio... dopo la coma... - Che sete! Dio mio, che sete! - mormorava Narcisa colla voce secca, stentando a disnodare la lingua, legata da una spaventevole aridità; - acqua! per pietà, Pietro!... acqua!... Raimondo le fece inghiottire quasi tre tazze di caffè amaro. - Che fare? Dio!... che fare? - gridava Pietro implorando, con l'accento del cuore, da Raimondo quell'aiuto che questi non poteva dargli mentre aveva chinato la testa sul petto, come se avesse voluto dire: troppo tardi! La fisonomia di Narcisa si animava come se contemplasse deliziose visioni che il suo occhio sbarrato e fisso poteva vedere soltanto. Ella mormorava frasi interrotte, appena sensibili, in cui spesso le sue labbra si agitavano come per sorridere. Una o due volte sembrò riscuotersi bruscamente, con un senso penoso... e allora i suoi tratti esprimevano un immenso affanno... in cui ella mormorava: - Oh, Pietro!... il valtzer!... il valtzer!... Pietro che aveva soltanto la forza di bagnare di pianto le sue mani che si teneva alle labbra, gridò singhiozzando: - Ma salvala, Raimondo!... fratello mio!... Non vedi che muore!... Bisogna che ella non muoia!... Non voglio che ella muoia!... Tutt'a un tratto Raimondo corse al pianoforte, come cedendo ad un'ultima e subitanea ispirazione; lo strascinò sulle sue carrucole sino al canapè dov'era sdraiata l'agonizzante; sollevò questa fra le sue braccia, perchè le braccia di lei potessero ancora circondare il collo di Pietro che non volevano abbandonare; e disse a Brusio che sembrava istupidito: - Non c'è più che un miracolo che possa prevenire la coma, che possa salvarla: bisogna prolungare questo delirio per dare il tempo di operare all'infuso di caffè... Suonale quello che vuole... Ci son dei casi in cui la scienza bisogna che ricorra all'arte o al caso. Pietro cominciò a suonare quel valtzer allegro e brillante, di cui le note acquistavano la più triste inflessione sotto i suoi diti increspati e tremanti, e che strillavano sinistramente in mezzo al funereo silenzio di quella stanza. Due o tre volte le labbra di Narcisa sorrisero; i suoi lineamenti perdettero la loro rigida alterazione per esprimere il piacere più intenso che quel suono certamente le procurava o che determinava i sogni deliziosi del suo delirio... Ella stringeva più fortemente, sebbene con moto convulso, quella testa che abbracciava; e qualche volta i suoi labbri si agitarono come per baciare; e il sui capo si avanzava tentoni come se avesse voluto incontrare quello di lui;... e la sua pupilla appannata, vitrea, fissa, ebbe un lampo, un raggio di uno sguardo in cui balenava tutto l'ineffabile amore che l'agonia non poteva assopire in quel cuore. - Oh! Pietro! Pietro!... ti vedo!! - gridò esultante; con un accento indescrivibile che avea più dell'urlo dello spasimo che del trasporto della gioia; - m'ami?!... m'ami tu?!!!... E si rovesciò assieme a lui sul canapè vincendo, con uno sforzo disperato, miracoloso, la difficoltà di proferire, il torpore della mente, l'inerzia delle forze, l'agonia insomma. - Pietro m'ami ancora?! - Sì! sì! t'adoro!...- singhiozzò egli tentando inumidire l'aridità di quella pelle coll'umido dei suoi labbri, di scacciare il torpore di quelle membra, la pesantezza di quelle palpebre coll'impeto dei suoi baci; cercando trasfondere la vita che sentiva rigogliosa, giovane, potente in lui, nel soffio che alitava fra le labbra di lei violacee, semiaperte e convulse. - E non me lo dici perchè hai pietà di me?... e non me lo dici perchè io muoio?!... - seguitò ella aggrappandosi al suo collo, nelle convulsioni dell'agonia, con quel moto incerto e straziante del volto e delle labbra che cercavano il volto di lui per baciarlo. - Oh, no!... non ti ho mai amato come t'amo!... Narcisa!... Narcisa!... non mi abbandonare!... - Grazie!... grazie!... - mormorò la moribonda con un anelito interrotto che la stentata respirazione soffocava nella sua gola; - grazie!... oh! la vita!..., dottore, fatemi vivere... egli mi ama!!... io non voglio morire!!! - finì con accento straziante. E non potè più proferire, quantunque agitasse ancora penosamente le labbra, e alcuni suoni rochi e interrotti scappassero dalla sua gola arida. Ella rimase come profondamente assopita; riscossa di tratto in tratto da sussulti convulsivi: rivelando mille impressioni, ora deliziose ora tristi, nella mutabile espressione dei suoi lineamenti, in cui l'occhio soltanto, colla sua larga e lucida fissazione faceva prevedere la morte. Era orribile a vedersi la rapida decomposizione di quella fisonomia. Finalmente sopraggiunse il sonno. Pietro rimaneva, com'ella l'aveva attirato rovesciandolo nella sua caduta, ancora avvinchiato a quel corpo per tre quarti cadavere, e che aveva tuttavia i suoi ultimi moti convulsivi, gli estremi sforzi dei suoi rantoli, la disperata tensione della pupilla per lui; egli era come affascinato da quell'orribile spettacolo che impietrava le lagrime nel suo occhio ardente e dilatato quasi al pari di quello di lei. - Ma parti, disgraziato! - gli gridò Raimondo tentando strapparlo a quell'amplesso di morte; - non vedi che ciò ti uccide!... Pietro non rispose, e abbracciò più strettamente quel corpo inerte; in cui gli parve sentire un ultimo sussulto al suo abbraccio; mentre le mani gli parvero lo stringessero più tenacemente, come per ringraziarlo e non lasciarlo. Quell'agonia fu lunga, penosa, orrenda. A pena il medico, colla mano sul petto di lei a numerare i battiti del cuore, potè discernere il punto in cui il sonno del veleno si mischiò al sonno della morte. Pietro rimase istupidito come un pazzo; per un mese intiero. Il secondo rivide sua madre; poi gli amici. Un anno dopo ricomparve in società... Chi sa quante volte al giorno pensa a quest'ora a Narcisa, la donna ch'è morta d'amore per lui?!... Le splendide promesse del suo ingegno, che l'amore di un giorno aveva elevato sino al genio nella sua anima fervente, erano cadute con quest'amore istesso. Pietro Brusio è meno di una mediocrità, che strascina la vita nel suo paese natale rimando qualche sterile verso per gli onomastici dei suoi parenti, e dissipando il più allegramente possibile lo scarso suo patrimonio. Misteri del cuore!

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