Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonata

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LE ULTIME FIABE

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Pareva che la bottega fosse stata abbandonata da anni. Il banco, i tavolini, le panche, le seggiole erano coperte di polvere; dai muri e dal tetto pendevano larghi ragnateli, come se là non ci fosse mai stata anima viva: - Padrona! Gobbina! - Nessuna risposta. - Mangia-a-ufo! - chiamò uno, per chiasso. E si sentì un vocione lontano lontano: - Se c'è qualcuno che vuol rotto il muso! Tutti si allontanarono di corsa, compiangendo la mamma e la gobbina. - Sarà accaduto a loro come a noi. Avranno trovato peggio che gusci di chioccioline! ... - Mangia-a-ufo dev'essere un Orco! - Mangia-a-ufo dev'essere uno Stregone! - Com'era bella senza gobba la gobbinal - Dove sarà a quest'ora la gobbina senza gobba? - E la padrona che ci preparava quella buona minestra? Poi, a poco a poco, non ne parlarono più. Un giorno, però - non si seppe mai come - si sparse la notizia che la ragazza era diventata chi diceva Principessa, chi diceva Regina, e che abitava un castello in cima a un colle circondato da giardini. Nessuno voleva andarci. Soltanto un giovanotto - quello che aveva detto: - Dobbiamo unirci Niente con Nulla? - volle andare ad accertarsi se era vero. Si mise in cammino, domandando a questo e a quello: - Dov'è il castello della gobbina e di Mangia-a-ufo? La gente gli rideva in viso, prendendolo per scemo. Una sera, stanco morto dal gran cammino, si buttò a giacere su l'erba di un prato e si addormentò. Quando si svegliò col sole alto, non sapeva se era stato davvero nel castello della gobbina e di Mangia-a-ufo, o se aveva sognato. Ed ora gli pareva che la ragazza e Mangia-a-ufo lo avessero accolto in quelle stanze tutte a specchi con cornici d'oro, lo avessero fatto sedere su seggiole d'oro, lo avessero invitato a desinare in piatti d'oro, cose che avevano l'apparenza della minestra di una volta, ma di un odore, di un sapore, che se li sentiva ancora nelle narici e nella bocca; ed ora, invece, non era ben sicuro che tutto ciò non fosse stato l'inganno di un sogno! ... Con questo dubbio, si rimise in cammino, domandando a chi incontrava: - Dov'è il castello della gobbina e di Mangia-a-ufo? La gente gli rideva in viso, prendendolo per scemo. Scoraggiato, deluso, tornò addietro. Vedendolo, tutti gli domandavano: - L'hai dunque trovato il castello della gobbina e di Mangia-a-ufo? Il giovanotto raccontava il suo sogno come cosa vera; e fu tutto quel che si seppe di quei due. Mangia-a-ufo, Mangia-a-ufo? State zitti, o vi rompe il muso!

EH!La vita...(Novelle)

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Capuana, Luigi 3 occorrenze
  • 1913
  • Tipografia agraria
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Aveva abbandonato, l'avevano abbandonata, brutalmente. Con certe dorme noi non ci crediamo obbligati neppure ad essere persone educate, non dico indulgenti. La colpa era stata un po' sua; molto di altri che l'avevano stimata cosa, non creatura umana. Così la perversione si era insinuata nel suo cuore, nel suo carattere. Credevo di essere arrivato a scancellarne ogni traccia. Eh, sì! La donna è un abisso senza fondo. " Non ne potevo più. Il sospetto finalmente era diventato certezza! Eppure osavo ancora di lusingarmi. "Ho pensato sempre che la donna che tradisce è un rettile sozzo - anche l'uomo, s'intende; non voglio accordarmi privilegi. Bisogna schiacciarli col piede. Ma quando si ama! Il terribile è appunto questo: quando si ama!... " Lidia doveva credersi sicura di non poter essere non che scoperta, sospettata. Era allegra; canticchiava, diceva cose buffe delle quali rideva anche prima di metterle fuori; non si accorgeva del mutamento avvenuto in me, da qualche giorno. Che significava? Che non glie ne importava niente. "Ieri le dissi a bruciapelo: " - Tu mi tradisci! " - Ti tradisco? - rispose. - Faccio quel che mi pare. Non sono una schiava. " E siccome io le sbarravo gli occhi in viso, quasi atterrito di tanta spudoratezza, soggiunse: " - Perché sono la tua amante? Anche tu hai goduto di avermi indotta a tradire un altro. Vuol dire che è lecito, che è permesso. Non fare il ragazzo. " - Lidia! - le gridai. - Lidia! " Riprese a canticchiare, come se il mio grido di suprema angoscia non le fosse penetrato negli orecchi, non fosse arrivato al suo cuore! "Il momento era quello: un lampo mi aveva attraversata la mente e fatto fremere da capo a piedi; le mie dita si erano contratte come artigli che si apprestavano ad afferrare, a stringere, a dilaniare... Non avrei dovuto lasciar trascorrere quel momento di bestiale ferocia; e a quest'ora!.... Si vede che, fin nelle più grandi crisi della nostra intelligenza, veglia, potentissimo, l'istinto della personale conservazione. Mi vidi arrestato, condannato.... ". - Qui ci sono otto righi scancellati in maniera da non potersi affatto leggere. - Non importa; prosegui - disse Borelli. Insomma, l'ha ammazzata? Non l'ha ammazzata? - Ho letto soltanto fino a questa quinta cartella. Ha mutato penna e inchiostro. Qui si parla dei preparativi; mette i brividi addosso per la freddezza con cui scrive: " No; deve accorgersi che sconta una colpa; deve vedersi morire e sapere perché. Desdemona, avete detto le vostre orazioni? Lidia forse non ha pregato mai. Forse nessuno le ha mai fatto comprendere che si possa, che si debba pregare. Meglio così. Non ci saranno indugi. La giovinezza? Ci son donne invecchiate senza aver mai provato nè goduto la più piccola parte di quel che ha goduto e provato costei; donne oneste, donne buone che invece hanno sofferto, hanno pianto... Lidia, avete detto le vostre orazioni? Le parrà una parodia, e sarà una tragica verità. Perché queste parole dello Shakespeare mi tornano insistentemente alla memoria? Non morrà soffocata come Desdemona, tra due guanciali; sarebbe troppo onore per lei far la fine della buona moglie del Moro di Venezia... Morrà annegata, precipitata tra gli scogli... Ho visitato questa mattina la località.... ". " Signor Procuratore del Re... ". - Ecco disse Coraldi. - Arrivato fin qui non ho avuto coraggio di andare avanti, anche perché ieri sera ho letto nel giornale il rinvenimento del cadavere di una bella giovane annegata non si sa ancora se per suicidio o per delitto. . - La povera Lidia?.... Leggi, leggi! - fece Borelli. : Coraldi aperse la penultima cartella, scritta su mezzo foglio di carta protocollo. Gli tremavano le mani nel tenerla spiegata: "Signor Procuratore del Re. Giustizia è stata fatta! - come si diceva una volta. " - Che bel chiaro di luna! - ella esclamò. " - È l'ultimo che tu vedi! " - Perché l'ultimo? " - Perché devi morire! Non tradirai più nessun altro!... " Eravamo in cima agli scogli: la spiaggia era deserta. Il mare un po' agitato, pareva assalisse gli scogli con ondate di spuma. " Dalla cupezza della mia voce, dal mio viso sconvolto, ella ha capito che non si trattava di una stupida finzione. " Si è afferrata al mio braccio, ha tentato di tornare indietro, di sfuggirmi.... Una vigorosa spinta... Stetti a guardarla, quasi non fosse la creatura che ho più amata in vita mia: mi pareva di assistere ad uno spettacolo, a una finzione d'arte. Le ondate la sballottavano, l'avvolgevano, la sopraffacevano. Due o tre volte mi chiamò per nome; poi si abbandonò, affondò lentamente, non ricomparve più!... Giustizia era stata fatta! "Era bruna di capelli, ma aveva voluto ridursi bionda... Il sale marino forse corroderà la tintura; l'avverto di questo, signor Procuratore del Re, pel riconoscimento del cadavere, se mai dovesse accadere! ". Coradi era così commosso da non aver coraggio di continuare la lettura. - E il cadavere trovato è di una bionda? - No; di una bruna - rispose Coraldi. - Ma costui è pazzo! - esclamò Borelli. - Ragiona troppo freddamente. C'è la sua firma in fondo? - No. - Finisci di leggere. Coraldi prese in mano l'ultima cartella, mezzo foglietto di carta da lettera: " Signor Procuratore del Re Re"Le ho descritto l'annegamento... come, secondo il mio progetto, avrebbe dovuto accadere. Per fortuna mia, della sciagurata, e un po' anche di lei, magistrato, che così non avrà noie per cagion mia, durante la nottata ho lungamente riflettuto. Mi son detto: - Non ti basta di sentirla morta nel tuo cuore? Dovrebbe bastarti! " Mi sembra di essere diventato un altro, un uomo, mi sembra.... Sono quarantotto ore che non prendo cibo.... Vado alla trattoria...". - L'ha fatta finire così? Brava, Lidia! Non ti meritava! Borelli era indignato. Coraldi non rinveniva dallo stupore. - Atterrito tanto! Conciato dalla pioggia! - pensava con rabbia. - E se ne va alla trattoria! Non sapeva darsene pace!

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E restò là a guardare il Crocifisso tutto piagato, tutto insanguinato, con la testa coronata di spine abbandonata su la spalla destra, quasi attendesse da esso una parola, un cenno di risposta, che lo assicurasse: Ci penserò io! Si riscosse tutt'a un tratto, maravigliato di non essersi accorto che la messa era terminata e che il sagrestano aveva già spento i ceri dell'altare. Ah! fu certo un' ispirazione di Gesù crocifisso quella che lo spinse ad entrare nella stalla dalla porta interna. Dié un urlo alla vista, del nipote che penzolava dalla corda legata a una trave, dando gli ultimi tratti agitando le gambe e le braccia. Montare su lo sgabello rovesciato per terra, cavar dì tasca il coltello, tagliar la fune e cascar giù assieme col disgraziato fu l'affar di un momento. - Chi mi dié la forza di liberarmi del suo peso - raccontava Sanguedolce, poco dopo, alla gente accorsa ai suoi gridi - e di slegargli il nodo della corda attorno al collo? Non osava di rimproverare il nipote che, steso sul letto, respirava ancora affannosamente. Poi, quando lo vide in piedi, con le lagrime agli occhi pel dispetto di essere stato salvato, gli disse soltanto: - Non dubitare. Vado ora stesso da Lagnu- Lagnu-sazzu e torno sùbito con la risposta. E andò difilato, quasi di corsa. - È vero? - gli domandò Lagnusazzu. Lagnusazzu.- Verissimo. Voi.... che ne dite? Gli tremava la voce, aveva gli occhi smarriti. - Per me.... - Acconsentite dunque?... Con la coscienza tranquilla? - Se Tana dice di sì.... - Lo sapete bene che dice di sì!... Parlo per voi.... - Io?... Li benedico con tutte e due le mani. E anche sua matrigna.... E se volete far presto, tanto piacere. - Dice che siete voi che non volete - intervenne la seconda moglie di Lagnusazzu. Lagnusazzu.- Giacché vostro marito... ha la coscienza tranquilla.... - Ma che discorso è questo? - fece Lagnu- Lagnu-sazzu - spiegatevi.... - Niente. Lo avete visto: è mancato poco che mio nipote non si ammazzasse. Vuol dire.... che c'è la volontà di Dio! E portò la lieta risposta. Da quel giorno in poi però Sanguedolce parve diventato un altro. Aveva detto al nipote: - Non voglio mescolarmi di niente; fa tu, a modo tuo, disponi tu. Tu sei padrone del tuo e del mio. Da oggi in poi, per questi ultimi pochi mesi, non voglio più essere tutore. Alle faccende di campagna baderò io. Tu fa lo zitu (1). Luciano era così felice che non si accorgeva della grande amarezza che c'era nelle parole e nel tono della voce di suo zio. Non si accorgeva dell'aria trasognata del povero vecchio, che gesticolava e borbottava senza far capire che cosa gli passasse pel capo; e pareva che cascasse dalle nuvole se qualcuno gli domandava: - Che avete, zi' Sanguedolce? Sanguedolce?- Che volete che abbia? La vecchiaia che trascino. Infatti pareva invecchiato tutt'a una volta. Pri-ma, aveva il motto allegro, la barzelletta pronta. Durante la mietitura o l'abbacchiatura delle olive, durante la vendemmia, zi' Sanguedolce rallegrava gli uomini e le raccoglitrici con certe sue storielle maliziose che facevano sbellicar dalle risa. Ora, o stava muto, con gli occhi fissi, sbalorditi, quasi vedesse chi sa che brutte cose, o scoteva il capo e borbottava parole inintelligibili di risposta a qualcuno che lo interrogasse non visto. Si cominciò a spargere la voce che a zi' Sangue- Sangue-dolce avesse dato volta il cervello. Il canonico Spano, incontrato Luciano gli disse: - Tu hai la testa alla zita, e non ti curi di tuo zio. È venuto da me questa mattina. Mi ha fatto pietà. - Che abbiamo, compare Sanguedolce? Non vi dispiaccia se vi chiamo così. - Abbiamo... che quando c'è la volontà di Dio è inutile opporsi; avviene quel che deve avvenire... È vero, signor canonico? - Certamente, compare. - Anche nelle cose storte, è vero, signor canonico? - Non sono storte, se Dio le permette; sembrano storte a noi. - Sarà!... Sarà!... Ma io dico che sono storte. Stiamo a vedere, fino all'ultimo.... Ci penserà lui a rimediare.... Ero venuto per confessarmi. Stiamo a vedere... - A vedere che cosa? - Parlava come se le parole gli uscissero di bocca senza che egli comprendesse quel che diceva. Mi ha fatto pietà. - Che posso farci, signor canonico? È l'età, forse... E poi ce l'ha con me per via del mio matrimonio. Perché? Mi ci perdo. Ho fin sospettato... Quando si è vecchi.... Avrebbe voluto sposarla lui? Il canonico lo fissò, colpito. - Tutto può darsi... Mi ha fatto pena, ti dico! Vedendo che lo zio non gli accennava più alle nozze imminenti, Luciano, quasi per provarlo, gli annunziava: - Oggi siamo stati al Municipio per la richiesta. (i) Zitu fidanzato e anche sposo novello. - Quando c'è la volontà.... di Dio!.. - Oggi se n'è detto in chiesa la seconda volta... - Quando c'è.... la volontà di Dio! Rispondeva con una specie di ringhio, alzando le spalle. - Ah, zio! Mi fate il malaugurio! - gli disse Luciano col pianto nella gola. - Ci sposiamo domani I Quella sera, tardi, il canonico Spano che diceva in camera l'uffizio - ed era in maniche di camicia con lo zucchetto in testa, dal gran scirocco - vide arrivare lo zi' Sanguedolce, torbido in viso, che gli si buttò in ginocchio dal lato del seggiolone a bracciuoli. - Voglio confessarmi!... - Tanta fretta? - Confiteo Dio onnipotente.... - Chiudete almeno quell'uscio.... - Non importa. Dunque... sigillo di confessione. Prima fu mio fratello che mi disse: - Questo figlio mi è cascato dal cielo! - Non ne sapeva niente, poveretto!... Voleva fare, voleva dire.... Ammazzare, squartare.... Fu prudente: - e il dolore gli fece groppo allo stomaco: ne morì. - Lasciamo andare - lo interruppe il canonico. - Veniamo ai vostri peccati. - Poi - continuò Sanguedolce, con la voce che gli tremava - fu lei, sua moglie, due mesi dopo, in punto di morte: - Badate, cognato! Luciano è figlio di.... Lagnusazzu. Badate, cognato!... Peccato grande! L'ho scontato. - Ecco perché!... Ecco perché!... E scattò in piedi, guardandosi attorno, atterrito che qualcuno avesse potuto udirlo.... - Non c'è più dunque Gesù Cristo lassù? No, non c'è più? - Non bestemmiate!... Il canonico non sapeva che credere. Quel pazzo diceva la verità o ripeteva una orrenda fissazione? Tentò di calmarlo, di convincerlo che s'ingannava. Ma Sanguedolce rispose soltanto: - Glielo dica lei, nella messa, a Gesù Cristo. Che ci fa dunque là, in croce, su l'altare? - Non bestemmiate! Il vecchio era scappato via, barcollante, senza neppur salutarlo. - Che misera cosa è la nostra mente! - esclamò il canonico Spano, rinvenendo dallo stupore. E riaperse il breviario. Gli sposi, i parenti e il corteo degli amici, in attesa che il parroco uscisse di sacrestia, si comunicarono sottovoce, meravigliati: - C'è zi' Sanguedolce! C'è zi' Sanguedolce! Sanguedolce!Lo avevano scoperto, rannicchiato dietro una colonna. Luciano, commosso, andò a prenderlo per una mano, dicendogli: - Grazie, zio! Gli amici lo circondarono, Lagnusazzu, col pancione sporgente dalla giacca nuova di panno bleu, bleu,lo invitò a sedersi accanto a lui, ripetendogli: Bravo! Bravo! - soddisfattissimo. Sanguedolce agitava lentamente la testa, senza dire una sola parola, come se avesse un meccanismo nel collo. E si lasciò condurre a braccetto in casa della sposa. Tutti mangiavano dolci, càlia (2), bevevano vino di Vittoria, facevano brindisi: lui, zitto, con gli sguardi fìssi su gli sposi quasi ne sorvegliasse ogni movimento. Quando però vide Luciano che, abbracciata la sposa stava per baciarla al cospetto di tutti, scattò come una belva e si slanciò su la giovine, urlando: No! No! È sacrilegio!... Dio non vuole! Nella gran confusione, credettero che Tana fosse svenuta dallo spavento.... Un fiotto di sangue le usciva dalla gola squarciata. Sanguedolce aveva buttato via il coltello e gridava a Lagnusazzu. Lagnusazzu.- Infame! Tu lo sapevi, tu lo sapevi!.... Fratello e sorella! E li hai fatti sposare! E sùbito si batteva violentemente con una mano su la bocca, imprecando a se stesso: - Ah! Doveva cascarmi la lingua, doveva! (2) Càlia,ceci abbrustoliti.

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Ed egli l'aveva indegnamente abbandonata, dalla paura di attaccarsi troppo a lei e finire con sposarla, come era accaduto a un suo amico e con una donna immeritevole affatto di questo onore. Si era già rassicurato. Le feste pel santo Patrono terminavano appunto quella sera, ed egli stava affacciato alla finestra fumando una sigaretta per godersi i fochi di artificio che tra poco sarebbero stati sparati in cima alla collina del paesetto tutto punteggiato di lumi. Trasalì vedendo inoltrare quella figura di donna, avvolta in uno scialle nero, che si era fermata un istante allo svolto del breve viale davanti alla casa, come per riconoscere il posto; e si protese fuori del davanzale ansiosamente. - Leone! Leone! Sono io, Giulia! Vieni ad aprire la porta. Non mi ha visto nessuno! Ella gli era saltata al collo; e vedendolo rimanere freddo, inerte, disse: - Oh, non dubitare! È un bacio d'amicizia.... Nient'altro. E seguitò: - Chi si aspettava d'incontrarti qui? Dopo la disgrazia, nessuno ha più saputo notizie di te. Anch'io ti ho creduto in America a far fortuna. Stai bene. Sei un po' ingrassato, con qualche pelo bianco! Povero Leone!... Maestro elementare! Ti ammiro... Tutti ti vogliono bene nel paese... sì! sì! Il mondo va preso come viene. Ti ho riconosciuto sùbito, sai? E dovetti fare uno sforzo per contenermi. Ti avrei compromesso. Vedi? Sono venuta di notte dopo di essermi bene informata, e con questo travestimento. Altrimenti sarebbe stato uno scandalo. Qui quasi tutte mi invidiano, e quasi tutte fanno le viste di non conoscermi, anche le donne peggiori di me! Egli rimaneva in piedi di faccia a lei, commosso, balbettando appena: - Grazie! Grazie!... Quanto sei buona! - Come ti trovo male alloggiato! Neppure una poltrona! Neppure un piccolo tappeto! Neppure uno straccio di tenda! Questa è una cella da frate. Tu forse ignori quel che si fantastica di te, della tua vita segregata. Oh, tante cose buone! Dicono che il tuo è l'orto dei poveri; che tu fai l'ortolano per essi. E dicono che sei orso, orso, orso! Tu! sembra impossibile... Mah! Tutto accade al mondo. Ti saresti mai immaginato di incontrarmi quasi ricca e divenuta un po' avara? Che gran piacere questa visita! Anche pel modo. Chi sa quando ci rivedremo un'altra volta? Io ho paura di morire ora che sono arrivata... dove sono arrivata. Vorrei invecchiare, venire a ritirarmi quassù. Mi rimane soltanto la nonna; ha ottantasei anni, e sembra che ne abbia addosso soltanto cinquanta! Dice: - Sei nel peccato!..: Ma è la volontà di Dio! - E mi consiglia. Fa molta carità, molta carità, figlia mia! - E tu non mi dici niente? Ti è dispiaciuta la mia visita? Spero di no. Egli stava ad ascoltarla con un gran senso di tenerezza non come antica amante, ma come una affettuosa sorella venuta a consolarne la solitudine! Infatti nessun rimprovero del suo gran torto! Nessun accenno al passato! Così dagli occhi, dalle labbra, da tutto quel mirabile corpo non si sprigionava la minima vibrazione di sensualità, ma uno splendore di bellezza che imponeva ammirazione e rispetto. Inconsapevolmente - se ne accorse dopo - l'idea che ora ella era ricca e lui povero servì a farlo rimanere quasi gelido, davanti a quella viva evocazione di un passato che, nei giorni di raffica, tornava a sconvolgerlo atrocemente e minacciava di disperdere l'opera di rinnovazione e di redenzione a bastanza inoltrata. - Parlami di te - ella soggiunse. Leone fece un gesto che significava: Non mette conto! Allora Giulia riprese lo scialle buttato, entrando, su una seggiola. - Vado via.... Ecco i fochi! Si affacciarono alla finestra. I razzi solcavano la oscurità; le bombe si sgranavano in pioggia di scintille d'oro, in getti di globuli di mille colori, quasi pietre preziose dalle mani di una fata e che sparivano sùbito sgranate. E lo spettacolo continuava incalzando. - Ecco la vita! - esclamò Giulia con voce commossa. - Vado via. Non voglio che qualcuno mi veda. Ti nocerei molto, e ne avrei rimorso. Addio... Ah! Dimenticavo di dirti che giorni fa ho veduto tua madre. So che ogni relazione è rotta tra voi. Una madre dovrebbe perdonare; è vero?... Addio! - Addio! - balbettò Leoni su la soglia della porta: e a Giulia parve che quella parola le arrivasse da gran distanza. Egli si era affrettato troppo a rallegrarsi della sua forza di resistenza! Il giorno appresso e per parecchi giorni di seguito la raffica imperversò violentissima nel suo cuore e nella sua mente. Ne uscì quasi malato. Un mese dopo fu stupito di veder fermare davanti a la sua casetta un gran carro di quelli che fanno il servizio dei trasporti a domicilio. La spedizione era ordinata a nome di sua madre, Ersilia Leoni; ma egli indovinò sùbito il gentile sotterfugio di Giulia. - Come ti trovi male alloggiato! - gli aveva detto quella sera. E mandava ad arredargli un po' la nuda cella: un canapè, due poltrone, quattro seggiole, una bella scrivania, un calamaio di bronzo, ornato da un amorino che, sdraiato, pareva si specchiasse in una fonte, un tappeto per la tavola da pranzo, due grandi tappeti pel pavimento, un elegante vasettino giapponese da fiori. Si sentì turbato dal sospetto che Giulia tentasse di riprender possesso di lui. Ma la lettera giuntagli per posta lo stesso giorno, così umile, così piena di scuse, invocante perdono dell'invio, gli fece venire le lacrime agli occhi. Ringraziandola, con lunga risposta diretta al falso indirizzo indicatogli per evitare le indiscrezioni dell'ufficio postale - altra delicatezza di Giulia! - egli le dichiarò: . - Basta, ti prego. Non accetterei altro. E non gli giunse altro; neppure una lettera di quando in quando, come ne aveva espresso il desiderio. Giulia aveva, dunque, mal interpretato il divieto: - Basta, ti prego: non accetterei altro! Se ne afflisse per un pezzo. Erano passati.... quant'anni? Egli non li contava più. Si lasciava invecchiare: - Ormai! Ormai! Lo ripeteva spesso, quasi non si trattasse di lui; e per ciò ebbe una forte scossa apprendendo che sua madre era morta perdonandogli e lasciandogli la discreta eredità in cartelle di rendita ricevuta da un parente poco prima. - Ci abbandonerà? - gli domandò il sindaco. - Che disgrazia per le nostre scuole! - Sarebbe da parte mia il colmo dell'ingratitudine - rispose Leoni. - E poi, a che pro? Rompendo in questa occasione il volontario esilio, egli andò in città irriconoscibile, per la folta barba e i capelli brizzolati, dai pochi amici superstiti e non dispersi pel mondo. Quando ebbe ridotto le cartelle in biglietti di banca, la sua prima spesa fu quella di comprare un ricchissimo servizio in argento finemente cesellato, da regalare a Giulia: in ogni pezzo aveva fatto incidere le parole In Inmemoriam Glielo spedì a Bellagio, sul lago di Como, dove ella era andata a villeggiare. Un fonografo, una macchina da proiezioni, altri arnesi per la scuola; un volume di fiabe, rilegato, da dare in dono a tutti gli scolari della sua classe, per ricordo; un magnifico album da fotografie pel Sindaco perpetuo come egli stesso compiacentemente si chiamava; molti libri nuovi per sé.... E così aveva già speso più di un migliaio di lire. Se non tornava sùbito al paesetto divenuto sua seconda patria, chi sa che altre spese pazze avrebbe fatte! - Il danaro non guadagnato con fatica ci fa diventare sciuponi - rispose al sindaco che lo ringraziava dell'album e dei doni alla scuola. Si sentì preso da gran febbre di far più bene che poteva. E una sera si presentava al vecchio parroco e gli consegnava mille lire pei poveri. Il prete, che lo conosceva soltanto di vista, ne fu profondamente maravigliato. Aveva promesso di non dir niente a nessuno; ma gli era parso di commettere una cattiva azione non confidando ai beneficati da che mani provenivano quei soccorsi. Anche il medico condotto fu pregato: - Si ricordi di me pei suoi malati che hanno maggior bisogno di medicine e di alimenti. Mi farà una grazia! Leone Leoni ora sentiva un solo rammarico. - Un giorno o l'altro, le cinquantamila lire dell'eredità sarebbero esaurite! E mentre egli, già incanutito, un po' curvo, continuava la sua vita di isolamento, più ortolano e più orso che mai, in paese non c'era famiglia, farmacia, negozio, caffè dove non si parlasse di lui. I suoi più caldi ammiratori, oltre il Sindaco, erano il vecchio Parroco e il Medico condotto. Il Parroco concludeva sempre: - È un santo all'antica! - Ma non viene mai in chiesa, non si confessa! - gli obbiettava qualcuno. E il parroco dolcemente: - Fa qualcosa di meglio: pratica il bene!

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PROFUMO

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Capuana, Luigi 6 occorrenze

A questo punto, come se nella sua memoria fosse avvenuto uno strappo, egli non riusciva a ricordare altro che la fi- gura di suo padre, smorta smorta, con la testa abbandonata sui guanciali, gli occhi semiaperti, senza sguardo, e un filo di sangue raggrumato in un angolo della bocca ... E, subito dopo, baci della mamma che gli singhiozzava in volto: "Figliuolino mio! Orfanello mio! ..." Oh, se ricordava! Se ricordava! Sua madre vestita di nero. Per la casa silenziosa, un via vai di gente cattiva; lo capiva dalle lagrime di lei. E un rapi- do sparire di mobili, di stoffe, di quadri, ai quali si era affezionato senza sapere perché, forse perché li vedeva tutti i giorni. Persone ignote venivano e li portavano via. "Non sono più nostri, mamma?" "No!" Per non farla scoppiare in pianto, com'era accaduto due volte all'ingenua domanda, egli avea continuato ad assistere in silenzio, con sguardo crucciato, alla desolazione di quello spoglio. Portavano via specchi, tavolini, seggiole, libri! Perché? Avrebbe voluto saperlo. E non staccava gli occhi dai carri sopra i quali i facchini li ammonticchiavano nell'atrio, le- gandoli con funi, quasi tavolini, seggiole, poltrone, specchi avessero potuto scapparsene e tornare su, al posto dove era- no stati tant'anni. Appena i carri si avviavano lentamente e rumoreggiando sparivano sotto l'arco dell'atrio, egli correva al balcone che dava su la via, per vederli ancora fino alla svolta della cantonata. E, torvo, aggrappato alle sbarre della ringhiera, guar- dava, guardava, confusamente sentendo che qualche briciolo del suo cuoricino andava via assieme con tutti quegli og- getti. "Non sono più nostri!" Il salone, però, le camere, la cucina, la terrazza? ... Non potevano portarle via, oh, no! ... Eppure non avrebbe voluto aggirarvisi più, dal giorno che gli stanzoni vuoti cominciarono a impaurirlo, con gli echi che risuonavano da le volte quasi gli facessero il verso. Pur troppo quelle cattive persone, dal viso duro e dalle ma- niere scortesi, che venivano ogni giorno a tormentare la sua povera mamma, pur troppo alla fine si presero pure la ca- mera della mamma, la cameretta di lui, la cucina, la terrazza e il gran salone dov'erano prima le stoffe rosse alle pareti, listate dall'alto al basso da comici a cartocci di legno dorato, sua viva ammirazione! Pur troppo, una sera a ora tarda, la mamma, pallidissima e con le mani ghiacce che le tremavano, lo aveva quasi trascinato fuori, lasciando gli uomini a raccattare gli ultimi pochi arnesi rimasti! Ah, quelle tre stanzine misere misere, senza terrazzini, coi vetri delle finestre mezzi rotti, dove essi erano andati a rannicchiarsi! Vi si era sentito rattrappire. Se ricordava! ... Anzi ora egli afferrava al balzo ogni più piccola occasione di ritornare addietro con la memoria; e s'indugiava nei ri- cordi, sfoggiando altera compiacenza, quasi per dire al suo passato: "Vedi? Alla fine ti ho vinto!". Così (ed erano già trascorsi due mesi dal loro arrivo) una mattina, dopo colazione, si era abbandonato a raccontare l'unico episodio della sua fanciullezza. "Vieni, vieni!" Eugenia lo aveva trascinato carezzevolmente per un braccio, lungo il corridoio dove il Padreterno faceva sollevare, spazzando, un nugolo di polvere dai mattoni. "Padreterno, un po' di pioggia" disse Patrizio, celiando. "Non siete Padreterno per nulla!" "Se fossi Padreterno davvero, farei piovere vino schietto." E il borbottìo della risposta, un po' mangiato dallo spazio, un po' dal fruscio della granata nuova, era appena arrivato fino a loro. Un istante il Padreterno li aveva sentiti ridere in cima alla scala che conduceva alla selva. Presi per mano, sotto il pergolato, poco dopo non ridevano più. Al ronzio delle api attorno le macchie di spigo e di rosmarino, al cinguettio dei passeri e dei cardellini tra i cipressi e gli aranci, al mormorio dello zampillo della fontana, una parola di Eugenia era bastata per evocare il più caro dei ricordi ch'egli teneva chiusi in fondo al cuore. Oh, là si sentivano segregati dal mondo, tra l'alta muraglia che cingeva la selva, e la facciata interna del convento nascosta da gli alberi, col campanile torreggiante in alto, sgretolato, sormontato da una banderuola di ottone, che stride- va mossa dal vento. Qual luogo più opportuno per una confidenza di quel genere? Non ne aveva mai parlato con nessuno; era proprio un'esumazione. Gli sarebbe parso di profanare quel ricordo ra- gionandone con altri. "Di' dunque ..." "Allora ero magro, pallido, di quel pallore dei bimbi malaticci che paiono vecchini. Tutto il mio svago, nella misera casetta dove la mamma nascondeva i dolori, le privazioni, le umiliazioni della vedovanza, consisteva ordinariamente nell'uscire sul pianerottolo e passarvi le ore pomeridiane baloccandomi, solo solo, con pezzetti di legno, trucioli, fram- menti di carta colorata, sassolini. "Un pigionale dell'ultimo piano, che scendeva tutti i giorni a ora fissa, mi accarezzava la testa passando; e la tacita tenerezza di quel vecchio mi faceva piacere. Curvo, bianco di capelli, con gran barba gialliccia che gli scendeva fino a metà del petto e sotto braccio un ombrellone rosso, quel vecchietto un giorno mi aveva fatto un cenno strano. Lo com- presi poco dopo, quando vidi comparire una bambina che, dubbiosa, esitante, si fermò a metà degli scalini, guardando- mi con curiosità. ""È vero che vuoi giuocare con me? Me l'ha detto don Antonio." "La guardai stupito. Non l'avevo veduta mai. Don Antonio doveva essere quel vecchietto. ""È vero?" ella replicò. "E senza aspettare la risposta, venne su. Mi parve della mia età, tra gli otto e i nove anni. Bruna, gracile, con indosso una vestina di mussola azzurra un po' stinta e i neri capelli sciolti per le spalle, teneva stretta al seno una bambola sciu- patina in viso e a cui mancavano le braccia dentro le maniche. Addossata al vano della finestra, stette a osservare in si- lenzio i miei ninnoli, dandomi occhiate interrogative quando alzavo la testa. ""Tieni, gioca con la bambola. Giochiamo assieme." "La mamma, affacciatasi all'uscio, la guardò con aria sospettosa, la interrogò e si fermò più a lungo, probabilmente per accertarsi che non fosse una cattiva compagna. Ella continuò a giocherellare co' miei legnetti, mentre io tenevo tra le mani la bambola, senza sapere che cosa farmene. Appena la mamma rientrò, la bambina, accarezzandomi il viso e sor- ridendo, mi disse: ""Non sai fare il chiasso dunque?" "E cominciò a insegnarmi." La voce di Patrizio era un po' turbata. Il suo sguardo pareva ricercasse, lontano, nel pianerottolo di quella meschina casetta, la bruna e gracile figurina dai capelli neri, sciolti dietro le spalle, che gli aveva preso il volto tra le mani con af- fettuosa compiacenza da sorellina maggiore. Ed Eugenia, che ascoltava intentissima, si mordeva lievemente le labbra sentendosi già invadere da vago senso di rancore contro quella creaturina che doveva aver lasciato nel cuore di Patrizio orme profonde, se questi rammentava così bene tanti minuti particolari d'un avvenimento d'infanzia. Egli continuò. "Il vecchio, che scendeva curvo e lento con l'ombrellone rosso sotto braccio, ci trovava ora sempre assieme; e sco- tendo la gran barba gialliccia, stendeva la mano scarna all'una e all'altra delle nostre testine, evidentemente compiaciuto dell'opera sua. Gli badavamo appena. Stufi di ripetere i soliti giochi, ci prendevamo per mano, o ci passavamo le braccia attorno al collo; ed era il momento delle confidenze. Lei mi parlava del suo babbo, della sua mamma, di tante cosettine di casa sua; o stavamo abbracciati a lungo, muti sovente. Un giorno ella non comparve. Ne sentii sgomento, quasi mi si fosse fatto buio improvviso nel cuore. Non comparve nemmeno il giorno appresso. Il vecchietto passò, curvo, col solito ombrellone rosso sotto braccio; nè mostrò di aver notato che l'altra non c'era. "E se non fosse più mai venuta?" Non rimpiangevo i giochi che non potevo fare assieme con lei; rimpiangevo lei, rimpiangevo le sue manine tra le mie, le sue braccia attorno al mio collo, il suo sorriso, il suono della sua voce, qualcosa che non capivo bene che cosa fosse e di cui soltanto molti anni dopo mi resi ragione. Sai quando?" Eugenia, accigliandosi, accennò di no. "Quando attendevo che tu venissi a sederti al terrazzino di casa tua, dietro la ringhiera di ferro ricurvo, tra le graste in fiore, nelle prime settimane che ti conobbi. Tu non t'eri ancora avvista che io stavo a guardarti dietro la tenda della mia finestra e che già ti amavo. La stessa smania, la stessa angosciosa aspettativa! Finalmente ella ricomparve. Era stata malata di febbre. Ci baciammo, e restammo un gran pezzo abbracciati. Sentivo affollarmisi alle labbra tante e tante cose da dirle; e non riuscivo a dir niente. La mamma, trovatici così, domandò brusca: ""Che cosa fate?" "Ci sciogliemmo dall'abbraccio, quasi vergognosi di esserci lasciati sorprendere in un atto che avremmo dovuto fare di nascosto; e per scusa, risposi: ""È stata malata." "Il vecchietto da allora in poi, invece che su gli scalini del pianerottolo, ci trovava seduti a metà della scala del piano superiore. Ci nascondevamo, per baciarci e abbracciarci senza che la mamma potesse coglierci all'improvviso e doman- darci: "Che cosa fate?". Io mi sentivo scotere tutto, quando Giulietta mi abbracciava. Si chiamava Giulietta. Ella, mera- vigliata, mi domandava: ""Che hai? Perché tremi? Senti freddo?" "E mi abbracciava più forte. "Era tranquilla, con grande soavità di sguardo e di sorriso, con fare benevolo di protezione. Un giorno tutt'a un trat- to, mi domandò: ""Mi vuoi bene? Io ti voglio bene." ""Sì, ti voglio bene." "E levàtasi in piedi, di faccia a me, tenendo incrociate le manine dietro la schiena, seria seria, soggiunse: ""Quando saremo grandi, ci prenderemo per marito e moglie, come il babbo e la mamma. È vero?" ""Sì sì!" ""Ora la bambola è nostra figlia." "Son vissuto molti anni col cuore invasato da Giulietta, dal ricordo, dalla visione di lei, quasi ella fosse venuta cre- scendo di mano in mano ch'ero cresciuto io; quasi le parole: "Quando saremo grandi ..." fossero state giuramento, indissolubile legame." "La rimpiangi forse?" lo interruppe Eugenia impallidita. "Cattiva! ... Cose da bambini!" "Sei così commosso!" "Ricordo com'è morta." La selva era piena di sole. Le api ronzavano più numerose per le macchie di timo e di spigo. Patrizio si era fermato a osservare una lucertolina, che, affacciàtasi alla estrema punta del banco di pietra dove sedevano, spingeva la testina verdognola, quasi fosse stata ad ascoltare e volesse sentire la fine del racconto. "Una mattina" egli riprese "appena uscito sul pianerottolo, ecco un urlo, poi stridi e pianti e tutto il casamento sos- sopra! La mamma, che era venuta ad accompagnarmi fino all'uscio, mi afferrò per un braccio, e mi spinse subito dentro. Poco dopo, picchiarono. Una casigliana chiedeva urgentemente non so che cosa. Il nome di Giulietta, misto alle frasi interrotte e confuse che le uscivano di bocca, mi gelò il sangue. Appena quella donna andò via, la mamma mi si accostò, severa: ""Hai sentito? ... Quando si è scapati! ... È precipitata giù dalla finestra ... È moribonda!". "Rimasi di sasso. Che nottata! La mamma mi avea messo a letto di buon'ora. Avevo paura, con l'urlo e le grida e il tumulto della mattina negli orecchi. Terribile cosa precipitare da una finestra! Essere moribonda! Di questo però non sapevo formarmi un'idea precisa. Il cuore mi batteva violentemente nel petto. Dove s'era fatta male? Alla testa? Alle braccia? Alle gambe? "E nel silenzio della notte tendevo l'orecchio, per udire qualche rumore nel piano sottostante ... Non si udiva niente. La mattina dopo, la mamma non voleva neppure permettermi di uscire sul pianerottolo. ""Non mi moverò di qua!" supplicai. "Avevo però in testa il mio disegno: scendere in fretta le scale, andare da Giulietta e subito subito risalire, avanti che la mamma se ne accorgesse. La gente entrava ed usciva muta, commossa. Mi feci animo; entrai anch'io. Giulietta, stesa sul letto, allungata, bianca, con le manine incrociate sul seno, pareva dormisse. Nessuno badava a me. Mi accostai, le toccai un braccio. Era rigido, inerte. Mi rincanttucciai a piè del letto, sbalordito, dubbioso se fosse morta davvero o pure assopita. Una donna la tolse in braccio baciandola e la portò verso la cassa. Ficcatomi tra le persone che stavano là at- torno, ve la vidi riporre. Le aggiustavano la testina, i capelli, le manine. Ma non appena il becchino, abbassato il coper- chio, girò la chiave della serratura, scoppiai in urli, in pianto: ""Giulietta! Giulietta!" "Diventato furioso, strappavo i vestiti delle persone, davo calci e pugni, volevo mordere tutti: ""Giulietta! Giulietta! ..." "E caddi in convulsione." "Basta, non ti commuovere troppo!" disse Eugenia con durezza gelosa nella voce, levandosi da sedere. Patrizio le prese una mano. "Ora Giulietta sei tu!" "No, io sono Eugenia" ella rispose, ritirando la mano vivamente. Patrizio stava per slanciarsi ed abbracciarla, ma l'arrestò l'apparizione della signora Geltrude, che veniva avanti sen- za far rumore pel viale, simile a un fantasma, con la ruga della fronte più severa che mai. "C'è il sindaco" disse. E prese il braccio di suo figlio, senza neppur guardare la nuora. Pareva volesse portarglielo via. Eugenia li seguiva, canticchiando per dissimulare il dispetto.

L'aveva abbandonata! L'aveva abbandonata! E, sotto la coperta, ficcava le mani tra i capelli, stringeva forte forte la testa per comprimervi e impedirvi quel rime- scolio di pensieri, di immagini, di ricordi; quella tempesta di risoluzioni contraddittorie, di pretesti, di scuse; quelle in- termittenze della volontà che la impaurivano più di tutto ... Non era sicura di sè. Nei sogni, in quei sogni interminabili, che riapparivano appena s'addormentava e l'agitavano, anche sveglia, come impressioni reali, ella cedeva, cedeva alle insistenze di Ruggero, gli veniva meno tra le braccia in luoghi strani: boschi, orride gole di rupi, grotte affumicate, dove enormi pipistrelli l'assalivano, sfiorandole la guancia con ali viscide, quasi a scancellarvi l'impressione dei baci! Oh, quei baci! La loro voluttuosa sensazione persisteva, tentatrice, insidiatrice, nella veglia, ed ella se ne irritava; si indignava di sorprendersi in taluni istanti della giornata, per involontario consenso, nella delizia di assaporare il contatto delle labbra sognate, che non avrebbe potuto essere più soave, più tiepido, più vivo, se fosse stato veramente quello del- le stesse labbra di Ruggero. Eppure, finora, non si era tradita nemmeno con lui! Era però mutata assai verso Patrizio. Sentiva uno sdegno sordo, una specie d'odio misto col disprezzo, al vederlo tranquillo, indifferente, incurante di lei, tutto della sua morta, della sua malaugurata morta, che non poteva, no, essere in Paradiso! Andata via col tossico nel cuore, contro di lei che non l'aveva offesa, proseguiva anche di là la sua opera in- fernale! Perciò ella si sentiva sconvolta, e gli orecchi le tintinnavano, le zufolavano, le davano sensazioni di scrosci di piog- gia; per ciò le saliva dai piedi alla testa quel formicolio dei nervi che ricominciavano a distendersi, a contorcersi, quasi a provarsi per nuovi accessi, come in quel momento. Avrebbe voluto piangere; non poteva. E nel portare le mani alla faccia, inaspettatamente sentì di nuovo, per la prima volta dopo tanti mesi, l'odor di zagara che riprendeva, percettibile appena. Scattò a sedere sul letto. Voltava e rivoltava le mani, annusandole, e spalancava gli occhi, pensando che ben presto anche Patrizio se ne sa- rebbe accorto. All'idea che tutti quei sintomi ora dovessero accusarla al cospetto di lui, rivelargli il colpevole affetto che la martoriava, si sentì agghiacciare. "E se in qualche accesso di convulsione mi sfugge un nome? ... E se faccio intendere, con scomposte parole di delirio, qualcosa di più grave di quel che non è accaduto?" Scivolò tra le lenzuola, abbattuta, prostrata, con le mani avviticchiate sul capo, e gli occhi fissi alla volta quasi in- gombra di nebbia nella semioscurità silenziosa. Le pareva che quell'odor di zagara emanasse sottile sottile da tutto il suo corpo, e invadesse la camera, impregnando talmente l'aria che ella se ne sentiva stordire, quasi soffocare. Il respiro le diventò affannoso, la vista le si offuscò e ne- gli orecchi tintinnii e zufolii s'avvicendarono con altri strani rumori che le intronavano il capo. Un sopore di sfinimento cominciò ad aggravarsele su le palpebre; strie luminose, iridate le tremolavano dentro gli occhi; l'odor di zagara conti- nuava a esalarsi sottile sottile, spossandola, togliendole ogni forza del corpo, annichilendo ogni movimento della sua volontà; e, poco dopo, ella rientrava senza accorgersene nel regno dei sogni: stretti, lunghissimi corridoi dove Ruggero la inseguiva; alte rocce sovrastanti da ogni lato e tra cui egli la raggiungeva, la stringeva fra le braccia, la copriva di ba- ci; nere grotte, dove gl'immancabili enormi pipistrelli agitavano le ali, atterrendola con quella sensazione di cosa fredda e viscida che le sfiorava la faccia. "Eugenia! Eugenia!" Non ancora ben desta, e mentre Patrizio tornava a chiamarla, vedeva sparire gli ultimi lembi del sogno quasi strac- ciato e disperso da un soffio improvviso. E quando si scosse, negli occhi tuttavia imbambolati le appariva il corruccio di essere stata svegliata in quel momento da lui. Patrizio, che s'era affacciato appena con la testa dall'uscio e rimaneva là aspettando una risposta, se ne avvide, ma non capì. "Ti senti male?" domandò. "No. Mi levo subito." "Fa presto. Vieni in salotto." "Che c'è di nuovo?" "Non turbarti ... Un biglietto del sindaco. Ahimè! Era da prevedersi!" "Insomma?" "Giulia ... è fuggita col Favi, la notte scorsa." "Oh, Dio!" esclamò Eugenia, balzando dal letto. Ah! Neppure alla povera Giulia il triduo alla Madonna era giovato. "Mi faranno fare una pazzia!" L'aveva detto più volte, e l'aveva fatta! Vestìtasi in fretta e in furia, coi capelli in disordine, senz'essersi lavata la faccia, finendo di agganciarsi il busto della veste, Eugenia s'era precipitata ansiosamente in salotto. Patrizio teneva in mano il biglietto del sindaco. "Ci prega di comunicare la notizia a Ruggero e di trattenerlo qui. Se ne sono accorti soltanto poco fa. La credevano in camera, a letto ... Teme che Ruggero possa fare scandali e dar da ridere alla gente." "Oh, Dio!" ripeteva Eugenia. "E dove sono andati?" "Non si sa. Ho mandato Zuccaro a prendere informazioni. Tutto si accomoderà, senza dubbio. Intanto è un brutto momento. Condurrò Ruggero qui." "Sarà un gran colpo! Vuol tanto bene alla sorella!" "Finisci di vestirti. Io torno nell'ufficio per impedire che qualcuno commetta l'imprudenza ..." Ella restò un momento in piedi presso il tavolino, sbalordita, ridomandandosi internamente: "Dove sono andati?" Poi, l'idea di doversi trovare di lì a poco faccia a faccia con Ruggero, di essere costretta a rimanere, forse l'intera giornata, sola con lui, le produsse una acuta agitazione, un fremito di paura per l'inevitabile pericolo; ma reagì contro se stessa. Lavandosi, ravviandosi i capelli, si sentiva commovere da viva compassione, immaginando il dolore che egli avreb- be provato all'annunzio della triste notizia. Dovevano partecipargliela con cautela, fargliela indovinare piuttosto che dirgliela ... "È difficile. Povero giovane!" Pensò di far preparare il caffè. Sarebbe stato un pretesto. Tra un sorso e l'altro, Patrizio o lei, o tutti e due assieme, avrebbero parlato. E diede l'ordine a Dorata. Poi prese in mano un lavoro di uncinetto, assunse l'aria più tranquilla e più indifferente che potè, e sedette presso la finestra, in salotto, aspettando. "Eugenia deve comunicarle non so che cosa. È vero?" disse Patrizio un po' impacciato. "Segga, segga qui" ella soggiunse. E gli stese la mano. Ruggero li guardava perplesso, con un sorriso di curiosità sulle labbra, imbarazzato alquanto da quel fare misterioso. E la sua immaginazione fantasticava rapidissima per indovinare che potesse mai comunicargli Eugenia davanti al mari- to. Non doveva essere una cosa piacevole, lo deduceva dal contegno dell'Agente, dalla ruga che si contraeva su le so- pracciglia di lei. E si mise in guardia. Dorata portò le tazze col caffè. Eugenia si levò da sedere e ne offerse una a Ruggero. "Troppo zucchero!" E, ridendo, egli soggiunse: "Per indolcirmi la bocca prima di darmi l'amaro". Eugenia guardò Patrizio negli occhi, stupita, e si sforzò di sorridere. "Ai suoi ordini" disse Ruggero dopo aver sorbito lestamente il caffè, stendendo il braccio per posar la tazza nel vas- soio. "Nulla di grave" rispose Eugenia con voce malsicura. "Cioè ... un fatto doloroso, sì, ma che non produce mai cattive conseguenze ... Il matrimonio sana tutto." "Sana tutto" ripetè Patrizio dietro la pausa di sua moglie. "Sventataggine da innamorati! ... Biasimevole, chi lo nega? ma, in certe circostanze, scusabile. Lei, che è uomo e giovane, compatirà facilmente." Ruggero scattò dalla seggiola, pallido come un morto, con gli occhi smarriti, e fece per slanciarsi fuori del salotto. Patrizio lo trattenne. Eugenia, tremante, gli prese una mano, balbettando: "No, no! Resti qui. Dove vuole andare?" "Non dovevano farlo! Non dovevano! ... Ah Giulia! Giulia!" Mugolava, più che parlare, si strizzava le dita, pestava co' piedi, stralunava gli occhi: "Non dovevano farlo! È un'infamia ... Non dovevano!" Non riusciva a dir altro, tentando di svincolarsi. Voleva correre dietro ai fuggitivi, andare a sputare sulla faccia a Corrado Favi per quell'affronto a una famiglia che egli avrebbe dovuto rispettare come propria. E tornava a prendersela con Giulia: "Non la guarderò più in viso! Non è più mia sorella!" "Si calmi. Suo padre vuole che si trattenga qui fino a sera. La ricondurrò io stesso a casa. Tutto è bene quel che fini- sce bene." "Che disonore! No, non dovevano farlo!" rispondeva Ruggero, mentre l'Agente cercava di rimetterlo a sedere. "Ha ragione. Dice benissimo" soggiunse Eugenia commossa. "Oramai però bisogna pensare al rimedio." Ruggero si lasciò cascare su la seggiola. Dalla rabbia, faceva stridere i denti e singhiozzava, col capo fra le mani, ri- petendo: "Che disonore! ... Non dovevano farlo!" Patrizio s'aggirava attorno al tavolino aggiustando le tazze nel vassoio, stirando una piega del tappeto, come persona che non sappia che cosa fare o dire. Eugenia, in piedi dinanzi a Ruggero, cercava di scusare alla meglio l'amica. Ine- sperta, innamorata cieca, Giulia, con quella fuga, aveva voluto soltanto forzar la mano ai parenti; nè il Favi, poverino, poteva aver avuto cattive intenzioni. Buon giovane, a quel che ne dicevano, colto, modesto, con un bell'avvenire davanti a sè ... "La benedizione a piè dell'altare scancellerà ogni cosa, toglierà qualunque malinteso tra le due parentele. Una sorella è sempre sorella, anche quando commette uno sbaglio." Ruggero negava, scotendo la testa tra le mani, coi gomiti appoggiati sui ginocchi, inconsolabile. Successe un lungo intervallo di silenzio, durante il quale Patrizio, avvisato del ritorno di Zuccaro, uscì nel corridoio. "Mi fa male vederlo così afflitto" disse allora Eugenia, posandogli una mano su la spalla. "Ah, signora!" Ruggero alzò la testa, la guardò in faccia e, quasi per persuaderla meglio a dargli ragione, prese tra le sue la mano che gli era stata posata affettuosamente su la spalla. Eugenia non ebbe il coraggio di ritirarla, assai turbata da quel contatto che le pareva la mettesse, imprevedibile cir- costanza! proprio in balia di lui. E così, tra le pressioni delle mani di Ruggero, che s'avvicendavano ora lievi, ora forti, secondo la varia intensità del sentimento, stette ad ascoltare il rapido sfogo che gli sgorgava dalle labbra contro la sorel- la, contro il Favi, contro il padre, contro le altre sorelle, contro tutti. E rispondendo con lievi assensi del capo, con sguardi che dicevano: "Sì, è vero ... Mah! ... Mah! ..." lasciava che intanto il tepore, le scosse, le con- trazioni delle mani le insinuassero per la persona un senso novo d'intimità con quella viva partecipazione al dolore di lui, qualcosa che già somigliava a un abbandono di se medesima, per conforto, per consolazione, senza però conceder niente che ella dovesse rimproverarsi, o di cui pentirsi, dopo. "E come rideranno i nemici della nostra famiglia!" esclamò all'ultimo Ruggero. "Come ridono in questo momento!" "Non s'occupi di essi. Non rideranno più quando il matrimonio sarà compiuto." "Ah, signora! ... Ella non sa le basse invidie, le malignità dei partiti in questo miserabile paesetto!" Le stringeva più forte la mano, se la portava alla fronte con gesto desolato. Eugenia, paventando non se la portasse anche alle labbra, la ritirò lestamente; e si rimise a sedere di faccia a lui. "Buone nuove!" gridò Patrizio, rientrando. I fuggitivi erano a Rosolini, presso una famiglia amica dei Favi. Giulia vi si trovava ospitata come una figlia. Corra- do era già tornato a Marzallo. Le cose si mettevano bene per la dignità e per l'onore di tutti. Intanto, amici comuni s'in- gegnavano di appianare le difficoltà. Sopraggiunse il dottor Mola. "Ebbene? Che vuoi farci?" esclamò, vedendo il gesto furibondo di Ruggero. "Siamo tutti senza cervello a vent'anni. Ora sarà una sfilata di fughe; vedrete, signora mia! L'esempio è contagioso. Accade sempre così. Voi però, voi sopra tutti, dovete sforzarvi di stare tranquilla. Che viso, che occhi, Dio mio! ... Date qua. E che polso! Ecco una ricetti- na. Calmante. A cucchiaiate, d'ora in ora, lungo la giornata. Sono venuto a posta." "Grazie." "Niente. Lo faccio anche per egoismo, per non dovervi curare a lungo dopo. Non ci ho gusto a veder malata la gen- te, quantunque sia il mio mestiere. Brutto mestiere vivere a costo del male altrui! Tu" soggiunse rivolto a Ruggero "bevi un bel bicchiere d'acqua fresca; ti farà bene. E non ti muovere di qui; così ordina tuo padre. In queste circostanze, meno chiasso si fa e meglio è." Dopo desinare, Eugenia e Ruggero erano rimasti soli in salotto. Calmato, egli non ragionava più del triste avveni- mento; fumava una sigaretta, appoggiato col dorso alla finestra. Eugenia, seduta poco distante, aveva ripreso in mano il suo lavoro di uncinetto e lavorava a capo chino. Si sentiva addosso, insistenti nel silenzio, gli sguardi di lui e non sapeva come stornarli. Di tanto in tanto, portava le mani alla faccia; una vampata l'assaliva a ogni movimento di Ruggero, che pareva non riuscisse a star fermo e si appog- giava ora su l'una or su l'altra gamba, accavalciando i piedi, quasi impazientito di quel silenzio troppo prolungato. Eugenia avrebbe voluto prevenirlo e avviare la conversazione in maniera da impedire che si mettesse per uno sdruc- ciolo pericoloso; ma non trovava nulla. E provò una stretta al cuore, sentendo la voce di lui, che, esitante, diceva: "Si annoia. Ha ragione. La mia compagnia non è piacevole oggi." Ella fece un lieve atto di protesta col capo, e si chinò di nuovo sul lavoro, senza aggiunger parola. "Mi fa impazzire!" esclamò tutt'a un tratto Ruggero, buttando fuori dalla finestra, dietro le spalle, la sigaretta fumata a metà. "Non parli così!" balbettò Eugenia. E, atterrita, si volse istintivamente verso l'uscio. "Compatisce gli altri, con me! ..." continuò Ruggero con voce repressa. "Non s'accorge o finge di non accor- gersi di niente! ... Mi fa impazzire!" "Non parli così! Che cosa vuole?" ella domandò con angoscioso smarrimento. "So che non è felice; me n'ha parlato Giulia, tante volte!" "E se pure fosse vero?" "Mi dica una sola parola! ... Una sola!" "Zitto, per carità!" Eugenia s'era levata da sedere, col cuore in tumulto, con la mente turbata e un gran tremito per tutta la persona. Pen- tita delle inconsulte parole sfuggitele di bocca, s'irritava di non trovar la forza di interrompere con un gesto, con una ri- sposta recisa, quella tanto paventata dichiarazione sentita addensare nell'aria simile a un temporale, e che già scoppiava irresistibile nel peggior momento per lei. "No" riprese Ruggero, tentando di afferrarle una mano che Eugenia ritirò per portarla rapidamente alla fronte. "No, non è possibile che il suo cuore sia rimasto indifferente. È di ghiaccio? ... Una parola! Una sola parola! ... Non le chiedo altro. Se sapesse quanto l'amo! ... Fino al delirio! ... Lo sa, lo sa ... Finge di non saperlo. Ah! ... Mi disprezza dunque?" "Perché dovrei disprezzarlo? Che cosa vuole da me? Sono maritata. Non mi offenda, supponendo che io possa tradi- re mio marito. Gli voglio bene ..." "Non è vero!" All'energica affermazione, Eugenia sgranò gli occhi, quasi vedesse in quel punto il proprio cuore aperto come un li- bro davanti a Ruggero. Egli le si era accostato, supplicandola a mani giunte: "Una parola! ... Una sola parola!" E tornava a ripetere: "Non è vero. Giulia mi ha confidato tutto. Non è amata, non ama; io, io solo l'amo alla follia, da otto mesi, dal primo istante che la vidi!" "Perché me lo dice? ... Perché?" Si torceva le mani, crollava la testa, smaniando: "Non voglio saperlo! Non devo saperlo! ... Mi lasci in pace, per carità! Mi lasci in pace! ... o dirò tutto a mio marito!" Le parve d'aver trovato la parola giusta, e guardò in viso Ruggero. "Glielo dica, se ha coraggio!" egli rispose, arrestandosele davanti. "Potrà impedirmi di amarla? Glielo dica; così lei si leverà di torno la mia odiosa persona. Io debbo venire qui per forza; vederla tutti i giorni per forza, perché mio padre lo vuole, per le lezioni. Quando mio padre saprà, mi manderà via da Marzallo. E sarà liberata dalla persecuzione de' miei sguardi; non mi vedrà, non mi udrà più! Glielo dica. È una soluzione ... per lei! Io l'amerò lo stesso. È la pri- ma volta che amo. Ah! L'ha condotta qui la mia mala sorte. Ero tranquillo, felice. E, da otto mesi, soffro tormenti incre- dibili; vivo soltanto per lei, penso soltanto a lei, giorno e notte! ... E lei mi ha visto, mi vede soffrire, e non si è mai commossa, non si commuove! ... Che cuore ha?" "Oh, Dio! ... Zitto! Zitto!" S'era coperta la faccia con le mani, senza sapere quel che diceva e faceva. Le pareva di sognare a occhi aperti; udiva quasi le stesse parole udite tante volte nei sogni; e, come nei sogni, sentiva venir meno ogni forza, quantunque la sua volontà dicesse ora, come sempre: "No! No!". Dalla faccia portava le mani agli orecchi per non udire le fatali parole e non esserne ammaliata; e ripeteva: "Zitto! Zitto!" con doloroso accento di preghiera. Ruggero non l'ascoltava; tornava a insistere: "Una parola! Una parola! ... Che le costa? ... È dunque vero che non ha cuore? Senta, senta come tre- mo!" E le prendeva una mano. "Così non si finge! Così non si mentisce!" Eugenia tentò invano di svincolarsi. Ma appena si fu meglio impossessato della cara mano, egli cominciò a baciarla sempre più avidamente, come più la sentiva cedere, cedere sotto la pressione delle labbra, con deboli proteste: "No. Non è vero che mi vuol bene! ... Non è vero! ..." Le pareva che il suolo le mancasse sotto i piedi; e si aggrappava a lui, singhiozzante, invocando pietà con quel fil di voce: "Ah! ... Che male mi fa!" Lo respinse con sforzo improvviso e corse a rifugiarsi in un angolo. "Non s'avvicini! Grido; faccio accorrere gente. Per carità! ... Per carità!" tornava a supplicare. "È mai possibi- le? Come ha potuto credere? Mi prometta che non ricomincia. Sia bono! Sia bono!" "Sì, sì; farò tutto quel che mi ordina" disse Ruggero a bassa voce. "Purché io sappia se mi vuol bene o no ..." "Non devo." "No, no! Lo dice per ingannarmi. Glielo leggo negli occhi." "E allora? ... Sia bono! Gli voglio bene, ma non come crede lei. A che scopo? Non me ne riparli più. Sono d'altri. Sarei imperdonabile, se rispondessi diversamente. Non lo capisce? Deve capirlo." "Che m'importa d'altri? Che può importarne a lei, se non è amata? Una parola! Una parola soltanto! Sarà un segreto tra me e lei. Senta! Senta! ..." Lo aveva lasciato accostare a poco a poco, vinta dal fascino della voce, dalle insinuanti parole, dall'atteggiamento di calda preghiera con cui egli le si rivolgeva, incapace di fare il minimo movimento per sfuggirgli. E quando le fu vicino, gli stese le mani, invocando pietà col gesto, con lo sguardo, gesto e sguardo d'amore desolato, di passione irrompente, quasi di resa. "Senta! Senta!" ripetè Ruggero. Questa volta però le loro mani, incontràtesi, si strinsero forte. Vedendola mancare dalla violenta commozione, egli l'attirò a sè, la premè al petto e la baciò su la fronte e su le lab- bra, ripetutamente, intanto ch'ella, inerte, gli si appesiva addosso, diaccia e pallida, con un fioco lamento, tra' singulti. Ruggero ebbe paura. La sollevò tra le braccia, la mise a sedere, sorreggendola, quasi in ginocchio dinanzi a lei. Nel turbamento la chiamava: "Donna Eugenia! ... Donna Eugenia!" E le strofinava le mani per farla rinvenire, spaventato dall'idea che Patrizio, sopraggiungendo, potesse trovarla in quello stato. "Quanto male mi ha fatto! ..." Queste parole, uscite dalla bocca di Eugenia come un gemito di moribonda, lo rincorarono alquanto. "Mi perdoni!" supplicò umilmente. Eugenia aperse gli occhi. Credeva di destarsi da un sonno profondo, e fissava Ruggero, per ricordarsi bene quel che doveva essere accaduto. E, intanto che andava riprendendo coscienza, la indignazione per la sua debolezza le increspava le sopracciglia, le con- traeva le labbra. Poi svincolando con uno strappo le mani da quelle di Ruggero, si levò subitamente da sedere e lo re- spinse con gesto vibrato, muta, ansante. "Mi perdoni!" egli tornava a pregare. "Purché non ricominci!" rispose severa. E mutando accento, soggiunse: "Per carità! ... Se mi vuol bene, mi la- sci in pace, si scordi di me. Non posso amarlo. Non devo amarlo. Lei è giovane e libero ... Io non sono più libera ... Mi lasci in pace! Trovi una scusa, non venga più qui ... Non si lusinghi ... No! ... No! ... Abbia stima di me. Abbia pietà pure! Sono malata ... Non concorra a farmi peggiorare. Le voglio bene anch'io, ma non come intende lei. Si scordi di me. Si scordi di me! ..." "Impossibile! Scordarla, ora? Ora?" la interruppe Ruggero. "Si fidi. Non lo saprà nessuno, mai! Nessuno!" "No! No!" gemeva Eugenia. Ma l'accento, ma gli sguardi, pur troppo, dicevano sì.

E guardandolo dalla finestra mentre andava via a capo chino, con le mani dietro la schiena, solo o accompagnato da uno dei commessi, le pareva di sentirsi proprio abbandonata, quasi egli non dovesse tornare più, e rimanere con quella morta che le contendeva il cuore di lui più di quando era viva. Come lottare contro la invisibile nemica? Se la sentiva dattorno in tutti i momenti. A ogni scricchiolio di mobili, a ogni rumore di cui non sapeva rendersi su- bito ragione, trasaliva, stando in attesa, trattenendo il respiro, origliando, spalancando gli occhi verso il posto d'onde il rumore era partito; e chiamava: "Dorata!" Dorata compariva su l'uscio, rossa in viso, asciugandosi le mani. "Che cosa fai?" "Sono in cucina, signora; preparo il desinare." "Lascia stare un momento; spolvera quei mobili." "Li ho spolverati bene questa mattina." "Spolvera, ti dico" ripeteva Eugenia, con voce velata dal turbamento che voleva nascondere. E si metteva a discorrere con lei per trattenerla più a lungo. "Brava gente la famiglia del sindaco!" "Un po' strambi di cervello padre, madre e figlie ..." "Esageri." "Le ragazze spasimano di prendere marito, ma il cavaliere le farà spighire per via della dote. Gesù Maria! Ricco qual è! ... La maggiore è già avvizzita. L'altra ingiallisce a vista, come un cetriolo a cui manca l'acqua. La minore però si serve di suo capo. Sa? Giorni addietro - è un segreto, glielo confido perché so che non ne fiaterà con nessuno -, giorni addietro la signorina voleva che io facessi una bella parte ... Capisce? Portare una lettera a don Corrado Fa- vi. Risposi: "Perdoni, non mi mescolo di certe faccende. È per retto fine, lo so; ma se i suoi parenti lo sapessero, dovrei andare a nascondermi dieci miglia sotterra". Mi faceva pietà, povera ragazza! Voleva anche darmi del denaro." Eugenia, spintala a parlare, la interrompeva di rado, senza però stare attenta ad ascoltarla. Le bastava quel mormorio di parole ronzate nella camera che l'assicurava di non esser sola; il suo pensiero intanto vagava altrove. Vagava nella stanza d'ufficio dove Patrizio passava la giornata in preda della sua morta che lo invasava ognora più; vagava nella ca- mera lasciata intatta, dov'egli spesso andava a chiudersi per sedersi su quella poltrona su la quale la sua mamma aveva passato metà della vita, o per buttarsi bocconi su quel letto dove egli l'aveva baciata l'ultima volta. Così una mattina lo trovò Dorata; e venne a dirglielo subito, per farla accorrere presso il padrone che piangeva come un fanciullo. "Così non si consolerà mai, padrona mia!" Eugenia non rispose. Doveva mettere a parte delle sue pene una serva? Le pareva già troppo esser ridotta a invocar- ne la compagnia nei momenti di paura. Dio mio, scendere così in basso! ... Non era però sicura di non doverci, un giorno o l'altro, arrivare! Aveva tanto bisogno di compassione! Soffriva tanto maggiormente, non potendosi confidare con nessuno! Infine, era una buona creatura, benché serva, colei. Aveva amato, era stata amata in gioventù; che impor- tava come? C'è un destino nella vita! Dio, che sa tutto, perdona allorché si pecca per bontà di cuore. Perdonò alla Mad- dalena! E arrossiva, indispettita di queste scuse che si andava preparando per l'avvenire, quando forse non ne avrebbe potuto più, e avrebbe dovuto sfogarsi con Dorata, da cuore di donna a cuor di donna, dimenticando ogni altra cosa. Non osava uscire da quelle stanze e attraversare il corridoio per andare ad affacciarsi, come un tempo, all'uscio del- l'ufficio di Patrizio. Le due celle, dove erano prima la sua camera e il salottino, non le aveva più visitate dalla sera fata- le; all'idea di rimettervi piede, si sentiva scuotere tutta da ribrezzo. E Patrizio intanto si rammentava così di rado ch'ella doveva per lo meno annoiarsi con la sola compagnia di Dorata! Assorto nel suo dolore, passava le giornate colà, in con- tinuo rimuginare con la morta, evitando fin di parlarne con lei, sua moglie, quasi temesse di profanare la memoria di quella mamma gelosa! Gelosa della nuora! Della moglie del proprio figliuolo! Le pareva una mostruosità. Non era arri- vata a spiegarsela, quantunque vi avesse riflettuto lungamente dopo che egli, in un fuggevole istante di espansione, si era lasciato sfuggir di bocca: "Era gelosa di te!". Il sole vicino al tramonto, spuntando dietro la cupola della chiesa che lo aveva nascosto fin allora, irradiò improvvi- samente il salottino d'una tenera luce rosea. Eugenia, seduta presso la finestra, se ne sentì quasi toccare con mite carez- za. La stoffa nera della veste azzurreggiò e parve schiarirsi sui ginocchi e su le maniche a quell'onda di tinta gentile; allo stesso modo si schiarirono i suoi neri pensieri e il suo cuore nero in quel subitaneo chiarore. E si affacciò alla finestra con un senso di sollievo, quasi qualcuno fosse venuto a liberarla dall'incubo che la oppri- meva. Alto, su la collina, un vasto quartiere di Marzallo si schierava in faccia al sole; e tutte quelle povere casette con le fi- nestre aperte, i tetti coperti di borraccina, le terrazze piene di graste di garofani e di basilico, con panni sciorinati qua e là, sventolanti come pennoni da le cordicelle tese, parevano sorridere nella luce e formicolavano di vita. I campanili del- l'Annunziata e della Mercede, l'uno nel centro, l'altro a sinistra, snelli, traforati, sul fondo del cielo azzurro, quasi posti a guardia delle casette attorno; e il convento di Sant'Anna in cima alla collina, con le mura scurite dal tempo, la cupola della chiesa rivestita di mattoni inverniciati azzurri e bianchi che scintillavano, e a lato il campanile aguzzo, con su una palla e una gran croce di ferro, in quella gioia luminosa, chiudevano severamente l'orizzonte. Per qualche momento, rapita dallo spettacolo, Eugenia stette a guardare. Ma non appena le si presentarono all'im- maginazione altre case lontane, tante volte vedute alla stessa luce rosea dal terrazzino di casa sua, mentre inaffiava i fio- ri o attendeva che Patrizio dalla finestra incontro venisse a darle la buona sera; ma non appena le balenarono innanzi agli occhi le sorelle, le amiche e quasi ne sentì le voci e le parole, si ritrasse dalla finestra e cercò di scacciare quella vi- sione che inopportunamente veniva a intenerirla e a riempirle gli occhi di lacrime. Aperse un cassetto, rovistò, ne aperse un altro, senza scopo, soltanto per divagarsi. Ed ecco la sua bella vita! Aggirarsi dentro due cellette di convento come una mosca senza capo! Smaniare nella soli- tudine, colma di tutto, fuorché di quel che unicamente avrebbe potuto appagarla e renderla felice, anche senza gli agi, con un tozzo di pane nero! Giacché invidiava fin questo alle poverelle che venivano a stendere il loro misero bucato sui fichi d'India della siepe attorno al convento, ma si traevano dietro i loro bambini! Ah! ... Il Signore le aveva pure negato il conforto d'un figlio. Era dunque maledetta, se Dio non le concedeva nemmeno questa grazia? Che peccati ave- va commessi da meritarsi tale gastigo? ... Padre, sorelle glielo avevano avvertito: "Andrai di qua e di là, senza ca- sa propria, senza parenti, nè amici di cui tu possa fidarti! Che ne sai di costui? Dice d'amarti, sembra buono ... Chi lo conosce a fondo?". Oh, buono era! E l'amava davvero; non poteva dubitarne. Ci era però di mezzo colei, la sua nemi- ca! Quella che era stata gelosa, e continuava ad essere tale anche di là dove ora si trovava, invadendo tuttavia il cuore del figliuolo e stornandolo da lei, come aveva evidentemente minacciato con quegli occhi fissi di morente! Se li vedeva dinanzi tutte le volte che vi ripensava, dalla mattina alla sera; e anche la notte, allorché non poteva prender sonno e pel terrore svegliava Patrizio: "Ho paura! Ho paura!". S'era fermata a origliare. Aveva inteso aprire l'uscio; e ora udiva il leggero rumore dei passi di suo marito, che si ap- prestava ad uscire per la giornaliera visita al camposanto, dov'ella non aveva mai avuto il coraggio di accompagnarlo. Parlava con qualcuno, Zuccaro o Griffo forse; e non si era neppure fatto vedere da lei, quasi volesse andar via di sop- piatto a trovare la sua mamma! Questa visita quotidiana diventava, ogni giorno più, tortura insoffribile per Eugenia. Pa- trizio rientrava così triste, ch'ella non ardiva di interrogarlo nè di rimproverarlo. Però quella sera si sentì afferrata da im- provvisa smania d'impedirgli di andare; voleva convincersi almeno se ne avrebbe avuto la forza. Patrizio, vestito di nero, col cappello in mano, comparve in mezzo all'uscio del salottino. "Sei sola?" "Con chi vuoi che io sia?" "Dorata è in casa?" "È in casa." "Va bene. Buona sera. Torno subito." Ed anche quella volta lo aveva lasciato andar via!

Poi, la commozione l'aveva sopraffatta; ascol- tando, a poco a poco aveva dimenticato ogni cosa; e, appena pronunciata la risposta all'interrogazione di Patrizio, gli si era abbandonata tra le braccia singhiozzante e incapace di continuare a parlare. "Ah! Tu piangi?" egli disse, sforzandosi di mostrarsi allegro. "Ecco il castigo della tua diffidenza! Via, via! Non es- ser bambina! È il mio castigo pure; non posso vederti soffrire! Ho i miei torti e te li ho confessati. Via, non esser bam- bina! Mi emenderò, vedrai!"

Come si sentiva sola, abbandonata da tutti in quel momento, nel silenzio di quella notte e- stiva, mentre ogni cosa dormiva, e dalla selva, dall'abitato, dalla lontana campagna non le arrivava nè una voce, nè un rumore, tranne il monotono zampillare della fontana, laggiù, tra gli alberi, quasi sommesso borbottio! Dall'orologio del convento cominciarono a squillare i rintocchi alternati della mezzanotte. Non si sentivano soltanto i colpi dei martelli su le campane e la ondulazione del suono, ma anche lo stridio delle ruote del congegno simile a di- grignare degli enormi denti di un mostro appollaiato sul campanile, l'ombra del quale, gigantesca, si allungava sugli al- beri, si sdraiava pei viali, si drizzava fin sul bianco muro di cinta e perdeva la cima nell'abisso sottostante. "Mezzanotte!" esclamò, meravigliata del tempo trascorso. E quantunque i rintocchi dell'orologio, che non finivano più, le facessero scorrere un brivido di freddo per le ossa, rimase ancora un istante alla finestra, con lo sguardo smarrito nello spazio, senza pensare, sentendo soltanto un indolen- zimento per tutta la persona, una pesantezza che le inchiodava le braccia sul davanzale e le impediva di rizzarsi. Chiusi i vetri e la imposta, cominciò a togliersi, davanti lo specchio, le forcine dai capelli. Si vedeva pallida, un po' dimagrita, con occhi straniti. Sì, Patrizio e il dottore avevano ragione: era malata tuttavia. Perché voleva nasconderlo? I suoi nervi fremevano. Pure - e si annusava ripetutamente le mani - nessuna traccia di odor di zagara! Ma non voleva dir nulla! Abbassò il lume, si spogliò frettolosamente, ed entrata nel letto, cacciò la testa sotto la coperta per addormentarsi più presto. Gli occhi le si sbarravano nel buio, mentre recitava le devozioni. E si distraeva, ripigliava una preghiera interrot- ta, tornava a distrarsi; sempre con quegli sguardi persecutori davanti a sè, e nell'orecchio il suono delle parole che li a- vevano accompagnati dentro la grotta, lungo l'orrido, nella campagna, davanti a la casa rustica, tra le risate ... Oh, Vergine benedetta! ... Perché vi si fissava? ... Perché non poteva scacciar via quell'ossessione? ... Si agitava nel letto, smaniando, spingendo la testa fuori delle coperte. Le pareva di soffocare. Però, udito nel corri- doio i passi di Patrizio, si rannicchiò e chiuse gli occhi per farsi credere addormentata. Lo sentiva andare e venire in punta di piedi, smovere con cautela una seggiola, posare il lume sul tavolino da notte; poi, per qualche istante, non sentì più nulla; forse si era fermato a osservarla. Il cuore le batteva violento nell'attesa. Ed ecco un fruscio lungo il muro del corsello; ecco due mani che tastavano delicatamente la coperta con cui ella s'era quasi avviluppata la testa, e che cercavano di scoprirla, o di praticare un adito all'aria libera della stanza. "Così soffochi" udì borbottare. Le rivolgeva la parola, quantunque la credesse addormentata. Ed ella, restando immobile e trattenendo il fiato, pro- vava un dolce senso di ristoro nel sentirsi protetta e sorvegliata in quel modo da suo marito, la cui sola presenza bastava in quel momento a tranquillizzarla, a fugarle dall'animo ogni visione turbatrice. "Il caffè lo prenderemo all'aria aperta, su la terrazza" propose il dottore. E tutti si alzarono da tavola. Il sindaco faceva caldi complimenti alla padrona di casa. "Pranzo squisito! Ha visto? Gli ho fatto proprio onore." L'ispettore invece, da buon piemontese, aveva fatto onore alle bottiglie di vino vecchio, regalate dal sindaco in quel- l'occasione all'Agente. Aveva gli occhi imbambolati, il viso rosso; e la lingua impastava male le poche frasi che gli riu- sciva di mettere insieme. Però si reggeva fermo su le gambe, e marciava pel corridoio con aria militaresca, mandando fuori i vortici di fumo del suo virginia, che infastidivano il dottore. Ruggero si era fermato davanti all'uscio per lasciar passare Eugenia, indugiata a dare degli ordini. "È in collera? Non mi ha rivolto neppure una parola!" le disse, scherzando. "Perché dovrei essere in collera?" ella rispose. "Neppure lei ha detto una parola." "Quando c'è papà, bisogna star zitti. Oggi è così arrabbiato con me! ..." "Avrà una ragione." "I padri ne trovano sempre qualcuna per sgridare i figliuoli. Come se non fossero stati giovani anche loro!" "Per ciò hanno un tesoro di esperienza." "Lo lascino acquistare anche a noi!" Pareva ch'ella avesse fretta di allontanarsi, così lestamente andò a raggiungere il cavaliere fermàtosi nel corridoio a discorrere con Patrizio. "Gioventù! Sì, lo capisco" diceva il cavaliere quasi sottovoce. E s'interruppe, visto che Eugenia si scostava, credendo che essi volessero ragionare di qualcosa in disparte. "Oh, signora mia! Niente di segreto. Dicevo: gioventù! a proposito di quel ragazzaccio. Che croce questi figliuoli! Quando ne avrà, me ne darà notizie. I maschi per un conto, le femmine per un altro. Auff! Seguitando il discorso, caro signor Agente, sono del suo parere. È prudenza chiudere un occhio su qualche marachella giovanile; ma tutti e due, no, no! E nel caso di cui le parlo, è bene tenerli aperti, molto aperti. C'è di mezzo il marito, omone più alto di me, che porta il berretto sull'orecchio, a mamma-santissima: mafioso, che scherza col crocifisso come lei con la penna ... Il crocifisso è tanto di coltello, lo sa. Chi potrebbe dargli torto? Tu mi togli l'onore, io ti tolgo la vita. Finora non ha ammazzato nemmeno una mosca. Il passato brigadiere ... lasciamolo stare. Era brigadiere, e il marito forse faceva l'allocco per forza, o perché gli tornava conto: bevevano, mangiavano insieme ... Forse non c'è nulla di ve- ro in quel che dicono le male lingue ... Non voglio entrarci. Infatti, a vederla, colei sembra la Madonna immacola- ta ... È venuta da un anno ad abitare nel vicolo di fronte a casa mia. Chi poteva immaginarlo? Lui dal balcone del- la sua camera, lei dalla finestra. Non lo vedevo più per le stanze, a mettere tutto sossopra come prima ... "Che fa Ruggero?" "È in camera; studia." Bello studio! Telegrafia! Intende? E poi il resto! Ma un angelo è venuto a dirmi all'o- recchio: "Cavaliere, badi! Così e così. Ho visto con questi occhi, ho inteso con questi orecchi". Non so chi m'abbia trat- tenuto dal prendere la canna d'India di mio padre e spezzarla sulle spalle del ragazzaccio! Lo ammonisca lei, caro signor Agente. Di lei ha soggezione; le vuol bene. Anche la signora dovrebbe ammonirlo. Quasi mi mancassero sopraccapi!" Erano usciti su la terrazza, e il Padreterno già portava il vassoio con le tazze del caffè. L'ispettore, rinfrescato dall'a- ria aperta, parlava un pochino più sciolto, questionando col dottore intorno ai beni delle corporazioni religiose soppres- se: "Roba della nazione, la nazione se la è ripresa." "E la volontà dei testatori? E la libertà individuale? E l'autorità della Chiesa?" Appena il Padreterno riportò via le tazze vuote, l'ispettore diventò allegro, e la discussione tra lui e il dottor Mola si riaccese. Il dottore, seduto su la panca di pietra che orlava i quattro lati della terrazza, con le gambe allungate e accaval- ciate, girando i pollici delle mani uno attorno all'altro, aveva dovuto cedere la parola al cavaliere, il quale dava un colpo al cerchio e uno alla botte, per non compromettersi davanti a un funzionario del governo. Il dottore ora approvava, ora scoteva la testa negando, secondo il suo modo di vedere, convinto che sarebbe stato inutile tentar di arrestare un mo- mento la foga della parola del cavaliere; ma l'ispettore, irritato da quella verbosità, stendeva le mani, lanciando di tratto in tratto: "Prego! Prego! Ma veda! Ma senta!" senza poter aggiungere altro, perché il cavaliere: "Capisco! ... Ho inteso! Si lasci servire!" e tirava via, alzando la voce, quasi urlando. "Lasciamoli accapigliare" disse Ruggero, accostandosi a Eugenia, che si era appoggiata al parapetto in un angolo della terrazza. Eugenia non si voltò, nè rispose. "Che cosa ha?" "Sto a sentire." "È di malumore." "Del solito umore." "Che cosa diceva papà all'Agente?" "Non lo so ..." "Parlava di me, l'ho capito." "Dunque perché domandarmelo?" Ruggero rimase alquanto imbarazzato dal tono delle risposte; poi soggiunse: "Per dirle che mio padre esagera." "Esageri, o dica la verità ..." "Non vorrei ch'ella si formasse una cattiva opinione di me." "Io? Che c'entro io?" "Ha ragione!" egli rispose dopo breve pausa. E si rizzò su la vita, guardandosi le ugne, lievemente arrossito in viso. Eugenia non si mosse. Scrostava con la punta dell'indice l'intonaco del parapetto, facendone cadere i bricioli giù nella selva sulla pianta di spigo accosto al muro. A- vrebbe voluto allontanarsi, ma il silenzio di Ruggero la tratteneva. La voce del cavaliere continuava a tuonare, in mezzo alla confusione delle altre voci, dal lato opposto della terrazza; ma ella non prestava attenzione a quel che dicevano. Aveva dentro l'orecchio soltanto il suono triste e rassegnato delle ultime parole di Ruggero: "Ha ragione!" e si sentiva rimescolata da un senso di pietà che le metteva sgomento. Dentro il suo cuore, in quella notte piena di sogni stravaganti e paurosi, era spuntato qualcosa, simile a una fioritura di erbe maligne, che cresceva e si espandeva, abbarbicandosi forte, invadendo ogni spazio, coprendo tutto con la sua ombra cupa, dandole tristezza ineffa- bile; qualcosa, di cui fino a un giorno addietro non aveva alcun sospetto, di cui non aveva pensato a guardarsi, e che di sorpresa l'aveva assalita e vinta ... Oh! ... Vinta no! Si era dibattuta tutta la giornata, non ostante le occupazioni e la compagnia; si dibatteva ancora per isfuggire alla violenza di quella forza, che cercava di assoggettarla; maravigliata che potesse esserle germogliato nel petto un senti- mento che offendeva tutto in lei, pudore, fede, ragione; e più maravigliata che la sua ragione, la sua fede, il suo pudore, la sua alterezza di donna onesta non lo avessero già annientato in un baleno, appena avutane coscienza. Perciò si indignava contro se stessa in quel momento, e serrava i denti per non lasciarsi scappar di bocca le parole che le fremevano su la punta della lingua; e con l'indice scrostava, scrostava l'intonaco del muro, quasi a sfogo, non po- tendo far male, per vendetta, a se stessa, nè ad altri. "Ha dato un gran dispiacere a suo padre" ella disse lentamente. Ruggero tornò ad appoggiarsi sul parapetto, accostandosi un po' più, tanto da toccarle il gomito col gomito. "Ho diciotto anni, ma sono già un uomo" rispose. "Se prometto, mantengo. Do la mia parola d'onore ... a lei. Assicuri a mio padre che non avrà più nessun motivo ..." Sentendolo parlare con voce sommessa e turbata, quasi le mormorasse qualche grave confidenza all'orecchio, Euge- nia s'era subito pentita d'aver provocato quella risposta; e staccando nervosamente col dito un ultimo pezzetto d'intona- co, lo interruppe: "Gliel'assicuri lei, sarà meglio. Sarà meglio" ripetè con accento più calmo, per dare alle sue parole il significato di un amichevole consiglio e nient'altro.

Il Padreterno rideva, arzillo, contento che la sua chiesa abbandonata riprendesse un po' di vita con quel triduo. Che scampanio doveva essere in quei giorni! Insomma, festa coi fiocchi! Così Eugenia si esaltava, certa della prossima liberazione; e stava un po' meno sulla sua con Ruggero, sicura di po- terne sfidare gli sguardi e ascoltarne impunemente le parole. Queste già diventavano di giorno più ardite, d'una arditezza concentrata e contegnosa però, quale poteva essere quella di un giovanotto molto impacciato nella prima avventura con una signora. Ruggero non sapeva precisamente nemmeno lui che cosa volesse e sperasse da quella passione a cui si era abbando- nato dapprima come a uno svago di vacanze e che era diventata a poco a poco molto seria. La tormentosa ansietà che gli faceva girare il capo, spingendolo ad almanaccare cento cose una più assurda dell'altra, lo paralizzava poi nel punto più propizio a lanciare una parola o fare un gesto, un passo decisivo. L'attitudine di Eugenia lo metteva in imbarazzo. Era gradito? Era sgradito? Non lo sapeva con certezza. A volte gli pareva di sì, a volte no. E ogni mattina, avviandosi verso il convento per la lezione di matematiche, prendeva una riso- luzione, tracciava un disegno, scegliendo il luogo, l'ora: preparando con l'immaginazione tutta la scena, quasi i fatti do- vessero accadere proprio come li disponeva lui, o nella selva, o su la terrazza, o in camera di Eugenia, mentre Giulia era distratta o lontana e occupata a stuzzicare l'Agente che fumava digerendo la colazione. Ma se una coincidenza fortuita faceva che le circostanze corrispondessero in gran parte col piano immaginato, e ch'egli ed Eugenia si trovassero quasi soli in fondo a un viale o in un angolo della terrazza, e il ragionamento filasse così bene che sarebbe bastato cogliere al balzo un motto, un atto di lei, per dire alfine quella parola, quella frase preparate con grande studio, rimuginate tanto, e che già gli ribollivano dentro e pareva dovessero sfuggirgli di bocca anche all'insaputa, l'animo gli mancava. Prendeva il largo, faceva dei giri, lasciava scapparsi di mano l'occasione; o rimaneva muto, come adombrato, incapace di saltare l'o- stacolo. E tornava a giurare a se stesso che un'altra volta sarebbe stato meno timido e meno sciocco; sì, meno sciocco. Non parlava, e pretendeva d'esser capito! Santa però lo aveva capito subito, vedendolo assiduo al balcone; e le lunghe occhiate erano state sufficienti per ottenere un buon esito. Un giorno, all'improvviso, ella s'era ritirata dalla finestra, sor- ridendo; e poco dopo era tornata ad affacciarsi per dirgli sottovoce: "Lasciatemi stare: che cosa volete?". "Voglio il vo- stro cuore, comare Santa!" Ah! Con quella non aveva esitato, non aveva avuto timore di niente. Ma era paragone da far- si? E gliel'aveva immolata, povera Santa! E non s'era più fatto vedere al balcone, dalla mattina alla sera, senza una ra- gione! E il giorno che le aveva sentito cantare: "Chiantai un ciuri la misi d'abrili ... Chistu è l'amuri ca un putia finiri ... Facitivi la cruci, ca passau!" era diventato rosso dalla vergogna in camera sua. C'era corso poco non aves- se rotto la promessa fatta prima a Eugenia e poi all'Agente. E che cosa ne aveva ottenuto? Almanaccava altri piani, disponeva altre scene. Ora, finita la lezione, scendeva nella selva e infilava i viali sotto le finestre di lei, sperando di trovarla affacciata, come l'altra volta. Avevano discorso un bel quarto d'ora, in uno di quei giorni che Giulia non veniva con lui; e gli era parso un gran che, quantunque avessero ragionato di cose affatto indiffe- renti. Quel parlarsi così, lei dalla finestra, lui di laggiù, quasi ci fosse stato un impedimento a farlo da vicino, gli aveva da- ta la strana illusione d'un furtivo colloquio di amore; e per ciò ricercava l'occasione di rinnovarlo. Il caso ordinariamente lo aiutava. A quell'ora, da quel giorno in poi, egli l'aveva trovata spesso alla finestra, o l'aveva veduta affacciarsi appena giunto, quasi ella stesse in ascolto per sentire il rumore dei passi di lui pel viale. Però quella volta la sorte gli era stata avversa. Passeggiava da un pezzo su e giù, e i vetri delle finestre di Eugenia rimanevano ancora chiusi. Si era fermato a discorrere col Padreterno, che potava la siepe nana di bosso; e alzava la voce per farsi sentire: "Si lavora, eh? Sagrestano, giardiniere, ciabattino! ..." "Un po' di tutto, per la pagnotta, signorino mio." Ruggero guardò in alto. Neppure un'ombra dietro i vetri! E alzò più forte la voce: "Ve n'andate?" "Ho finito. Vado a spazzare la sagrestia." Ruggero riprese a passeggiare lungo il viale, con gli occhi alla finestra, impaziente. Se Eugenia si fosse affacciata, no, egli non avrebbe saputo dirle nulla, come tant'altre volte! Infine, che cosa voleva dirle? Che mai pretendeva? Niente, niente! Voleva dirle soltanto: "Perché così rigida con me?". Null'altro. Sì, e poi? Come si era messo in testa che poteva essere corrisposto? ... Perché no? Perché no? Ah! Gli sarebbe parso di toccare il cielo col dito. Arrivato in fondo al viale, presso il muro di cinta, s'era messo a cogliere cime di spigo, e le stropicciava tra le mani, aspirandone l'odore, assorto, quando udì il rumore d'un'imposta che veniva aperta. Ma non si voltò subito, per dominarsi. Il cuore gli balzava. Poi salutò Eugenia da lontano, cavandosi il cappello. "Rubo poche cime di spighe" disse. "Hanno un odore troppo acuto" ella rispose. "Ne vuole qualcuna?" Stendeva la mano in atto di porgergliele. "Se riesce a darmela da costì ..." "È facile; guardi." E corse sotto la finestra. "Che cosa fa?" "Mi arrampico a questo mandorlo." "No; può cascare!" "Ho studiato ginnastica." "No!" ella insisteva, vedendolo salire lestamente di ramo in ramo. "Allunghi il braccio." Era già all'altezza della finestra e si spenzolava dal ramo, che s'incurvava pel peso e pareva dovesse spezzarsi. "Oh, Madonna! Dia qua, e scenda subito." Eugenia sporse fuori il braccio, ed egli le afferrò la mano, quasi lo facesse per caso, ritenendola un momento. "Come trema!" "Ho paura per lei." "Si sta così comodi quassù! Possiamo conversare." "Che stravaganza! Scenda, scenda, o mi ritiro." Egli invece si sedeva sul ramo, ridendo: "Si sta così comodi! È un nuovo modo di far visita alle signore" continuava. "Si rischia qualche cosa; le signore do- vranno esser grate ... E lei, all'opposto, minaccia di ritirarsi!" Ma non avrebbe voluto dirle soltanto questo. E si passava la lingua sulle labbra, quasi a provarsi di scioglierla, lieto di veder Eugenia impaurita pel temuto pericolo. "Il ramo cede. Se mi scavezzassi il collo! ..." E per chiasso lo scosse facendolo piegare. "Cattivo!" ella esclamò. E si ritrasse dalla finestra. Però guardava dall'interno, allungando il collo, pregando: "Scenda! Scenda!". E allorché capì che non avrebbe facilmente ubbidito, tornò ad affacciarsi, severa: "Possono vederlo. Che direbbero? Non sta bene. Lo faccia per me!" "Per lei ho fatto ben altro, e non se n'è neppure accorta!" brontolò. Gli pareva d'aver detto anche troppo, e attese un istante la risposta, prima di accingersi a discendere. La risposta non venne. Solamente ella lo seguiva con gli occhi mentre si lasciava calare tra un ramo e l'altro, e, vìstolo saltare a terra, respirò: "Grazie! Non lo faccia più!" "Che cosa dovrò fare dunque?" "Niente" ella rispose. Perché rimaneva alla finestra? Quella breve altezza le pareva un abisso e le dava le vertigini. Si sentiva attirata lag- giù, attirata da quegli sguardi, da quel sorriso pieno di sconforto, da quel silenzio, che pure significava tanto, più di qua- lunque parola; attirata da quella giovinezza fiorente, da quell'aria balda della persona solidamente impostata su le gambe svelte, da quel piede piccolo e ben calzato, che batteva il suolo con moto irrequieto intanto che gli sguardi continuavano a provocarla. Oh, ma sarebbe stato per poco! Altri due giorni ancora, e la Madonna l'avrebbe liberata e salvata! Altri due giorni ancora, e si sarebbe buttata ai piedi di Patrizio per chiedergli perdono, per confessargli tutto, per avvertirlo del pericolo corso e premunirlo per l'avvenire! La bella Madre Santissima doveva aprire la mente anche a lui, doveva toccargli il cuore, farvi scaturire una fontana d'affetto in cui avrebbero tuffate le labbra tutti e due, insaziatamente. Se non faceva questo miracolo lei, Madre di ogni grazia, chi avrebbe potuto farlo? Gli occhi le si riempirono di lagrime la mattina del venerdì, quando le campane suonate a festa dal Padreterno e gli spari dei mortaretti la svegliarono di soprassalto, interrompendole un sogno penoso. Le si accapponava la pelle anche sveglia, quasi ella fosse sfuggita davvero alle minacce di morte di quell'orrida figuraccia che l'aveva inseguita pei corri- doi del convento, per la terrazza, per la selva, incalzandola fin sul ciglio della rupe, da cui si sarebbe slanciata pazza di terrore, se le campane non l'avessero destata. Era molle di sudore freddo, e si sentiva stringere la gola. "Che hai?" le domandò Patrizio. "Sognavo una brutta scena." "Sei ghiaccia! Senti? Il Padreterno si sfoga." Ella chiuse gli occhi, rovesciando supina la testa sul guanciale. Come era dolce quell'allegro suono di campane lan- ciate a distesa mentre la minore squillava con colpi argentini, acutissimi, irrequieti. Pareva che le suonassero proprio sul capo e la sollecitassero a levarsi. Ma ella rimaneva inerte, col cuore ansante, come sconvolto da un addio angoscioso, quasi Ruggero fosse là, così accosto da sentirne il respiro sulla faccia; ed esitasse, timido e rispettoso, nel punto di un bacio supremo, intanto ch'ella non avrebbe esitato più a concedergli le sue labbra ... per la prima e l'ultima volta ... avanti che la Madonna avesse compiuto il miracolo! Rimaneva inerte prostrata da languore delizioso, tutta vi- brante alle ondulazioni del bronzo delle campane che continuavano a suonare a festa: con dentro la gola un singulto sa- litole dal profondo del petto e che non poteva sprigionarsi; singulto che le metteva spavento, perché le pareva dovesse, insieme, sprigionarsele dalla bocca un nome, quel nome che le avrebbe vuotato il cuore e l'avrebbe lasciata libera e pa- drona di se medesima! "No! No!" ella balbettava ansante, spalancando gli occhi al sentirsi inattesamente baciare. "Oh Dio! ... Sei tu? ... Sei tu!" "T'eri riaddormentata?" domandò Patrizio. "Sognavi di nuovo?" "Sì! Sognavo un mostro che m'inseguiva ... mi inseguiva." "Ah!" E credette di sorprendere negli sguardi di lui un lampo di diffidenza, un'ombra di sospetto. Per ciò lo guardava fisso, alla prima luce del giorno, mentre egli, aperti gli scuri e finito di vestirsi, si passava le mani sul viso ancora intorpidito dal sonno, ritto nel mezzo della camera, coi capelli e la barba in disordine, come incerto di quel che doveva fare. Eugenia si levò a sedere sul letto. Le campane davano gli ultimi squilli, quasi stanche della gioia di aver sonato così a lungo dopo il silenzio di parec- chi anni! Soltanto la minore continuava i rintocchi argentini, più forti, più precipitosi; poi, tutt'a un tratto, tacque essa pure. "È una bella giornata?" domandò Eugenia. "Bellissima." "È di buon augurio." "Perché?" "Non canzonarmi, se te lo dico." E soggiunse esitante: "Pel triduo".

Racconti 1

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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- ella mormorava abbandonata deliziosamente su la poltrona. Eugenio, in piedi, la guardava; e aveva su le labbra l'equivoco sorriso - quasi contrazione - di chi, non piú amante, vede ribadirsi la catena creduta già vicina a spezzarsi. Mineo, 25@ 25 marzo 1885@. 1885.

DISPERATAMENTE GIULIA

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Casati, Sveva 1 occorrenze

Giulia evitò di guardare il Cristo dal quale si sentiva ingiustamente abbandonata. Si vestì velocemente. Nell'ingresso infilò un vecchio cappotto di montone e uscì. Attraversò la via Tiepolo facendo lo slalom tra pozzanghere e auto, incurante della pioggia che continuava a cadere. Entrò in un bar tabacchi con l'insegna del telefono pubblico. Un marocchino armato di zelo e di uno straccio sudicio affrontava coraggiosamente un pavimento maltrattato da centinaia di scarpe, ma sembrava destinato a una clamorosa sconfitta. Giulia si avvicinò alla cassa dietro la quale troneggiava una giovane donna che aveva tutta l'aria di essere lì per sbaglio, mentre avrebbe dovuto trovarsi su un aereo per le Maldive. Era di cattivo umore e si vedeva. « Dica », l'aggredì la tabaccala guardando la cliente infreddolita come se fosse una chiazza d'unto sul suo vestito migliore. Un gettone », disse Giulia impaziente allungando duecento lire. « Fuori servizio », sentenziò la tabaccala alludendo al telefono pubblico. « Ma io devo assolutamente telefonare », insistè Giulia sull'orlo della disperazione. « Fuori servizio », ripetè fredda e spieiata come un cobra; quindi si rivolse a un paio di clienti che erano entrati e chiedevano un cappuccino. « Non potrebbe farmi usare il suo? » domandò supplichevole. « Quello lì », soggiunse indicando l'apparecchio accanto alla cassa. « Privato », la gelò senza guardarla, continuando a scambiare sigarette e caffè con danaro contante. « Tabaccala di schifo », scattò Giulia, « città di schifo, gente di schifo, mondo di schifo », gridò coinvolgendo irrazionalmente l'universo intero. Riattraversò il locale sotto gli occhi sbigottiti dei clienti, il silenzioso stupore della tabaccala, l'ingenuo sorriso solidale del marocchino. SÌ diresse quasi di corsa verso il bar latteria di piazza Novelli dove Giorgio e i suoi amici dissipavano la paghetta settimanale in merendine, Coca-Cola e juke-box. Il telefono c'era e funzionava. Giulia compose il numero del tecnico che conosceva a memoria. « Sono Giulia de Blasco », fece appena in tempo a dire all'addetto che aveva risposto all'altro capo del filo. Poi scoppiò in lacrime. Seminascosta fra cassette di birra, Coca-Cola e uno scaffale pieno di pasta e biscotti, nell'odore dolciastro di segatura bagnata, stringendo la cornetta lercia di un telefono pubblico, Giulia pianse senza ritegno. Pianse sulla sua vita sbagliata, sul suo matrimonio fallito, pianse perché anche suo figlio l'aveva lasciata sola, perché quel giorno doveva assistere all'esumazione delle reliquie del nonno Ubaldo. Pianse perché aveva la casa gelida, perché il telefono non funzionava, pianse perché a quarant'anni s'era innamorata come una ragazzina, ma soprattutto pianse perché lei stessa era andata in tilt. Qualcosa nella mirabile costellazione del suo organismo si era inceppato. Le cellule di un nodulo al seno prelevato un mese prima non erano del tipo regolamentare. Erano di quelle che continuano a ripetersi senza fermarsi mai. Come un interruttore che si accende e non si spegne più. Quel giorno accidioso di dicembre Giulia piangeva per molte cose, ma soprattutto perché aveva un cancro.

CENERE

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Deledda, Grazia 1 occorrenze

A fianco della bottega di Maestro Pane, in un altro bugigattolo nero di fuliggine e di ragnatele, marciva una misera ragazzetta inferma, del cui padre, partito per lavorare in una miniera africana, non s'era saputo più nulla: l'infelice creatura, soprannominata Rebecca, viveva sola, abbandonata, piagata, su una stuoia lurida, fra nugoli d'insetti e di mosche. Più in là abitava una vedova con cinque bambini che mendicavano; lo stesso Maestro Pane chiedeva spesso l'elemosina. Con tutto ciò la gente era allegra: i cinque bimbi mendicanti ridevano sempre, Maestro Pane parlava con se stesso ad alta voce, raccontandosi storielle amene e ricordandosi fatti allegri della sua gioventù. Solo nei meriggi luminosissimi, quando il vicinato taceva e le vespe ronzavano tra i fiori del sambuco, conciliando il sonno al piccolo Anania coricato supino sul limitare della porta, vibrava nel silenzio caldo il lamento acuto di Rebecca, che saliva, si spandeva, si spezzava, ricominciava, slanciavasi in alto, sprofondavasi sotterra, e per così dire pareva trafiggesse il silenzio con un getto di freccie sibilanti. In quel lamento era tutto il dolore, il male, la miseria, l'abbandono, lo spasimo non ascoltato del luogo e delle persone; era la voce stessa delle cose, il lamento delle pietre che cadevano ad una ad una dai muri neri delle casette preistoriche, dei tetti che si sfasciavano, delle scalette esterne e dei poggiuoli di legno tarlato che minacciavano rovina, delle euforbie che crescevano nelle straducole rocciose, delle gramigne che coprivano i muri, della gente che non mangiava, delle donne che non avevano vesti, degli uomini che si ubriacavano per stordirsi e che bastonavano le donne ed i fanciulli e le bestie perché non potevano percuotere il destino, delle malattie non curate, della miseria accettata incoscientemente come la vita stessa. Ma chi ci badava? Lo stesso piccolo Anania, coricato supino sul limitare della porta, scacciava le mosche e le vespe agitando un fiore di sambuco, e pensava istintivamente: «Uh! Perché grida sempre quella lì? Cosa la fa gridare? Non ci devono essere gli ammalati nel mondo?». Egli s'era fatto tondo tondo, ingrassato dai cibi abbondanti, dal dolce far niente, e sopratutto dal sonno. Dormiva sempre. Ed anche nei meriggi silenziosi, nonostante il grido continuo di Rebecca, egli finiva con l'addormentarsi, col fior di sambuco nella manina rossa, e il naso coperto di mosche. E sognava di trovarsi ancora lassù, nella casa della vedova, nella cucina vigilata dal gabbano nero che pareva un fantasma appiccato: ma sua madre non c'era più, era fuggita, lontano, in una terra ignota. Ed un frate veniva dal convento, ed insegnava a leggere e scrivere al piccolo abbandonato, che voleva studiare per mettersi in viaggio alla ricerca di sua madre. Il frate parlava, ma Anania non riusciva a sentirlo, perché dal gabbano usciva un lamento acuto e straziante che assordava. Dio mio, che paura! Era la voce dello spirito del bandito morto. Ed oltre alla paura, Anania provava un gran fastidio al naso ed agli occhi. Erano le mosche.

ARABELLA

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De Marchi, Emilio 4 occorrenze

Il fermarsi improvviso che fece la carrozza scosse Arabella da quello stato di assopimento in cui s'era abbandonata nell'appoggiare la testa alla parete del legno, nel chiudere gli occhi, nel lasciarsi cullare e stordire dal rumoreggiare delle ruote. Saltò in terra, mise nelle mani del cocchiere il prezzo della corsa, e, senza dire una parola, sparve nell'andito oscuro della porticina, e al buio, cercando a tastoni una scaluccia, giunse sopra un ballatoio che dava verso il cortile. Un sogno non avrebbe potuto essere più sogno di questa lugubre realtà di trovarsi a nove ore di sera sopra il ballatoio di una povera casa, in luogo sconosciuto, esposta al vento e alla pioggia, che strepitava in un cieco cortile, dove certe piantone nere si agitavano e stormivano nell'ombra. La casa pareva deserta. Solamente un quadretto di luce, sfuggendo da una finestra, andava a sbattere sul fondo verdone di un castagno amaro, che riempiva de' suoi rami l'angolo del cortile. Arabella, camminando rasente il muro, lungo il ballatoio per non essere battuta dalla pioggia, picchiò leggermente nella finestra illuminata. La Colomba, col capo ravvolto in un fazzoletto di cotone, dall'orlo del quale uscivano alcuni pizzi di capelli bianchi, cogli occhiali sul viso, aprì la finestra, e sollevando la lampadina a petrolio che impallidì al soffio dell'aria, domandò: "Chi è?" "Sono io, Colomba." "Chi?" chiese un'altra volta la donna, mettendo fuori il capo. "Sono l'Arabella." "O santa Maria Maddalena!" "Aprite l'uscio." "Passi di là. Vengo subito. O santa Madonna del Rosario!" E corse ad aprire la finestra ad uscio, che dava direttamente sul ballatoio. "Lei? ma è proprio lei? con questo tempo? cari angeli, ci porta qualche buona notizia?" "Lasciatemi sedere." "Cara vita mia, è tutta un'acqua. Da dove viene? Aspetti che ora faccio un po' di fuoco. Si sente male?" "No, abbiate pazienza. Lasciatemi tranquilla un momento. Ora vi dirò tutto." "Qualche altra disgrazia? si segga, riposi: già, non mi aspetto più nulla di bene." "Ferruccio?" "Hanno voluto quasi ammazzarlo. L'hanno buttato in terra, percosso alla testa, peggio degli assassini di strada. Poi dette fuori la febbre, il delirio, la congestione che ha tenuto sospeso il dottore fino a stamattina. Oggi s'è un poco risvegliato; ma pareva diventato matto quando la febbre me lo bruciava vivo. Se non divento matta anch'io, è perché il Signore vuole che io rimanga a soffrire per me e per gli altri, per i vivi e per i morti. Si asciughi i piedi. Da dove viene con questo tempo?" "Son venuta a cercarvi una carità. Lasciatemi qui fino a domattina." "Io usare una carità a lei?" "Vengo qui dopo aver schiaffeggiata una donna. Sentite, tremo tutta." "O santa pazienza, che cosa mi dite?" "Non vi ha mai detto Ferruccio che mio marito manteneva un'amante?" "O poverina, capisco che abbia a tremare. Come l'ha saputo? e ha avuto il coraggio? oh quanti mali ci sono nel mondo, vero, pover'anima? Adesso si calmi; taccia, riposi. Le farò scaldare una goccia di caffè. L'ha presa a schiaffi? capisco, ci son certe cose... Non parli adesso. Lasci quietare il cuore. Vado un momento a veder quel figliuolo... Intanto prenda. Questa è una corona benedetta al santuario di Caravaggio. Se anche non si sente di pregare, se la tenga nelle mani. In certi momenti le nostre forze non bastano e bisogna attaccarsi a qualche cosa di più forte. Del resto, viva la sua faccia! se l'ha presa a schiaffi..." In queste parole la Colomba gironzava per la cucina, mettendo le mani sulle cose senza concluder nulla. Finalmente si ricordò d'aver promessa una goccia di caffè e accostò un bricco nero e affumicato al fuoco. Poi andò nello stanzino a vedere Ferruccio, che giaceva assopito colla testa avvolta in pezze ghiacciate. La zia Nunziadina, seduta ai piedi del letto nell'ombra oscura del paralume, faceva la calza. Dopo la benedizione che la povera nanina aveva fatta dare a sue spese a San Barnaba, Ferruccio cominciò subito a migliorare: perciò il cuore della zia aveva qualche ragione d'essere più contento e di sperare. "Chi è venuto?" chiese sottovoce alla Colomba. "È la sora Arabella, ma non disturbarla: va in letto a riposare, che resto io." "Ha aperto due volte gli occhi." "Ha cercato da bere?" "Gli ho dato due cucchiai di acqua e zucchero." Il vento e l'acqua infuriavano sui tetti. "Par la fine del mondo" mormorò la zia Colomba. Arabella, cogli occhi fissi alla lingua di fuoco che serpeggiava nel vano nero del caminetto, si abbandonò col pensiero e si lasciò assorbire nella sua stanchezza dai bagliori della fiamma. Si dimenticò, pesando col corpo sulla povera scranna di paglia, come chi sta per addormentarsi dopo un lungo e faticoso cammino. Anima e corpo sospiravano un minuto di riposo, dopo la gran corsa attraverso alle strade e alle persecuzioni umane. Il volto, fatto più acceso dall'affanno e dai riverberi del fuoco, splendeva d'una bellezza più asciutta e più vigorosa, in cui gli occhi neri, forti e risoluti, mandavano dei lampi insoliti. Il piccolo berretto o tòcco di astrakan, che le copriva a stento la cornice dei capelli, dava alla fuggitiva un carattere ardito di viaggiatrice, un'aria straniera al suo carattere, un non so che di avventuroso, che sarebbe molto dispiaciuto alle buone madri canossiane. "È un tempo indiavolato!" disse la Colomba, rientrando e mettendosi in ginocchio davanti al fuoco. Le due donne rimasero così un po' di tempo in silenzio, mentre il bricco cominciava a fremere nella brace e a mandar bollicine dal becchetto. Ravviato il fuoco, la Colomba tolse dalla dispensa una bella chicchera dall'orlo rosso e servì il caffè. "Si scaldi lo stomaco, poveretta: il caffè rianima. Io non vorrò niente altro in punto di morte. Possiamo farci compagnia, mentre quel povero ragazzo è quieto. Lei dunque ha saputo, e ha dato un paio di schiaffi a quella... E ora non vuol tornare a casa?" "No." "Andrà a casa, dalla sua mamma?" "Non so." "Non sa, cara pazienza? Se io avessi un palazzo a mia disposizione, sarei così contenta di offrirglielo." "Povera Colomba…" "Povera, sì, povera, in tutti i sensi, il mio bene. Eran più di vent'anni che vivevo tranquilla, come se il Signore mi avesse perduta di vista. Non si fa male a nessuno, veramente: e quel poco di bene che si può fare non ci rincresce. Bastò una parola per renderci i più disgraziati del mondo: l'uno è in prigione, l'altro in punto di morte, Nunziadina è convulsa per lo spavento, e io non so se sono di questo o di quell'altro mondo. Vede dunque che tutti abbiamo le nostre tribolazioni e forse le più grosse non sono ancora quelle che si possono contare." La pioggia verso mezzanotte cominciò a calare, e prese più fiato il vento che scendeva a mugolare nella canna del camino. Le due donne rimasero un pezzo in segreti discorsi nella luce del fuoco. Arabella contò le sue passioni, colla confidenza che ispirano le anime semplici, provando nel togliere i pesi dal cuore un primo sollievo. "Vorrei scrivere una lettera a mio zio Demetrio." "Sulla scrivania di Ferruccio c'è carta e penna. Venga con me." Passarono insieme nello stanzino sulla punta dei piedi, e si accostarono al letto. Arabella pose una mano sulla mano dell'infermo assopito e stette un minuto ad ascoltare il battito dei polsi. Ferruccio aperse un pochino gli occhi. Siccome veniva fuori da una selva di sogni fitti, di vaneggiamenti e di stravaganti deliri, stentò a ritrovarsi, a ricordare, a distinguere il vero dalle ombre. Nel pesante sopore in cui più d'una volta vide suo padre accapigliarsi col sor Tognino, gli era parso di udire la voce della zia Colomba mescolata ad altri rumori che lo menavano lontano, ai giorni della sua fanciullezza, tra i compagni di stamperia, tra i chierici del seminario, tra le più remote e abbandonate sensazioni della sua vita oscura o modesta. "Ho sete" balbettò sbarrando gli occhi. Non ben desto gli parve di vedere la signora Arabella attingere dell'acqua a una fontana che scaturiva lì presso, nella luce abbagliante d'una lucerna, e curvarsi verso di lui a refrigerargli la bocca e la fronte abbruciata. Capì ch'eran sogni di febbre e voltò il capo con espressione dolente, chiudendo di nuovo gli occhi. "È meno arso di stamattina" disse sottovoce la donna. "L'occhio lo trovo limpido." "Ora non delira più, ma ieri faceva pietà. Ha nominato anche lei." "Povero giovane!" "Vuol scrivere? sul tavolino c'è tutto. Non guardi il disordine. Sono i libri di questo figliuolo che, quando può, ama leggere e scrivere. Fa qualche volta anche dei sonetti che il padre Barca trova mica male. Io mi accomodo nella stretta e appoggio un poco la testa ai piedi del letto." La Colomba collocò la lucernetta sulla scrivania, tirò davanti un vecchio paravento per togliere la luce dagli occhi del malato e andò a sedersi su un cuscino in terra per poter appoggiare la testa piena di sonno e di dolori al materasso. Arabella, segregata tra le finestra e il muro, si tolse il mantello dalle spalle, collocò il berretto sul tavolino, e scelto un foglio tra quelli ch'erano sparsi tra i libri, cominciò a scrivere d'impeto: "Caro zio Demetrio, la sua povera Arabella, dopo aver inutilmente sperato nell'aiuto di Dio, non ha altri a chi ricorrere che al suo buon zio, che fu sempre per lei come un padre. Immagini in quale abisso io son caduta da queste parole: ho abbandonata stasera la casa di mio marito, disposta a morir di fame piuttosto che ritornarvi. Ho schiaffeggiata una donna... O mio caro zio, lei conosce quasi giorno per giorno la mia vita, i miei sentimenti, la mia religione, la mia forza di resistenza al male e all'ingiustizia: quindi non ho bisogno di dimostrarle che se ho potuto venire a questa risoluzione, è proprio perché non ne posso più, non ne posso più. Avrei a scrivere troppo se soltanto accennassi alle vicende dolorose che mi hanno condotta a poco a poco a questo passo. Mi hanno strappato alla mia vocazione, hanno fatto di me una specie di cambiale che doveva riparare a un disastro di famiglia: mi hanno circondata di un fasto senza amore; e quando cominciavo a vivere de' miei affetti di madre, hanno insultato me e la mia creatura per odio al nome che porto; ora che mi pareva di aver tutto perdonato mi insultano nella più sacra mia dignità di donna, mescolandomi ad avventure di trivio... "Io mi domando se non ho insultato anch'io al mio dovere, credendo che il dovere di una donna onesta possa arrivare fin qui. Questa non è vita, è una condanna che sento di non meritare. Dovessi lavorare venti ore al giorno, logorarmi gli occhi e le mani per un boccon di pane, sarà sempre una condizione più degna di questa quiescenza e quasi complicità a un sistema di cose che viola ogni legge di onestà, di delicatezza, di rispetto. "Immagino il suo stupore, povero zio, nel leggere queste parole. Ella chiederà se io impazzisca; non crederà possibile che la sua Arabella osi scrivere a questo modo. Si meraviglierà anche perché io non le ho scritto mai nulla di questo stato di cose e che aspetti a gridare aiuto quando l'acqua mi arriva alla gola. Sì, è vero: non ho osato prima di quest'oggi dolermi con nessuno e invocare l'aiuto di nessuno, perché ho sempre creduto che avrei vinta da sola l'iniquità della mia sorte; perché non volevo coi miei lamenti accusare la buona fede di nessuno; perché speravo ancora nell'aiuto di Dio e, superba come sono, speravo nella forza del bene. Dio forse mi punisce, o almeno mi abbandona. Il male è più forte del bene nel mondo, dove, per un cuore che si sacrifica in olocausto sull'altare della virtù, cento egoismi vigliacchi e potenti trionfano incoronati della loro sfrontatezza. Il bene è un sole luminoso ma troppo in alto, mentre di male è seminata la terra che non dà altro frutto e di questo bisogna mangiare per vivere. Mentre scrivo colla febbre indosso, mi pare che anche l'inchiostro abbia color di fango. Zio, o io sono per impazzire o sono molto malata. Non frapponga indugio: venga, non mi lasci naufragare in quest'oceano di amarezze... intendo di chiedere la separazione legale, subito, senza esitazioni, senza restrizioni. Intendo restituire a quella gente tutto ciò che potrò restituire e di partirmene più povera di prima. Nessuno compenserà il male che questa gente mi ha fatto, ma io perdonerò tutto, se ciò può muovere la misericordia di Dio ad aver compassione di me. La fede non basta, lei forse lo sa, che ha sofferto anche lei la sua parte nel mondo. Sopraggiungono pensieri che per poco non spingono alla disperazione. Venga subito a Milano, mio buon zio, e faccia valere per partir subito, la ragione che una sua povera nipote è sull'orlo del sepolcro. Più malata di me non si può essere e la morte dev'essere una cosa ben terribile, se per morire si deve soffrire di più. Mi telegrafi il suo arrivo qui a Milano in casa..." La mano fu arrestata nella ricerca d'un indirizzo. Arabella alzò la testa, come se si svegliasse da un lungo sonno, si guardò intorno con occhio smarrito, impaurendosi di trovarsi a un tratto sola, in casa altrui, di notte, ospite di gente quasi sconosciuta. Che cosa era venuta a fare in questa casa non sua? La Colomba, rotta dalla fatica, s'era addormentata col capo appoggiato al letto. Il suo respiro lungo e oppresso era l'unico rumore che rompesse il gelido silenzio della stanza, mentre di fuori la furia d'un vento primaverile faceva stormir la pianta. Qualche stella scintillava sul nero sfondo dei vetri. Sentì sonare alcune ore che il vento portò via senza lasciarle contare. Coi gomiti appoggiati al tavolino, reggendo la testa coi palmi, rabbrividendo ai soffi freddi che entravan per le fessure, Arabella si abbandonò alla vertigine de' suoi pensieri, che la travolsero di ombra in ombra fino all'orlo di un assopimento che ha del sonno tutti i fantasmi ma non l'oblio. E poiché tutti i dolori si conoscono tra loro, il suo patimento presente la menò a risentire le angoscie provate al letto del povero Bertino, a confondere nel rilassamento delle sensazioni se stessa col povero piccino agonizzante, a compassionare se stessa in lui, a combattere confusamente contro la morte, che voleva portarsi via il caro biondino. Rivide lo squallore delle Cascine, lo smarrimento della sua povera mamma divenuta vecchia vecchia. E allora cercava di dimostrarle che il malato non era il bimbo, ma un'altra creatura, che perdeva la vita col sangue negli spasimi mortali di un aborto: finché sopraggiungeva anche lo zio Demetrio a fare un discorso lungo e confuso sul conto del signor Tognino... Si risvegliò a una voce che chiamava lì presso. In principio credette che fosse ancora lo zio Demetrio, ma quando riconobbe il luogo, la scrivania, la lettera rimasta tronca, capì che aveva fatto un sogno. "Ho sete..." ripeté ancora la voce di poco prima, La Colomba dormiva pesantemente sdraiata sul tappetino. Arabella, riconosciuta la voce del malato, si alzò, pose la lucernetta sul cassettone e si mosse a dargli da bere. Ferruccio s'era un poco levato sul cuscino per togliersi il sacchetto del ghiaccio, che gli scivolava dietro il collo. Vedendo venire verso di lui la signora Arabella, socchiuse gli occhi e dondolò un poco la testa, come chi si accorge di vaneggiare sempre e mostra di compiangere se stesso. Arabella versò dell'acqua nella tazza e l'accostò alla bocca del malato, che riaprì gli occhi e bevette quasi fino al fondo. "Come si sente?" Il giovine fissò gli occhi in faccia alla sua visione e interrogò ancora una volta colla pupilla immobile: "È proprio lei?" balbettò. "Vuol bere ancora?" "No, no..." disse Ferruccio, senza mai distaccare gli occhi dalla sua visione. "Vuol ancora il ghiaccio sulla testa?" "No, no..." e allungò la mano per prendere quella del suo fantasma. Sentì veramente una mano viva e calda. E, come se da quel calore irradiasse la vita, la faccia dell'infermo arrossì, la pupilla si illuminò, e dopo aver chiusi gli occhi per sottrarsi a un acuto tormento, li riaprì velati di lagrime. "Perché è qui?" interrogò sommessamente. "Lo saprà: ora stia tranquillo e lasci riposare la povera zia." Ferruccio si tirò sotto obbediente. Non era ben sicuro che non fosse un sogno. Cominciò ad albeggiare. Il cielo prese a schiarirsi dietro i ricami del castagno amaro, in cui svegliavasi il bisbiglio degli uccelli. La lucernetta non avendo più olio, Arabella la portò in cucina e la spense: poi ritornò nello stanzino, coprì le spalle col dolman, si rannicchiò di nuovo davanti alla scrivania, la faccia nelle mani, tutta raccapricciante nei brividi mattutini, mezza istupidita dal sonno e dalle emozioni. A San Barnaba suonò l'avemaria, e ad ogni rintocco della campanella il cielo seguitò a schiarirsi, come se obbedisse ad un comando, finché una pennellata di carminio venne ad illuminare i comignoli e le gronde dei tetti. Il vento, spazzate le nuvole, aveva preparata una splendida giornata alle miserie umane. Ferruccio raccolse l'armonia di quel risveglio e cercò inutilmente intorno a sé la dolce immagine, che era venuta a porgere ristoro alle sue fauci infocate. Vide invece la zia Colomba, che, riscossa dal suono della campana, saltava in piedi tutta agitata. "Hai dormito?" "Sì." "Tu sei più fresco, mio cuore. Ho dormito anch'io un pezzo." Ferruccio si persuase ch'egli aveva proprio sognata la dolce consolatrice e sospirò. La zia Colomba nel suo dormire fitto e pesante aveva dimenticata interamente la povera creatura che era venuta a cercare ospitalità in casa sua e fu per trasalire di paura, quando vide un corpo mezzo abbandonato sul tavolino nella luce crepuscolare. Si accostò, posò la mano sulla testina fredda, e presa da quell'impeto di carità umana, che nel cuore della povera gente non è ancora guasto dalle definizioni, si abbassò su quel corpo irrigidito, strinse la testina nelle mani, vi accostò il viso per riscaldarla e seguendo i suggerimenti della buona madre natura, prese a dire sommessamente: "O la mia povera figliuola, o il mio caro angelo, che ho abbandonato qui solo a patire. O il mio povero faccino freddo, le mie povere manine... Il sonno ha tradito anche me..." A questa voce che la compassionava, come se in lei si spezzasse un edificio di ghiaccio che l'aveva sorretta nella sua rigida lotta contro gli uomini, nella debolezza in cui è sempre la coscienza mescolata alle ombre dei sogni, Arabella fu presa da un tal delirio di pianto, che una bambina schiacciata dalle ruote di un carro non avrebbe potuto gridare di più. Quel gran mucchio di mali, che da otto mesi era andato accumulandosi a fuscellini, divampava in una fiammata. Oh avete un bel dire che la donna è nata pel sacrificio, che può colla grazia e colla sua forza morale vincere e abbellire la tristezza d'ogni destino, assurgere al disopra del fango che la circonda, compiere anche in mezzo alle abbiezioni la sua missione d'amore e di pazienza! Avete un bel dire che a lei la fede è sostegno incrollabile: non è vero. La donna ha bisogno d'amare e d'essere amata, come il fiore ha bisogno d'aria e di luce. Quando la violenza delle cose, la debolezza dei giusti, la tirannia dei tristi costringono una debole creatura a respirare aria corrotta, e voi non date a una povera donna che amarezze, oltraggi e fango, null'altro che fango, lasciate almeno che essa gridi del male che le fate... Coi pugni dentro i capelli scarmigliati dalla veglia, Arabella Pianelli gridava veramente in un pianto lamentoso senza lagrime, dilaniata dalla coscienza del suo stato, avvilita dopo una notte di falsa e morbosa resistenza, assiderata dal freddo della febbre e della notte. "Non così, non così la mia creatura...." prese a dirle all'orecchio la Colomba, serrandola alla vita colle braccia e posando la sua testa grigia sui capelli morbidi e biondi della tribolata. "Non così, per amor di Dio. Ciò può far male anche a questo figliuolo malato. Crede che non ci sia un Signore anche per noi? Io capisco e compatisco, angeli custodi, ma non bisogna mai disperare della Provvidenza. Questo è un piangere che rompe il cuore e del nostro cuore dobbiamo rendere conto come di un vasetto d'oro che Dio ci ha dato in custodia. Ti hanno maltrattata, il mio angelo; ti hanno venduto, avvilito, insultato nel tuo sentimento di sposa e di madre, e so che certi mali fan perdere la testa. Tu non hai meritato questi castighi, è vero; ma sappiamo noi se non soffriamo per il bene di qualcuno? Nostro Signore aveva meritata la sua passione? E tante povere mamme che non han da dare da mangiare ai loro figliuoli, meritano di soffrir tanto? Noi non sappiamo nulla dei misteri del mondo, cara Arabella; ma dobbiamo tener dacconto il nostro cuore, perché gli è come il tabernacolo del Santissimo. Se non ci vorranno bene gli uomini, ci vorranno bene gli angeli, ma noi dobbiamo aver sempre pronto il cuore a ricevere il bene che ci vorranno dare o presto o tardi. Su dunque, alza la testa, mio caro angiolo, e vieni fuori con me, un momento. C'è qui la chiesa vicina: noi abbiamo bisogno di essere aiutate a patire..." La Colomba ricondusse la figliuola di nuovo nell'altra stanza. Le ravviò un poco le vesti; fece un po' di fuoco ancora e versò quel resto di caffè che era rimasto in fondo al bricco. La persuase a non mandare per ora la lettera allo zio Demetrio e a cercar invece di quella sua amica di collegio, l'Arundelli, a cui poteva confidare il suo segreto. Meglio di tutto poi sarebbe stato di andare alle Cascine in cerca della mamma. La mamma è il miglior dottore per certi mali...

Credette di sentirsi meglio, quando fu sola e che le parve d'essere abbandonata. Se avesse ceduto alla tentazione del cuore, avrebbe lasciata anche la strada maestra per mettersi attraverso i campi e perdersi nei prati che affondano nel guazzo e nella nebbia. "A che pro Dio le aveva fatto conoscere questo affetto, se anche questo doveva diventare nel suo cuore uno strumento di tortura? non era più sicura nella sua ignoranza? Ora comprendeva, e troppo tardi, che cosa sia per una donna amare. Ora solamente e inutilmente entrava nello spirito delle parole grandi e divine che amore ha ispirato in tutti i tempi. Se fino a ieri, per non dire fino a poche ore fa, essa non aveva amato che come una sorella, come una madre, come un'anima buona e pietosa, un poco per dovere, un poco per naturale compassione, un poco per incapacità ad amare diversamente; ora sentiva d'essere non più una collegiale, ma una donna. Il suo cuore ardeva... A che pro? chi l'aveva trascinata in questo fuoco? Perché invece di rifugiarsi alle Cascine, non tornava indietro a dividere con quel povero giovine i pericoli dell'esilio? Vivere, lavorare, patire insieme a lui, in una remota parte del mondo, amarsi sopra uno scoglio, morire con lui..." Ah! non era lei che pensava queste cose. Era la febbre, era la gran sete che la faceva delirare. Le gore che stagnavano all'orlo della strada, l'attiravano con malsani luccicamenti a gettarsi nell'acqua nerastra e livida, tanta era l'arsura. "Perché doveva nutrire della sua vita fatta a brani il pacifico egoismo di tutti gli altri? perché vietare a sé stessa un'ora di follia? che cosa poteva fare per avere un'ora di felicità? che cosa aveva commesso nella sua vita, perché non potesse essere contenta mai, mai, mai?" Le sue idee a un tratto si rischiararono. Si ricordò che aveva consacrata la sua esistenza a Dio in espiazione dell'anima di suo padre suicida. Dio l'aveva accettata: ma aveva scelto lui l'altare e la forma del sacrificio. Non era lei che parlava, ma parlava la febbre che le abbruciava gli occhi, che le faceva veder rossa la strada e color del sangue le pozze d'acqua dentro le carreggiate. Per quanto le repugnasse di tornare nelle braccia d'un uomo che non amava: per quanto il mentire fosse contrario alla sua natura, con tutto questo non poteva dire a' suoi parenti: "Pensate quel che volete voi, ma ogni conciliazione è impossibile. Io non resto più. Vado via, vado a morire in un paese lontano, tra altri barbari meno feroci di voi". Come dire queste orribili cose a sua madre, a suo marito, al suo benefattore? Son gridi che una esaltazione febbrile può strappare dal cuore: ma fin che resta in mezzo al male un filo di coscienza e di ragione, c'è sempre qualcuno dentro di noi che si ostina a ripetere: "Impossibile, impossibile!". Essa stessa andava avvertendo nel suo modo di ragionare un non so che di spezzato, d'intermittente, come se in lei dialogassero due persone, come se tutto il suo essere si sdoppiasse, come se due donne corressero di pari lungo i regoli del binario alla luce d'una vampa. La febbre suscitava in lei una nervosa energia di pensiero. La sete, il caldo, mandavano al cervello grosse e deformi le ombre fantastiche, congiuravano a rendere gigantesco e spaventoso il suo patimento, a sconvolgere il senso delle cose. Quando dal cuore i mali salgono al capo, quando da ventiquattro ore ti pesa una brace sul petto, quando la sete ti divora le viscere, la vita diventa un sogno, i sogni ridiventano la vita: il vero e l'ombra si mescolano: non sai fin dove vaneggi e fin dove soffri davvero. Forse ti pare di correre sopra uno stradale lungo, interminabile, melmoso, in una bigia, interminabile giornata: e tutto ciò non è che lo sforzo impotente che tu fai nel tuo letto per rompere un vaneggiamento febbrile, per uscire da un fastidioso delirio. A un certo punto lo schioccare d'una frusta la richiamò al senso della realtà. Essa aveva già oltrepassato il palo che segna la fermata. Le parve che un uomo dietro di lei le gridasse qualche cosa di seccante, di inafferrabile, e affrettò il passo, persuasa che il suo dovere fosse di correre sempre avanti per arrivare più presto alle Cascine, per salvarsi da una tentazione, per gettarsi a' piedi de' suoi a chiedere perdono. Più camminava però e più sentiva le gambe farsi pesanti e le vesti intralciarsi al passo e avviticchiarsi come drappi umidi: e il piede sprofondare in un pantano di materialità ributtante e grossolana, in cui spiccicavano delle idee non meno ributtanti e grossolane. Il rimorso, ritrovandola così debole e sconvolta, tornava a riprendere d'assalto la debole coscienza della monachella e diceva: "Vergognati! hai lasciata la tua casa, hai abbracciato e baciato vergognosamente un povero giovinetto, hai sgomentato la sua vergine coscienza, torna a casa, espia, espia..." Non era meglio morire? non incalzava dietro di lei qualche cosa di fatale e di tremendo? Se invece di correre troppo presto verso la sua condanna, avesse rallentato il passo, si fosse sdraiata in terra...? Anche il povero papà era passato per queste spine, per questa strada melmosa, in cui l'anima affoga nel fango. E se non era lui vivo, era il suo fantasma inquieto, che camminava dall'altra parte, lungo il regolo del binario, e che le diceva: "A che giova il tuo sacrificio? tu non lo compi con rassegnazione, e il bene che si fa con rancore non giova né ai vivi né ai morti. Tu mordi la tua catena e imprechi contro di me: così siamo due anime perdute. Va a casa, Arabella, abbraccia la tua povera mamma e domanda perdono, perdona tu per la prima... corri, corri: non vedi che piove? corri, vien la macchina..." Il tram a vapore, lasciate le ultime case, veniva veramente per la strada grossa con una crescente velocità, sbuffando e rompendo la nebbia grigia coi due fanali d'un rosso sanguigno. Arabella nel suo delirio ne aveva più che il presentimento, lo sentiva, lo temeva: ma non sapeva distinguere quanto di vero entrasse nel sogno, e, come chi sogna, non sapeva risolversi. Ma il desiderio della vita la prese. Incapace di uscire dalle due guide, ch'essa vedeva alte come due muri di ferro, cominciò a correre, quanto poteva permettere la strada molle, ingombrata dalle traversine. Perché non avrebbe lasciato venire la morte? Molti terrori s'illuminarono nel buio del suo pensiero delirante e vide dentro a un baratro di fuoco gli eterni spaventi del morire disperata. Perché non usciva dunque dal binario? La macchina già poco lontana fischiava, la campanella sonava a stormo. Essa fece il segno della croce per resistere alla tentazione di sdraiarsi sul terreno. Era affranta, resa ottusa da un sonno di piombo. La sua fede ripugnava con energica resistenza al suicidio. "Oh no Madonna, no, morire a questo modo." Perché dunque non andava fuori di un passo? non poteva. C'eran quei due muri di ferro. Una volta incespicò, cadde sopra un ginocchio, si rizzò subito, prese a correre, a strillare; Gesù, Maria, che sogno! Dietro di lei molte voci gridavano, infuriavano. Pareva un popolo insorto che l'inseguisse per farla a brani. C'era in quella folla l'Angiolina ortolana. Ne sentiva la voce inviperita. E le parve ancora una volta che papà cercasse di strapparla dal pericolo, tirandola pel lembo del vestito, che si sfilacciava in mano al fantasma. Poi qualcuno nero e duro la prendeva alla vita, la sollevava, la buttava nel fango della strada. La macchina col treno si fermò a due passi di distanza. Da un pezzo il macchinista aveva notato la donna che si ostinava a camminare sul binario, e col fischio, colla campana, aveva dato tutti i segnali. Una volta gli parve che la maledetta donna avesse capito, perché la vide uscire dalle guide, ma subito dopo tornò dentro col passo d'una ubbriaca. Dette il controvapore, strinse i freni. La gente, mettendo la testa dalle finestre, cominciò a urlare. Un giovine fochista balzò a terra, strabalzando, e presa la donna attraverso la vita, arrivò a tempo per un pelo a gettarla in disparte come un sacco di cenci. Molti discesero dai vagoni (c'era anche Lorenzo, che l'aveva cercata inutilmente alla stazione), circondarono la donna, la raccolsero. Venne a passare un carro delle Cascine, ve l'adagiarono, la portarono a casa più morta che viva. Chiamato in fretta il dottore, giudicò un tifo, gravissimo, forse senza speranza. Arabella per tre o quattro giorni non fece che delirare e chiamare con alti gridi Ferruccio, la Colomba, il suo papà morto, lo zio Demetrio, suor Maria Benedetta. La voce arrivava fino alla stanza di Angelica, oltre la Colorina. Nell'arsura infernale d'una febbre di quaranta gradi, balzava dal letto e guai se Lorenzo non era presto ad abbracciarla, a riporvela, a tenervela! Scarmigliata, cogli occhi distrutti e infossati, essa era più forte di lui, gli graffiava il viso, lo copriva di oltraggi volgari, finché rotta e sfinita in tutte le ossa, ricadeva in un profondo abbattimento. Lorenzo, posando la testa sul suo guanciale, piangeva come un bambino. Gli altri in casa non eran più gente. Eran morti in piedi. Si chiamò con telegramma lo zio Demetrio, che aspettava d'essere invitato a battesimo. Durante quei tre o quattro giorni la poverina rivisse in sogno delirando ora coi vivi, ora coi morti, finché le rimase un'oncia di forza. Rivide la sua bella mamma ancor giovane andare alle feste con un vestito celeste orlato di un pizzo doré. Vide se stessa ancor fanciulletta in mezzo a' suoi fratellini, mentre frullava il sabaglione in una piccola cazzeruola lucente. Mario, Naldo e il piccolo Bertino, bello e biondo come un angelo, ridevano a veder la spuma gialla e profumata traboccare dall'orlo; e la malata rideva anche lei d'una gioia intera e traboccante, immaginando che quella spuma gialla e profonda montasse a ondate ad avvolgerla. Quindi usciva la sensazione della prima comunione, colla vista della chiesa lunga, chiara, tutta fiori e pizzi bianchi; ma non capiva perché Ferruccio fosse andato a porsi in mezzo alle ragazze. Che c'entrava lui colle ragazze? e perché tutti lo carezzavano con tanta tenerezza. Essa ne provava un'invidia amara, correva a strapparlo via, gridava: "È mio". Se non che altri fantasmi la conducevano a visitare le cameruccie sotto i tetti, dove abitava una volta lo zio Demetrio, un uomo buono come un santo, che aveva molte gabbie di canarini, che cantavano a stordire, svolazzando liberi intorno. Entrando nelle stanzuccie, ne vide più di cento volarle addosso, belli, vispi, bianchi e gialli posarsi sulle spalle, sulla testa, sul braccio. Se la pigliavano in mezzo, la portavano via, in alto in alto, in un volo delizioso, verso il campanile di Cremenno, che si disegnava sullo sfondo azzurro del cielo... E in questa felicità la poverina finiva di patire.

Aggrappato alla sponda del letto, Lorenzo, a cui l'aria della notte aveva dissipato alquanto i fumi del vino e dell'indigestione, con un supremo sforzo di volontà, cercò di farsi un concetto della verità, che gli si presentava coi torbidi contorni di un sogno grave e fastidioso; e come se a poco a poco si accostasse a toccare la triste realtà, assalito da un violentissimo colpo di disperazione, di rimorso e di sgomento, cominciò a gemere, a singhiozzare, risvegliando Arabella, che s'era abbandonata un istante a un lento torpore. Da tre giorni anch'essa viveva, si può dire, di un sogno torbido e senza fine. Nei brevi intervalli, in cui le era concesso di ritrovare se stessa, come perduta e rimpicciolita in una gran scena d'uomini e di cose, un sentimento nuovo, vago, indefinito, l'assaliva, un sentimento che non sapeva trovare la forma d'un dolore o di una paura positiva, ma che produceva anche in lei l'effetto di una ubbriachezza strana. Suo suocero nelle poche righe scritte coll'agonia e colla morte alle spalle, senza confessare esplicitamente i suoi torti, pregava la nuora a trovare coi parenti e coll'avvocato un componimento amichevole: e ciò per la pace dei vivi e dei morti. Ogni cosa che vien dai morenti è uno stimolo di carità specialmente se chi muore ci lascia nelle mani il suo pentimento. Nulla fa tanto bene a chi va al di là come una buona speranza. E perciò Arabella spiava e aspettava il momento che il moribondo si risvegliasse dal suo torpore per dargli un affidamento che la pace sarebbe stata fatta. La raccomandazione, che il vecchio peccatore aveva scritto e affidato alla sua clemenza, se la sentiva quasi ardere nel cuore. In quest'attesa, in questo zelo pio e disinteressato di un bene supremo e urgente, ogni altra questione, ogni altro male più remoto diventava oscuro e secondario. Essa dimenticava se stessa, il suo stato di donna avvilita e tradita, quel che era stato ieri, quel che avrebbe dovuto essere domani. Sei giorni durò l'agonia, durante la quale la fibra forte e resistente contrastò a oncia a oncia il terreno alla morte. L'infermo non risvegliavasi che a brevi e rapidi intervalli di conoscenza: e allora l'occhio estinto girava lentamente intorno in cerca di qualche cosa, soffrendo di non trovarla; e solamente quando incontravasi nel volto pallido di Arabella, quell'occhio pareva rischiararsi di una luce più serena, approfondirsi in un pensiero, parlare, sorridere... Durante quei lunghi giorni e quell'eterne notti, Arabella non si tolse i vestiti d'addosso. Quando il corpo rotto e indolenzito dalle fatiche invocava il riposo, andava a buttarsi sul divanetto del salottino e subito il sonno la sottraeva alle pene della realtà. Era un sonno senza visioni, chiuso, dal quale usciva ristorata per dare il cambio all'Augusta, che con lei vegliava l'infermo. Lorenzo si moveva intorno a lei, la rasentava, arrestavasi dietro di lei in un silenzio quasi supplichevole; ma essa sforzavasi di non vederlo; o non ascoltava le sue parole, se non come si ascolta uno sconosciuto mal vestito, che ci siede vicino durante un viaggio noioso. Gente andava e veniva per la casa ad ogni ora, di giorno e di notte. Mamma Beatrice rimase colla figliuola. La zia Sidonia, messo in disparte il risentimento, trovò modo di collocarsi nello studio di Lorenzo, e rimase anche lei in attesa d'una catastrofe, che scompigliava le ire, le furie, i progetti, le speranze, i propositi nel cuore di molta gente interessata e già legata in un'azione comune. Un treno in moto e spinto a grande velocità non urta contro un muro senza dare una scossa a chi viaggia. Così avviene delle idee che urtano in una contraddizione. L'avvocato, don Giosuè, i Borrola, i Ratta, e gli altri tutti, che avevano un interesse nella causa contro un uomo vivo, non sapevano rifare sopra un uomo morto una procedura e un'azione che contentasse tutti i gusti; al punto che, se molti risero e trionfarono di vedere un ladro e un birbone punito dalla mano di Dio, molti altri, e tra questi l'Angiolina, rimasero sulle prime scornati e dispiacenti, quasi che Tognino, col morire tutto a un tratto, avesse voluto giocare un ultimo tiro da furbo ai diseredati. Le probabilità eran molte: o aveva fatto testamento o non aveva fatto testamento; o aveva nominato Lorenzo erede universale, o aveva lasciato delle disposizioni capricciose, chiamando a parte della sostanza Ratta qualche pia istituzione, per esempio, la Congregazione di carità; e in questo caso invece di un avversario avrebbero dovuto lottare con due, con tre, forse con dieci, più grandi e più formidabili. Né don Giosuè, né don Felice avevan potuto cavare da quella bocca chiusa, inchiodata dal male una parola, un segno di ravvedimento, una buona disposizione a favore dei parenti poveri. Finalmente si seppe che Arabella aveva in mano una carta e che, parlando in segreto con don Felice, aveva dato a capire che si sarebbe venuti a una conciliazione; insomma ci sarebbe stato qualche cosa per tutti... La notizia uscita di bocca a don Giosuè, mentre da una parte gonfiò le speranze dei parenti più prossimi (cioè di quelli più vicini al morto) mise in sospetto e in paura e in diffidenza tutti gli altri, che fiutarono un nuovo intrigo dei Borrola e dei Maccagno contro i poveri Ratta. Se questa circostanza d'una nuova carta aveva un valore, c'era a temere che i parenti ricchi e forti facessero la parte del leone a scapito dei parenti più poveri. Aquilino fu preso in mezzo e incaricato dai Ratta di parlarne pulitamente colla buona signora, per interessarla a impedire qualche nuovo ladroneggio. E in mezzo a questi oscuri e sommessi intrighi, per tutto il tempo che Tognin Maccagno litigò colla morte, fu un continuo correre di gente presso il notaio, presso l'avvocato, presso i preti, un gran discorrere nelle osterie, nelle anticamere, sui pianerottoli, un segreto congiurare di furbi che facevan gli ingenui e di ingenui che si lusingavano d'essere più avveduti dei furbi. Arabella assistette con fredda mestizia e con amaro disprezzo a questa nuova contraddanza di interessi intorno a un letto di morte: e mentre veniva meno nel suo cuore la stima verso gli uomini, parevale che, in mezzo a tante maschere, il morente fosse il più semplice e il più naturale. La morte, se non altro, è sincera. L'ultima notte l'infermo dormiva di quel sonno chiuso e pesante, che non è ancora la morte, ma già non è più il patimento, quando a un tratto parve ad Arabella, che vegliava sola accanto al letto, imbacuccata in un suo scialle, nell'ombra densa dei mobili, che il malato alzasse una mano e chiamasse. Si mosse, si accostò, abbassò la testa e nominando Gesù e Maria, pronunciò qualche frase di consolazione. Egli mosse con un supremo sforzo la testa, e afferrata la mano della nuora, la strinse con un fuggevole vigore, mandando fuori delle parole sconnesse che parevano gemiti. Cercando d'interpretare i monosillabi di quel confuso discorso, essa suggerì delle questioni, a ciascuna delle quali l'infermo rispose con una leggiera stretta di mano. "Voleva che i parenti gli perdonassero? era pentito? era rassegnato alla volontà di Dio?" e altre di quelle frasi che si prestano volentieri ai morenti negli estremi dibattiti, quando la nostra ragione è chiamata a pensare per una ragione che fugge. Il signor Tognino rispose sempre di sì; ma una parola più forte delle altre insisteva a ritornare e a sornotare in quel suo sconnesso monologo, che Arabella non sapeva ricomporre e interpretare. Una volta uscì il nome di Ferruccio. "Me lo raccomanda? non lo abbandoneremo..." L'occhio dell'infermo rispose con un lungo raggio di benevolenza. Poi a un tratto la fronte si oscurò come sotto a un nuvolo di tristezza. Con un ultimo sforzo nominò la Marietta... Ma Arabella non afferrò il senso di quelle ultime voci fioche e singhiozzanti. Era l'agonia. Il signor Tognino Maccagno morì tranquillamente nelle prime ore d'una bella mattina d'aprile.

Isolata nel suo dolore essa non viveva che di questo, come se ogni altro sentimento l'avesse abbandonata; e nel suo sentimento cercò d'immergersi, sperando di trovarvi l'attutimento dei sensi. Piangeva in silenzio, d'un pianto interno, su chi partiva e su chi restava, mentre le mani rimestavano macchinalmente nella sacca. Tra le carte sparse sulla scrivania riconobbe dei foglietti scritti di sua mano. Erano alcune pagine della lettera, che in un momento di eloquente disperazione essa aveva scritta in casa della Colomba allo zio Demetrio e che non era stata mandata a destinazione. Ferruccio voleva portarsela con sé come una reliquia. Arabella rilesse alcuni periodi colla dolente curiosità di chi rivede il proprio ritratto d'altri tempi, e si ritrova diverso, pur riconoscendo se stesso. Ora non avrebbe saputo scrivere così. Il suo cuore era più rassegnato: chi sa? forse più morto. Sul rovescio d'una di quelle paginette, obbedendo a una pietosa ispirazione, scrisse queste sentenze: "Il patimento avvicina e redime le anime, ci colloca in alto sul divino Calvario, da dove si domina la valle dei bassi egoismi. "Vi è qualche cosa di più triste che l'esser soli: è il non poterlo essere quando lo si sospira. "Morir soli è triste. Ma più triste è dare spettacolo della propria agonia in una fiera. "Non vive inutilmente chi sa ispirare una vita onesta e generosa." Scriveva queste idee non sue come per reminiscenza o per incantamento senza accorgersi che Ferruccio, entrato poco prima, aspettava timidamente sulla soglia. Da tre giorni la vita del giovane Berretta non era più che un seguito di movimenti automatici, di corse, di sgomenti improvvisi, di occupazioni frettolose e materiali, ch'egli eseguiva in seguito a spinte più forti di lui. Quando essa si accorse ch'egli era presente, gli disse senza turbarsi: "Leggerà, è un mio ricordo. Le ho portato il denaro per il viaggio. Son tremila lire che potrà far cambiare in oro a Genova. Questo denaro è mio, e intendo che lei lo abbia a ricevere come un'indennità ai danni morali e materiali che abbiamo recato a lei e a suo padre…" "Lei?..." balbettò il giovane, quasi protestando. "Sì, noi tutti... via! non stia a distinguere. Spero che il signor Galimberti avrà mandato l'attestato promesso. Vada con coraggio: suo padre riavrà il suo posto e non mancherà di nulla. Queste son due lettere per un'agenzia teatrale di Montevideo: e se si ferma qualche giorno ancora a Genova, avrò tempo di farle pervenire qualche altra commendatizia per i padri Cappuccini di laggiù. Sono raccomandazioni che litigano un poco tra loro" soggiunse ridendo, per rompere la malinconia di quel discorso "ma in un paese lontano si può aver bisogno di tutti. Lei saprà distinguere, del resto. Ha parlato con Vicentelli?" "Sissignora, pare che fino a lunedì non si possa partire." "Avrei piacere che potesse partire più presto. Per fortuna abbiamo un buon angelo nel delegato: possiamo stare coll'animo tranquillo. Ho qualche obbligazione anche verso la buona zia Colomba. Se potessi vederla prima di andar via..." "Verrà qui a momenti." "Se non la vedo, la preghi di accettare questa spilla in memoria della carità che mi ha fatto..." Si tolse dal petto una spilla d'oro e la consegnò al giovine, che mormorò qualche parola di ringraziamento. "Mi mandi qualche volta le sue notizie. Intanto io non tralascerò dal far le pratiche, perché le sia levata anche questa piccola condanna. Farò parlare e andrò io stessa dall'arcivescovo, che dice di aver verso di me qualche obbligazione. Monsignore è in buoni rapporti colla Corte e so che in certe occasioni quando non si tratta di delitti comuni si concedono amnistie speciali. Intanto non è male vedere dei paesi nuovi." Ferruccio, appoggiato colle spalle allo stipite dell'uscio, trasse un sospiro coperto come se patisse in sogno. Cogli occhi bassi, pareva tutto occupato a decifrare i disegni di un fazzoletto che teneva stretto e teso in uno sforzo nervoso colle due mani. Arabella si mosse e toccò qualche libro di quelli che erano sparsi sul tavolo e sulle sedie. "Questo è latino: bravo. Un Virgilio... Fa bene a tenersi in esercizio. Badi a non diventarmi un cappuccino anche lei..." E si volse a ridere ancora per invogliare il giovine a uscire da una tristezza, che li avviliva entrambi schiacciandoli. Vedendo ch'egli non osava alzare gli occhi dopo aver accomodate alcune cosuccie nella valigia, la signora si aggiustò un lembo del velo sul capo e sulle spalle, guardò a lungo l'orologio per fissare l'animo e la volontà in uno sforzo supremo sopra un oggetto che la sostenesse, e quasi correndo verso di lui gli tese la mano con piglio soldatesco, esclamando: "Dunque, addio!" Ferruccio vacillò, appoggiò le braccia al muro, alle braccia appoggiò la testa per nascondere e per soffocare un pianto, che non era più capace di dominare. Arabella si passò lievemente la sinistra sul volto per rimuoverne una nuvola oscura che l'avvolse, socchiuse gli occhi con un abbandono d'infinita stanchezza, si avvicinò, gli posò le mani sulle spalle, vi si appoggiò, e parlandogli nell'orecchio, ebbe ancora la forza di aggiungere: "Senti, anch'io ho bisogno di coraggio. Il tuo piangere mi avvilisce. Anch'io devo partire tra pochi minuti. Mi aspettano... Se è vero, Ferruccio, che tu mi vuoi un poco di bene, non devi farmi soffrire così." Il figlio della povera Marietta a quella voce che spasimava si rivolse, si drizzò sulla persona, e premendo il fazzoletto sugli occhi, cercò anche lui di essere forte: ma non poté dire che queste due parole: "Madonna, aiutatemi..." Era accecato dalle lagrime e dal dolore. Sarebbe forse stramazzato in terra, se le due braccia della signora non l'avessero stretto e sostenuto. Sentì il calore d'un viso ardente sul suo: sentì sulla fronte e sui capelli una furia di baci ardenti, sentì due mani gelide che gli serravano la testa: ma non osò, non poté aprire gli occhi. La sua vita precipitava in un abisso vuoto, oscuro, senza fondo. La Colomba, che entrata non vista, assisteva da mezzo minuto a quella scena, cercò di separarli. "Certo che voi morirete e ci farete morire anche noi. O Madonna dell'afflizione, abbiate misericordia!" E strappando Ferruccio per un braccio, gli disse con accento sconvolto misto di pietà e di rimprovero: "Basta il patimento, Ferruccio. Basta per amore della tua mamma. E tu, figliuola vieni con me. Non sta bene. È una tortura per tutti: insieme al cuore si perde l'aiuto di Dio." Con queste parole riuscì alla donna, inframmettendosi, di separarli. Ferruccio cadde su una sedia. Presa Arabella come una prigioniera, non senza qualche violenza toccò ancora alla Colomba di metterla fuori, nell'altra stanza, dove, carezzandola e persuadendola: "Andiamo," le disse "non si faccia vedere così: non sta bene." Chiuse l'uscio dietro a sé, le trasse di tasca il fazzoletto, con questo le asciugò gli occhi, le ravviò colle mani i capelli, le ricompose il velo, le pieghe, la rimproverò, la compatì cogli occhi. "Non sta bene neanche per l'anima. Offra al Signore quest'altro patimento. Vada dalla sua mamma. Pensi a quel che soffriamo anche noi. Pensi alla notte che dovrò passare, quando sarà partito quel ragazzo. Dio la benedica per il bene che gli vuole, ma vada via, vada via." E bel bello la spinse fin sull'uscio della scala. Sul punto di mettere il piede sul pianerottolo, Arabella con moto sdegnoso cercò di resistere ancora un poco, attaccandosi al battente dell'uscio. Sentendo uscire quasi un gemito dall'altra stanza, fece l'atto di gettarsi ancora verso la porta; ma la Colomba le si avviticchiò alla persona: "No, lascialo stare, lascialo piangere..." Arabella scese a precipizio le scale, mentre la Colomba serrava dietro di lei la porta con un giro di chiave.

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Ma la povera donna si sentí abbandonata, e le venne da piangere. Uscí, vestita come poté, con l'idea di andare a parlare al Direttore delle Poste, e lasciò in casa Arabella sola a custodire i ragazzi. Il commendatore era andato a Roma. Sulla scala s'incontrò col signor Martini, che finse di non conoscerla. Timida ed imbarazzata, non osò cercare del Buffoletti o di qualche altro amico di suo marito. Passò invece dalla via del Mangano, dove abitava l'Elisa sarta, e salí fino al terzo piano per ordinarle i vestiti di lutto. Poi, un pensiero le suggerí di andare in cerca della Pardi e di chiederle un prestito di qualche centinaio di lire; ma l'Elisa sarta aveva riferite le ultime parole dette dalla Pardina sul conto della sora Pianelli, e tra le due vecchie amiche di Cernobbio c'era oggi dell'aria cattiva. Passò il giovedí e tutto il venerdí senza che venisse anima viva. Pioveva. L'aria e le case avevano di lassú un aspetto grigio e triste sotto l'acquerugiola silenziosa, che stillava senza forza sui muri, impregnando il cielo di vapori stagnanti. Arabella contava le ore sui battiti del suo cuore e correva per la ventesima volta a guardare dal balcone nella strada. Passavano carri, tram, carrozze, carriole a mano, con quel frastuono pieno e grosso di una città che vive bene, mangia bene, digerisce bene. Passò un fiume di gente, uomini, donne, soldati, preti, ragazzi, in tutti i sensi: passò un funerale colla musica in testa ... , passò un carro pieno di masserizie ... Un cavallo spinto a corsa scivolò e cadde sulle zampe davanti. Accorse molta gente, fu tirato in piedi, partí zoppicando, la gente si diradò, la grossa fiumana riprese il suo corso solito, ma lo zio Demetrio non si lasciava vedere. Una volta sola il cuore della bambina si risvegliò a un battito di speranza e fu nel vedere Giovann dell'Orghen , un poveraccio, che lo zio Demetrio aveva mandato una volta a casa con un biglietto. Sperò che venisse ancora da parte sua: ma Giovann dell'Orghen voltò e scomparve dietro San Giorgio. Si ritrasse dal balcone tutta fredda e stillante acqua e stava per chiamare ancora Ferruccio, quando una forte scampanellata ridestò improvvisamente un grido di speranza e di gioia nei poveri bambini, che stavano per addormentarsi nella gelida malinconia di quella giornata piovosa e senza minestra. Era il maestro di pianoforte. Il Bonfanti dalla strada aveva veduto Arabella sul balcone ed era venuto su, prima per fare una visita di condoglianza e poi per sapere quando la scolara avrebbe ripigliate le lezioni. Egli era in credito d'una ventina di biglietti e non osava dire: pagatemi; ma sperava che, lasciandosi vedere, fosse un mezzo per non essere dimenticato del tutto. Le altre volte il povero Cesarino, che era un fanatico di Verdi, pregava il maestro dopo la lezione di rimanere a mangiare la minestra. Il Bonfanti non credeva d'avvilirsi restando, e pagava poi generosamente col sonare e col cantare a memoria mezzo il Trovatore e mezza la Traviata. Era anche questa un'occasione di mettere le mani sul piano, perché, dal giorno che il povero maestro era andato all'ospedale col vaiuolo, aveva dovuto vendere anche quel poco cembalo e le tirava verdi, il pover'uomo, verdi come il sambuco. Da tre mesi l'organo di San Sisto era in riparazione: e si può dire che egli vivesse sulle Benedizioni di San Lorenzo. "Se la signorina non si sente di prender lezione, vado io di là, se permettono ... ." E colla confidenza del vecchio amico di casa, il maestro passò nel salottino e cominciò ad arpeggiare sulla tastiera tanto per far venire l'ora solita che il riso andava in tavola. Egli sperava, coll'ingenuità dell'artista, che la signora Beatrice avrebbe continuato le buone tradizioni del suo povero marito, anche in considerazione di quella ventina di biglietti che non erano mai stati pagati. Solo che, nelle battute d'aspetto e nei brevi intervalli tra un arpeggio e l'altro, gli pareva d'intendere un gran silenzio, non solo in cucina, ma in tutta la casa, mentre le altre volte c'era quel dolce tintinnío di posate. Non sapendo come spiegare questo insolito ritardo, il maestro provò a cantare, colla sua voce stanca di vecchio baritono, l'a-solo del re Filippo. Dormirò sol nel manto mio regal ... "Scusi, maestro, c'è la mamma che si sente male ... " venne a dire Arabella. "Oh, se avessi saputo ... Che cosa ha?" "Un po' d'emicrania." "È il tempo. Allora ci rivediamo martedí?" "Glielo saprò dire, non so ... " balbettò Arabella arrossendo. "Ad ogni modo, non esca per ora dagli arpeggi. Adagio, conti a voce alta, e giú bene i polpastrelli." Arabella cogli occhi gonfi di pianto disse di sí col capo. "Me la saluti, la signora mammina." Il Bonfanti, discepolo della classica scuola del Pollini, era ancora di quei vecchi maestri che sanno distinguere l'arte dalla ginnastica e dall'acrobatismo, e rideva di chi vanta la forza e la precisione come il non plus ultra d'un bravo pianista. "Che mi fa la forza e la precisione?" diceva. "Anche una locomotiva ha della forza e della precisione; ma una locomotiva non sarà mai una grande pianista." L'interpretare una pagina di musica, il saperla colorire è questione di sentimento, e il sentimento non si esprime se non colla delicatezza del tocco; e il tocco non si acquista che col metodo e colla pazienza. Tutta l'arte è nei polpastrelli! In virtú di questo metodo, teneva i suoi allievi sei mesi e anche un anno sulle cinque note, che il Thalberg (il celebre Thalberg ch'egli aveva conosciuto a Monza nella villa del viceré Raineri) aveva definito discorrendo con lui le senk vertú teolegal de la musik . Dopo le cinque note bisognava aver pazienza e diligenza sulle scale. Dopo tre anni di studi, il Bonfanti, si vantava che i suoi allievi non sapevano ancora suonare niente, nemmeno una mazurchetta, mentre i maestri guastamestieri, per secondare l'ambizione delle scolare e delle mammine, fanno suonare il pezzo concertato quando l'allievo non sa ancora mettere giú i polpastrelli. In questa maniera egli procurava di tenere alta la bandiera della buona scuola e delle tradizioni classiche, anche a dispetto dei tempi, che adagio adagio lo lasciavano morire di fame. Discese le scale, si fermò un momento sulla porta a strologare il tempo, e mormorò: "Potevo almeno farmi dare un ombrello." E andò a fare quattro passi.

LE DUE MARIANNE - I CONIUGI SPAZZOLETTI

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

BALLANZINI: Anche mi me chiamo Marianna, Marianna Ballanzini, moglie a quel brutto mostro di Narciso Ballanzini che mi ha abbandonata sul lastrico. Se resti vedova on altra volta, prima de sposà on uomo ingrato, ti sposi ti el me pover gattin. LUIGI: Non arriva qualche altro telegramma? CAPO: Ne arriva uno dalla Bullona. BALLANZINI: Citto, sta volta l'è propi lu... CAPO: Ha capito de stare indietro, benedeta dona. BALLANZINI: L'è el me marì che parla, donca gh'ò diritto. cAPo: Lei mi guasterà la macchina e allora addio dispaccio. LUIGI: Abbia pazienza, signora Ballanzini... CAPO: " Avvertire signor Spazzoletti moglie fermarsi Bullona casa Ballanzini in attesa prima corsa di domani " LUIGI: Meno male... BALLANZINI: Come meno male? LUIGI: A Milano mia moglie non conosce nessuno... e son contento che passi la notte in una casa ospitale. BALLANZINI: Niente affatto: ghel manda subit indree: moglie Ballanzini niente voler in casa bella sciorina: venire con manico scopa. LUIGI: Signora Ballanzini lei fa torto a me, a mia moglie, a suo marito e anche un poco a lei stessa. È meglio pigliar la cosa allegramente, cercar di passar la notte meno male in questo paese, e domani colla prima corsa andremo tutti quanti a far colazione in casa Ballanzini, se lei c'invita. BALLANZINI: Poiché lei mi pare un uomo abbastanza sicuro del fatto suo, se el voeur accompagnare coll'ombrella el presentaroo in casa Riboldi dove la sora Paolina la podarà damm de dormì a tutti e due. L'è ona brava sciora e anche el sor Riboldi l'è on bon ometto. Ghe vendiamo le gallette tutti gli anni. Ghe rincress no a portaa el miscino? Paese che vai, dice el proverbio toscano, donna che trovi... Son minga giovina come la sua sposina, ma Narciso el dice che valgo ancora i miei cinque soldi, quand son on poco rangiata su.

Giacomo l'idealista

663168
De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Il Signore non mi ascolta piú, il Signore mi ha abbandonata. - No, no, povero angelo, non dir cosi. - proruppe la di Breno, compassionandola, e sorpresa in fondo all'animo di dover fare verso una tal donna la parte di madre consolatrice. - Tu hai troppi meriti, perché il Signore ti debba abbandonare. Sono tribolazioni che ti manda per provare la tua virtú. Vedo tutta la gravità del caso e trovo che non c'è tempo da perdere. È necessario, assolutamente necessario, evitare questo scandalo, che darebbe i nostri nomi in bocca ai framassoni, che non aspettano che un pretesto per dar fuoco alle mine. Lodovico dice che quest'anno la lotta amministrativa sarà combattuta con accanimento, perché il governo, che è tutto nelle mani dei progressisti, vuol rompere la crosta clericale e moderata e sbarazzare il terreno per le prossime elezioni politiche. Converrà quindi fare un concentramento di forze dei vari partiti conservatori controla falange abissina dei sovvertitori, dei radicali, dei massoni, dei socialisti, e di tutti quelli che amano pescar nel torbido. Siamo dunque interessati a difenderci e a riparare i punti deboli della fortezza. Vuoi che io ne parli a Lodovico? Può essere che colla sua influenza morale arrivi a tempo a scongiurare il pericolo. E se vedrò il tuo Giacinto, gli farò una predica coi fiocchi. Noblesse oblige, specialmente lui, che può contare sublimi trionfi. Ragazzacci! - aggiunse, aggrottando le ciglia la bella magra, come se indagasse un mistero: - È un'altra conseguenza di questo sordido sport, che hanno messo di moda. On s'encanaille, ecco! Rimasero d'accordo che Fulvia, senza mettere fuori per il momento i nomi, avrebbe sottoposto il problema alla saggezza politica di don Lodovico, che in questo giuoco di elezioni e di partiti politici aveva sul banco la sua persona e la sua candidatura. L'esperienza insegna che in politica bisogna giovarsi specialmente dei peccati degli altri; e sarebbe stata una bella sorpresa che per il capriccio di un giovinotto ubbriaco fosse andato sommerso il lavoro paziente di dieci o dodici anni di candidatura incontrastata. La di Breno, che, non avendo figliuoli, amava anche lei, alla sua maniera alquanto nervosa, la politica, che le permetteva di passar l'inverno a Roma, non era donna da dormire in pace su questo peccato di Giacinto come aveva dormito sempre sui suoi.

Poteva ella passare il giorno di Natale come una prigioniera in casa altrui, senza aver nessuna notizia de' suoi, nella cupa tristezza di chi si sente abbandonata? Dopo aver risposto, come gli altri giorni, al rosario della servitù nella grande cucina, verso le nove e mezzo accompagnò di sopra donn'Adelasia, portò l'acqua nella camera di donna Gesumina, dette e ricevette la buona notte, ridiscese in cucina a provvedersi d'un mazzetto di zolfanelli, si assicurò che la chiave dell'uscio fosse attaccata al suo chiodo. Finalmente, quando le parve che tutti fossero ritirati nelle loro stanze, calzò le scarpe di vitello sopra un paio di calze pulite, indossò un giubbetto di lana e il vestito piú pesante della festa, intascò la corona del rosario, il suo libretto di preghiere, una collana di granata e il borsellino con tutto il denaro regalato dalla contessa, si ravviò i capelli, si affaccendò piú che non abbisognasse a mettere in bell'ordine il letto, le sedie, il telaio dei ricami, il cestello delle sete e dei gomitoli, in modo che le signore avessero a ritrovare tutto a posto. Quando ebbe finito, sentí sonar le undici. Aveva ancora un'ora da aspettare. Spense il lume, s'inginocchiò a fianco del letto, si dispose a raccogliere la mente in qualche preghiera: ma l'anima non suggeriva nulla, come se la coscienza fosse già partita. Rimase però sempre in ginocchio, colla testa sprofondata nelle coltri in atto di pregare, perché il Signore e la Madonna vedessero il suo stato e l'aiutassero in questo passo. E intanto cercava di riandare nella mente la traccia della strada che avrebbe dovuto battere per arrivare alle Fornaci. Fino alla Madonnina della Noce la conduceva la solita strada del molino; al di là passa la grossa strada provinciale, nè poteva sbagliare se camminava sempre verso i monti. Rifacendo i conti a memoria, calcolò che, se la carrozza della contessa aveva impiegato meno di due ore a venire dal Ronchetto alla Madonnina, questo voleva dire che, partendo a mezzanotte e camminando sempre, lei avrebbe potuto essere alle Fornaci sul far del giorno. Se anche non ci fosse stato Giacomo, la zia Santina non l'avrebbe lasciata morir di freddo sulla strada, no povera zia, cosí buona! E forse anche la Lisa non avrebbe avuto il coraggio d'incrudelire contro una disgraziata. Le stesse bruscherie gelose della invidiosa cugina sarebbero state quasi una musica per le sue orecchie, quando avesse potuto ríposare nel pensiero d'essere nella casa de' suoi parenti. Del resto, facessero pur di lei quel conto, che si può fare di una poveretta senza meriti e senza diritti; la tenessero pure in casa come l'ultima delle serve, avrebbe lavorato per tutti, senza piú alzare gli occhi in faccia a nessuno; ma non dovevano permettere che queste signore la facessero chiudere in un ospizio, forse in compagnia di cattive traviate, o che la mandassero lontano, in paesi sconosciuti, tragente brutale, senza timor di Dio, che l'avrebbero forse maltrattata, o fatta morire a tradimento. Abbandonandosi senza ritegno alla corrente dei pensieri, che nel silenzio e nell'ombra della notte risonavano nel suo capo in una specie di gorgo, correva a immaginare colla fantasia sconvolta le piú terribili insidie da parte di questi signori, che temevano in lei un parlante testimonio dei loro peccati, e che avrebbero avuto della sua morte un sollievo immenso. Che cosa vale la vita d'una ragazza, che nessuno conosce, che nessuno difende? Se non ci sono piú nei palazzi i trabocchetti, dove una volta si facevano sparire le persone, non mancavano ai signori altri trabocchetti di ogni sorta per sopraffare i poveri. Non l'aveva forse la contessa intronata di parole e di promesse per metterla nelle mani di queste vecchie, che ora volevano seppellirla viva in un ospizio? Da questi pensieri, in mezzo ai quali errava la sua immaginazione sgomentata, fu tolta dal fragore del carro, che il Pasqua stava allestendo nella corte per la partenza. Si mosse, fece due volte il segno della santa croce, si alzò, trangugiò un mezzo bicchier d'acqua per sciogliere l'amarezza della bocca, avvolse le spalle e la testa in uno scialle bigio di lana, prese da di sotto il letto l'involto, che vi aveva preparato; e, dopo aver soffiato sulla candela, si mosse per uscire. Allo sparire del lume, la finestra si disegnò nella luce umile della luna, che dal mezzo di un cielo rigido, solcato da leggerissime ale di nuvole bianche, incombeva sulla campagna immersa nella neve. Celestina fu assalita da un panico immenso. Per poco il cuore ricusò d'obbedire alla volontà, che fin allora aveva comandato con tanta forza. La sua energia oscillò un breve istante in uno di quei dubbi dolorosi e tremendi, da cui, come dal fulcro d'una bilancia delicatissima, dipende spesso il male e il bene di tutta una vita. A sospingerla sottentrò la riflessione che per lei non vi poteva essere un male che fosse peggiore del perdere per sempre il suo Giacomo e del lasciarsi seppellir viva; e che ogni passo, in qualunque senso si faccia, per uscir dalle braci, non può essere un passo perduto. Spinse l'uscio e stette ad ascoltare ancora un momento sul pianerottolo. Quando fu persuasa che dormivano tutti, scese al buio la piccola scala di servizio, tenendosi attaccata alla parete. Guidata dal chiarore, che entrava da una mezza finestra, raggiunse l'uscio di cucina, cercò, palpando, la chiave, l'infilò nella toppa, provando al rumore che fece nel girare, quasi uno scricchiolamento in tutte le ossa; stette a sentire se alcuno dava segno di vita: e coperta dal rumore che facevan di fuori nel caricare, uscí nel cortile. Il Pasqua finiva d'attaccare il mulo, aiutato dal suo ragazzetto, che rischiarava con una lampadina la stalla. Affogato in un ferraiolo di schiavina, col cappuccio calato sulla testa, il vecchio cavallante lasciò qualche ordine al figliuolo, che si curvò ad accendere la lanterna a vento sotto la traversa del carro. Una luce giallognola e oleosa si sparse sul biancore lucente della neve e proiettò l'ombra incappucciata del vecchio, ingrandita come quella di un gigante delle tenebre, sul muro livido e muto del palazzo. La bestia istigata dalla voce sepolta del padrone, cominciò a raspare sul terreno per cercar sotto la neve il sasso; il carro si mosse, ballottando la lanterna e portandosi seco le ombre in una danza sconvolta. Quando fu per uscir dal portone e per svoltare, Celestina uscí dal suo nascondiglio, traversò il cortile; aspettò che Menico tornasse per rinchiudere, e, andandogli incontro gli disse, fingendo una certa apprensione: - O Menico, avete dimenticato questo fagotto, che va alle monache. Menico prese l'involto dalle sue mani e chiamando: - O pà, - corse dietro al carro. La giovane colse quel momento e voltò a sinistra. Camminando in fretta lungo il muro del brolo, uscí sulla strada del molino. Non era ancora sonata la mezzanotte, quando cominciò a camminare verso la strada della Madonnina della Noce, che apparve ben presto in fondo al viale in una massa densa, resa piú oscura dal riflesso vivo della campagna. Tirava una brezza acuta, quale può mandar giú la montagna in dicembre; ma essa se ne difese imbacuccandosi fin sopra agli occhi nel grosso scialle di lana e affrettando il passo. L'idea del trovarsi sola, di notte, per una strada deserta tutta piena di neve, in un paese sconosciuto, questa sola idea, che qualche mese prima, passando in sogno, l'avrebbe risvegliata in un sudor freddo, ora non le incuteva piú nessuna paura. Non c'è nulla, che abitua cosí presto al male, quanto la minaccia del peggio: e anch'essa ritrovava nella necessità delle cose quella forza misteriosa, che meraviglia cosí spesso la nostra stessa presunzione. I ladri, le ombre dei morti, che vanno attorno per il mondo, gli orrori dell'oscurità, gli spauracchi delle ombre, i gemiti, i fischi, che escono dai profondi silenzi della notte, le reminiscenze delle fiabe spaventose udite raccontare dalle comari, i terrori addensati nello spirito umano da secolari pregiudizi passati in lei per eredità, non mai scossi, che non si possono scuotere del tutto nemmeno dai piú forti, tutto questo era sempre qualche cosa di piú sopportabile in paragone di quel che gli uomini avevano fatto e volevano fare di lei. La notte, non limpida del tutto, era però rischiarata dal quarto abbondante di una luna, che le nuvole sparse per il cielo e più accumulate verso i monti non riuscivano a nascondere; e quella luce fredda, quieta, che scivolava sulla neve, eccitandone i segreti splendori, dava alla notte e alla solitudine un non so che di tenero, di seducente, o almeno di non cattivo, che parlava con una certa indulgenza all'anima primitiva della giovine. Quando, uscita dal viottolo del mulino, si trovò davanti la strada provinciale, larga, piana, rotta dai lunghi solchi delle ruote, che pareva correre senza fine al piede dei monti oscuri; e quando, fissando questi monti avvolti nelle nuvole, li vide lontani lontani, rimpiccioliti, sprofondati nella lontananza, un senso di nuovo terrore e di scoraggiamento ghermí il suo cuore. Il suono improvviso e pesante delle ore, scoccando sulla sua testa dal vicino campanile, ruppe quel breve istante di titubanza e di inerzia, che l'aveva fermata nel mezzo della strada, l'incoraggiò a continuare. A spingerla aiutò la vista d'un alto carro, che lentamente lentamente, col moto ondeggiante d'una barca che si avanza, veniva dalla parte di Bergamo, dondolando una lanterna sulla neve. L'idea d'aver dietro di sé in un momento di pericolo questo appoggio la sostenne. Volendo però stargli davanti per sfuggire alle questioni curiose dei carrettieri, si affrettò a riprendere il suo cammino nella direzione dei monti, che la chiamavano. A destra e a sinistra taceva la campagna nella sua gelida inerzia; ma questo silenzio avrebbe finito collo sgomentarla, se, oltre al soffio del suo respiro non fosse arrivato di tempo in tempo a sostenere il suo coraggio il rumore spezzato del carro che la seguiva, a cui, col raccorciare un poco il passo, cercava di accompagnarsi, appoggiandosi a quel rumore amico, che rappresentava per lei gli ultimi aiuti del mondo: cosí il bambino che si sveglia per un brutto sogno, si riaddormenta al rumore dell'arcolaio, che gli parla della mamma. E andò cosí tre o quattro chilometri, senza incontrar anima viva, sempre nella strada aperta, sempre col pensiero e coll'occhio rivolto a quei monti, che non mutavano di aspetto. Intanto pensava: - Prima che a Buttinigo possano pensare a me, io sarò quasi alle Fornaci. Troverò Giacomo? egli non può non tornare a casa a passar le feste, specialmente quest'anno di disgrazia. Se la zia non mi volesse ricevere andrò a cercar un ricovero in qualche cascinale, finché Giacomo non torni; e se anche lui non mi vuol ricevere e mi serra l'uscio in faccia, andrò a cercar lavoro a Brivio, a Lecco, in qualche filatoio, andrò a far la serva, a lavar la biancheria dei soldati, a cercar, se Dio vuol cosí, la carità sulle strade; ma in un ospizio non ci vado a farmi rinchiudere, a morire disonorata, arrabbiata come una cagna .". Col capo circondato da questi pensieri, come da uno sciame irritato di vespe, camminava sull'orlo della strada, dove la neve era già stata battuta da altri passi, fissando lo sguardo a qualche gruppo di piante lontane, che vedeva disegnarsi coi rami duri e neri sullo sfondodell'aria, provando nel suo muoversi rapido e nel calore che andava sviluppandosi dal suo corpo giovine e robusto, un senso quasi di soave energia. Dopo quattro mesi di sottili angoscie e di spasimi, durante i quali la volontà degli altri aveva fatto ogni sorta di strazi di lei, avviluppandola di fili invisibili, ubbriacandola di false dolcezze e di carezze e di moine snervanti, ora, finalmente, si sentiva libera, padrona di sé e dei suoi dolori, libera di soffrire e di morire a modo suo. Il calore del corpo, eccitato dall'andar lesto e faticoso su di una strada rammollita, dopo aver con una segreta delizia rianimato i suoi spiriti, cominciò a salire in un'afa soffocante alla testa, chiusa nel pesante scialle di lana. Lo lasciò andare sulle spalle, e provò un vero refrigerio a camminare cosí a testa nuda. Dopo quasi un'ora di non interrotto viaggio in cui poté piú di una volta abbandonarsi e dimenticare sé stessa nella successione rapida e luminosa di immagini lontane, che uscivano dal fondo scosso della memoria, cominciò a scorgere, nel bianco della strada, un gruppo di case, un villaggio, o un grosso cascinale da cui sentiva venire un abbaiare ingiurioso di cani, che si chiamavano nella notte. Stette un momento e si chiese se doveva aspettare e unirsi al carro che brontolava dietro di lei. Ma vinse quest'ultima incertezza con un senso crudele di disprezzo verso di sé. Se anche i cani uscivano a sbranarla, tanto meglio. Si affrettò a raggiungere le case, che dormivano tutte chiuse in una quiete che aveva un non so che di pensoso e di accigliato. Attraversò un grosso borgo passando prima davanti ai tarlati portoni dei cascinali, dietro i quali sentiva l'urlare e il raspare della bestia, poi davanti alle botteguccie chiuse e alla chiesa che dominava col vasto profilo nel vuoto d'una gran piazza deserta, non incontrando anima viva, cercando inutilmente coll'occhio una fessura, da dove uscisse un filo di luce. Dormivano tutti: i vecchi che hanno il sonno scarso, i giovani che portano a letto il corpo inquieto, i ragazzi che giocano anche in sogno; dormivano anche le povere mamme, che hanno i figli al camposanto; essa sola andava come un'anima in pena per le strade deserte a cercare qualche cosa che nemmeno il Signore le poteva dare. Non avrebbe domandato a Giacomo che una parola. Era persuaso della sua innocenza? bastava un suo sí, che fosse la convinzione in lui che in tutta questa disgrazia il suo amore, non solo non gli era mai venuto meno, ma non era stato toccato. Capiva che non poteva essere piú sua, ma l'essere abbandonata da lui non era nulla, se egli diceva di credere alla sua innocenza. Il suo amore gliel'aveva dato tutto e nessuno glielo poteva togliere. Questo pensiero le avrebbe infusa la forza di vivere in qualche maniera, lavorando, mendicando: nessuno, nemmeno il Signore, le poteva togliere l'orgoglio di essere stata amata da Giacomo. Ma se lui la cacciava via, se non la voleva vedere, oh allora, chi poteva assicurare della sua testa? E come se si spaventasse all'insorgere intempestivo di questa nera previsione, si fermò sui due piedi, strinse la testa nelle mani per aiutarsi con un atto vivace a non disperare, invocò tre volte il nome di Gesú, che aveva tanto patito anche Lui su questa terra; e per chiedere un aiuto a una sensazione esterna, che la sorreggesse in quel momento di vertigine, si voltò a cercare il suo carro. Ma la strada era vuota, immersa nella tristezza d'una nuvola che passava sulla luna. Forse il carro s'era fermato al borgo. Allora, per non lasciarsi prendere dallo scoraggiamento, corse con affannosa precipitazione fino allo svolto della strada, che cominciava a discendere e a penetrare in certe boscaglie tenebrose piene di una neve piú bianca, che copriva un terreno piú tormentato e mosso. Sentendo passar nelle ossa un brivido di freddo, si strinse lo scialle indosso, si coprí di nuovo la testa per schermirsi dalle minute goccioline d'acqua, che stillavano dai rami sotto le scosse del vento: e fatto il segno della croce, trasse la corona e incominciò a intonare il rosario con una voce sostenuta ch'essa ascoltava. La preghiera lunga ed uguale, che nel suo sonoro meccanismo par fatta apposta per condurre gli spiriti piú inerti verso una lontana e indeterminata speranza, dopo aver rimesso in movimento la sua volontà, segnando quasi la battuta dei passi, la sottrasse per qualche tempo alla sofferenza de' suoi pensieri; non cosí bene però che gli sgominati fantasmi, sospinti da una parte, non rientrassero a poco a poco da un'altra, insinuandosi tra le avemarie, intralciandone la seguenza, interrompendone la benefica energia, finché a poco a poco la parola le moriva sulle labbra, i passi si facevan piú piccoli e pigri, l'infelice, continuando a muoversi collo spirito, dimorava coi piedi nel mezzo della via, rivolta e intenta a cercare dietro di sé qualche cosa di cui aveva piú il desiderio che la memoria. Una volta la scosse da quest'attonita immobilità il vociare grosso d'un carrettiere, che svegliatosi all'improvviso arrestarsi della bestia, gridava con anima assonnata a quest'ombra, che gli impediva di passare. Celestina trasalí con un guizzo acuto di spasimo in tutti i muscoli, balzò in disparte, si rimbacuccò nello scialle e riprese a correre sull'orlo della strada. Camminò un'altra mezz'ora, concentrando gli sforzi mentali nel richiamare la memoria di un sito, il cui nome ora le sfuggiva, dove sapeva che si passa l'Adda. Nel disordine sparpagliato delle immagini, la risonanza confusa del nome d'Imbersago, dov'è il passo del fiume, serviva come di nucleo e di centro a' suoi pensieri dispersi, in mezzo ai quali passavano delle fosforescenze febbrili. Lasciò indietro altri casolari isolati, sparsi nella campagna dai quali non usciva un filo di luce. Sentí muggire dal fondo delle stalle: incontrò altri carri schierati che seguivano il passo affaticato delle bestie e mettevano dei cupi rumori nell'aria intirizzita e chiusa. Scivolò, passò via non avvertita dagli uomini, che dormivan sulle robe, sempre sostenuta dall'orgasmo febbrile, che la faceva sognare a occhi aperti, aprendole davanti delle prospettive luminose, in cui nereggiavano i camini e i tetti bassi delle Fornaci. In questa mèta, che essa fabbricava a sé stessa, la fantasia inferma andava collocando le figure del suo pensiero, in costruzioni false ed illogiche. - Che avrebbe detto donna Gesumina, quando entrando la mattina nella stanza della guardaroba, non l'avesse piú ritrovata seduta davanti al solito telaio? forse avrebbe fatto bene a lasciare una parola scritta in un biglietto: le due signore l'avevano sempre trattata bene; ma Giacomo avrebbe scritto meglio di lei per giustificare la sua fuga. Non c'era che Giacomo che poteva disporre di lei: essa era sempre stata sua fin dal giorno che lo zio Mauro l'aveva condotta alle Fornaci sulla timonella, dopo la morte della povera mamma Mariannina. Aveva allora poco piú di cinque anni. Lo zio Mauro, che durante il viaggio se l'era tenuta sul ginocchio, nel calarla dalla timonella, l'aveva collocata in braccio a Giacomo, che la portò subito in vignetta a vedere i conigli. Fu ancora lo zio Mauro, che per una sua idea cominciò fin d'allora a chiamarla "Frulin", un nome senza senso, che pareva averli tutti al suo orecchio, quando ricordava i bei giorni passati. La zia Santina volle subito indossarle una sottanina di lana d'un color rosso vivo,che spiccasse bene in mezzo all'erba, quando andava a correre nel prato, perché non v'era buco in cui "Frulin" non si cacciasse, tanto era piccina e inquieta. E quando Giacomo sonava la chitarra nella stanza del torchio dell'uva? Lui sonava, zufolando sull'aria: Tant che l'era piscinin; e lei ballava, girando in una grande tinozza, che mandava il forte profumo del mosto. Nei sensi le parlava ancora questo acuto profumo d'uva calda. Un'onda spumante le pareva di veder scorrere qua e là in macchie purpuree sul candore della neve. E quando Giacomo se la recava sulle spalle nella gerla in mezzo alle colorite pannocchie del granoturco? Camminò su questi pensieri, senza poter distinguere sempre tra le impressioni reali e le immagini, che apparivano alla memoria, or più or meno confuse, fin che giunse all'incontro di piú strade. Qui si fermò, non sapendo per quale andare avanti, e novamente l'assalirono, come se fossero ivi appiattati ad aspettarla, i terrori della sua vita di ragazza oltraggiata, reietta, ingannata, figlia di nessuno, che nessuno voleva piú. Al chiaror della luna, che ricomparve un momento con improvvisa nitidezza, vide, sulla neve pesta, l'ombra della sua persona rimpicciolita, della sua testa nuda, che perdeva le treccie, dello scialle che, scivolando dalle spalle e mal trattenuto in vita, andava strascicando nel molliccio. Si vide, e cominciò a singhiozzare dolorosamente ed a cercare intorno a sé un'anima, che volesse aver compassione del suo stato. A sostenerla nel tristo momento venne un primo colorirsi del cielo dietro i monti, quasi un sospiro dell'alba in mezzo ad una nuvolaglia spessa, che si ammontonava sulle creste. Di là scendevano soffi piú densi, di un vento umido, pieno di ghiacciuoli, che le avviluppavano il capo, le stiravanoi capelli, le facevano desiderare qualche rifugio. Le strade del crocicchio partivano lunghe e larghe per direzioni diverse nel vasto piano di neve solcato dalle ruote, calpestato dai cavalli e dagli uomini: ma non un'anima viva nel deserto! Solamente uncapanno di paglia presso una pianta, un trenta passi fuori della strada, usciva dalla neve e pareva invitarla a prendere un po' di riposo. Vi si avviò, avendo creduto d'intendere voci di ragazze, che la chiamassero; ma, fatti alcuni passi nella neve molle, cominciò a sprofondare fino al ginocchio; e allora tornò indietro; poi, per quanto cercasse intorno, non vide né il capanno, né la strada. Si fece il segno della croce e, richiamate con uno sforzo acuto della volontà le energie dello spirito, avviò un secondo rosario colla intonazione alta, con cui soleva precedere la processione della chiesa al camposanto, durante la novena dei morti. La preghiera traboccava dalle labbra per un impulso meccanico della voce; ma il pensiero andava a ritroso, risaliva a tempi lontani, s'immedesimava con cose passate e morte, rivivendo, con lucida illusione i momenti trascorsi, indimenticabili, di una vita umile e dolce, piena di affetti, di tenerezze, di gioie nascoste, di pudibondi sogni, che non aveva mai osato esprimere asé stessa, quando il piú santo dei desideri le pareva cosí bello che non osava carezzarlo senza qualche rimorso. Si sparpagliavano come foglie trasportate dal vento le immagini, che illustravano la storia segreta del suo amore per Giacomo, dal dí che se l'era veduto venir davanti vestito da pretino (allora essa non sapeva ancora che cosa fosse amore) fino all'altro dí, cosí diverso, al tempo della guerra, quando, dopo aver provato tutti gli spaventi della morte, seppe che era tornato sano e salvo. Essa era in vignetta a coglier dei piselli per la minestra, quando il Manetta, che amava le grosse celie, le disse: - Cerestina , c'è il Garibaldi: non senti pim pum pam? - Essa rispose: - Che mi fa a me il vostro Garibaldi? - Ma non aveva ancora finito di parlare, che dietro il verde dei fagiuoli vide muoversi qualche cosa di rosso, come sarebbe stato un grembiale che sventolasse all'aria, e invece era lui, che, appiattandosi, cercava di avvicinarsi senza farsi scorgere: era lui, colla camicia rossa del garibaldino, arrivato improvvisamente; era lui annerito dal sole, lacero come un povero ladro; che, senza pensarci, se la prese tra le braccia: e anche lei, senza pensarci, gli aveva buttato le braccia al collo, mentre il Manetta cantava l'inno di Garibaldi e batteva le mani, piangendo come un ragazzo. Era cosí viva e presente questa scena che la poverina, come se l'allegria la portasse in aria, affrettava il passo, volando sulla neve, ridendo ancora giulivamente, mentre vedeva verdeggiare la strada e, in mezzo al verde, vedeva uscire il suo garibaldino. Cercava buttargli le braccia al collo senza poter raggiungerlo mai; e correva innanzi, sorretta dalla calda ebbrezza della febbre crescente, che non le lasciava sentire i brividi dell'aria mattutina. Una volta fu repentinamente arrestata e svegliata da un fischio acutissimo e dal passare rumoroso di un treno, che scivolò, lanciando una fiammata di scintille. Si fermò, girò gli occhi intontita, si raccapezzò, sentí la sua febbre, la sua pesante stanchezza; ma si consolò nel vedere già chiaro il cielo e nel trovarsi in mezzo alle note alture, poco lontana dalle sue montagne. Piovigginava da una mezz'ora, e non se n'era accorta. Sentendosi lo scialle e i vestiti inzuppati e freddi come ghiacciuoli, li scosse, si rimbacuccò, ringraziò il Signore d'averla accompagnata e (poteva dire d'aver camminato in sogno) si volse a cercar qualcuno, che le insegnasse la strada piú corta per andare al traghetto del fiume. Al rintocco d'un'avemaria, che venne da una chiesuola pocolontana, di cui scorse il campanile disegnarsi tra due cipressi, si avviò a quella parte, si mise a sedere sul gradino della chiesa, e stette ad aspettare che qualcuno aprisse la porta. Cosí accovacciata, colla testa sui ginocchi, si assopí un istante, rotta dalla fatica. Le furiose scosse della febbre la svegliarono: temette di morir intirizzita sulla strada, e colla forza nervosa ed esaltata, che dà il delirio, si mosse, si volse a tre contadine, che andavano al mercato a vender uova, e chiese loro la strada per il passo dell'Adda. Le fu indicata una stradetta, che scendeva al fiume, senza bisogno di girar tutta la carrozzabile; ed ecco dopo cinque minuti poté scorgere dall'alto della riva l'acqua incassata d'un color nero inchiostro, e al di là, nell'ombra grigia del crepuscolo, nel biancore della neve, la macchia del Santuario, il palazzo del Ronchetto e i neri camini delle Fornaci. Non sentí piú a quella vista né stanchezza, né brividi, né titubanze: di là c'era il suo Giacomo.

VECCHIE STORIE

663200
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Oggi, passati molti anni da quel giorno, la Gina aveva abbandonata la casa paterna, per venire a cercar fortuna in città. Giunta a Milano col canestrino di fiori, perchè era bella, se l'erano messi d'attorno i giovinotti e uno fra' tanti che l'aveva tentata, pareva che le volesse bene; così almeno egli giurava sempre, toccandosi colla mano il posto del cuore. E veramente, ne' primi tempi, fu per la Gina una specie di sogno. La stagione era viva, la città allegra e piena di gente, gli amici cortesi; per cui ella potè facilmente guadagnarsi un appartamento tutto per lei, con specchi, dorature, cortine di seta, e un gabinetto chinese con una specchiera, che pareva un reliquiario. E dire che la Gina alla Ghiacciata s'era lavata il viso le dodici volte nel secchio! ma fortuna e dormi, dice il proverbio, ossia chi bella nasce ha la dote nelle fasce. I fotografi amavano ritrarla in grande, per farne dei quadri agli angoli delle vie: un cappellino, portato dalla Gina, poco mancava che diventasse subito di moda e se le signore - quell'altre - non andavan dietro al modello, gli era soltanto per non dimostrare che la Gina fosse più bella di loro. Tuttavia anche sotto quella cipria, anche in mezzo alla spuma frizzante di quella vita, fra le garze e i nastri color di rosa, la Gina provava nel cuore una specie di puntura, come se una spina vi si fosse rotta dentro; e in fondo ai cartocci pieni di cose dolci, che le regalavano a teatro, sentiva sempre un amaro di legno quassio, perchè il peccato non si sputa fuori, nè tutte le macchie si lavano col sapone. Anzi, quanto più pareva che il suo occhio di gazzella fosse talvolta rapito in una apoteosi dell'opera, e in una contraddanza di driadi ed amadriadi, tanto più il suo pensiero sprofondava nelle fessure della coscienza e le accadeva di vedere, fra le piante della scena, spuntare un campanile aguzzo, colla crocetta in cima, o la siepe dove soleva curare le oche, o il pergolato e il ballatoio di legno, coll'insegna della Ghiacciata, la famosa osteria del suo babbo. Fanciulletta vi era cresciuta, a piedi nudi, col bel musetto sporco, coi capelli in furia, cogli occhi neri e lustri come il carbone, amata prima dalla sua mamma, odiata poi dalla matrigna, che aveva una ragazza brutta e storta. Quando la matrigna aveva gente, la Gina scappava di sopra, apriva un guardaroba, ne toglieva una veste lunga, per il gusto d'indossarla e di fare la coda sull'ammattonato, passeggiando innanzi allo specchio con una ventola in mano, di penne di tacchino. La matrigna ne la pagava poi con sferzate di vero legno di nocciuolo, o con schiaffi per il gusto che avrebbe voluto anch'essa di voltarle la faccia. Ma la faccia della Gina si faceva sempre più bella, come se le ceffate finissero d'aggiustarla: gli occhi, spesse volte lagrimosi, acquistavano una profondità infinita, come chi guardasse nell'acqua del mare, e così spuntò la primavera dei suoi sedici anni. All'osteria della Ghiacciata, che aveva d'intorno un bel boschetto di carpini e di sambuco, venivano al primo aprirsi della primavera, molte comitive in carrozza, di giovani e di donne bellissime, che dopo il pranzo si mettevano a ballare sul battuto. Il Toppa, un cretino dalla gola gonfia e dagli occhi malati, suonava l'organetto per muovere certe scarpette di seta, che il diavolo, io credo, suggerisce ai parigini per far perdere la strada alle anime innocenti. Anche la Gina imparò a ballare, cioè quando ci si provò la prima volta, si meravigliò essa stessa di saperlo fare. È vero che essa aveva ballato molte volte ne' suoi sogni, quando, a quindici anni non si dorme inutilmente; ma tutti dicevano che danzava di scuola, e che pareva di portare una piuma, se si appoggiava al braccio del cavaliere. Imparò anche a far dei mazzolini e vide in seguito che i fiori stavano bene in un canestro di vimini. Una volta che una di quelle signore dimenticò un cappello di paglia, a foggia di paniere, colla tesa larga e piovente, la Gina se lo provò sul capo, e vide che pareva anch'essa un fiore nel paniere. Ci pensò un poco; ogni mattina, da un pezzo in qua, soleva correre incontro al procaccia, per togliergli di mano un biglietto ricamato con una corona di conte, Ci pensò un pezzo, finchè una volta che la matrigna osò buttarle il cencio dei piatti sul muso, non disse nulla, ma scrisse due righe sopra un foglio. Due giorni dopo, col pretesto che andava in chiesa a messa, nel suo scialletto nero, prese la strada postale, camminò nella polvere e sotto il sole per un bel tratto, finchè giunta allo svolto, dov'era una gran siepe di robinie, scoperse una carrozza. Il cuore fe' sulle prime un gran schiamazzo, che non facevano l'eguale le sue dieci oche nei giorni di temporale; sostò, chiuse gli occhi un minuto, e quando li riaprì, credette quasi che l'aria fosse infocata, Qualcuno la spingeva bel bello: una voce sussurrava al suo orecchio; la carrozza fece il resto. Dopo tre mesi di vita gaja, la Gina ammalò di tifo: e se non era una vecchierella di buon cuore che si pose a curarla, presso il guanciale, gli amici l'avrebbero lasciata morire come un cane, nel suo bel gabinetto chinese. Quando potè cacciare le gambe dal letto e si guardò nello specchio trovò che, meno gli occhi, molto di bello se n'era andato: i capelli se li sentì pochi nelle mani, non così però che con un po' di belletto, e con qualche truciolo finto ella non potesse sperare di vincere ancora la sua fortuna. Uscì per le strade a vender fiori, ma visto che la gente non credeva più alla Gina di prima, pensò al modo di diventare un'altra Gina, poveretta! La vecchia signora, che l'aveva curata con tanto amore, le offrì ricovero in casa sua, in una viuzza tranquilla e fuor di mano, dove il sole non scendeva un momento, che per scappar via. Passò l'estate. L'autunno venne innanzi col suo tabarrotto di nebbia: venne anch'esso il dicembre nella sua pelliccia d'ermellino, e lassù intanto, in quelle quattro stanze, colava l'aria fredda, livida, inzuppata dì malinconia. Quando la Gina sentiva qualche cosa alla gola, che minacciava di strozzarla, usciva in cerca di sole, rubando cogli occhi l'ultimo verde, che spenzolava dai rami degli alberi. Si avvicinava il Natale, l'anniversario della sua povera mamma. Il profumo del lauro, la vista del muschio, degli aranci, dei presepi, dei balocchi di legno verniciati, esposti nelle botteghe e sui banchini, risuscitavano una folla di reminiscenze, un polverìo, come sopra una strada pesta da cavalli sfrenati. La Gina se ne tornava a casa, colla febbre nelle ossa, colle guance riarse, con una gran sete: si accoccolava per terra, sotto la finestra, al buio, o cogli occhi incantati sui fiocchi di neve che cadevano; nelle ore di notte che non poteva dormire, o che dormiva così a sbalzi, coll'animo sospeso e co' piedi freddi, essa si lasciava andare a ripensare le belle carte di torrone, che.... una volta il babbo le regalava, delle quali ne aveva un fascio in una scatola, quali screziate d'oro e d'argento, quali con bei lembi color cielo, color vestito della Madonna, altre gentili come le perle, altre accese come il fuoco; e ne faceva vesti alle sue bambole di carta, alla Ghiacciata, se ne ornava ella stessa le orecchie, tagliuzzando le laminette di paglia d'oro, tintinnanti; quasi il destino avesse dovuto prepararle, per i suoi begli occhi, una corona di diamanti, come a una principessa.... Così pensava fredda fredda nel letto. Ahimè! la corona l'aveva avuta sul capo, non importa se di gemme false. L'acqua era scesa per la sua china, trascinandola verso il mare; ma che mare! meglio il pantano, ove andavano guazzando le sue oche nei tempi di secco. Se ne sentiva sudicia l'anima e la bocca. Non pareva più il suo corpo, tanto le vesti le scappavano giù e i capelli si irritavano sul capo come lische. E intanto correva per le vie il santo Natale, caro ai bambini, a suon di piva, circondato il capo d'edera e di muschio; ogni masserizia era pulita e benedetta: ogni piedino aveva le sue calzette di lana, bianche o a liste di colore; s'imbandivano le mense accanto al fuoco, dove bruciava il lauro, spandendo un profumo di presepio e di Betlemme. V'era della gente al mondo, felice per un cavalluccio di legno scoperto in una scarpa, e delle barbe grigie, che piangevano di gioja per due righe di rampini, scarabocchiati e dedicati al nonno. Perchè la felicità è per sè stessa una cosa leggera e porta in alto il cuore che sa contenerla. - Gina! - gridò la voce della vecchia dal fondo della scala. Gina era fuggita. Scivolò al bujo dalle scale, corse pel vicoletto, scappò via, mentre accendevano i primi lampioni. Non nevicava, ma tanta era stata la neve caduta sui tetti, sui campanili, sugli abbaini, che la città pareva lì per perdere il respiro. Per la lunghezza delle vie, e per le piazze profonde, le flammelle del gas, fatte rossigne, si stringevano in sè, come se temessero pure di dover morire di freddo; poche, frettolose, le persone rasente ai muri; dagli archi delle botteghe chiuse, dalle finestre delle osterie, dalle case, traspariva quella luce velata e calda, che ha dentro di sè il fumo delle pentole e la ciarla della gente allegra. Voltò per via Larga; di là pel corso, verso porta Romana, dov'era la strada per la Ghiacciata. Sperava di arrivarvi in meno d'un'ora, non in carrozza, come sei mesi fa, quando era partita, non fra due filari di pioppi verdi, ma con un santo orgoglio, che la sorreggeva, che le riempiva gli occhi di lumi: al di là dei lampioni, oltre i gabellini, oltre la cerchia delle mura, che la serravano come l'anello d'una ruvida catena, anche in mezzo alla neve, alla nebbia, ai fossati, alle pozzanghere oscure, rasente ai cimiteri, la Gina vedeva la libertà; fuggiva, come se dietro i suoi passi corressero proprio ad inseguirla, e, voltandosi, guardava con spavento la mole confusa e nebbiosa della città. Presso i bastioni si trovò quasi perduta in un campo di neve. Le guardie, in un cantuccio del dazio, stavano scaldandosi intorno a un braciere, discorrendo sottovoce con aria di malcontento: al di là, quando cioè la Gina ebbe varcate anche le case del sobborgo, si trovò nel deserto addirittura, come le venne in mente d'aver letto, all'incirca, d'Elisabetta negli Esiliati in Siberia , quando giunge alle rive del Kama. La strada correva fra due fossati: non un carro, non un lume, non l'abbajare d'un cane. Ma non per questo cessava d'andare; il negro, che sia sfuggito al flagello del piantatore, non respira con tanta voluttà l'aria delle selve, quanto una coscienza, che si snodi da un'abbiezione morale e torva, cerchi di tornare alla stima di sè stessa. La Gina camminava nella neve, scendeva nelle pozze, nel ghiaccio, nella mota, contenta di dover vincere quegli ostacoli, come se, passando attraverso quella grande tribolazione, dovesse poi uscirne purificata. Era scomparsa un giorno d'estate fra un polverìo bianco: voleva ricomparire al disotto d'un nembo di neve; così della Gina si sarebbe dimenticato quel tempo, come se fosse stato un sogno. Camminò forse un'ora, senza mai sentire il freddo che le sbatteva sul viso; per la lunga eccitazione del suo spirito, ella finiva, sto per dire, col camminare sopra i propri pensieri. Certamente non vedeva l'ombra delle piante, nè i mucchi di ghiaja che costeggiano la strada, sotto uno strato di neve; se li avesse veduti, ne avrebbe preso maggior spavento, quasi fossero tanti cataletti posti in fila. Molte sue amiche eran camminate al camposanto collo strato bianco, e dietro aveva cantato anch'essa le litanie della Madonna, intonando il Mater purissima . E cammina, e cammina. Ecco finalmente che da' casolari, che sorgevano a destra e a manca della strada, sprofondati nel più fitto della notte, vede uscire, anche qui, quella luce velata e calda, che ha dentro di sè il fumo delle pentole e la ciarla della gente allegra. Anche per questi luoghi morti e quasi disabitati era passato il santo Natale, caro ai bambini, a suon di piva, circondato il capo d'edera e di muschio. Udiva delle canzoni, ma la strada continuava sempre deserta, sempre bianca lungo i fossati in cui gorgogliava un'acqua cieca piena di misteri. Finchè le parve di ravvisare, allo svolto di una gran siepe secca, il luogo, dove sei mesi fa era salita per la prima volta in carrozza, a guisa di certe povere ragazze delle favole, amate da principi. Quindi ravvisò anche il campanile aguzzo colla crocetta in cima, e fu per cadere come morta; ma la tenne ritta il pensiero che il più difficile era fatto e che, se Dio le avesse dato di poter rientrare nella sua casa, non solo ella avrebbe saputo trangugiare tutti i bocconi amari, ma si sarebbe chiamata felice di ottenere una scodella per carità e di far la serva alla sua matrigna. Giunta all'orlo della siepe di sambuco, che cingeva il giardino della Ghiacciata, guardò attraverso e vide che le finestre della vasta cucina brillavano; sotto stava il Toppa, attaccato all'organetto, e suonava una bella mazurca; la sua faccia giallognola e cretina sorrideva, mentre di dentro andavano e venivano delle ombre sulla cadenza della musica. La matrigna aveva invitato quel giorno Anselmo il mugnaio con suo figlio Gerola, un buon cristiano, zotico come un tronco, ma danaroso: da un pezzo la donna vi aveva messo gli occhi sopra per darlo, se si poteva, alla sua Carolina, che un migliore non ne avrebbe potuto trovare in questo mondo. Era stata contenta in cuor suo che la Gina, sdrucciolando come aveva fatto, avesse sbarazzata la casa da una terribile rivale. La Gina si accostò all'uscio; non piangeva, anzi, se si deve dirlo, si sentiva un coraggio e un'energia, di cui ella stessa si meravigliava. Il suo babbo era sempre il suo babbo e una donna, messa alle strette, non ha mai il cuore di respingere un'altra donna - pensava - quando implora compassione per amor di Dio. Picchiò una volta e non fu udita. Aspettò che il Toppa finisse di strimpellare e tornò a picchiare più forte. Questa volta qualcuno intese; la chiave scricchiolò e il volto della matrigna apparve nella fessura dell'uscio. - Chi è a quest'ora? - Sono io, la Gina. Il Toppa tornò a suonare, e il baccano, che sorse di dentro, impedì che altri potesse udire questo discorso. - Sei tu, sgualdrinella? va via, non ti conosciamo. - Per amor di Dio.... - Sei venuta in carrozza? - Per carità, almeno per questa notte.... - Questa notte meno che un'altra. - E dove andare a quest'ora? - Va dalla tua mamma. E chiuse l'uscio con furore, e girò due volte la chiave: parve a un tratto che di dentro si raddoppiasse la festa: la Carolina ballava con Gerola, e l'ostessa menava a tondo Anselmo il mugnaio, che non poteva reggersi sulle gambe. Il babbo dormiva nell'angolo nero del camino. La Gina non si accorse che intanto ripigliava a nevicare; non si accorse nemmeno che l'acqua entrava nelle sue scarpe; nè che le vesti strisciavano per terra. Non si sgomentò. - Andrò dalla mia mamma, - disse sottovoce, con un senso amoroso, la povera Gina. Conosceva bene la strada, perchè tutti gli anni soleva la mattina di Natale portarle un mazzo di fiori secchi, o un nastro ricamato. Quest'anno l'ora era un po' tarda, ma la sua mamma l'avrebbe ricevuta. Attraversò le vie deserte del paese: conobbe la strada del camposanto; spinse il cancello, che cedette. - Essa m'ha aperto, - mormorò la Gina. Traversò il piccolo campo, finchè vide una croce di legno, mezz'arrovesciata nella neve; ne sbarazzò le braccia, e cadde giù, esclamando con uno schianto: - M'han detto di venire da te, mamma. E piangendo cercò di chiederle perdono; si attaccò al legno con una stretta affettuosa di chi sente un cuore vicino, che risponde al suo. Poi chiuse gli occhi, per dormire accanto. La neve cadde alta tre spanne quella notte e tutti dicevano che avrebbe fatto bene alla campagna.

La morte dell'amore

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De Roberto, Federico 1 occorrenze

Voi siete stata abbandonata da un uomo. L’avete amato, ma cominciavate ad essere stanca di lui; dopo la rottura, la vostra passione si è ridestata. Voi avete scritto quattro lettere che definiscono i principali sentimenti cozzanti adesso nel vostro cuore: in una vi rassegnate filosoficamente, in un’altra implorate con grande calore, la terza è l’espressione del sarcasmo sprezzante, l’ultima d’una tenerezza pietosa e disinteressata. Va bene? – È così. – Però, nello scrivere tutte queste lettere, una secreta idea vi ha guidata: quella di vivere ancora nel cuore o nella memoria di cotest’uomo, di produrre un’impressione nell’animo di lui, di obbligarlo a ricordarsi di voi, per ammirarvi, per rimpiangervi. Ora, voi volete sapere da me in qual modo potrete raggiunger meglio l’effetto. – Può darsi che sia per questo; ma siccome, qualunque di queste lettere io manderò, è quasi certo che sarò lasciata senza risposta, imagini che si tratti di prender commiato soltanto. – O per prender commiato, o per quell’altra ragione, il partito è uno solo. – Quale lettera debbo dunque mandare? – La vecchia dama rispose: – Nessuna –.

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Ed egli fu un provvido raccoglitore dell'infanzia abbandonata. Applicò eziandio alla beneficenza infantile la varietà policromatica. Servì da agenzia di collocamento europeo e specialmente italiano per i piccoli selvaggi di colore, che egli raccattava dalla Società di Propaganda Fide, e da altri ordini di Missionarii in Africa, Asia e Papuasia. Se certi nobili ricchi potevano ostentare moretti o valetti bronzini o di verderame in livrea dietro le loro carrozze, lo dovevano al Canonico Giunipero. Ma oltre al salvare i virgulti umani, un giorno egli pensò ai rami e ai tronchi abbattuti, dispersi o putrescenti. Visitando una fabbrica a Cossila biellese, vide che di stracci abbominevoli raccattati dai bassifondi di Napoli, dalle cantine di Londra e persino dagli immondezzai di America si formava una virginea bambagia e si filavano tappeti da rallegrare l'immaginazione dell'Oriente. E così non si potrà pure fare del ciarpame umano? Come di cavalieri macchiati e d'avventurieri scampaforche si formano terribili legioni straniere in sussidio degli eserciti europei, così la civiltà religiosa potrebbe redimere i caduti ostaggi del vizio. Ma all'alta impresa occorre il nerbo di ogni guerra: il denaro. Il denaro, osservava il canonico Puerperio pieno di riconoscenza mortificata conversando con Suora Crocifissa, il denaro non manca mai alla virtù redentrice, profluendo eziandio dalle sorgenti del vizio pentito. Senza peccati non vi sarebbero pentimenti, senza pentimenti non vi sarebbero riparazioni. Da una parte generali o presidenti acciaccati, che nella loro irreflessiva gioventù tradirono a diecine serve e padrone, crestaie e signorine, dall'altra parte venerande patrizie o banchiere, la cui focosa inesperienza puerile fu forse abbassata da palafrenieri, e la cui pompa matronale ebbe un dizionario biografico di amanti, tutte le peccatrici e tutti i peccatori di alto bordo cercano di mettere in pace la loro garrula coscienza, facendo cospicue elargizioni alle opere pie. Per cui la generosità femminile ( generosità nel senso dell'on. Morelli) non serve soltanto ad ottenere impieghi, secondo lo scherzo della burocrazia pontificia: Mater dat, filia dat, uxor dat, soror dat; propterea quod ille missus est in Datem (nella Dateria apostolica). Ma la generosità femminile serve pure ad innalzare pie opere di virtù. Ah! (con un profondo sospiro soggiungeva il canonico Puerperio). Noi ci siamo consacrati alla Purità ... E dobbiamo domandare l'obolo ... come sapone di chi sa quante macchie ... Via! Mettiamoci in campagna. * Sette ! * le rispose con un monastico pattone sulla schiena Suora Crocifissa, arrubinando il bell'ovale del virginio pallore. E si misero ambidue in campagna. Sulla sepoltura di una città, che nei tempi etruschi e romani si meritò il nome di Industris, si screpola un gramo inoperoso villaggio, che con il nome di Passabiago scivola dai margini collinosi del Basso Monferrato alla sponda destra del Po. In una valletta storta e profonda, quasi inesplorata come una foresta vergine, esisteva un rudere preziosissimo di antichità cristiana; un tempietto, la cui costruzione si fa risalire a trecento anni dalla natività di Gesù Cristo. Lo si dice fondato da San Mauro. Subì incursioni di saraceni. Un mozzicone di iscrizione scalfita nella vecchia pietra " XI Kal. Nov. Rolandus" , ed una vaga tradizione lasciano supporre una visita di Orlando innamorato, che poscia ritornò furioso a ricuperarvi il senno smarrito. Napoleone I vi sorprese una lauta badia di Cistercensi, che facevano bollire i capponi nel vino bianco, e mandavano i vitelli a tuffare un istante nel Po per ripescarli e mangiarseli nei giorni di magro come pesci. L'imperatore còrso abolì la badia, disperse i padri badiali, e ne donò terreno e fabbricati a un brioso maresciallo Bonnelane, che li giocò e perdette a tarocchi. Nella restaurazione politica, si restituì il convento in più modesti costumi. Il ministro Urbano Rattazzi, coul Rataz, fieul d'Cain, fratel d'Caiffas, sulle zucche incapucciate a l'a dait un famos crep *; onde il padre guardiano poté intonare, secondo la lepida canzone piemontese del Brofferio: * Bruta neuva * orate frates * Bruta neuva per dabon. * Babilonys impii patres * portu 'l Diau an procession . In quella nuova soppressione di Conventi venne pure colpito il Convento di Sant'Oblito a Passabiago, Sant'Oblito, forse un santo inesistente, in cui si personificò per eufemismo o trapasso popolare l'originale Sant'Oblio. I fabbricati e i terreni vennero comperati all'asta pubblica dalla solerte ditta Israelitica Salomon Todros e Segre, felice acquisitrice di beni ecclesiastici in blocco, e rivenditrice al minuto. Ma la Ditta trovò insolite difficoltà a disfarsi di quei beni, anche offrendoli spezzati in piccoli lotti con dilazioni straordinarie al pagamento. Tanta era la diserzione e l'apatia dei capitali, che regnava loro intorno. La mania litigiosa, l'afflizione della crittogama e della peronospera, la testarderia del così faceva mio padre e il conseguente assoluto misoneismo avevano congiurato per formare un presente contradditorio, quasi ingiurioso all'antica nomea di Industris. La moderna Passabiago pareva la mummia di un rospo. Uno sparpaglio di case scrostate o screpolate o non finite; poggiuoli, che aspettano da anni ed anni la ringhiera; modiglioni, che si protendono inutili per ricevere la pietra di un balcone, che mai non viene. Ignorati o respinti i concimi artificiali; * una voluttà di andare a dormire, rimandando ogni cosa al Die Domani; una assoluta mancanza di volontà, niuna prontezza, fuorché nel litigare. In fondo della valletta giaceva quasi sepolta dai rovi e dalle rose canine la gemma della chiesetta. Ai due lati si ergevano in secolare contrasto storico e tellurico i due poggi dominati dalle rispettive famiglie Rotellana e Pressendina, che dalle spaccature e feritoie delle loro bicocche diroccate ancora si lanciavano freccie di cartabollata. Oramai alle due famiglie di litiganti cronici non rimanevano più che queste due risorse; * per l'una, la Rotellana, pattuire la conversione dei numerosi componenti al protestantesimo, con una sfondolata società di propaganda londinese, che pagava le conversioni in contanti. Per l'altra famiglia, la Pressendina, rimaneva il rinfranco di spazzare il sepolcreto avito nel Cimitero di Torino delle ossa dei Maggiori, ammucchiandole in un angolo chiuso della cripta, e vendere il restante spazio a un milionario costruttore di strade ferrate. Si aggiunse la complicazione di un amore improvviso in tanto odio secolare. L'unico figlio dei Pressendina, l'avvocatino Oreste si innamorò perdutamente di Onorina, la primogenita dei Rotellana, che perdutamente gli corrispose; onde era minacciata una nuova tragedia di Giulietta e Romeo. Invece il dramma ebbe lieto fine come negli amanti di Castello e Cascina di Roberto Sacchetti. Un santone, dei soppressi Tornaboni, padre Funari, venuto in concetto di santità per le sue reliquie (fra cui due capelli della Madonna) per le sue astinenze e per il suo moto perpetuo, era una grande provvidenza per tutti, e un grande specialista nel ricondurre le mogli fuggitive ai mariti spasimanti e maritare i rampolli di famiglie discordissime. L'avvocatino Pressendina e tota Rotellana si erano rivolti a lui taumaturgo; ed egli per maggiore sicurezza aveva richiesto il superiore intervento del Canonico Giunipero e di Suora Crocifissa. La signorina si era inginocchiata davanti al Canonico, l'avvocatino davanti alla Suora. E canonico, suora, e taumaturgo avevano combinato un miracoloso sopralluogo. * Iesus! * esclamarono in un duo la suora e il Canonico, quando mirarono sotto i rovi e le rose canine la facciata della Chiesa di Sant'Oblito. * Iesus! * tenne bordone padre Funari, completando il trio. * Questa facciata pare un incastro per un rivo di devozione, che conduce al Paradiso * osservò Suor Crocifissa. * Dovrebbe essere dichiarato monumento Nazionale! * asseverò il canonico. * Me ne occuperò io, * promise padre Funari * parlandone al commendatore Itaglia, Ministro dell'Istruzione Pubblica, e a un mio amico usciere omnipotente al Ministero dell'Interno. Fecero un viaggio e due servizii. Non solo combinarono il pateracchio tra l'avvocatino Pressendina e tota Rotellana, ma gittarono le basi della florida Casa del Sant'Oblio. Comperarono a buon prezzo dalla Ditta Israelitica quella gemma di antichità cristiana, e i circostanti terreni. Tacitando e mandando a spasso i creditori delle oberate famiglie Pressendina e Rotellana, i quali non isperavano oramai più niente dai giudizii di graduatoria, si impossessarono dei due poggi laterali coi relativi versanti, si può dire per un tozzo di pane. Di vero non vi era mai stato un candidato così ambizioso, così chimerico e così scemo di piattaforme elettorali, che avesse proposto un tracciato ferroviario per quella valletta abbandonata dagli uomini e da Dio. L'avvocato Pressendina si ebbe una cattedra di diritti civili in un istituto tecnico di Torino, donde, come è noto, salì al Consiglio di Stato. La famiglia Rotellana inoculata di nuove cognizioni rimase preposta all'agenzia agraria della rinnovata Casa del Santo Oblio. La Chiesa ebbe un generoso restauratore in un patrizio eccellente architetto archeologo. La facciata splendette come una paratoia di rivo conducente al Paradiso; nell'interno le gemine colonne apparveno gambe di santi onestate di brache luminose. La vasta possidenza venne circondata da un muraglione rivestito di edera, lungo come una cinta daziaria, destinato, come una muraglia della Cina a separare il Santo Oblio dal bulicame del mondo restante. Per evitare gli incameramenti di Rattazzi e dei ministri suoi successori la proprietà venne acquistata privatamente in testa del Canonico Giunipero. Sovventori furono principi plebiscitarii e pretendenti a ristorazione reazionaria, squarquoie arricchitesi nel commercio della carne umana e candide colombe della nobiltà e dell'alta borghesia. Avevano largamente concorso il comm. Vispi droghiere emerito, l'emerito macellaio Baciccia Calzaretta, il marchese Stefanina, i conti De Ritz padre e figlio, e il barone Rollone Svolazzini, non senza ragione di imbeccata personale. Il Canonico Giunipero nell'estasi della riuscita impresa, ebbe un'ossessione immaginosa, come la visita tentatrice del Diavolo. * Sta bene! * egli immaginò! * Sta bene in fondo alla valletta attaccato alla Chiesa il nido del Santo Oblio per le spericolate e le pericolanti salve dai morsi e dai rimorsi del mondo. * Ma là in alto sui due poggi vorrei giganti fronteggianti due ganglii virili. Sopra l'uno vorrei raccogliere uomini maturi, vecchi cadenti, sbattuti e rialzati per la Santa Fede; sopra l'altro vorrei raccogliere un reggimento di giovani operosi devoti alla santa forza! Ora che la soppressione degli ordini religiosi necessita il rifarsi, rinverginarsi del monachismo insito perpetuamente alla natura e ai destini dell'umanità, vorrei risuscitare i frati gramieri avamposti dell'agricoltura intensiva, vorrei risuscitare gli Umiliati pionieri dell'industria tessile e tintoria. * Vorrei in più, * e qui l'immaginazione vinceva le redini al canonico ... * Vorrei stazioni taurine di eccellenti riproduttori. Come se il diavolo gli ridesse sfolgorando in faccia, egli fantasticava: * L'imbecille civiltà ha creduto distruggere un'impostura nociva, abolendo dei conventi; invece ha distrutto utili verità, che fruttificavano sotto l'ipocrisia apparente ... Oh! la bella popolazione, che cresceva intorno ai conventi! Alla mia Laghetto da Po si ammiravano ninfe delle risaie, che le migliori non avevano potuto dipingere i classici pittori della Grecia, e ciò perché v'erano fratacchioni ben pasciuti di corpo e di spirito a benedire con il loro amore le contadine: essi nel bacio recavano non solo un vitale nutrimento, ma portavano un soffio di canti, studî e sogni sublimi, come un intreccio raffaellesco di arcangeli e madonne. * Erano depositi di stalloni umani per una razionale stirpicoltura e col celibato religioso offrivano una buona soluzione al problema di Malthus pauroso, che le popolazioni aumentino in proporzione geometrica, mentre i mezzi di sussistenza crescono soltanto in ragione aritmetica. * Invece, ora, aboliti i conventi, lasciata la procreazione rurale soltanto ai mal nutriti fisicamente e intellettualmente, sparvero le ninfe delle risaie; e loro sottentrarono femmine verdognole dalle bocche di lucertola e di rana, facile preda, gaglioffe e terribili alleate dei galeotti sfruttatori ed impresarii del socialismo professionale. In quel punto entrò Suor Crocifissa solenne, pallida e pura, al pari di Santa Clara. Il canonico, come se avesse esposto a lei il discorso diabolico, le domandò: * Non è la mia una concezione dantesca? Suor Crocifissa, che mangiava poco o nulla di Dante ed adorava soltanto l'Immacolata Concezione, fece un viso di voluta ignoranza e rimprovero. Allora il canonico Puerperio, cioè Giunipero, si sentì calare le ali diaboliche dell'orgoglio e del rigoglio virile, e domandò a Dio perdono dei suoi peccati di immaginazione. Egli allora si dedicò unicamente alla nuova fondazione femminea del Santo Oblio. Le prime reclute furono una dozzina come gli apostoli, e primario agente di arruolamento fu il padre Funari. Passato il cancello, in cui i ghirigori del ferro battuto delineano curve di nuvole a bambagia d'angioli, si vede spaziare un prato, intersecato da redole di ghiaia minuta, che partono dal piedestallo di una Madonna Stellata, come raggi da una stella. La statua della Vergine Madre Divina lucente di ceramica bianca, ha sulla fronte una stella metallica di doratura raggiante. Porta due iscrizioni sui quadri del basamento. L'una: Ave, Maris Stella è il saluto dei naufraghi della vita, che si salvano in quella casa del Sant'Oblio. L'altra: Hujus domus regina significa quale sovrana devesi riconoscere dalle casigliane e dai visitatori. Personificazione viva della statua è la superiora Suor Crocifissa. Il suo ideale vivente ed attuoso appare più fulgido e più alto della stessa statua. Dal beato Calasanzio al Pretore Martini è provato che l'abilità di consolare ed avvincere beneficamente gli afflitti ed i derelitti è una prerogativa personale straordinaria; non si può insegnare con regole; perché varia secondo l'infinita varietà delle afflizioni e degli abbandoni. Unica efficacia è l'asseveranza di una irradiazione d'amore. * Tu orfanella, adunghiata, sputacchiata dalla matrigna, derubata dai costei drudi, non hai mai avuto un bacio rispettoso. Ed io ti bacio nel Divino Amore. * Bella sartina, tradita dal sottotenente, a cui credevi dedicare il cuore e la vita, mentre egli ti ha presa come un'appendice di camera mobiliata, come il sopracaffè del mattino, * vieni qui; ché la Madonna ti assegna nella sua casa un posto di eguaglianza umana e di fedeltà nell'amore Divino. * Zitelle e dame gonfie dal livore e corrose dalla gelosia, che è il reagente più torbido e più corrosivo della chimica psicologica, venite qua dentro; e troverete nelle pieghe del Manto di Maria Immacolata la più olezzante fiducia in Dio, che fa sperdere persino la memoria dei terribili sospetti, per cui afferravate come documenti di tradito amore finanche le carte destinate a fetidi recessi. Oh! ben lo disse il canonico Puerperio, cioè Giunipero. Anche nella mitologia vi erano simboli di verità, che qui si realizzano. * Qui in quel Rio "Lavatojo" abbiamo realmente il fiume Lete, che travolge, sperde la memoria di ogni male; e in quell'altro rivo "Ortolano" abbiamo realmente il fiume Eunoè che coltiva ed accresce la memoria di ogni bene. La immagine matura di Suor Crocifissa in mezzo al prato dirimpetto al cancello raffigura quella di una cruda bambina che erige una pertica invitando a posarvisi le libellule: "Signorine e signorone! Venite sul mio bastone" . Ma la bambina acchiappa le libellule per infilzare crudelmente una pagliuzza nella loro coda. Invece Suora Crocifissa offre a tutte le ferite, a tutte le offese del devoto femmineo sesso il balsamo, pregustazione del Paradiso. Ai disordini della materia umana niun riparo più sicuro, che un ordine spirituale, in cui si riflette umanamente un raggio di ordine divino. La creatura bersagliata dal delitto altrui o dalla propria passione ha perduto il contatto benefico con l'Universo creato. Può riacquistarlo in una comunità religiosa. Questo è il vero socialismo ideale, per cui con gli altri vantaggi sociali si moltiplica il tempo. Come è difficile per un individuo ed anche per una privata famiglia il fissare e mantenere un orario! La mancanza di zuccaro nel caffè o il male di denti d'una sorella possono assorbire o fare cadere nel nulla, come per un giuoco di mattoni, tutte le ore della mattinata preziosa al lavoro. Invece in una comunità governa inamovibile l'orologio di precisione. Quanto possa fare uno studioso libero dalle cure domestiche, lo riconobbe il Taine deplorando lo strazio e lo sperpero delle corporazioni religiose fatto dalla Rivoluzione francese. Simile beneficio si può riconoscere per qualsiasi lavoro. Alle cinque del mattino la campanella sveglia per la preghiera. Il cronometro distribuisce il tempo esatto per la religione, lo studio, il lavoro, e la ricreazione; dalla Santa Messa, alla grammatica, all'aritmetica, alla inaffiatura dei fiori, alla potatura, all'innesto, alla composizione italiana, al saggio di lingue straniere, alle refezioni, alla raccolta dei frutti, alla macchina da cucire, al telaio Iacquart, al lawn tennis e al missisippì ecc. ecc. Nel nitore di un paesaggio romito ed aprico, tra Terra e Cielo, Dio e Natura, studio, lavoro, ed Amore Divino danno unicamente la pace umana. Questa sentirono, dopo l'abbraccio e il bacio di Suor Crocifissa le prime ricoverate, che non sospettarono neppure di essere recluse. Una figliastra ritrovò la madre ideale; una tradita ritrovò fedeltà d'amor celeste, nove altre vittime di gelosie o martiri di persecuzioni entrarono in quel porto della rassegnazione generosa e persuasiva, persuadendosi che la partecipazione accresce l'amore e la vera contentezza risiede nel volere di Dio. Notevoli tra le prime reclute le soprannominate Bimblana e Gibigianna. Bimblana nata ottava da una famiglia di schiavandari ad Ypsilon Novarese era stata battezzata coi nomi di Ottavia Rosa Antonia. Era cresciuta come un rosolaccio; di bella presenza, era mandata a servire in città, essendo già superflua la precedente figliuolanza per la schiavenza in campagna. Aggirandosi nel mercato degli erbaggi veniva ammirata ed amata per le sue forme slanciate e scultorie e per il suo andamento di maternità anticipata, che ai bambini e alle bambine la faceva parere una superiora amorevolissima. Suo gesto favorito era un ritmico allargare di braccia e scotimento di mani, con cui si direbbe avesse voluto raccogliere e sollevare in Paradiso un asilo infantile. Per quella sua andatura ondeggiante, quasi cascante di noncuranza estatica, aveva avuto il nomignolo popolare di Bimblana. Un ardito scultore l'aveva voluta per sua modella. Una guardia carceraria le diede prigioniero il suo cuore. Ma essa, senza riuscire ad amare nessuno, si lasciava amare quasi da tutti. La sua letteratura erano le avventure di Ol Carlin e la so dona a Milan , anche tradotte dal dialetto milanese al piemontese. Ma essa orgogliosa di aver appreso il meneghino, in modo da non disimpararlo più, realizzava pur troppo il distico originale: Te pacjria tuta * E mi me lassi pacià . Piegava la testa pudibonda, e lasciava fare e si lasciava baciare. Ottavia Rosa Antonia era on tocc da marcantoni da bon , che tirava i baci stagn . Non di rado aveva verificato nella vita i dialoghi del suo libro galeotto: * Sa gh'avii Carlin! * Sont scia ch'a va mangi coi eucc. A sii na gran bella forlana vidii ... ! Sanforment! * Lassem no Carlin! ... lassem no! Salveves mia col ... sentimento ... Essa aveva più docilità muta, che espressione di sentimento. Vittima dei capricci di fantasia, da cui sperava forse qualche tesoro del Caso era caduta d'una in altra disgrazia, fino a parere una bella e grossa mela fracida da buttare sul letamaio. Una notte la folata di giovani briganti esteti, che terrorizzano quella cittadina rurale, rimanendo impuniti, perché figli di avvocati o nipoti di canonici, con cui il deputato non vuole assolutamente disgustarsi, dopo avere ubbriacandosi fraternizzato con i garzoni da caffè e rotto il naso al busto del generale Garibaldi nei giardini pubblici, avevano attirato Bimblana sulla panca più scura del viale per godere in combutta il distico: * Bimblana! a va paci da sbalz ... mi * E vu paciem ... * E mi va paci * E mi me lassi pacià ... traduzione bestiale, note alla Spirito Losati, traduzione bestiale dell'angelico invito pronunziato dagli inquilini danteschi nella Stella Venere: Tutti sem presti al tuo piacer, perché di noi ti gioi. La lasciarono con le vesti oscenamente stracciate. Così turpemente abbandonata essa pianse a dirotto ... In quello stato miserabile non osava più presentarsi ai padroni e ai genitori. Voleva gettarsi nel Canale. Ma un filo di luce la salvò: la fama dei capelli della madonna, posseduti dal Santone padre Funari. Fece otto miglia a piedi per portarsi da lui; e fu condotta alla Casa del Santo Oblio. Vi era allora in visita apostolica il canonico Giunipero, il quale, veduta la rifugiata e sentitine i casi, appartossi nella libreria, si fregò gli occhi, come per un'aspra visione ed esclamò in un soliloquio silenzioso, che sarebbe stato forte, se pronunziato in un teatro filodrammatico di venerando seminario: * Manzoni! Manzoni! Dove hai conosciuto la tua immacolata ingenua Lucia Mondella? ... Oh! tipi di campagnuole oneste ed istruite offerte ad imitazione da Cesare Cantù e Felice Garelli! ... Perché, perché la verità è così diversa? Soltanto la musa stenografica, fotografica porca villana o villana sporca è la sincera interprete dell'anima femminile popolare, se non la salva, se non la purifica Religione. Con questa esclamazione in pectore Egli si curvò sull'inginocchiatojo a pregare per la salvezza dell'eterno femminino popolare. Nei primi giorni del suo ricovero Bimblana si sentì non solo salva, ma felice. Ravvisando un godimento senza peccato, sentendosi amata, senza essere goduta, né sprezzata né vituperata, confessò ingenuamente: * Non sono mai stata così bene a questo mondo. Mi pare di essere in un paradiso terrestre. Di meno facile contentatura si palesò Gibigianna, che irruppe nel Santo Oblio come una meteora annunziatoria di fulmine maggiore. Intanto dessa la bella Gibigianna faceva notevole riscontro alla bella Bimblana. Questa purificava le sue meneghinate; quella guardando nella lampada della chiesa rattizzava il fuoco errante dei suoi occhi e lo splendore vago dei suoi capelli, che le avevano fruttato il nomignolo fin da bambina. Come un raggio riflesso da un piccolo specchio, che si muova o si rompa, coagula sopra una volta grummi di luce, che vanno e vengono con l'agitazione di uno staccio o setaccio, fenomeno, dai toscani detto occhibagliolo, la vegia dai piemontesi, e dai lombardi gibigianna , così era la biondezza di Lia Lei, una biondezza da traveggole. Si conformava a tale biondezza la grazia mobile del capo chino arieggiante alla filigrana pendula di argento dorato, che adorna la testa alle fattoresse lomelline. La piccola Gibigianna sarebbe riuscita una Vespina, una svelta ed onesta cameriera da commedia di Tommaso Gherardi Del Testa, se il padre non l'avesse menata agli stravizii. Il padre suo, Teodoro, tramviere, dopo parecchi mestieri ed uffici abbandonati, aveva fatto girare la testa alla maravigliosa signorina figliuola di un causidico da mandamento rurale, e se l'era sposata o piuttosto rubata. Con una faccia innamorativa da impostore aveva fatto sognare castelli in aria alla sposa; e l'aveva condotta in una soffitta. Ma egli si ripagava delle strettezze domestiche nei pubblici esercizii. Questi gli parevano la vendetta sociale dei proletarii, che nei caffè e nelle trattorie si trovavano eguagliati da una illusione di Corte, facendosi servire da camerieri in coda di rondine come diplomatici. Teodoro aveva educato, addomesticato all'ubbriacatura dei pubblici esercizii non solo la moglie maravigliosa, ma altresì la piccola innocente Gibigianna. Gli esercenti, anche socialisti, non sono gratuiti; e adottano il cartello dei vecchi osti: oggi non si fa credito, domani sì. Teodoro il tramviere , con quel bel titolo e con la posa attraente da teatro diurno, aveva sempre difficile il quarto d'ora di Rabelais, cioè quello di pagare il conto; ma riusciva a superare le difficoltà, facendo la corte alla padrona con occhi lampeggianti, o chiudendo un occhio, se il padrone faceva la corte alla maravigliosa di lui metà . Ognora egli aveva dimenticato il borsellino a casa; o non aveva voluto uscire con un biglietto di grosso taglio; ed ordinava che si registrasse il suo debito. Ma una sera, in cui Teodoro accompagnato dalla inseparabile mogliera e figliuola dopo avere preso il caffè e sopracaffè, aveva ordinato una bottiglia di barolo, e poi ancora il ponce, il trattore del Cannon d'oro dichiarò a se stesso: basta!; e poi venne a proclamarlo davanti alla triade, che si indugiava a libare nei lieti calici, mentre gli altri avventori avevano già lasciato l'esercizio. L'esercente del Cannon d'oro si era offeso, accorgendosi, che Teodoro in una momentanea uscita gli aveva abbracciata l'aurea moglie intronizzata al banco. Della moglie di Teodoro egli non sapeva che farne, egli che possedeva una cannonessa d'oro. Quindi: * Alle strette! Teodoro, sono stanco di riempire il mio gran libro dei tuoi puffi . Stassera, o mi paghi; o ti rinchiudo in questa stanza, e faccio chiamare le guardie vicine, perché arrestino te come un gargagnan e tua moglie come una Venere Vagabonda. * E la piccina? * domandò Teodoro. * La piccina * rispose il trattore, sarà condotta dalla Questura in qualche ospizio, dove starà meglio che a casa tua. Teodoro si era rivolto indarno a fiammeggiare uno sguardo per implorare la padrona che non si lasciava vedere. * Discese invano uno sguardo sulla propria moglie per illustrarne le offerentisi bellezze. Addolcito dal vino, egli aveva più che le prepotenze e le viltà del gargagnan , l'amenità del brillo. * O cannon d'oro! Che credi di guadagnarci? Io non ho in tasca un cito . I gioielli, che porta mia moglie, sono di princisbecco. Il trattore del Cannon d'oro con uno sguardo d'acciaio da banchiere crudele aveva avvistato che non erano di princisbecco gli orecchini di Gibigianna. * E questi qui? * Questi sono un regalo del nonno procuratore, che sarebbe capace di mandarti in galera, se tu li toccassi. * Non temo la galera. Dammi alla buona in pegno questi orecchini. Ed io, anziché molestarti e minacciarti, faccio portare due altre bottiglie di barolo stravecchio ch'a rangiu lo stomi e per addolcirti ancora più la bocca alla fine ti darò un passito di Caluso, che non hanno i Cardinali ... E berremo anche in compagnia della mia signora moglie, che farò venire per te ... Vieni qua, Madama, Madamona Catlonessa! Fu la stessa Cannonessa d'oro , che tolse gli orecchini del nonno a Gibigianna, dei quali padre e madre non furono inconsolabili; Gibigianna sì. La fanciulla, dopo una notte fremente, ebbe alla mattina da una compagna di scuola un filo di salvezza; andò in una sacrestia, si confessò a un prete; e venne anch'essa destinata al Sant'Oblio con il consenso dei genitori, ai quali venne regalata una cesta di bottiglie. Onde lo spensierato Teodoro, quando gli domandavano della figlia scomparsa, rispondeva: * Sta bene al caldo! Me la sono bevuta. * * * Qualche volta il protettore canonico Giunipero e la superiora Suora Crocifissa, contemplando quell'onda di vivezza giovanile, che corrispondeva ai raggi del sole, sentivano il rammarico di imprigionarla là dentro fuori della vita mondana. Ma loro si affacciavano i fantasmi dei persecutori dell'innocenza: faccie torbide, ferine, culari e patibolari. Via da loro gli angeli della terra. Bisogna sottrarre dall'empietà, salvare gli angeli della terra. Gli è vero, che bisognava ripulire le ali di questi angeli da molte brutture. * Bisogna convenirne, mia cara, mia santa Suor Crocifissa. Un presidente nord-americano ci chiamerebbe muck rakers , frugatori di fango. Però anche il fimo giova alla buona semente, che per noi è la Parola di Dio. Proseguiamo senza ribrezzo nell'opera buona e necessaria. Il materialismo moderno troppo sequestra l'Umanità dalle speranze celesti, fondandosi sull'ignoranza precisa dei Cieli, che pure indubbiamente esistono. Noi purghiamo le anime avvelenate, noi preserviamo le creature vergini, pascendole del più puro azzurro. I nostri sono serbatoi e traiettorie, che mantengono il contatto, sia pure forzato, dell'Umano con il Divino. Il Canonico Giunipero e Suora Crocifissa intrecciando le mani alzate come in una figura di ballo celestiale, formavano un arco mistico, sotto cui invitavano a passare tutte le minacciate od offese da brutali persecutori, tutte le guaste dalla corruzione, tutte le tocche dalla follia contemporanea. * Venite, passate alla salvezza del regno di Dio e della Madre Divina. Vieni Regina delle Gambe, rappresentante delle Risaie, ai tempi delle laute abbazie. Vieni Fiorina Lucy, vieni Tilde, vieni Maria, vieni Eugenia, vieni bastarda, vieni, purissima. Vieni anche tu, conferenziera socialista, anarchica, Solima Del Lago, che i curati e i sacrestani chiamano limo del lago. Vieni a zampillare fresca, purgata dalla contemplazione delle verità divine. E vieni nell'abbraccio della Croce, o Gilda, nell'abbraccio della più bella croce, che possa piallare, intarsiare e scolpire il buono e curvo Simone tuo padre. Non aveva costato molto al prefetto emerito barone Rollone Svolazzini il sequestrare babbo Simone e relativa figlia, a fine di preservare il proprio Svembaldo allontanato. Il falegname Simone era un'anima di vassallaggio medievale; aveva insita nel sangue la fedeltà alla Chiesa e all'Impero rappresentato dal nobile barone. Era pure medievale nella sua abilità tecnica. Invece del macchinario a vapore per l'impazienza moderna, egli aveva la curosa lentezza della commettitura e dell'intarsio manuale. Pella concorrenza del giorno e dell'ora egli sarebbe rimasto senza ordinatori; sarebbe languito nell'abbandono ad intagliarsi la cassa da morto. Di questa prospettiva si rese presto capace l'angusta e rispettosa mentalità dello stipettajo rurale, a cui parve una Terra promessa dalla Sacra Bibbia la dimora e la pensione vitalizia al Santo Oblio. Con la minuzia consentita dalla massima larghezza del tempo, senza disturbo di sollecitazioni, egli finirebbe armadii di sacrestia, cassepanche da sancta sanctorum , stalli da coro, cofani da Suore; incrosterebbe di fiori lignei, sottili come carta, la nicchia della Madonna ... Oh se potesse lui fabbricare la custodia per le ali dell'Angelo Custode! Intanto egli era relativamente felice, perché la sua Gilda sotto i suoi occhi paterni sarebbe custodita, sarebbe riparata dalle insidie, dalle seduzioni e dalle pretese sproporzionate del mondo. Gilda si mostrò restia dinnanzi alla facile contentatura del papà; oppose lacrime e lacrime; ed entrò al Sant'Oblio irrorata di lacrime, come un passerotto bagnato dalla pioggia, il quale si rincantucciasse sprofondandosi sotto una gronda. Volgeva gli occhi spauriti, come se spiasse tra i fili della gabbia un'evasione. Suora Crocifissa sentiva difficoltà ad ammansarla, asciugarla, e intepidirla del suo fuoco sacro. E temeva, che l'operazione del prosciugamento venisse compita invece da un terribile vento, che pur si aspettava. Il vento della Contessa De Ritz ... Sorridendo con ironia celeste il canonico Giunipero aveva notato, che la Contessa De Ritz era destinata al Santo Oblio dal Clericalismo e dalla Massoneria. Ma pigliarla quella contessa! Qui stava il busillis ... Si erano tese le ragne in Europa e nell'Asia Minore. Fino allora era stato come tendere la rete per acchiappare un vento. Le informazioni secrete dei gesuiti e della Massoneria recavano avventure strabilianti. C'erano di mezzo corone di re e corone da rosario, scimitarre, pugnali e bisturì. Le informazioni massoniche facevano capo principalmente al conte De Ritz; e le informazioni gesuitiche al Comm. Vispi padre della Contessa. Ma gli stimoli e i reagenti, e le direttive, e le curve strategiche si intrecciavano, quando non si intralciavano. Ostinate forze congiuravano ad attrappare finalmente quell'indomita potenza della bellezza e del capriccio femminile. * Ci riusciranno? Ci riusciremo? * si domandavano il canonico Giunipero e Suor Crocifissa; e le loro stesse persone diventavano due punti interrogativi ripiegati tra il desiderio e il terrore. Che beneficio sarebbe salvare quell'anima: un beneficio grande per l'anima da salvarsi, e un beneficio ancora più grande per le innumerevoli vittime, di cui è ancora capace quella furia allettatrice di pervertimenti! Ma che pericolo per il Santo Oblio! Alle reminiscenze classiche del Canonico Giunipero pareva, che neppure Eolo sarebbe capace di incarcerare quel vento di lussuria. E con un videmibus infra si chiudeva la longanime aspettativa del Santo Oblio.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676083
Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Ad un cenno del Virey, i due praticanti magnetisti abbassarono le braccia, e la testa del malato, abbandonata dal fluido possente, ricadde assopita sui guanciali. Il Virey rivolse la parola al fratello Consolatore. - Credo esser nel vero affermando che l'illustre infermo rappresenta una delle tante vittime dello spiritualismo esagerato dell'epoca nostro. Porgetemi la biografia di questo sventurato ... Fratello Consolatore si fece innanzi e consegnò il manoscritto al Primate. - Le alterazioni del sistema arterioso - riprese quest'ultimo con calma solenne - derivano da grandi sofferenze morali accoppiate ad una violenta attività del cervello. Questa attività ha potuto assorbire, distraendola dal cuore, una delle grandi cause efficienti della malattia. Senza questa circostanza, l'aneurisma avrebbe già prodotto le sue conseguenze mortali. Ma la biografia del malato chiarirà meglio la mia diagnosi. Potete voi giurare, o fratello Levita, che in queste pagine non vi abbia parola la quale non sia ispirata dalla verità?. Fratello Consolatore portò la mano al petto e rispose: - Pel corso di cinque anni ho diviso tutte le angosce dell'uomo che ci sta dinanzi: la sua anima si è completamente rivelata alla mia e voi la vedrete riflessa in quelle carte ... - Voi fortunati! - esclamò il Virey con un sorriso di sdegnosa ironia - voi che avete il privilegio di scorgere l'anima attraverso le molecole organiche dalle quali risulta la vitalità ... La scienza di noi profani non giunge a tanto. Vedete voi la vostra anima, fratello Levita? - Non la vedo, ma la sento - rispose fratello Consolatore con umile voce. - E siete proprio persuaso che il battito delle arterie, il respiro dei polmoni, la facoltà di pensare e di agire dipendano da una potenza misteriosa che non ha da fare colla materia? - Il giorno in cui in me cessasse una tale convinzione, arrossirei di esser uomo e invocherei di morire. - Mentre io mi occuperò a leggere queste note biografiche - disse il Virey allontanandosi - voi potrete, o fratello, esercitare le vostre pratiche salutari sull'anima dell'infermo. Più tardi, se i vostri rimedi non avranno giovato, io mi permetterò di tentare qualche prova sulla massa corporea. Vi prometto che il vostro metodo di cura non ne rimarrà pregiudicato. Così parlando, il Virey si ritirò nel vicino gabinetto. Fratello Consolatore cadde in ginocchio presso il letto dell'infermo mormorando una preghiera. Trascorsa un'ora, il Primate di medicina rientrò nella stanza. Ai due praticanti magnetisti che lo accompagnavano si era aggiunto un numeroso drappello di giovani studenti, intervenuti spontaneamente al consulto per erudirsi nella dotta e faconda parola dell'illustre scienziato. Il Virey da più mesi non era venuto a Milano; tutti si attendevano che al letto degli infermi egli avrebbe solennemente proclamate e spiegate le sue grandi teorie innovatrici. L'aspettativa non fu delusa. I giovani si schierarono silenziosi intorno al letto, e il Primate con accento solenne prese a parlare: «L'esplorazione magnetica non mi aveva ingannato; la biografia dell'infermo, e più che altro la storia delle sue ultime peripezie ha confermato i miei criterii sulla natura del male che reclama i nostri soccorsi. «La scienza medica ha fatto, nella prima metà del corrente secolo, dei progressi meravigliosi. Oggimai non vi è legge dell'organismo umano che a noi sia ignota, non vi è forza della natura che abbia potuto sottrarsi alle nostre investigazioni ed al dominio delle nostre esperienze. Ogni mistero si è rivelato; l'organismo umano non ha più segreti per noi; la chimica ha messo a nostra disposizione tutte le sostanze vitali disperse negli elementi, tutti i reagenti salutari che rispondono alle umane fralezze. «Possiamo noi inorgoglirci degli stupendi risultati? «Possiamo noi esultare dei nostri trionfi, mentre gettando uno sguardo sulla umanità ci è forza di constatare il suo incessante deperimento? «I nostri legislatori si mostrano sgomentati della frequenza, per verità spaventevole, dei suicidii individuali; eppure - strano a pensarsi - assistono spettatori indifferenti ed improvvidi al suicidio di tutta la specie umana! «Se fosse lecito dubitare della perfezione matematica dell'universo, che implica necessariamente la perfezione dei singoli elementi cosmici, in verità noi dovremmo chiamare assurda ed improvvida questa grande sproporzione che si manifesta tra la facoltà immaginativa e la forza puramente meccanica dell'uomo. Tutte le malattie, tutte le passioni e le ansie che ci contristano la vita ripetono la loro origine e la loro causa efficiente da questo fenomeno implacabile. Il progressivo sviluppo e la conseguente attività delle forze morali segna nell'organismo dell'uomo le fasi del deperimento che conduce alla morte. Questo attrito incessante fra l'uomo intelligente e l'uomo bruto risponderebbe per avventura ad una misteriosa esigenza dell'ordine universale? Questa legge, così assurda nelle apparenze, costituirebbe forse il principio demolitore, o meglio, la potenza trasformatrice della umanità? La razza umana sarebbe mai destinata a scomparire dopo un lasso di secoli, per vivere e riprendere sotto nuovi aspetti la sua attività cooperativa in un mondo ringiovanito? Ammessa una tale ipotesi, per la quale verrebbero ad eliminarsi molti assurdi concetti, volgendo uno sguardo alle condizioni attuali della umanità, ed ai gravissimi indizi di prostrazione che in ogni parte si manifestano, non possiamo astenerci dall'emettere un grido di allarme - l'agonia della nostra specie è cominciata. Il fuoco della nostra intelligenza ha raggiunto il massimo grado della incandescenza; questo fuoco sta per estinguersi. «Noi siamo all'ultimo atto della grande tragedia umana. Il Titano intelligente si elevò ad una altezza non mai raggiunta, ma la sua caduta sarà irreparabile. «Abbiamo spogliate le foreste, abbiamo traforate e abbattute le montagne, abbiamo aperte delle voragini per rapire alla terra le materie combustibili e gazose; abbiamo deviate le correnti elettriche; dapertutto la mano dell'uomo ha portato lo scompiglio e lo sfacelo. «Che più ci resta a tentare? Dopo aver dominato la terra e le acque, ecco le nostre locomotive ci sollevano ai cieli ... Non basta? Fourrier, coll'innesto delle ali, ci comunica una nuova facoltà, ci promette una trasformazione ... «Affrettiamoci, signori! Ciò che abbiamo fatto per suicidarci è poca cosa ... Voliamo alle regioni dove spaziano le aquile! ... Voliamo colà dove per l'uomo si respira la morte ... «E i sintomi mortali si scorgono dapertutto. L'attività febbrile che nello scorso decennio ha operato dei prodigi, oggi accenna ad estenuarsi; la luce della intelligenza umana è quella del lucignolo prossimo a spegnersi. «E frattanto, qual forza ci soccorre? La terra, nostra madre, e nudrice, è ormai stanca delle nostre violenze. Essa comincia a ribellarsi. I cereali intisichiscono, la vite non dà più grappoli; gli animali che più abbondante e vigoroso ci fornivano l'alimento, si ammorbano e periscono sui pascoli insteriliti. «E già i governi mandano un grido di allarme; e il diritto alla esistenza sancito dalle nuove leggi diverrà fra poco una derisione ... Ma a ciò provveda chi deve. «Il nostro compito, o signori, è quello di affermare, per quanto è da noi, la vita individuale, mentre le masse precipitano nella morte. «L'umanità è colpita là dove ha molto peccato. La prevalenza del succo nerveo ha paralizzato le forze del sangue; l'equilibrio degli elementi vitali è cessato; l'uomo vegetale, l'uomo bruto fu invaso dell'uomo pensante. «Dalle cattedre, dai libri, dai giornali noi abbiamo reagito costantemente contro l'invadenza di uno spiritualismo micidiale. Ma la superbia umana ha sordo l'orecchio alle verità che la umiliano. «La religione riformata, accarezzando l'orgoglio dell'uomo e l'idealismo irrazionale della donna, ha messo il colino alla esaltazione. In ogni paese, in ogni tempo, l'ascetismo fu nemico della nostra scienza; ma a nessuna epoca mai come alla nostra, il prete ed il poeta, questi eterni falsarii della legge naturale, questi allucinati o coscienti mistificatori delle plebi umane, esercitarono più micidiale il loro predominio. I fanatici del nuovo culto impazziscono a migliaia. Parigi, la superba città che era nello scorso secolo denominata il cervello del mondo Parigi non rappresenta oggigiorno che un vasto manicomio. «Ma questi signori vi diranno: ciò che a noi importa è la salute delle anime! Orbene! (e così parlando il Virey si volse a fratello Consolatore) non vi par tempo che noi interveniamo? «Vorrete poi permetterci di tentare qualche esperienza profana sugli atomi vitali che per avventura serpeggiano tuttavia in questo corpo estenuato? ... » Fratello Consolatore non rispose e chinò la testa mestamente. Il Virey, per un istante disarmato dall'umile atteggiamento del Levita, riprese la parola con intonazione più dimessa: «La malattia che ha colpito quest'uomo è una delle più comuni oggidì: la lassitudine nervosa complicata e aggravata da un chiodo fantastico «Lo sfinimento dell'apparato nervoso ripete la sua origine da troppo intense e prolungate esercitazioni della macchina cerebrale; il chiodo fantastico è frutto di una troppo costante e inesaudita surreccitazione dei globuli simpatici. Il bagno fosforico e le fasciature elettro-magnetiche applicate con prudente moderazione potrebbero in breve tempo rinvigorire il sistema pregiudicato; ma un tal metodo di cura aggraverebbe la crisi dell'organo più compromesso. «Signori! ... occhio al cervello! ... occhio al padrone, al governatore, al tiranno della casa vitale! Abbiate per fermo che nessuna malattia è mortale quando l'organo tiranno che siede là dentro conservi piena ed intatta la sua forza di volere. «Affrettiamoci dunque! Il nostro primo compito sia quello di ristabilire l'equilibrio fra i globi cerebrali. Ottenuto l'equilibrio, quando il malato sarà in grado di pensare e di volere, in pochi giorni la resurrezione delle fibre sarà completa. «Riassumiamoci. La biografia del paziente ci ha rivelato che un intenso desiderio di possessione riportato sovra una donna fu causa della anomalia. L'idealismo! sempre l'idealismo! fomite di ogni follia, di ogni disordine, per non dire di ogni umana scelleratezza. Questo uomo, credendo di amare ha fatto violenza alle leggi della natura e si è reso impotente. Io vorrei bene, o signori (e qui la parola del medico riprese una intonazione più vibrata), io vorrei bene, se la situazione del malato non esigesse tutte le nostre sollecitudini, sbizzarrirmi alcun poco nella diagnosi di questa vacuità a cui le moltitudini danno il nome di amore! ... Oh! chi scriverà la storia dell'amore? Chi vorrà riprodurre nella sua spaventevole ampiezza la cronaca delle follie e dei delitti derivati da questo equivoco, da questa fatale illusione della superbia umana? E fino a quando proseguiremo noi ad insultare la natura, a pervertirci, a suicidarci, per la mania di idealizzare a mezzo di una insensata parola l'attrazione simpatica dei sessi, comune a tutti gli enti, a tutte le molecole della creazione? «Ma torniamo al malato. La prevalenza del fosforo, rivelata dalla esplorazione, mi è di buon augurio; l'assenza della febbre mi allarma. Provochiamo la febbre! provochiamo questa benefica agitazione del sangue che tende ad espellere dall'organismo gli atomi eterogenei, «Soffiamo in questa bonaccia! suscitiamo la tempesta riparatrice! ... «E non perdiamo un istante (proseguì il medico, ritraendo la mano dalla fronte del malato); si chiami tosto ... Ma, no! ... io stesso sceglierò l'individuo da applicarsi ... «Vi è qui alcuno che possegga un ritratto della donna che questo infelice ha creduto di amare? ... » Fratello Consolatore si levò in piedi, levò dal portafoglio una fotografia e la porse al primato. - Sta bene! ... Conducetemi tosto ad una casa di Immolate ... Là troveremo l'individuo simpatico che ci abbisogna. E volgendosi ai giovani studenti che in silenzio lo avevano ascoltato: - Spero - disse - che mi avete compreso. L'estirpazione del chiodo fantastico allora si effettuerà spontaneamente, quando si ottenga che quest'uomo abbia a credere in un'altra forma di donna ... Se a tanto può giungere il talento e la volontà di una Immolata, è indubitabile che lo sviluppo istantaneo della febbre ricondurrà l'equilibrio nelle forze mentali, e allora il cervello potrà gridare a' suoi satelliti: sorgete e obbeditemi!» Ciò detto, il Virey riconsegnò a fratello Consolatore la fotografia dell'Albani, dopo averne spiccato uno dei tanti ritratti fotografici che vi erano intercalati. - Levita! - riprese il Primate nell'atto di congedarsi - voi perdonerete alla vivacità di alcune mie espressioni che per avventura possono aver irritate le vostre suscettibilità - la scienza medica non fu mai troppo scrupolosa nella pratica del galateo. - Dopo tutto, se i nostri principii e le nostre credenze si avversano, ciò non impedisce che noi ci chiamiamo fratelli. - Fratelli! - ripetè il Levita stringendo al cuore la mano che aveva cercato la sua - è pur consolante l'udir profferire questa parola da un uomo che nega l'amore e non crede all'esistenza dell'anima ... Il Virey, irritabile come tutti gli scienziati, stava per riprendere la sua polemica, ma un sospiro affannoso del malato gli ricordò che i minuti erano contati. Egli volse al Levita un'ultima occhiata piena di ironia e uscì dalla stanza seguito dagli alunni. Giunto nella via, il Virey fece salire nella sua volante il custode della Villa, e scambiate sommessamente alcune parole con lui, ordinò al conduttore di dirigersi alla piazza dell'antica cattedrale.

L'ALTARE DEL PASSATO

676775
Gozzano, Guido 1 occorrenze

"Contessa Costanza Zeni": lesse sulla fascia d'una rivista abbandonata sul marmo, e decise di non parlare se la signora non parlava. La signora non parlò che del nipotino. - Adorabile, non è vero? La mia pena è di averli così lontani. Palermo. - Perchè non convive con loro? - fu per domandare Claudio, ma tacque, prudente; e fu bene, perchè la signora disse subito: - Li ho visti l'ultima volta a Pasqua, pensate! Li rivedrò a Natale. I Gribaudi sono palermitani, in tutta l'espressione. Famiglia patriarcale, bigotta, pedantissima. Ottima gente, m'accolgono con tutta cordialità, ma ... alla larga. Lei conosce il mio carattere, caro Soranzi ... - Santina le vuol molto bene! - Molto. Ma il bene delle figlie sposate per le mamme lontane. Una decima parte di quello che noi si porta loro ... Ancora una volta Claudio non trovò parola. - Contessa ... - Ah! non mi chiami contessa per carità; almeno lei! ... E Claudio rinunciò a parlare di Zeni, e s'accorse di non saper come annunciare alla signora la notizia, delle sue nozze felici: ora più che mai il momento non era propizio, ed il raffronto doloroso, e l'argomento indelicato da parte sua. - Ah! caro Soranzi! il tramonto non pesa. Pesa la solitudine. - Ma gli amici ... - Quasi tutti dispersi, come lei ... E i pochi superstiti vengono ben di rado. Non attira la casa dove non si ride più. Le ripeto, la vecchiaia non pesa ... - Ma non parli di vecchiaia alla sua età! - protestò Claudio schiettamente. Sapeva per calcolo certo, per confidenze del tempo andato, che la signora era poco più che quarantenne. - Non parli di vecchiaia a quarant'anni! La donna ebbe uno sguardo pieno di tristezza e di ironia: - Povero Soranzi, lei calcola sulle mie confidenze d'allora. A lei, come a tutti, ho sempre confessato ... sette anni di meno! E si ripagò dell'umiltà di quella confessione, la più dolorosa per una donna, con l'imbarazzo buffo del giovane amico. - Gli anni non contano, - protestò Claudio, - e se non fosse questa canizie precoce ... - Precoce? Ero canuta a venticinque anni! Mi sono tinta sempre, fino a tre anni or sono ... Ebbe un sogghigno crudele che le si fissò sulle labbra, sino alla fine. Claudio s'alzò, e s'accorse che per la terza volta stava per darle notizia della sua felicità e della sposa che voleva presentarle; ma che una timidità, un pudore lo tratteneva, e non sapeva quale. Forse il pudore del fortunato che non osa ostentare la bella veste di fronte al mendico. Volle parlare. Ma pensò che era tardi, che non poteva dare la notizia dopo un'ora, a visita finita, e che sarebbe stato più buffo che mai. - Se ne va? L'accompagno un tratto verso Sant'Erasmo ... La signora l'accompagnò lungo il declivio. Claudio paventava l'avvicinarsi all'albergo. Ma a mezzo il colle la sua ansia ebbe fine: - È tardi. La lascio, caro Soranzi. Le son tanto grata della visita. E la rinnovi qualche volta. Farà una carità evangelica. Si ferma a Sesto qualche giorno? - Sì. Veramente no. Ma devo premettere ... - Premettere che cosa? Claudio trovò una frase qualunque: - Premettere che scenderò a Sesto soltanto per lei. La signora s'allontanò con un sorriso triste, e lo minacciò con la mano, incredula e pur riconoscente. E Claudio scese correndo, inquieto, scontento di se stesso. Ancora una volta gli era mancato il coraggio dell'annunzio troppo tardivo. Giunse a Sesto, deciso di lasciare il paese quel giorno stesso, per non esporsi all'incontro ormai inconciliabile delle due donne. Trovò la moglie che usciva dall'albergo. - Ti venivo incontro. Andavo alla Posta. E sollevò un fascio di cartoline e di lettere. - La mia piccola grafomane! - e Claudio prese il fascio, lo soppesò nella mano sorridendo. - Mah! E tutto questo perchè il mondo seppia che siamo felici? - Sì. Perchè il mondo sappia che siamo felici ...

Teresa

678478
Neera 2 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
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Non aveva piú freddo, non era piú stanca; tutta la sua persona era appoggiata, abbandonata su quella del giovane, in un oblìo completo di tutto quanto non fosse lui. Lo stringeva gradatamente, sempre piú forte, coll'incoscienza dell'istinto, avendo una sola idea chiara e precisa: Egidio nelle sue braccia. Egli le prese la testa, e rovesciandola indietro con un movimento brusco, la baciò sulle labbra. - Vieni con me, fuggiamo. Il suono della voce riscosse Teresina. Si allontanò dal giovane, tenendogli solo le mani sulle spalle, guardandolo inebbriata. - Vieni con me. Tuo padre non acconsentirà mai alle nozze finché non vi sia costretto. Ti condurrò a Parma, dalle mie sorelle: vuoi? Teresina non poté sapere se egli fosse venuto a trovarla con quel progetto, o se forse gli era sorto improvvisamente nel delirio del primo amplesso. Però sentiva che Egidio era sincero, e non mai come in quel momento comprese di essere amata. Ma intanto che questa certezza le innondava il cuore di una gioia immensa, come bilancia che da una parte ha raggiunto la misura, balzava dall'altra parte il terrore di far cosa sconveniente per una onesta ragazza. - No… no… non posso. Ho promesso a mia madre. - Che hai promesso? - Di non darle dispiaceri… - E di rinunciare a me? - Oh! questo no. Un lieve imbarazzo si dipinse sulla fronte di Orlandi. Circondandole col braccio la vita, se la tirò accanto, e: - Ragioniamo. Posso io presentarmi a tuo padre? - Sì ... quando hai un impiego sicuro e conveniente. - Ecco appunto quello che non ho. - Ma mi avevi scritto… - Il progetto non andò bene. Io vivo ora alla peggio, scrivendo per l'uno o per l'altro giornale. - Ma perché ti sei dato al giornalismo? - Chi lo sa! Una passione come un'altra, e che non esclude le altre ... La strinse dolcemente, cercando di nuovo la sua bocca, con un sorriso d'uomo felice. Per cinque minuti non parlarono. - Ma tu hai freddo ... Orlandi si levò il mantello e ne avviluppò Teresina con una sollecitudine quasi materna, osservandone le guance pallide, che portavano le tracce della notte perduta. - Adesso avrai freddo tu! ... - Io? ... Stava per dire: non posso aver freddo, ho cenato lautamente: ma davanti a quel visino sbattuto, sul quale tutte le astinenze imprimevano un solco, provò un senso di pietà. Sollevò un lembo del mantello, tanto da potersene coprire le spalle, e mutò la frase: - ... se mi permetti di stare qui non avrò piú freddo. Lo strinse a sé, beata, scoprendo una gioia nuova in quella protezione, sembrandole quasi di anticipare l'intimità seria e solenne del matrimonio. Era vero che sentiva il freddo. Non aveva dormito, non aveva mangiato dal desinare del giorno prima; ma anche quei brividi che l'alba le metteva nelle ossa, avevano la loro voluttà; le facevano trovare piú dolce il tepore dell'amplesso. Una parola di Egidio la turbò. - Dunque vieni? - Sai, non posso! - gli rispose colle lagrime agli occhi, serrandogli la mano disperatamente. - E allora che vuoi che facciamo? - Aspetto. Era la sua forza, la sua fede. Non sapeva nemmeno lei che cosa aspettasse; l'incerto, l'ignoto, un miracolo forse. Ma Orlandi non la intendeva così. - Cara, la gioventù passa presto; sono già sei anni che ci amiamo inutilmente. Teresina non comprese l'accento scorato del giovane. Perché diceva che si amavano inutilmente? L'amore è sempre amore, pensava, quando si ama, si spera. Ella viveva pure con quel tenue filo di felicità; perché a lui non bastava? Le venne in mente di domandargli se intendesse di continuare per tutta la vita a scrivere articoli di giornali; ma questo discorso noioso le avrebbe portato via tanti baci; e poi voleva ascoltare da lui altre parole: mio tesoro, mia vita, cara la mia Teresa Tutto ciò era importante; il resto sfumava, si perdeva in una nebbia lontana di fatalismo. Nella monotonia della sua vita, dove il pensiero solo metteva una nota ridente, questi erano i momenti di vera felicità. Si sentiva donna, si sentiva amante e amata; mentre poi, come prima, come sempre, ella non sarebbe altro per mesi che figlia ubbidiente, fanciulla riservata, buona massaia. - Probabilmente - disse Orlandi - mi stabilisco a Milano. Un subitaneo sgomento apparve negli occhi di Teresina. Milano era piú lontano di Parma; e quantunque non conoscesse la grande città, intuiva vagamente ch'egli vi avrebbe incontrato maggiori tentazioni. Il cuore le si strinse di indefinibile malinconia. Vide d'un tratto tutta la sua umiltà, la sua povertà, la sua impotenza. Ebbe voglia di dirgli: Portami via! ma la parola le morì strozzata da un singhiozzo e non poté far altro che nascondere la faccia sul petto di lui. - Vedi, vedi? Te lo dissi che questa vita è impossibile. Ho rimorso di veder sciupare la tua giovinezza; Teresa, mia povera Teresa ... - Oh! sì chiamami tua perché lo sono! Gli si abbandonò sul petto con tale impeto disperato che, per un istante, Orlandi ebbe una fiamma negli occhi, e tremò come preso dalla febbre. Ma quasi subito ella rallentò la stretta, scivolando accasciata quasi fino a terra. dove stette col viso chiuso nelle mani, il corpo piegato in due. Orlandi contemplò quella testolina di vergine prostrata davanti a lui. - Che cosa intendi di fare? - le chiese con accento grave e dolce, rialzandola. - Amarti, sempre, qualunque cosa accada, qualunque sia il mio destino. Egli accostò alle labbra la mano della fanciulla: vi depose un bacio, esitante, turbato, ridivenuto improvvisamente freddo; affettuoso, ma distratto. Ella non se ne accorse; sentiva ancora i suoi baci, lo vedeva, lo toccava. Era impossibile che pensasse ad altro. Quando Orlandi scomparve dietro il muricciolo, Teresina fu presa dalla tentazione di seguirlo, volle gridare, volle chiamarlo, ma volgendosi improvvisamente, come se avesse udito una voce, si trovò davanti alla sua casa, alla casa casta e severa, dove sua madre riposava fidando in lei; e tornò indietro a capo chino, malcontenta di quel colloquio che le lasciava una tristezza insolita, uno scoramento da cui fuggiva la fede.

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Stava voltata di fianco, colle mani raccolte sul petto, i ginocchi un po' rialzati, la testa abbandonata sul guanciale basso, e guardava. Non vi era nulla di speciale in quella camera; ma per Teresina tutto era nuovo, incominciando dal letto, fino alla catinella di una bella terraglia a fiori azzurri. Sulle pareti, quattro quadrettini modesti rappresentavano le avventure di Telemaco; Venere che conduce Amore nell'isola di Calipso vi era dipinta con un vestito rosa, fatto alla vierge e con maniche a sabot. Teresina non pensò se quell'acconciatura andasse o no d'accordo colle tradizioni classiche; vedeva quella bella signora vestita di rosa in mezzo a tante altre vestite di bianco, e il giovane Telemaco fra esse; né le parve che la scena fosse antipatica, tutt'altro. A casa sua, proprio dirimpetto al letto, aveva una santa Lucia cogli occhi sul piatto; il confronto era tutto a vantaggio delle avventure di Telemaco. Un leggero fruscìo accanto all'uscio le trasse un grido. La zia Rosa entrò, serena, calma, con una tazzetta di caffè fra le mani. La vergogna di essere stata sorpresa a letto, fece balbettare a Teresina una gran quantità di scuse; ma la zia le tagliò subito a mezzo, sorridendo, dicendo che alla sua età si dorme volentieri, e che doveva essere un po' stanca per il viaggio del giorno prima. - Lei però, zia, è già levata ... - Oh! è una cosa differente. Io ho perduto l'abitudine di dormire, quando allattavo i bambini, e poi ne avevo sempre qualcuno ammalato; e adesso ho il vecchio. Io non dormo piú. Disse: "io non dormo piú" tranquillamente, con un fondo di torpore perenne, come se la sua vita, tanto di giorno come di notte, non rispondesse che al meccanismo semplice delle funzioni materiali. Teresina non voleva prendere il caffè, non c'era avvezza. In casa sua, solamente la mamma prendeva il caffè. - Non importa, qui sei forestiera - soggiunse la zia Rosa col suo sorriso buono che incoraggiava. E quando Teresina lo ebbe preso, per ubbidienza, si sentì i nervi dolcemente sferzati, un benessere in tutto il corpo, un'energia singolare, una strana lucidità di mente. La zia era uscita. Ella riprese la tazzetta che aveva posata sul tavolino con un resto di caffè, e la sgocciolò allegramente, succhiandosi le labbra. Poi balzò dal letto come una molla. Nessuno le faceva premura; la mamma non chiamava "Teresina, Teresina", con quella vocetta spenta ch'ella conosceva cosí bene; non le gemelle da pettinare, non da ammannire le colazioni, non le fascie d'Ida da rotolare per benino, non la voce burbera del padre: "Che nessuno tocchi le carte del mio studio!" Tutta la camera per lei, vuota; una ampiezza sconfinata, un'assoluta libertà. Incominciò a vestirsi lentamente, gustando il piacere di correre a piedi nudi sul tappetino del corsetto e di girellare in sottana, senza busto, rialzando ad ogni po' lo spallino della camicia che le scivolava sul braccio. Come erano bianche le sue braccia! Ella non aveva mai avuto tempo di guadarle, e le apparivano ora come le braccia di un'altra persona, così sottili, rotonde e bianche. Proprio non sapeva capacitarsi come fossero bianche, mentre il colorito del volto tendeva al bruno, ed anche il collo era bruno; solo scendendo sotto la clavicola, dove principiava il petto, il bianco riappariva. Questa ineguaglianza della sua pelle la sorprese; certo non doveva essere cosa normale. Allora, improvvisamente, fu assalita da un pensiero strano. Era essa bella o brutta? Se fosse bella! Si affacciò allo specchio, e si pose ad esaminarsi così minutamente, da vicino, che il suo fiato appannò il cristallo. Lo pulì subito, pazientemente, prima colla mano e poi colla salvietta, finché resolo affatto lucente, tornò a guardare il proprio volto riflesso; ma il dubbio non si scioglieva. Ella non provava, mirandosi, quello stupore che suscita la bellezza; scopriva al contrario, con un po' di dispiacere, che il suo naso non scendeva dritto e profilato come il naso della zia Rosa, la quale era stata una vera bellezza; e nemmeno le sue guancie e il suo mento non avevano quelle linee pure, che facevano somigliare la zia ad una statua di marmo. Era dunque brutta? Teresina stava per venire a tale conclusione, quando data un'ultima occhiata generale che abbracciava l'armonia intera del volto, ne ricevette un'impressione buona e si sentí consolata. Bella non le sembrava di essere, ma brutta, brutta come le Portalupi, nemmeno. Cercò un momento una parola, una parola che lei conosceva, e che le sembrava applicabile alla propria fisionomia, ma non la trovò subito. Decise allora di vestirsi, e lo fece con una accuratezza insolita, stringendo il busto, osservando bene se i capelli si spartivano eguali da una parte come dall'altra. - Incomincio a stimarmi anch'io! - Disse così, sorridendo a se stessa nello specchio, per l'idea buffa ch'ella potesse stimarsi, e restò immobile, colpita dallo scintillio che vide davanti a sé su quelle labbra rosse, tumide, e su quei denti di una candidezza abbagliante. Tornò a sorridere. Che cosa bizzarra! Tutto il suo viso cambiava. Faceva dunque quell'effetto lì, lei, quando rideva? E si sentí invasa da una allegria curiosissima; continuava a ridere, saltellando per la camera, con una voglia di cantare, di ballare, di abbracciare qualcuno. Ad un tratto si fermò, dandosi della scioccherella. Scese nel cortile, grave, composta, prendendo delle arie da signorina, guardando benignamente il bracco che sonnecchiava lungo disteso nel canile; fece qualche passo nel giardino, chinandosi per fiutare i rosai, seria, come persona che se ne intende. - Cogli le rose - le gridò a tergo la voce dello zio. Il vecchione la osservava, affacciato alla finestra del tinello, colle mani scarne appoggiate allo stipite. Ella colse le rose, scegliendole; lasciando da parte i piccoli boccioli non ancora dischiusi; preferendo le rose piene, carnose, dal grembo cupo e fortemente odoroso; le fiutava ad una ad una prima di riunirle in mazzo; le fiutò ancora tutte insieme, a lungo, colla faccia sprofondata in mezzo alle foglie fresche, umettandosi le guancie di rugiada. - Sono belle, nevvero? - Bellissime. Ritornò sui suoi passi, lentamente, cercando ancora fra i cespugli, stringendosi al petto tutte quelle rose che le scappavano dalle dita. - Fammele vedere Teresina si accostò alla finestra, dove il vecchione faceva oramai sforzi incredibili per sostenersi ritto, e gli presentò le rose, sporgendosi avanti, sfiorandogli colle mani le mani agghiacciate. Egli barcollò un momento, odorando le rose sul seno della fanciulla, e poi cadde sfinito nel seggiolone, col capo ciondolante sovra una spalla. La fanciulla si spaventò; lasciò cadere tutti i fiori sul davanzale, e corse in cerca della zia. - Un po' di sfinitezza, niente altro - disse la zia sollevando con braccio esperto la testa del marito. Un brodo caldo lo rimise del tutto, e quando al brodo fu aggiunto un bicchierino di Malaga, gli occhi del vecchio presero a scintillare, a sprazzi, finché restarono immobili, rapidamente attratti dalle rose sparse intorno a lui. Mezz'ora dopo dormiva. - Gli uomini - disse placidamente la zia Rosa, infilando le maglie di un pedule - sono molto piú deboli di noi. - Sì? - fece Teresina, incredula. - Sì. La zia non aggiunse altro. Quella sillaba racchiudeva un'esperienza lunga, multiforme, sicura. In quella asserzione che sintetizzava la debolezza del sesso forte, c'era tutto quanto il frutto della sua vita trascorsa osservando; osservando, calma, dietro il banco del negozio, accanto ai lettini dei suoi sedici figli, nelle ore lente e pazienti della solitudine femminile. Teresina non poteva comprendere e non comprese; ma rimase sotto l'impressione di un pensiero grave, indeterminato, guardando quei due vecchi: l'uno, decrepito, attaccato rabbiosamente alla vita; l'altra, serena, nel suo indifferentismo; bella, nella calma marmorea delle forme che nessun soffio di passione aveva alterate mai. Lo zio le faceva un po' soggezione, e, segretamente, le ispirava un certo disgusto; ma non poteva saziarsi dal rimirare la zia Rosa, seduta coll'imponenza di una romana antica, agitando i ferri, moderatamente, colle mani pienotte, alzando tratto tratto lo sguardo cristallino, di una limpidezza d'acqua. Scrisse alla mamma "la zia Rosa è tanto buona quanto bella". Ma chi era il giovinetto lungo e magro, coi calzoni color cannella, che passava alla mattina sotto la sua finestra, proprio nel momento ch'ella schiudeva le gelosie? Lo seppe un giorno, a tavola, poiché la zia scodellando i tagliarini, disse: - Non so cos'abbia Cecchino, che lo vedo passare di qui cinque o sei volte al giorno, Cecchino del mastro di Posta. Sapeva il nome, sapeva che era figlio dell'impiegato postale. Osservandolo meglio, seppe anche che non era un brutto ragazzo, un po' patito, con certi occhi grandi a fior di testa, che sembravano voler pigliare le persone come in una tanaglia. Era un divertimento vederlo passare tutte le mattine, ed era comodo per l'ora: Cecchino significava le sette e mezzo in punto. La zia Rosa, che conosceva la famiglia del mastro di Posta, non disse di no, una sera quando vennero a chiederle Teresina per fare quattro salti, al suono dell'organetto; e Teresina, che non aveva mai ballato in vita sua, si sentì dare un tuffo nel sangue. Certamente era felice, ma avrebbe voluto nascondersi a tutti gli sguardi, sì poca aveva sicurezza in sé, e tanto timore di comparire goffa e screanzata. All'entrare in sala, con tutte quelle sedie allineate lungo le pareti, il pavimento spruzzato di acqua fresca, e quattro candele conficcate davanti a quattro specchietti, ella provò un momento di vertigine. Non vide nessuno, non guardò niente; a passi da sonnambula raggiunse l'angolo piú buio; c'era una seggiolina umile, dimenticata nel vano della finestra, dove aveva servito per appendere una coperta bianca a guisa di cortinaggio. Teresina sedette là, e vi rimase come inchiodata. Vedeva, confusamente, due o tre coppie che giravano, e le parve che la zia Rosa, dall'altro lato della sala, la invitasse col gesto ad uscire di quel cantuccio, a muoversi anche lei come le altre. Ma c'era una nebbia davanti alle sue pupille, non percepiva nettamente i contorni; e la nebbia crebbe, diventò tenebra folta, dopo che le si era fermato proprio davanti qualche cosa color cannella. - Posso? Che cosa si voleva da lei? Che cosa le offrivano? Chi parlava? Ella rispose vivamente no, no, respingendo un cartoccino, tutta tremante. - La prego, favorisca, solamente un confetto. Erano veramente confetti? Non la si voleva burlare? Non erano piuttosto sassolini o mollica di pane? Suo fratello le aveva fatto tante volte quello scherzo. La voce insistette così, che Teresina si decise di allungare la mano, e prese un grosso confetto. - Non balla? A poco a poco Teresina rinveniva dal suo stupore, e gli occhi riprendevano a veder chiaro. Il signor Cecchino aveva un modo di parlare mellifluo, le stava chino davanti con tanto rispetto, ch'ella ebbe una lontana intuizione di fargli piacere ad accettare le sue cortesie. Rispose dolcemente: - Non ho mai ballato. - Non sa ballare? - Oh! a scuola ... oppure colle mie sorelline ... - Ma è la stessa cosa. Mi favorisca un giro; sono persuaso che lei balla divinamente. Ripose i confetti in una tasca del giubbetto, e le porse galantemente la mano. - Temo m'abbia a girare la testa ... - Niente paura; ho il braccio saldo, con me non può cadere. E per darle subito una prova della sua forza, le recinse la vita stretta. Teresina ripiombò nel buio. Non aveva piú coscienza di se stessa, girava, girava, acciecata dalle quattro candele che le sembravano girandole abbaglianti, sentendo nel fianco il cartoccio di confetti che Cecchino aveva in tasca, non osando dirgli di tenerla meno serrata. - È stanca? Moriva; ma non ebbe il coraggio di confessarlo, inebbriata dal moto, dalla musica saltellante, dal calore di quel corpo stretto al suo, e dall'odore di gelsomini, acutissimo, che emanavano i capelli del suo ballerino. - Lei balla da angelo. Per fortuna l'organetto cessò di suonare; Teresina cadde sulla prima sedia, rossa in viso come una brace. La seconda, la terza volta che ballò con Cecchino, non aveva piú tanta suggezione; ma il turbamento cresceva. In fine della serata era giunta al punto da non potergli parlare senza che le tremasse la voce; e quand'egli disse, strisciando le parole, facendo gli occhi espressivi: - Come mi dispiace che passino queste ore! Ella, rapita, fuori di sé, chiese: - Perché? Cecchino non aspettava altro. - Per dovermi separare da una persona tanto simpatica. La sala girava come un arcolaio; girava l'organetto col suonatore; girava la zia Rosa; girava lei, Teresina, stretta fra le braccia di Cecchino. E chi girava realmente erano lor due soli, alle battute finali dell'ultimo galoppo. - Ti sei divertita? - interrogò la zia Rosa, quando furono a casa. - Moltissimo - rispose Teresina con una convinzione che le trapelava dagli occhi. Una volta chiusa nella sua camera, per poco fu felice, riandando col pensiero ogni frase di quel memorabile ballo, ricordando sillaba per sillaba tutto quello che le aveva detto Cecchino: "Posso? La prego, favorisca almeno un confetto. Non balla?", tutto, tutto, fino alle parole "una persona simpatica". Queste, solamente a pensarci, le sconvolgevano il cuore. Guardò amorosamente il confettone, divisa fra il desiderio di mangiarlo, e quello di conservarlo eternamente. Il letto le parve duro, troppo pesanti le coperte. Era stanca, ma non le riusciva di chiudere occhio; se appena le si appesantivano le palpebre, scattava, sembrandole di udire mormorare lì sul guanciale: una persona tanto simpatica E poi le venivano in mente i ritornelli dell'organetto, e si stringeva al materasso, col braccio sinistro arrotondato in alto, il braccio destro teso, nell'illusione di ballare ancora. All'alba si addormentò. Il primo pensiero, svegliandosi, fu per lui; ma invece di essere un pensiero gaio e sorridente, le si affacciò quasi come un dolore, come una spina acutissima passata nella pelle. Inoltrando il giorno, la sua malinconia cresceva. Non aveva mai provato una simile tristezza. Si sentiva cambiata, come se un gran numero d'anni le si fosse aggravato sopra; aveva pensieri mesti di morte, di malattie, uno sconforto, un vuoto. Si toccava l'abito qui, lì, dove lo aveva toccato lui; e le veniva una gran voglia di piangere. All'ora del pranzo aveva il cuore così oppresso, che non poté quasi ingoiare cibo. - Va' a coricarti, poverina, sei stanca. Teresina non se lo fece dire due volte; penava troppo a doversi frenare davanti gli zii; sentiva il bisogno della solitudine, per trovarsi libera col novo ospite che albergava in lei, per poter chiudere gli occhi, e pensare al signor Cecchino. La seconda notte non fu migliore, né il giorno seguente. Il mattino, dalla sua finestra, lo aveva veduto passare, e lo sguardo prolungato che egli le diede, l'aveva, per un istante, resa beata; ma poi la malinconia la riprese, insistente, tormentosa. - Questa ragazza è ammalata, - disse la zia Rosa, accarezzandola con dolcezza - forse le fa male l'aria. - No, zia, non mi fa male. - Sei pallida, inquieta; lasciami sentire il polso. Ti duole il capo? - Un po'. - Lasciala in pace - interruppe il vecchio, gettandole alla sfuggita una delle sue occhiate penetranti. - Non è nulla. - Lo credo che non è nulla, ma la gioventù ha bisogno tratto tratto di qualche rinfrescante; ai miei figli, quando stavano poco bene, davo un cucchiaio di manna. Lo vuoi Teresina, un cucchiaio di manna? È dolce. E poiché Teresina, girellando per la camera, si era allontanata alquanto, il vecchio fece trombetta colle mani alla bocca, in direzione di sua moglie. - È innamorata! E ghignò, crollando la testa sulla dabbenaggine della buona donna, la quale non fu capace di aggiungere altro, restando cogli occhi fissi; quei chiari occhi cristallini, limpidi, che avevano visto molte cose nella vita, ma l'amore mai.

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CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Sempre più quella donna appariva a Franco un enigma; era bellina, era abbastanza ricca, era giovane e sola e qual ragione mai la spingeva a sotterrarsi viva su quella spiaggia abbandonata? Se avesse conosciuto Roberto, prima, se lo avesse amato, era naturale che fosse andata presso di lui; ma non lo aveva mai visto e come mai s'era imposta quel sacrifizio volontario, senza esservi neppure spinta dal bisogno? Il duca rivolse altre interrogazioni al Varvaro, senza ottenere maggiori notizie di quelle che già sapeva. Velleda aveva saputo ispirare tanto rispetto in quell'uomo semplice, che si sarebbe vergognato di nutrire un sospetto sulla sua esistenza precedente, e Franco si accorge che aveva sbagliato strada per giungere a scoprir terreno. Poco dopo il Varvaro augurò a Franco la buona notte e questi, rimasto solo, aprì la lettera del fratello. Roberto scrivevagli lungamente, narrandogli che nei primi giorni, al palazzo, non cessava mai la processione dei creditori. Informati dai giornali della sua partenza, sarti, calzolai, carrozzieri, fiorai, orefici, fornitori delle scuderie e delle cucine, tappezzieri, tutti eran corsi e volevano essere pagati. Ma i servi erano andati via, i cavalli erano stati venduti, e il guardaportone aveva ordine di mandar tutti dall'avvocato, che li aveva calmati con alcune migliata di lire, ricavate dalla vendita dei cavalli e delle carrozze e con l'esazione di alcune pigioni arretrate. Lo scandalo volgare, dei piccoli e clamorosi creditori era stato dunque evitato e Roberto sperava di evitare anche quello grosso. Aveva, dai direttori d'istituti di credito, ottenuto una dilazione per il rinnovo delle cambiali e ora trattava con un proprietario di albergo la vendita del palazzo. Con la somma che sperava ottenerne, avrebbe soddisfatto i debiti ipotecare che su quello gravavano e gli sarebbe bastata anche a pagare gl'interessi delle cambiali. Voleva ad ogni costo evitare il fallimento, per non vendere disastrosamente. Egli invitava Franco a farsi animo, assicurandolo che da quel disastro gli sarebbe rimasto qualcosa. Intanto, appena venduto il palazzo, sarebbe partito da Roma, per tornarvi alla nuova scadenza delle grosse cambiali; a regolare le altre minori bastavano le pigioni delle case affittate. Terminava dicendo: Credo di aver interpretato un desiderio tuo non denunziando il maestro di casa come ladro. Egli non ha saputo rendermi i conti di più migliaia di lire. I giornali si sarebbero valsi di quella notizia per dire il vero e il falso sul conto tuo, e il silenzio, in questo momento vale più di ogni altra cosa. Le rose fioriscono sempre e la marchesa Salvati ne riceve ogni giorno. Ella sta meglio. Ancora non ha saputo della tua partenza e ogni giorno ti manda a ringraziare. Scrivile per annunziarle che sei costà, affinchè risorgendo non lo sappia da altri e preparati con serietà di proposito alla nuova esistenza, che potresti rivolgere a utile tuo e di altre persone. Questa lettera consolò Franco rispetto ai suoi interessi. L'arrivo del fratello a Roma in quel momento disastroso era stata una fortuna per lui. Senza Roberto tutto, tutto sarebbe stato inghiottito, senza soddisfare chi avanzava. È una potenza quel Roberto! - esclamò il duca e riepilogando tutto ciò che aveva veduto in due giorni e che era opera soltanto di suo fratello, questi gli apparve potente e saldo come una delle colonne gigantesche che rimanevano erette sulle sabbia, una di quelle colonne che nè commozioni telluriche, nè furia d'intemperie, nè rabbia d'uomini avevano potuto abbattere. Oh! che invidia ispiravagli quel colosso, che dominava gli eventi, che lo vinceva nella forza, nel sapere, nell'intelligenza, nella bontà, in tutto, in tutto, anche nella bellezza fisica, perché Roberto era la vera espressione della bellezza maschile! Ma non può non avere un lato vulnerabile, - diceva Franco a se stesso, - e quel lato io lo scoprirò certo; so volere tenacemente anch'io! Mentre il duca sfogava nella sua camera l' invidia contro il suo salvatore, Velleda, in atteggiamento umile, di devota, dinanzi a una sacra reliquia, rileggeva per la terza volta la lettera di Roberto e giunta alla firma, posava su quella le labbra. Ella aveva gli occhi pieni di lagrime, ma un sorriso di beatitudine le illuminava il volto delicato, curvo sui fogli coperti di una scrittura unita e marcata. Nessuna lettera di Roberto l'aveva fatta piangere, perché nessuna era più dolce, più cara di quella. Mia buona amica, - diceva quella lettera, - lasci che io le dia questo nome che riassume i sentimenti di stima profonda e di affetto vero che nutro per lei. Nessuna donna, credo, abbia mai avuto nel cuore di un uomo onesto il posto che ella occupa nel mio. Non le ho fatto mai questa confidenza, poiché non volevo che vicino a lei la commozione mi vincesse, e perché potevo esser debole anch'io e noi dobbiamo esser forti; ma ora, da lontano, posso farle questo sfogo, posso aprirle il mio cuore di cui ella è signora. E questo dominio che ella ha preso su di me, non sussiste da che le sono lontano, da che sento la mancanza di lei ad ogni istante, no. Rammenta la lunga lettera che mi scrisse appena io ebbi accettato la sua offerta di essere per Maria una seconda madre? Spinta da un sentimento di delicatezza sublime, ella volle farmi una confessione generale e mi narrò la sua triste infanzia fra una madre, gran signora, dissipatrice, capricciosa, una di quelle russe che hanno tutte le superstizioni delle razze corrotte e tutti gli ardimenti di quelle primitive, pietosa e barbara, entusiasta e calcolatrice, nevrotica e dispotica sempre; e un padre, artista di piccola ambizione e di modesta fama, gretto, schiavo della moglie, incapace di farsi valere dagli estranei e di farsi rispettare in famiglia. E accennava alle scene disgustose, ributtanti, fra la dama che rinfacciava al suo schiavo la propria inettezza a conquistare un nome e una fortuna, che il più delle volte sorride soltanto agli auduci. Quelle scene straziavano il suo cuore di bimba ed ella si faceva protettrice dell'oppresso, del debole e inimicavasi la madre, la quale per fuggire la noia, pentita di avere sposato un oscuro artista, lo abbandonava, lasciandogli come elemosina la villa di Fiesole e i poderi acquistati, allorché del povero artista ella si era foggiata un ideale molto diverso dal vero, credendolo dotato di attitudini straordinariamente felici. Quella lettera io l'ho bruciata perché nessuno potesse mai leggerla, ma mi è rimasta scolpita nel cuore e posso citargliela periodo per periodo; da quello in cui mi descriveva la tristezza di suo padre dopo l'abbandono, e lo strazio della sua anima di bimba nel vedersi dimenticata assolutamente dalla madre, all'altro nel quale dipingevami la reazione che nacque in lei, l'amore allo studio dei classici italiani, destato dall'amore per Firenze, il desiderio di soffocare nel lavoro le malinconie languide della giovinezza, di conquistare quella fama che suo padre non aveva saputo conseguire e ornarne, a guisa di gloriosa corona, la canizie del vecchio sfiduciato. Il titolo dei suoi primi scritti, i passi penosi nel campo delle lettere, le sfiducie, gli entusiasmi, distratti dalla critica inesorabile, tutto, tutto rammento fino a quel grido di gioia, che il ricordo di un grande trionfo riportato dal suo romanzo: Vincitori e vinti dava a quel brano della sua lettera un colorito, che mancava al resto della narrazione. Poi sobriamente ella mi accennava all'amore per un giovane avvocato, più innamorato della sua fama che di lei, al loro matrimonio, alla morte del padre e alla nascita di una creatura. Qui la narrazione si faceva angosciosa e io nel leggerla capivo lo sforzo che doveva esserle costato lo scriverla. Ella parlava più lungamente dei suoi lavori, che continuavano a portarla sempre più in alto, che di quel dissipatore egoista, il quale aveva in odio il lavoro e avrebbe voluto vivere alle sue spalle oziosamente e signorilmente, che della lotta sostenuta per difendere il piccolo patrimonio della sua bambina, che delle minaccie e delle percosse per ottenere da lei denaro che correva a spendere in orgie e a sciupare nel giuoco. Su tutto questo ella sorvolava quasi, ma io indovinai più di quello che ella mi diceva, come capii quanto insopportabile doveva esser diventato per lei quel giogo, per ricorrere ai tribunali e chiedere una separazione legale. Ma ottenutala ella non ottenne la calma. Quel vile continuava a perseguitarla e mentre la diffamava con tutti, ricorreva poi a lei per aver soccorsi, l'aspettava sulla via per intimorirla e giungeva fino a rubarle la sua bimba, che moriva lontana da lei, in un paese del Mugello. Tutti quei dolori, sopportati senza sfogo, alteramente, la tennero più mesi fra la morte e la vita, e quando tornò in sé seppe che il marito scontava in un bagno penale il delitto di aver strappato una donazione a un ebete a danno degli eredi naturali. Allora un sentimento di vergogna la vinse; ripudiò il nome di quel vile, riprese il casato di suo padre, non ebbe più sogni di gloria, affittò la villa e cercò, mutando paese, di dimenticare a di farsi dimenticare. Quando io ebbi terminato di leggere quella confessione, Velleda, io provavo già una profonda stima per lei, un'ammirazione viva, per quell'alto sentimento di dignità che aveva saputo conservare in mezzo a tante sventure; ero già l'amico disinteressato che erale mancato nella vita, ero già penetrato da un senso di tenerezza per quell'anima afflitta, ma forte, che cercava nel lavoro l'oblìo, che non si sgomentava al pensiero di ricominciare a trent'anni l'esistenza, e pieno di fiducia le dissi di venire presso la mia bambina. La mia fantasia ha poco agio di correre dietro a visioni; e io non vestii di nessuna delle forme muliebri quell'anima afflitta; ma quando la vidi, se ne rammenta? scendere dal treno e stendermi le mani senza arrossire, capii che la sua figurina era il degno involucro dell'anima sincera e buona che aveva parlato alla mia, e il suo sguardo sereno mi scese al cuore. Da quel giorno l'affetto; nato spiritualmente, si accrebbe sempre, ma non ha mai degenerato, mai. Ella, invece di cadere nelle volgarità che è difficilissimo evitare nella vita in comune, si è sempre più inalzata nella mia stima ed ha costretto la mia ammirazione a convertirsi in una venerazione quasi sacra, in un culto ardende e rispettoso. Quando la vedo accanto a Maria pazientemente intenta a educarla, mi pare l'angelo della mia casa; quando poi la incontro nelle case degli operai malati, o la vedo presiedere ai loro pasti frugali, mi appare come il genio della carità, e allorché la sento accanto a me nelle lunghe e silenti serate, curva sopra un libro, o la odo parlare, allora mi pare la compagna invocata nella solitudine, la fata misteriosa che mi legge nel cuore e nel pensiero, la donna ideale, che si compiace di elevarmi, di schiudermi una nuova esistenza: quel paradiso riservato agli eletti dello spirito, nel quale è difficile penetrare senza aver fatto una lunga sosta nel regno del dolore. Questa fusione perfetta che riscontro in lei di tutte le qualità del carattere e della mente, racchiuse in un involucro di una bellezza tutta ideale, che sfugge allo sguardo di chi cerca nella donna la femmina, hanno determinato il mio affetto per lei. Badi che parlo d'affetto e non d'amore, perché non voglio offenderla con una espressione alla quale si dà in genere un significato materiale, di cui è scevro il mio sentimento. Affetto! ecco la parola vera, la parola santa di cui non possiamo arrossire. Non le ho mai chiesto se il mio sentimento fosse corrisposto, ma son certo da molto tempo che ella mi vuole un bene immenso. L'ho capito da quel linguaggio misterioso che si parlavano i nostri cuori, mentre le labbra restavano chiuse, dalla perfetta comunione dei nostri pensieri, dalla facilità con cui io leggevo in lei ogni moto dell'anima, dal desiderio di farsi umile dinanzi a me, da quel dolce riposo che le procura la mia presenza. Senza la catena che la lega a un essere che sconta tutti i misfatti commessi contro di lei, io l'avrei supplicata di accettare il mio nome, non perché il mio affetto avesse bisogno di questa sanzione legale per sussistere, ma soltanto per avere il diritto di starle sempre vicino e di proteggerla da ogni dolore. Questo non può accadere e io ricaccio il sogno in fondo al cuore, e mi stimo beato del legame spirituale che ci unisce. Mantenendo il nostro affetto in questi limiti, noi non abbiamo ragione di arrossire dinanzi al mondo, non offendiamo Maria, e la nostra coscienza non ci rimprovera nessuna azione turpe. So bene che la gente crederà poco a un affetto che non abbraccia altro che una parte della nostra vita, quella immateriale; che si ritempra nella rinunzia; che si alimenta nei sacrifizii. Essa ci getterà alle spalle le sue turpitudini, cercherà d'insozzarci col suo fango, ma noi serenamente procederemo per la via che ci siamo tracciati, facendo del bene e tenendo l'occhio rivolto in quell'etere profondo ove non giungono le volgarità del mondo e nel quale forse si ricongiungono le anime pure. Fra quelli che meno capiranno il carattere elevato del nostro affetto, sarà Franco. Egli è vissuto troppo male, fra gente troppo profondamente corrotta per credere alla idealità di un sentimento fra persone di sesso diverso, giovani ancora, ma è troppo signore, e mi dovrà tanta gratitudine per quello che faccio per lui, per amareggiarmi la vita. A lei sola lo dico. Per impedire il fallimento, ho impegnato la mia firma per una somma vistosa che non le preciso. È stato uno sforzo, perché ella sa che noi industriali immobilizzando dei capitali ci tagliamo le gambe. Ma il dovere me lo imponeva e quando saremo alla liquidazione finale, Franco mi pagherà. Ma egli non potrà mai compensarmi del sacrificio che faccio stando lontano da lei, o mia gentilissima, privandomi della sublime consolazione di vederla e di udirla. Mi voglia bene, me ne voglia molto e pensi a me condannato a vedermi passare sotto gli occhi tante turpitudini di avidi speculatori, a lottare con loro accanitamente per salvare le briciole di un patrimonio regale. Baci teneramente la nostra Maria. Il suo ROBERTO Egli ha ragione, - pensava Velleda - la confessione che mi fa in questa lettera, non mi cagiona nessuna sorpresa, nessuna. Anche se non avesse mai parlato, io ne sarei stata certa; l'affetto di Roberto non poteva essere un mistero per me. Ella si alzò e portò alla bimba addormentata il bacio paterno, poi toltasi il severo vestito di lana grigia, indossò un accapatoio di trasparente batista e andò sul terrazzo a respirare l'aria fresca della sera. Com'era beata per quella lettera affettuosa! Dal suo pensiero sparivano tutte le piccole contrarietà di quegli ultimi giorni e s'immergeva nel ricordo dell'assente carissimo. Le pareva che il vento agitando i palmizi, le onde lambendo la sabbia, le parlassero di altre serate egualmente felici, trascorse insieme con Roberto nella contemplazione di quello spettacolo sublime del mare, del quale i loro occhi non si stancavano mai. Il mare si associava a tutti i ricordi della nuova esistenza di Velleda; esso accompagnava col rumore scrosciante della burrasca le loro letture invernali, esso li alliettava col suo azzurro nei tepidi giorni primaverili, esso, col morniorìo cadenzato delle onde che andavano a morire al piede delle dune, interrompeva le loro meditazioni nelle serate calde. Trepidavano insieme allorché vedevano partire un vapore carico durante una tempesta; si facevano una festa di abbandonarsi al mare in una barca nei giorni in cui il lavoro taceva nello stabilimento; facevano insieme lunghe passeggiate sulla riva mentre Maria raccoglieva le conchiglie, e sempre sul mare si posavano i loro sguardi allorché temevano che s'incontrassero. Nè Velleda nè Roberto in quelle passeggiate, in quelle ore che passavano insieme, parlavano mai della loro vita anteriore. I loro discorsi sì aggiravano sul periodo di tempo di quell'ultimo anno, come se entrambi non volessero confessar di vivere altro che dal momento che s'erano incontrati. E mentre si parlavano la loro voce acquistava un tono carezzevole, che non aveva per solito, e i loro occhi una espressione di infinita dolcezza. Essi evitavano di stringersi la mano, di star vicini quando erano soli e i loro atteggiamenti erano sempre rigidamente casti. Pareva che sprezzassero tutte le manifestazioni materiali dell'affetto per rinchiuderle nel cuore e dare maggiore intensità al sentimento che li univa. Velleda non aveva mai permesso che Roberto leggesse un libro scritto da lei e firmato col pseudonimo di "Melusina", sotto il quale era nota nel mondo delle lettere. Una volta egli le aveva chiesto I Vincitori e i Vinti Vintied ella avevagli risposto: Ora non scriverei più in quella maniera, i miei sentimenti sono cambiati; non provo più certi risentimenti, non vedo più l'amore sotto lo stesso aspetto, mi sono fatta più calma e più umana; mi faccia il piacere di non leggere quel libro, che rinnego. Roberto aveva ubbidito, ma per giudicare il suo valore di romanziera, non aveva avuto bisogno di leggere libri di lei; gli era bastato di ascoltarla mentre narrava a Maria le avventure commoventi di poveri bimbi, le novelle meravigliose delle fate per convincersi della ricca fantasia di quella creatura eletta, nella quale vibrava alta la corda del sentimento, e queste qualità essenziali per chi deve dipingere la vita andavano unite a un gusto finissimo, a una perfetta dizione che accarezzava dolcemente l'orecchio e che scendeva nel cuore di Roberto commovendolo. Velleda, in quella sera di dolcissima meditazione; aveva dimenticato di scendere, come faceva sempre, a chiùdere il cancello e a sguinzagliare i due mastini che vegliavano sulla villa solitaria, nella quale dormivano il cuoco, Costanza, la bambina e la signora soltanto, ora che Saverio stava presso Franco. I rintocchi della mezzanotte, suonati dall'orologio dello stabilimento, la fecero balzare in piedi e senza chiamare Costanza, che doveva essere in camera di Maria, ella scese in giardino e s'avviò al canile. In quel momento i cani si misero ad abbaiare e Velleda vide un' ombra sgattaiolare fra i palmizj a poca distanza da lei e perdersi sotto il fogliame scuro delle folte piante d'arancio. Ella tremò, ma vinta la paura, sciolse presto i cani dicendo : Cerca Lampo! cerca Etna! E i due cani, col muso in terra, abbaiando, s'allontanarono di corsa. Per Velleda fu quello un momento di suprema angoscia. Non sapeva che fare, se risalire in camera di Maria, o correre a suonar la campana per chiamare aiuto dallo stabilimento, quando un colpo di fucile ruppe l'alto silenzio della spiaggia, e uno solo dei cani tornò a lei spaventato latrando. I malandrini! - esclamò la signora atterrita, e senza riflettere più gettò un sasso contro la finestra della camera del cuoco e salendo a precipizio le scale si attaccò alla corda della campana. Costanza era andata sulle scale, pallida e tremante, il cuoco era corso su col fucile in mano, mezzo vestito; Maria sola dormiva placidamente. Velleda collocò Costanza accanto al letto della bambina, chiuse a chiave le porte e preso che ebbe un revolver di Roberto, incominciò a perquisire la casa, insieme col cuoco, premendo ovunque i bottoni della luce elettrica, affinchè se vi era qualcuno nascosto, fosse subito visto a quel chiarore vivo. Ella era ancora al piano superiore, allorché giunsero due guardiani armati, Saverio e il Varvaro. Quest'ultimo aveva in mano la lanterna e avanzandosi nel viale dei palmizj guardava a destra e a sinistra, proiettando in basso e in alto la luce e intanto gridava per annunziare il suo arrivo. Velleda udi quei gridi e scese incontro al direttore. Ma che cosa è avvenuto? - domandò questi. Non so precisamente" - diceva con voce interrotta cercando di ritrovare il filo delle idee, - mi ero un po' attardata prima di sciogliere i mastini e quando sono scesa per isguinzagliarli ho veduto un'ombra nera fra gli alberi. Allora immediatamente ho sciolto Lampo ed Etna. I cani certo debbono avere scoperto il malfattore, perché ho sentito un colpo di fucile e Lampo solo è tornato verso di me ed è rifuggito subito. Ponetevi a difesa della casa sulla terrazza e non lasciate avvicinare alcuno, - ordinò il Varvaro ai guardiani, - Saverio e il cuoco cercheranno insieme con me. Velleda risalì in camera di Maria e vi si rinchiuse ; Costanza, in preda a un cieco terrore, aveva acceso tante candele a una immagine della Vergine, e balbettava : Maria, bedda matri aiutatemi! Salvatemi! Maria dormiva sempre e Velleda, con l' orecchio teso, spiava ogni lieve rumore. La camera di Maria, che era pure la sua, non guardava sul viale dei palmizj ne su quella parte del giardino in cui erasi svolta poco prima la rapida scena, e per questo ella non poteva seguire le indagini del Varvaro. Però a un certo momento sentì un rumore di passi nell'anticamera terrena e non reggendo più, corse sul pianerottolo, spenzolandosi nel vano della scala per veder chi era. Saverio! Saverio! che cosa è successo? - diceva scorgendo il cameriere, che correva verso la cucina. Lampo ha fatto il suo dovere! - rispose il servo nel passare. Poco dopo Saverio ripassava portando una spugna e una catinella piena d'acqua. Ma Saverio, per carità, spiegatevi! - diceva Velleda che lo aveva atteso trepidante. Signora, un malandrino ferito. Laconico nelle risposte come ogni siciliano, non disse altro e tornò verso i suoi compagni nel giardino. Suonate! - gridò Velleda ai guardiani affacciandosi al terrazzo. - Sparate i fucili, fate che vi odano dalla Casa dei Viaggiatori. Lo Carmine con i suoi ci verrà in aiuto. Oh se i carabinieri fossero in perlustrazione, se i doganieri accorressero; sparate! Partirono quattro colpi di fucile a breve intervallo e poi la campana suonò a distesa. A un tratto s'illuminò la Casa de' Viaggiatori, s'illuminò il " Selino " e da quello partì un colpo per avvertire che l'appello era stato udito. Lampo abbaiava furiosamente e i cani dello stabilimento pareva che gli rispondessero. Velleda correva ansiosa dalla camera di Maria alla terrazza e il suo pensiero volava a Roberto. Oh.' come lo invocava in quel momento; come sentiva il bisogno di averlo accanto a sé, a difesa della casa! A un tratto vide Costanza, che rompendo la consegna, scendeva le scale e le ingiunse di tornare dalla bimba. Sotto la chiara luce lunare, la signora scorse una lancia del " Selino " accostarsi alla banchina e vide dalla Casa de' Viaggiatori uscire un gruppo scuro, che correva in direzione della villa. Ma intanto che tutti quei soccorsi si avvicinavano, e Velleda ne affrettava col desiderio l'arrivo, più colpi di fucile erano sparati nel cortile dello stabilimento. I marinari del "Selino, che erano giunti al cancello della villa, retrocessero di corsa, i due guardiani che erano sul terrazzo della villa traversarono la sala; gridando a Velleda : Era una finta per allontanarci; il pericolo è là. Il pericolo! - ripeteva la signora atterrita. Dunque attentavano alla proprietà di Roberto, al frutto paziente del suo lavoro? Il Varvaro anch'egli s'era unito ai guardiani e correva verso il luogo più minacciato. Velleda non sapeva più che cosa fare e le fucilate che continuavano a turbare l'alto silenzio della notte, le ferivano dolorosamente gli orecchi. Ella scese incontro al Lo Carmine e ai due tedeschi e non seppe dire altro che : Maria! Lo stabilimento! Anche il sottodirettore degli scavi e i suoi due compagni erano armati di fucile e nella cintura portavano il revolver. revolver.Signori, - ella disse ai due giovani architetti tedeschi, conducendoli sulla porta della camera di Maria, restino qui, non si muovano, non lascino uscir nessuno, veglino per me. Io devo correr là. Non si muovano! Ella aveva preso in mano il revolver e trascinava seco il Lo Carmine verso il cancello, quando s'imbattè in Saverio e nel cuoco che portavano sopra un asse un uomo con la gola aperta e sanguinante. Velleda si fermò un momento, lo fissò con raccapriccio e poi esclamò: Alessio, il capo degli scioperanti di quest' inverno! Proprio lui! - rispose Saverio. - Ma Lampo gli ha levato la voglia di ricominciare. Lo rinchiudo in camera mia e dopo frugheremo la casa. Lampo seguiva il ferito mandando latrati feroci annunzianti che non era soddisfatto dell'opera sua. La fucilata era cessata allo stabilimento e il Lo Carmine, che vedeva con dispiacere Velleda dirigersi verso quel punto più minacciato, la trattenne quando stava per varcare il cancello. Resti qui, - le disse. - Se Maria si destasse, non avrebbe forse bisogno della sua parola rassicurante? Pensi che questa bimba è quello che di più caro ha il signor Roberto. Là vi è il Varvaro, vi sono tanti uomini. A quel nome, invocato da un amico, Velleda non seppe resistere e dopo aver chiuso a chiave il cancello, disse : Frughiamo il giardino, Ella aveva preso nella sinistra la lanterna abbandonata da Severio e col revolver nella destra, coraggiosa e cauta, si avanzava sotto le piante di arancio e sulla sua testina piovevano i petali bianchi. A un tratto si fermò, In una pozza di sangue giaceva Etna, con la testa squarciata da una palla, gli occhi spalancati e vitrei e intorno, mescolati al sangue, i soliti fiori profumati. Povera bestia! - esclamò, - mi voleva tanto bene ed è andata incontro alla morte per ubbidirmi. Più là vi erano altre tracce di sangue; il sangue di Alessio e sempre fiori, ovunque fiori nivei. Una corda abbandonata era attaccata con un arpione alla sommità del muro del giardino. Velleda l'accennò al suo compagno, il quale la staccò. Camminavano in silenzio esplorando. In un altro punto era stata tagliata un'alta pianta di fico d'India, in terra trovarono un altra corda avvoltolata. Velleda e Lo Carmine andavano sempre avanti, senza scambiare una parola. Quando ebbero esplorato tutta la parte anteriore del giardino, passarono in quella a tergo della casa. Velleda alzò la lanterna e mandò un grido. Attaccata al davanzale della finestra di Costanza, attigua alla camera di Maria, stava una scala di corda, e in terra, sulle aiuole di margherite e di pelargoni si vedevano tracce di pedate e piante calpestate. Velleda impallidì. Ormai il complotto era palese. Volevano rubare Maria per esigere poi da Roberto una somma prima di restituirla. Sventato il colpo avevano tentato di penetrare nello stabilimento, per rifarsi, rubando i denari che vi erano sempre. Quando la signora ebbe la percezione esatta del pericolo corso dalla bambina, impallidì e rimase irrigidita senza poter fare un passo. Se i malandrini avessero avuto tempo di mandare ad effetto il rapimento, che sarebbe avvenuto di Maria? Come avrebbe lei, Velleda, sostenuto la vista di Roberto? Oh! si sentiva impazzire a pensarvi. Pochi momenti più che si fosse indugiata nella meditazione della lettera di Roberto, e il colpo era fatto. Posò la lanterna; strappò la scala con un atto repentino e poi invasa dal terrore di un nuovo pericolo, corse in casa, salì in fretta le scale e penetrata in camera di viaria s'inginocchiò accanto al letto di lei e pianse, pianse lungamente. Costanza, inginocchiata pure e con aspetto truce pareva pregasse. Così Franco vide Velleda giungendo, così la vide il Varvaro, che andava a dirle quello che era accaduto. Ella fece loro cenno di non fiatare per non turbare il sonno della bambina, e senza accorgersi dei due tedeschi che facevano sempre la guardia, come sentinelle, andò in sala e lasciandosi cadere sopra una poltrona; disse al Varvaro: Ora mi racconti tutto! L' attacco allo stabilimento non era preparato, disse il direttore, - ma appena i malandrini hanno udito il suo appello, hanno veduto che io mi dirigevo qui con i guardiani e che i marinari del " Selino " venivano pure alla villa, hanno dato la scalata al muro di cinta e senza esser visti dal solo guardiano che era rimasto là, si son diretti alla segreteria, ove sanno che vi sono danari. I cani hanno dato l'allarme, il guardiano ha incominciato a tirare schioppettate e s'è attaccato alla campana. Allora io, destato all' improvviso, - continuò Franco, ho preso il revolver e, spalancata la finestra, ho mirato su quello dei malandrini che stava dietro a tutti e gli ho messo due palle nella schiena. Gli altri - erano sette - hanno rivolto i fucili verso la mia finestra facendo un fuoco di fila. Io sono andato a quella accanto e di dietro la persiana ho continuato a tirare. I marinari del " Selino " allora sono entrati nel cortile insieme col signor Varvaro ed i guardiani ed hanno fatto fuoco. Due altri malandrini sono caduti, i quattro rimasti illesi, mettendo mano ai coltelli hanno attaccato i difensori per aprirsi un varco e fuggire. Due vi sono riusciti; due sono stati presi e legati. Velleda con gli occhi pieni di lagrime che le scendevano sul dolce visino coperto da un pallore mortale, narrò quello che era accaduto alla villa e come avesse acquistato la convinzione che il colpo era diretto contro Maria. Era una imprudenza di restar qui quasi sola, disse Franco, - da stasera in poi mi permetterà di occupare la camera di mio fratello, e Saverio ed io faremo una ispezione nel giardino prima di coricarci. Il Varvaro approvò quella risoluzione, ma Velleda che non dimenticava mai Roberto, rispose: Farò avvertire i carabinieri, grazie; essi veglieranno nella villa. Franco non rispose, e non insistè perché sapeva che era inutile. Intanto erano giunti i doganieri, i quali trovandosi in perlustrazione verso il porto di Palo, avevano udito la fucilata, e quando l'alba rosea già illuminava le imponenti rovine, la villa e lo stabilimento, nessuno pensava ancora a cercare il riposo, e Velleda, con gli occhi sempre pieni di lagrime vegliava onde sparisse dal giardino ogni traccia dell'assalto notturno e Maria potesse ignorare il pericolo che aveva corso. Alessio, il ferito, era vegliato da un guardiano, il cadavere di Etna era stato sotterrato nella sabbia, i due tedeschi e il Lo Carmine erano tornati alla Casa dei Viaggiatori, e quando Maria aprì gli occhi sorrise vedendo Velleda da un lato del suo letto e dall' altro Franco. Oh! zio che sorpresa! - disse e cinse con un braccio il collo del duca, mentre con l'altro attirava a sé Velleda. gàra sui capelli. Sì, amore, - le rispose, - la mattinata è tanto bella! Anzi faremo il primo bagno di mare. I carabinieri dovevano giungere presto e Velleda era impaziente di allontanare la bambina dalla villa. Non voleva che sentisse parlare di quell' eccidio, come non avrebbe voluto che quella notizia giungesse a Roma a Roberto. Ma come fare? Ella affidò Maria alla balia; che aveva ancora gli occhi rossi, e fatto cenno a Franco di seguirla nella sala, gli disse: I giornali di Roma avranno probabilmente stasera la notizia del fatto, suo fratello la leggerà; non sarebbe meglio avvertirlo con un lungo telegramma? Non so, - rispose Franco. - Forse è più prudente di avvertire le autorità di tener celato l'acccaduto. Certe cose non si nascondono; sono troppi i testimoni e a quest' ora una cinquantina di persone sanno tutto. Io non posso celar nulla al signor Roberto; egli ha diritto di saper quello che avviene in bene e in male e io non meriterei più la sua stima se tacessi. Telegrafi allora; ma gli dica che il pericolo è scongiurato, - rispose Franco il quale non pensava ad altro che ai suoi interessi che sarebbero rimasti abbandonati se Roberto fosse partito.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679089
Perodi, Emma 2 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. - Santo vecchio, - dissero allorché furono alla presenza del Romito, - perché hai abbandonata la nostra Bibbiena? - Io non avrei altro desiderio che quello di ritornarvi; - rispose il Romito, - ma il Diavolo vi ha stabilito il suo dominio e ogni tentativo per sloggiarlo mi pare inutile. - Vieni e tenta di cacciarlo. La fede non ti può mancare, e la fede opera miracoli. Il Romito pronunziò una breve preghiera, invocando l'aiuto del Cielo sulla impresa sua, e, accompagnato dai tre uomini, salì a Bibbiena. Nessuno guardava più le porte, perché il popolo faceva continua baldoria, e il Romito poté giungere sulla piazza della Pieve, senza che alcuno lo riconoscesse. Ma invano egli fece udire la sua voce dolce e persuasiva. Intorno a lui non vi erano altro che il padre e i due figli; il popolo, adunato nelle osterie e schiamazzante, non poteva afferrare le parole del santo uomo, il quale tornò nel bosco dopo lungo predicare. Però il Diavolo, che sapeva tutto ciò che avveniva in città, fu informato che i Bibbienesi non avevano tenuto il patto, e, adunatili la sera sulla piazza, li rimproverò acerbamente, minacciandoli di una nuova invasione di rettili, e designò i tre colpevoli, i quali vennero legati dal popolo inferocito, e rinchiusi in una prigione sotterranea. Ciò nonostante, il Romito tornò a Bibbiena dopo pochi giorni, attrattovi dalla carità verso quel misero popolo, e si mise di nuovo a predicare in piazza. Questa volta il suo uditorio si componeva di una vecchia, abbandonata nella miseria dai figli, i quali non lavoravan più per andare all'osteria a giuocare e a bere, e della moglie di un uomo ucciso in rissa. Le due povere donne piansero amaramente alle parole del Romito, il quale cercò di consolarle come meglio poteva. Anche questa volta il Diavolo fu informato di tutto, e disse fra sé: - Qui ci vuole un esempio, se no Bibbiena mi sfugge dalle mani. E appena calò la sera fece apparire sulla città tante lingue di fuoco che, abbassandosi, lambirono le mura e i tetti delle case. La gente, impaurita, temendo che l'incendio distruggesse le loro abitazioni, corse nelle vie e nelle piazze urlando e strascicandosi dietro i bambini. Il finto frate s'insinuò tra la folla e incominciò a pronunziare misteriose parole, che i grandi non udivano, ma che i piccini capivano bene. Con quelle parole prometteva loro giuochi, sollazzi, ghiottornie, ogni cosa che alletta la fantasia dei bimbi. E questi gli correvano intorno giulivi e lo seguivano. Quando ebbe radunati tutti coloro che potevano camminare, uscì da Bibbiena e si diresse verso un bosco, dove sapeva che vi era una grotta immensa, praticata nei fianchi di un monte, e ve li rinchiuse. Allora le lingue di fuoco cessarono di lambire le case, e la gente, dopo aver domato alcuni incendi prodotti da quelle, si diede a cercare i bambini. Le donne correvano sgomente per le vie chiamandoli con alte grida, gli uomini si spingevano fuori del paese, frugavano i boschi, urlavano, ma nessuna voce infantile rispondeva al loro appello e soltanto l'eco dei boschi ripeteva quei suoni desolati. Il finto frate, dopo aver compiuto il ratto dei bambini, ritornò in paese fra la gente afflitta e sconsolata. Appena i Bibbienesi lo videro, rammentando che li aveva liberati dai rettili, ricorsero a lui. - Rendeteci i nostri bimbi, - supplicarono essi, - e la nostra gratitudine sarà eterna. Il Diavolo fece un ghigno spaventoso. - Due volte, - egli rispose, - avete calpestati i nostri patti; due volte il Romito ha predicato in piazza. - Abbiamo punito coloro che lo fecero venire la prima volta, - risposero gli afflitti cittadini. - Ma non avete punito le donne che lo hanno ascoltato la seconda; mettetele a morte. - E chi sono? - domandò la folla. Il Diavolo le nominò. - Voi chiedete troppo, - risposero i cittadini, - la prima è una infelice già abbastanza provata dalla sventura; la seconda è una povera vedova; lasciatele dunque vivere, giacché non hanno mai fatto alcun male a nessuno. - Riflettete, - disse il Diavolo. - Se le ucciderete, i vostri bimbi ritorneranno in paese; se le lascerete vivere, non li vedrete più. Il finto frate, dopo aver pronunziate queste parole, sparì. I cittadini rimasero perplessi. Però non potevano risolversi a mettere a morte due innocenti; no, non potevano. - Il loro sangue ricadrebbe su noi in tanta maledizione, - dicevano i più saggi, - lasciamole vivere; Iddio ci renderà i nostri figli. E inteneriti e resi migliori da quella grande sventura, si riversarono nelle chiese, si prostrarono dinanzi agli altari e ripresero a recitare le preci che eran soliti innalzare a Dio allorché il Romito era di continuo in mezzo a loro, sostenendoli con la dolce e persuasiva sua parola. E spinti di nuovo sulla via del bene, liberarono i tre prigionieri che avevano condotto a Bibbiena il Romito, e le preci di questi e delle due donne salvate dalla carità popolare, operarono un vero miracolo. Il Romito, nella sua capannuccia, ebbe un avvertimento nel sonno. Egli si sentì chiamare da una voce celeste, che gli disse: - Va' in città; lassù hanno bisogno di te. Il Romito si alzò nel cuor della notte dal suo giaciglio di foglie secche, e si avviò, in mezzo alle tenebre, verso Bibbiena. Il Diavolo però, che non lo perdeva di vista, gli suscitò contro una quantità di ostacoli. Prima di tutto il sant'uomo fu avvolto da una nebbia impenetrabile, ed egli, in mezzo alle alte piante, non trovava il sentiero battuto tante volte, di modo che dovette fermarsi per non camminare in una direzione opposta alla sua mèta, attendendo che sorgesse il sole. Poi, quando questo ebbe diradata la nebbia, si scatenò all'improvviso un temporale fortissimo. Fulmini spaventosi squarciavano le nubi, il vento turbinoso schiantava gli alberi, l'acqua torrenziale convertiva in fiumi i rigagnoli, la grandine percuoteva il volto del viandante, il quale dovette di nuovo fermarsi. Quando il temporale si fu sfogato, due serpenti, sbucati fuori da un ciuffo di felci, gli si avviticchiarono alle gambe, in modo che egli non poteva più camminare. Allora il Romito, supponendo che tutti quegli ostacoli fossero creati dal Diavolo, toccò con la croce i due rettili spaventosi, e questi si sviticchiarono e fuggirono via. Da quel momento egli poté continuare il cammino senza ostacoli, e giunse a Bibbiena. Il popolo, vedendolo, gli corse incontro esultante, e inginocchiatosi intorno a lui, gli disse: - Rendeteci i nostri figli; noi siamo peccatori indegni di perdono, ma intercedete per noi. E allora il sant'uomo s'inginocchiò in mezzo alla piazza della Pieve, e il popolo unì le sue preci a quelle di lui. Dopo aver lungamente pregato, il Romito volle venti uomini robusti e disse loro: - Seguitemi. Ed essi lo seguirono giù nella valle, ubbidienti ad ogni suo cenno. Mentre camminavano, egli pregava ancora. Allora si vide una bianca colomba staccarsi da un albero e volare prima verso un balconcino dove erasi affacciata una giovanetta e poi volare dinanzi a lui. Il Romito la seguiva, e finalmente ella si fermò sopra un grosso macigno. - Qui sono i vostri figli, - disse il Romito, - qui deve averli celati il finto frate. E i venti uomini si diedero, con quanta forza avevano, a smovere il macigno, ma non riuscirono neppure a scostarlo. - Qui è inutile arrabattarsi, - dissero, - ci vogliono delle corde e diverse paia di manzi! E lasciando il Romito a guardia del luogo, gli altri tornarono al paese a provvedersi dell'occorrente. La colomba intanto non si moveva dal posto ov'erasi posata, come per dire che i piccini di Bibbiena erano lì davvero. E vi rimase finché gli uomini andati in città non furono tornati con cinque coppie di bei manzi alti e poderosi, e muniti di corde e di catene. Avvolsero queste intorno al macigno, vi legarono le corde, e i buoi si misero a tirare; ma tira tira, il sasso non si moveva. Gli uomini sudavano freddo, il Romito era sgomento, e i buoi, stanchi, si rifiutavano di tirare ancora. - Figli miei, - disse il sant'uomo, - mi accorgo che il macigno è sigillato al monte da una forza soprannaturale. Andate, abbiate fede, e se le mie preci saranno ascoltate lassù ove tutto si può, io vi ricondurrò a Bibbiena i vostri figliuoli. Fra i venti uomini andati nel bosco a liberare i bambini, v'erano i due giovani figli del vecchio, quelli, cioè che nonostante il divieto del finto frate, avevano ricondotto il Romito a Bibbiena ed erano stati rinchiusi in prigione. Essi pregarono il santo vecchio di conceder loro di rimanere a fargli compagnia, e il Romito non seppe rifiutare a quei due buoni giovani ciò che gli chiedevano. Gli altri diciotto se ne tornarono dunque in paese a testa bassa, tutti pensosi, disperando quasi di rivedere i loro piccini, e non sapendo come dar la dolorosa notizia, che non erano riusciti a nulla, alle mamme ansiose e piangenti. Il Romito, appena rimasto solo con i due fratelli, disse: - Figli miei, preparatevi a passar una notte angosciosa; il Diavolo cercherà di sgomentarci con ogni mezzo. - Siamo pronti a tutto, - essi risposero. Appena le ombre della sera si allungarono sul bosco, un'aquila gigantesca incominciò a descrivere giri attorno al macigno. La bianca colomba, spaventata, volò via, ma l'aquila la inseguì e la ghermì. Un grido straziante echeggiò nel bosco, indicando che l'innocente uccello era stato vittima del suo poderoso aggressore. Poco dopo il bosco fu pieno di urli di lupo. Pareva che quei famelici animali fossero scesi a branchi dalle vette più alte in cerca di cibo. Uno di essi si accostò ai due fratelli, con la bocca spalancata, pronto ad azzannarli, ma il Romito si fece avanti coraggiosamente e invece di lanciargli contro un sasso, lo toccò con la croce del rosario. L'animale barcollò e diedesi a fuga precipitosa. Allora, sul macigno comparvero due diavoli, che mandavano fuoco dagli occhi e dalla bocca e tenevano a distanza chiunque per il fetore che emanava dai loro corpi. Il Romito alzò la mano e fece tre grandi croci nell'aria, e subito i diavoli sparirono. Ma le prove dei tre uomini non eran terminate, e poco dopo che avevano visto sparire i diavoli, si presentò Satana in persona, non più sotto le sembianze del frate francescano, ma con la sua effigie stessa, spaventosa a vedersi. - Romito, - diss'egli, - tu hai troppo potere sull'animo dei mortali; io non voglio che tu continui a vivere. - Io vivrò finché piacerà al Signore Iddio di tenermi su questa terra e con l'aiuto del Cielo spero che la mia anima non ti apparterrà mai. Il Diavolo pronunziò due parole magiche, due sole, e una schiera di demoni s'impossessò del vecchio e diedesi a soffiargli fuoco sulle carni. Queste bruciavano orribilmente, e il santo vecchio pregava, con lo sguardo rivolto al cielo. A un tratto comparve su quello una stella luminosa che via via si avvicinava alla terra spandendo una luce più mite del sole, ma egualmente bella. Quella stella si fermò di fronte al Romito e lo avvolse tutto nei suoi raggi, come avvolse il macigno, il quale incominciò a liquefarsi come se fosse stato di cera molle esposta al fuoco. Quando il macigno, ridotto liquido, ebbe lasciato aperto l'ingresso della grotta, la stella lentamente si allontanò per andarsi a confondere con le sue sorelle del cielo. Allora il Romito, cessando di pregare, chiamò a sé i compagni e disse loro: - Andiamo, con l'aiuto di Dio. E s'internarono nelle viscere della terra. Giunti che furono a una vôlta bassissima, sotto la quale bisognava andar carponi, la stella ricomparve, e i raggi di lei, invece di battere in faccia al Romito e ai due fratelli, si mossero verso il punto opposto. - Là, là debbono essere i bambini, - disse il santo vecchio, e strisciando il corpo sul terreno si avanzò seguìto dai compagni. Giunto nel punto in cui la vôlta toccava quasi il suolo, il Romito vide una pietra posata in modo da far supporre che al di là vi fosse una grotta, e rimossala fu sorpreso di scorgere una specie di sala che prendeva luce dall'alto, nella quale centinaia di bambini erano distesi per terra come morti. La stella allora li toccò con i suoi raggi, ed essi, stropicciandosi gli occhi, si alzarono e vedendo aperta la porta della prigione, ne uscirono frettolosi, curvandosi per passare. Il Romito li trattenne e disse loro di lasciarlo prima uscire con i due giovani ed essi sarebbero venuti poi; i bimbi si fermarono ubbidienti, poi lo seguirono in silenzio. Giunti che furono all'imboccatura della camera, la stella, che fino allora aveva rischiarate le buie gallerie, s'alzò splendente nel cielo e andò a posarsi sulla città di Bibbiena. Gli abitanti, vedendola, sperarono subito che essa fosse annunziatrice di felicità e mossero incontro al Romito. Questi camminava in mezzo alla turba dei bimbi, esultanti per la ricuperata libertà. Così lo videro i Bibbienesi da lungi. Impossibile descrivere la loro gioia. Ognuno chiamava a nome i figli, ognuno se li prendeva fra le braccia, e quando furono tornati in paese, le grida, le esclamazioni, i pianti delle mamme coprirono ogni altro rumore. Il Romito riprese da quel tempo le sue prediche, e Bibbiena ebbe un lungo periodo di calma dovuta alle parole del santo vecchio. Il Diavolo, per quanto facesse onde combatterne il potere, rimase sempre vinto e scorbacchiato e dovette rinunziare all'impresa, aspettando rabbiosamente che il Romito morisse. E quando questi ebbe chiusi gli occhi nella pace del Signore, tornò a regnare in Bibbiena, come regna in molti paesi, ove non c'è un'anima santa per tenerlo lontano. - E qui la novella è finita, bambini, - disse la Regina, - e forse per qualche settimana non ne racconterò altre. - Perché? - domandarono essi. - Perché la signora Durini mi vuole per un po' di tempo a Camaldoli per insegnarle a conservare le frutta, e io non posso rifiutarle questo favore. I bimbi fecero il broncio, ma tacquero, perché erano assuefatti a rispettare la volontà della nonna.

Capì allora che non si trattava di cosa caduta dal dorso di un mulo o da una carretta, ma abbandonata in quel luogo con intenzione, e, tolti i sassi, rimase come di sale nel vedere che il fagotto conteneva una bella bambina di pochi mesi, placidamente addormentata. - E ora che ne faccio? - disse fra sé il monaco, che avea nome Buono. - In monastero c'è clausura e non ve la posso portare; ad ogni modo non ci sarebbe carità a lasciarla qui. E presa la bimba fra le braccia, risalì a cavallo alla mula e giunse al monastero di Camaldoli, allora chiamato Ospizio di Fonte-Buona, dove i monaci facevano una specie di prova prima di passare all'Eremo, che era ed è più su, a un'oretta di cammino. Frate Buono depose la bimba, così avvolta com'era, sopra una panca nello stanzone del portinaio, e saputo che l'Abate maggiore si trovava in quel giorno a Fonte-Buona, chiese di parlargli. - Padre santo, - gli disse dopo avergli riferito l'ambasciata affidatagli dall'abate di Strumi, - io ho trovato fra la neve, venendo quassù, una creatura umana. - Spero che l'avrai fatta riscaldare e le avrai dato da mangiare. - Gli è, padre santo, che quella creatura non può mangiare. È una bimba di pochi mesi che avrebbe bisogno del latte e delle cure di una donna. L'Abate maggiore rimase perplesso e poi disse: - Tu sai, fra' Buono, che i nostri statuti ci proibiscono di tener donne quassù; come faremo dunque ad allevare quella creaturina? - Padre santo, per ora diamola al padre forestale, e cercheremo poi una vacca, una pecora o un'asina che la nutrisca. - La carità cristiana c'impone di non abbandonarla. Intanto battezziamola, poiché non sappiamo se ella sia cristiana. La bimba dormiva ancora, ma quando l'Abate maggiore in persona le gettò l'acqua lustrale sulla testa, ella aprì gli occhi, e, invece di mettersi a piangere, schiuse la bocca a un sorriso e stese le manine al monaco. Questi le impose il nome di Buona, e si sentì intenerire a veder quella piccina così bella e gaia, che non aveva altra famiglia che i monaci, altra casa che il convento di Fonte-Buona. Il padre forestale scelse un'asina più giovane e forte delle altre, e, fattala mungere, dette a bere quel latte caldo a Buona. Così fu nutrita la bimba per alcuni mesi. Ogni giorno l'Abate maggiore diceva al forestale che doveva cercare una contadina che avesse cura della piccina, e ogni giorno quel monaco trovava un pretesto nuovo per tenerla presso di sé. Ora diceva che era raffreddata e non voleva farla uscire; ora nevicava, ora tirava vento. Contadine ce n'erano molte nei poderi dipendenti dal monastero, ma il fatto si è che il forestale non voleva staccarsi da quella creaturina, e fra' Buono neppure. Così passò l'inverno, e quando già Buona aveva circa un anno e camminava spedita, il forestale un giorno la prese in collo e si avviò giù per la scesa per portarla in una casa di contadini; ma gli rincresceva quanto mai di separarsi da Buona, che lo abbracciava, gli metteva le manine nella barba e lo chiamava babbo. Giunto al di là della spianata del convento, il forestale vide una capannuccia abbandonata, dove solevano rifugiarsi i pastori, e pensò: - Perché devo portare Buona in casa d'altri, quando qui potrebbe essere come in casa sua? Le porterei da mangiare, la verrei a vedere, e a guardia della bimba potrei lasciar Lupo, il can da pastori di cui tutto il vicinato ha paura. Quest'idea parve così bella a fra' Ilario, il forestale, che, invece di andar oltre, posò la bimba sopra un mucchio di fieno e, chiusa alla meglio la porta, corse al monastero a prendervi coperte, guanciali e utensili per arredare la capanna. Dopo poco egli tornò da Buona recandosi dietro Lupo, e trovò la bimba placidamente addormentata. Egli approfittò di quel momento per ripulire la capanna, per rimettere alcune assi che mancavano alla porta e cogliere sul prato tanti fiori per allietare la sua Buona. Poi munse una bella vacca che pascolava, e quando Buona si destò, vedendo tutti quei fiori, batté le manine esclamando: - Babbo, belli! Fra' Ilario dette del latte alla bimba e le mostrò che era in una ciotola sopra una panchetta; poi le raccomandò di esser buona, e, dopo aver ordinato a Lupo di accucciarsi accanto alla creaturina, alla quale era tanto affezionato, tornò al suo monastero. Ma prima di varcare la soglia della capanna, alzò le mani al cielo, esclamando: - Vergine santa, io pongo quest'anima benedetta sotto la vostra protezione; vegliate su di lei! Dopo questa invocazione, fra' Ilario chiuse la porta, si mise in tasca la chiave, e quindi si avviò verso il Cenobio di Fonte-Buona. Mattina e sera il monaco, appena aveva accudito ai suoi doveri, correva da Buona e la trovava sempre allegra, sana, sorridente. Ella si baloccava con Lupo, si gingillava con i fiori, cantava con una vocina dolce le canzonette sacre che le insegnava fra' Ilario e correva sotto gli alberi durante il giorno. La notte dormiva saporitamente, e mai nessun male l'aveva tormentata. Di vestiti non aveva che una specie di camicia di lana bianca, tagliata da una tonaca vecchia di fra' Ilario. I capelli biondi le scendevano sulle spalle a guisa di manto, e i piedini rosei parevano quelli di una regina. Buona cresceva a vista d'occhio, e appena fu grandicella andò da sé a far legna nel bosco e a cogliere fragole e lamponi, che insieme col latte, con le uova e col pane che le portava fra' Ilario, costituivano tutto il di lei cibo. Così Buona raggiunse i tre anni. Il forestale aveva già confessato a fra' Buono e all'Abate maggiore come l'aveva allevata e come l'aveva posta sotto la protezione della Madonna, e i due monaci non lo avevano biasimato. Ogni volta che essi uscivano a passeggiare, passavano dinanzi alla capanna, e la bimba, che li conosceva, correva loro incontro e parlava loro con affetto. Appena ella ebbe sette anni, l'Abate, che molto si occupava di quella creaturina affidata al monastero, disse che bisognava darle un'occupazione, e a tale scopo le affidò alcune pecore affinché ella le portasse a pascere. Poi l'Abate diede incarico a fra' Buono d'istruirla come si conveniva a buona cristiana, e il monaco ogni giorno si avviava, dopo il vespro, alla capanna e insegnava a Buona a leggere in latino e in volgare, affinché potesse imparare le preci e le laudi della Madonna sua protettrice. La capanna intanto non era più così spoglia come quando il padre forestale vi aveva portato la sua protetta. Vi era una tavola con alcuni libri, vi erano due sgabelli, un lettuccio e un focolare, nel quale Buona aveva cura di mantenere sempre il fuoco. Ella imparava con una facilità straordinaria, ed era così cortese e nobile nelle maniere, che l'Abate maggiore, ogni volta che parlava di lei, diceva: - Quella Buona si direbbe nata in una corte! Passavano gli anni e la bimba si faceva grande, ma non aveva mai portato altro vestito che una tonaca bianca simile a quella dei Camaldolensi, e chi la vedeva da lontano guidare le pecore al pascolo, la prendeva per un novizio. La vita all'aria aperta l'aveva fatta crescere forte e robusta, e la convinzione di esser protetta dalla Madonna la faceva esser coraggiosa, quasi temeraria. Un giorno di autunno ella aveva spinto il gregge verso l'Abetiolo, per trovare un po' d'erba fresca. L'accompagnava, come di solito, il grosso cane da pastore, che era stato il suo compagno d'infanzia e che ora s'era fatto alquanto vecchio; ed ella camminava svelta, chiamando le pecore quando cercavano di sbandarsi per salire qualche piaggia erbosa. Era sola sola in quel luogo deserto, ma quella solitudine non le ispirava alcun timore, perché nessuno le aveva mai fatto alcun male, e quando i pastori vedevan comparire su qualche poggio la sua figurina tutta bianca, si mettevano le mani alla bocca, affinché la loro voce le giungesse, e le gridavano: - Figlia della Madonna, prega per noi! Ella era davvero sicura in quel paese deserto, e mentre filava, pregava. Quel giorno dunque, mentre badava al gregge, ella vide Lupo diventare inquieto e correre di qua e di là, abbaiando. Buona, con la voce e col gesto, cercava di calmarlo, quando a un tratto si vide davanti un lupo, che si gettò nel branco delle pecore. Queste, spaventate, corsero via; ma una, più vecchia delle altre, fu raggiunta dalla fiera, che l'avrebbe certamente sbranata, se il cane non si fosse buttato a difenderla a corpo morto. Allora, fra il difensore e l'assalitore s'impegnò una lotta tremenda, nella quale il buon cane stava per soccombere. La pastorella del Pian del Prete assisteva piangendo a quella lotta. Il lupo azzannava il suo avversario e lo faceva sanguinare da tutte le parti, inferocito. Buona, senza riflettere al pericolo che correva, alzò il bastone sull'animale feroce, e disse solennemente: - In nome della Madonna, mia protettrice, ti ordino di rispettare ciò che mi appartiene! Il lupo, da furente che era, si fece mansueto a queste parole, e a coda bassa andò a leccare la mano della pastorella, la quale, intenerita, tolse dal canestro il pane destinato alla sua colazione e lo gettò alla fiera. Il cane intanto era fuggito cacciandosi avanti le pecore, ed era corso da fra' Ilario. Il forestale, vedendo Lupo solo e le pecore senza la loro guardiana, temé che a questa fosse accaduta qualche sventura; ma poco dopo rimase meravigliato vedendola comparire sulla viottola, col lupo accanto, che la seguiva come un agnellino. - È un miracolo! - esclamava fra' Ilario. - Figlia mia, tu sei già santa in vita, tu sei una benedizione per il monastero! E tutto commosso da quel fatto, corse da fra' Buono e dall'Abate maggiore a raccontar l'accaduto. - Erigeremo un santuario nel luogo ove Buona è stata salvata! - disse l'Abate, - e faremo venir da Firenze un abile pittore per dipingere sulle mura di quello, la storia della bambina, da quando fu trovata fra la neve fino al momento che ha ammansito il lupo. - Sarà meglio lasciare due pareti bianche per dipingervi in seguito altri fatti della vita di questa fanciulla, cara alla Madre del Signore; - disse fra' Buono, - poiché ella è veramente santa, e la Madonna si servirà di lei per operare altri miracoli. - Da che lo arguisci, fra' Buono? - domandò l'Abate. - Padre santo, l'umile capanna ove ella abita è sempre olezzante di gigli e viole; il corpo di lei non è stato mai soggetto a nessuna infermità; quando ella canta le laudi della Vergine, gli uccelli corrono a stormi dai boschi e le si posano sulle spalle; le piante che ella coltiva dànno fiori, anche quando soffia il tramontano. Ed era vero quel che diceva fra' Buono, perché tutti i fatti da lui citati erano avvenuti sotto i suoi occhi; ma quello che il buon frate non sapeva, si era che appena la notte avvolgeva la terra, una luce viva illuminava la capanna, e appena Buona chiudeva gli occhi, due angeli scendevano dal cielo a vegliare sulla fanciulla dormente. E l'umile monaco non sapeva neppure che tutta questa protezione che la Vergine concedeva alla fanciulla, raccolta da lui in mezzo alla neve, era fervidamente implorata da più anni da un cuore desolato di madre. Bisogna sapere che un terribile dramma di famiglia aveva cagionato l'abbandono di Buona. Il conte di Poppiano e il conte di Romena erano fra loro nemici acerrimi; questa inimicizia era nata quando Corso, figlio del primo, era già un giovinetto, e Selvaggia, figlia del secondo, era una bella e graziosa fanciulla. L'inimicizia era scoppiata per una contestazione di confini fra i loro feudi, e i due signori avevan fatto ricorso all'Imperatore, il quale aveva dato ragione al conte di Romena. Tanto il vincitore quanto il vinto s'erano giurati odio vicendevole ed eterno. Ma lo scoppiare di quest'odio aveva fatto sentire a Corso e a Selvaggia, educati e cresciuti insieme, quanto bene si volevano; e si erano scritti, prima per deplorare l'inimicizie dei loro padri, poi per sfogare il dolore che risentivano di non vedersi più. E queste lettere, recate dalla balia di Corso alla balia di Selvaggia, alimentarono tanto il loro affetto, che i due giovani, non vedendo mezzo alcuno per ottenere una riconciliazione fra le loro famiglie, stabilirono di sposarsi senza il consenso dei loro padri. Corso, col pretesto di una caccia nei monti, uscì dal castello di Poppiano molto segretamente; ma ad un certo punto, fingendo d'inseguire un animale, si sottrasse allo sguardo dei suoi, e, spronato il cavallo, giunse in prossimità di Romena. Costì rimase nascosto fino a notte inoltrata nella casa della balia di Selvaggia, dove verso sera erasi recata la fanciulla sotto pretesto di visitarla e portarle dei doni; e quando l'oscurità fu completa, messer Corso pose in groppa al suo cavallo la bella figlia del conte di Romena, e la portò fino ad Arezzo. Era appena giorno quando vi giunsero, e senza prendere nessun riposo, entrarono in una chiesa e fecero celebrare il loro matrimonio da un prete che ufiziava. Poi i due sposi andarono ad alloggiare da una vecchia zia del signor di Poppiano, dove menarono vita oscurissima. Nessuno può figurarsi l'ira del conte di Poppiano quando, dopo aver cercato inutilmente per più giorni il figlio, supponendo gli fosse accaduta una disgrazia alla caccia, seppe che anche la figlia del suo nemico era sparita! Né minore fu l'ira del conte di Romena quando non trovò più la figlia. Tutti e due i vecchi si chiusero nei loro rispettivi castelli mulinando una vendetta, e intanto spedirono fidi messi in traccia dei fuggiaschi. Passarono i mesi senza che questi tornassero. Furono fatte ricerche a Firenze, a Siena, in Romagna, in Umbria, e anche ad Arezzo; ma i due sposi stavano così celati agli occhi di tutti, temendo l'ira dei genitori, che anche ai bracchi dal fino odorato, riusciva impossibile scoprirli. Intanto i due vecchi fremevano nell'attesa di notizie; essi temevano di chiuder gli occhi prima di avere sfogata la vendetta, e ogni giorno che passava la ideavano più atroce: il conte di Romena, contro Corso che accusava di avergli rubata la figlia; il conte di Poppiano, contro Selvaggia. Frattanto la bella moglie di messer Corso aveva dato alla luce una bambina. La madre la nutriva col suo latte, il padre vegliava sempre sulla culla di lei; ma l'odio del vecchio conte di Poppiano per la nuora minacciava la felicità di Corso e di Selvaggia. Infatti, il vecchio scriveva lettere sopra lettere agli uomini che aveva sguinzagliati contro il figlio, e uno di questi, che si trovava appunto ad Arezzo, per non esser più incitato, si mise a ricercare messer Corso, facendo la posta di giorno e di notte vicino alle case dei parenti e degli amici, che il giovane aveva nella città. E una notte d'inverno lo vide uscire cautamente da una porticina della casa della zia, che dava sopra un chiassuolo, accompagnato dalla moglie, la quale reggeva una creaturina lattante. Il giorno dopo quell'uomo era già a Poppiano a informare il Conte della scoperta fatta. Quali ordini gli desse il vecchio, è inutile dirvi. Vi basti sapere che la sera successiva quattro uomini erano appostati nel chiassuolo, dentro una rimessa, e tre cavalli sellati aspettavano sotto le mura della città, sulla via del Casentino. Appena messer Corso, come di consueto, fu uscito nella strada insieme con la moglie per farle prendere una boccata d'aria, due dei quattro appostati gli saltarono addosso e due altri imbavagliarono Selvaggia per portarla via insieme con la piccina. La donna si difendeva, e Corso, sguainata la spada, menava colpi da ogni lato per proteggere la sua cara sposa; ma tutto fu inutile. Un colpo ricevuto al fianco lo fece cadere, mentre Selvaggia veniva portata via svenuta. Dopo un'ora, circa, dal fatto, i quattro malfattori calavano, da una casa addossata alle mura, una donna e una bambina, e per la stessa via essi pure uscivano dalla città, temendo il bargello e il capestro. - Eccovi la moglie del figlio vostro, - disse il capo della spedizione giungendo a Poppiano. - Che sia rinchiusa nella prigione più oscura del castello, - ordinò il Conte. - E della figlia che dobbiamo farne? - domandò il ribaldo. - Abbandonatela sui monti affinché i lupi la divorino. E Corso dov'è? - chiese il signore. I ribaldi aspettavano la domanda e avevan pronta la risposta. Essi non volevano confessare di averlo mortalmente ferito, perciò dissero che Corso, quella sera, non era uscito insieme con la moglie, ma l'aveva affidata bensì a due parenti suoi, i quali, difendendola, erano caduti feriti da più colpi. Il Conte si mostrò pago dell'esito della impresa e non permise che la bambina rimanesse neppure un'ora nel castello. Così il capo della spedizione dovette risalire a cavallo e portarla lontano, e fu allora che la depose nel Pian del Prete, ove la trovò fra' Buono. Ma torniamo a Corso. La ferita lo inchiodò per più settimane nel letto. Appena rimesso, l'infelice andò a Romena, supponendo che il ratto fosse stato operato ad istigazione del suocero: ma per quanto interrogasse i terrazzani, e soprattutto la balia della sua sposa, nessuno poté dirgli di avere veduto la figlia del Conte in quel luogo. Allora Corso andò a Poppiano e fece chiedere al padre di essere ricevuto. Il vecchio lo fece entrare nella sala d'armi e lo squadrò da capo a piedi. - Quale ragione ti riconduce sotto questo tetto, che hai abbandonato come un malfattore? - gli domandò severamente. - Nessun'altra che l'ardente desiderio di sapere che cosa sia avvenuto della mia sposa, - rispose il giovine. - Come supponi che io possa dirtelo? Corso allora chinò la testa e tacque; ma invece di rimanere in quel luogo, si mise in viaggio per cercare la sua Selvaggia. Dopo un anno d'inutili ricerche, il giovane signore intraprese il pellegrinaggio di Terra Santa, per ottenere dal Cielo la grazia di esser riunito all'adorata consorte. Ma la nave fu assalita dai pirati ed egli, come i suoi compagni, vennero fatti prigionieri da un capo barbaresco e condotti sulle coste africane a lavorare la terra. Però, la sorte di Corso non era tanto dura quanto quella di Selvaggia. Egli almeno respirava l'aria libera, mentre l'infelice donna era rinchiusa in una prigione e s'era veduta strappare la sua creaturina. Selvaggia, in quel carcere, non faceva altro che piangere e pregare; ella piangeva Corso, che supponeva morto in seguito alle ferite, e pregava per la sua bambina, che una voce interna le diceva che era viva. E le sue preghiere, rivolte specialmente alla Madonna, erano così fervide che giungevano fino al trono della Madre di Dio e la commovevano. Passarono molti anni dal giorno che la fanciulla fu raccolta da fra' Buono, ed ella s'era fatta bellissima di viso e di corpo, e tale appariva agli occhi della gente che la scorgeva andando in pellegrinaggio a Fonte-Buona. Tutti le tributavano un gran rispetto, vedendola vestita dell'abito dato da san Romualdo ai suoi monaci, e intenta sempre a leggere nei grossi volumi che le recava fra' Buono, o a guardare le pecore al pascolo, o coltivare i fiori, che crescevano intorno alla sua capanna come se fosse stato primavera. Inoltre il padre forestale raccontava a tutti il miracolo del lupo e faceva vedere a quanti si recavano al monastero la bella Buona, seguìta dalla fiera. In poco tempo la venerazione per Buona era tanto cresciuta nella gente del Casentino, che gl'infermi, gli storpi, i malati d'ogni genere, si facevano portare alla capanna di lei, e la pregavano supplichevolmente di suggerir loro un rimedio o soltanto di toccarli, sperando da quel semplice contatto la guarigione. Buona rispondeva a tutti quegli infelici: - Pregherò la Madonna per voi! E siccome talvolta essi risanavano, così nessuno più dubitava che ella fosse già santa in vita. Ora avvenne che il conte di Poppiano ammalasse gravemente, di una malattia che aveva sede nell'anima. Egli era torturato dal dolore di non vedere più l'unico figlio suo, e invece di mostrarsi più umano verso Selvaggia, la rendeva responsabile della gran sciagura che lo faceva morir disperato. Per curarlo, erano stati chiamati tutti i dottori del Casentino, ma la sua malattia resisteva a ogni rimedio. Allora, siccome egli non poteva più muoversi, gli fu suggerito di chiamare al suo letto la pastorella del Pian del Prete. E Buona, pregata da un frate che bazzicava al castello, se ne andò, scalza e vestita della bianca tunica, presso il vecchio signore, che teneva rinchiusa sua madre in un sotterraneo e che aveva fatto abbandonar lei alla voracità dei lupi. - Signore, - disse Buona quando fu alla presenza dell'infermo, - io non so altro che pregare, e pregherò per voi. Quella voce dolce scese come un balsamo al cuore del vecchio, il quale incominciò subito a migliorare. - Chi sei? - le domandò il vecchio, - e dove stanno i tuoi genitori? - Non lo so. Quindici anni fa, frate Buono mi raccolse fra la neve nel Pian del Prete. Io non ho altra famiglia che i frati camaldolensi, altra madre che la Madonna. - Quindici anni fa, tu dici! - Sì, avevo allora pochi mesi. Tacque il vecchio, e il suo volto rivelava la lotta che si combatteva dentro di lui. - Dimmi, sapresti tu perdonare a chi ti avesse privato della madre? - Io ho imparato da fra' Buono, che non sta a noi giudicare le azioni altrui. - Avvicinati! - ordinò il Conte. Il vecchio le prese le mani e la esaminò attentamente. Non poteva ingannarsi: erano proprio quelli gli occhi grandi e dolci del suo Corso, eran quelli i lineamenti del figlio perduto. Allora, preso dalla tenerezza, il vecchio attirò a sé Buona e disse: - Figlia del figlio mio, ti benedico! Buona non capiva nulla. Soltanto quando il Conte le narrò la storia truce, ella comprese e disse: - Liberate l'infelice madre mia! Questo desiderio fu subito appagato; ma quando Buona fu in presenza della madre, credé di vedere uno spettro. - E tu, Selvaggia, puoi perdonarmi? - domandò il vecchio. - Mi rendete la mia creatura e io dimentico tutto per non rammentare altro che questo momento felice. Il Conte in breve si rimise in salute e appena ebbe riacquistate le forze, cavalcò fino a Camaldoli per fare una ricca offerta al monastero che aveva tenuto Buona come figlia e visitare il santuario eretto in onore di lei. Ma, nonostante che egli fosse circondato dalle cure amorevoli delle due donne, il suo pensiero era sempre rivolto a Corso. Una sera gli fu annunziato che un cavaliere chiedeva l'ospitalità. Il signore ordinò che fosse subito introdotto, e quando il viaggiatore entrò nella sala, gli occhi affievoliti del vecchio Conte non lo ravvisarono; ma dalla bocca di Selvaggia uscì un grido, riconoscendo in quel cavaliere il proprio marito. Corso raccontò che era riuscito a fuggire, e, raccolto da alcuni marinari sulle coste d'Africa, era passato in Sicilia, e di là era tornato in patria. Buona fu per molti anni la consolazione dei genitori, com'era stata la consolazione del vecchio Conte; ma nonostante le ricche offerte di maritaggio, ella volle rimanere libera e non dismise mai l'abito bianco dei Camaldolensi. Rimasta orfana, ella cedé ai parenti il castello di Poppiano e i feudi annessi, e costruitasi una piccola casa all'Abetiolo, accanto al santuario eretto in memoria della sua miracolosa salvazione dal lupo, vi morì in odore di santità. La novella terminò senza che Cecco fosse tornato. Regina, per distrarre Vezzosa, che vedeva malinconica, avrebbe incominciato volentieri a raccontarne un'altra; ma gli uomini si erano già alzati per andare a letto, meno Maso, il quale disse: - Cecco si meriterebbe di dormire sull'aia; stasera lo aspetto io e gli dico il fatto mio! Vezzosa si sentì gelare. Le dispiaceva l'assenza del marito, ma più ancora l'affliggeva che il capoccia lo biasimasse. Per questo disse al cognato che Cecco lo avrebbe aspettato lei. - Tu puoi rimproverarlo quanto vuoi in camera tua, come moglie, ma io voglio rimproverarlo come capo di casa, - rispose Maso. - Nella nostra famiglia nessuno ha mai bazzicato le osterie con gli amici, e non deve essere il primo lui. Vezzosa dovette ubbidire e andare in camera sua, ma non si spogliò finché non udì il passo di Cecco, e rimase inchiodata alla finestra per udire il colloquio fra i due fratelli. I rimproveri che rivolse Maso a Cecco furono così aspri, che Vezzosa non ebbe coraggio di fargliene altri. Ma piangeva la povera donna, come una vite tagliata, e quelle lacrime inasprirono il colpevole, invece di rabbonirlo.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679350
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Invece Santo Ambrogio, narra un'antica leggenda, quando trovò un uomo felice ordinò alla sua gente di seguirlo immantinenti fuori della casa di colui, la quale doveva essere per la sua fortuna abbandonata da Dio! Chi aveva ragione? È un problema che la fossa risolve in un modo, - e la croce che vi sta su in un altro. Il rito era compiuto: alla salmodia sottentrava il lugubre borbottio del rosario: - una vecchia dalla voce rauca faceva le proposte; un coro di gemiti rispondeva. Baccio spegneva le candele. Poi uscivano dalla chiesa i fedeli, e, quetamente, ad uno ad uno si perdevano nelle strette viuzze muti come ombre. Un breve scalpiccio che s'allontanava, poi un lugubre silenzio non interrotto che dal ciangottare dell'acqua nella vasca della fontana. Nei paesi dell'alta montagna nessun crocchio la sera; la battaglia aspra, cupa della vita, da una avemmaria all'altra, - il resto, quando non è del dolore, è del riposo. Poco dopo entrando in cucina fui assai sorpreso di trovare Aminta in vivace colloquio con Mansueta. M'accorsi ch'io non dovevo essere del tutto estraneo ai loro discorsi, perchè entrambi si volsero con premura verso di me. - Ho bisogno di parlarvi, disse Aminta. - Oh bravo, soggiunse Mansueta, gli dia lei un buon consiglio a questo povero ragazzo. Io, vecchia ignorante, non ho che gli occhi per piangere. Aspettavo che Aminta mi informasse di che si trattava. Ma egli sembrava tanto smarrito che, dopo le prime parole, non aveva potuto tirare innanzi. I suoi ignobili panni di montanaro erano laceri e lordi di fango. - Egli è fuori di casa da stamattina e non osa più rientrarvi. - Colui l'ha ancora maltrattato? domandai al giovinetto. - Sempre, continuamente, rispose raccapricciando, e guai s'io gli capitassi adesso fra le mani. - Vuol lasciare il paese, riprese la donna singhiozzando; ma dove andrai, cosa vuol fare tutto solo, pel mondo, come tua madre, che ha tanto sofferto? - Non so, balbettò Aminta, venivo da lui perchè mi aiutasse, mi raccomandasse a qualche amico. Ed indicò me guardandomi con ansietà. Io non sapevo che rispondere. Preso lì su due piedi mi sentivo impacciato a indicare i mezzi di una risoluzione che avevo consigliata io stesso. Mansueta disse: - Figliolo, rifletti finchè sei in tempo. Forse tu fai il caso peggiore di quel che sia: se trovassi una scusa ..... e tornassi? - No, no, interruppe spaurito il nipote, con tutta la risoluzione della sua timidezza; - no, no io non tornerò più .... non tornerò più .... - Se ti facessi accompagnare dallo speziale, egli forse saprebbe ragionare il sor sindaco. - No, no, ripetè Aminta. La sua ripugnanza era davvero irremovibile. - Pensaci bene, ragazzo, - fra poco tu rientrerai in seminario; qualche settimana è presto passata. Vuoi buttare con tanta facilità la certezza di un patrimonio come quello del sindaco? Egli non ha figliuoli, non ha parenti, tutta la sua roba ti apparterrà un dì o l'altro. Ciò val bene un po' di pazienza. Tu sarai ricco .... ma se te ne vai a questo modo perderai ogni cosa. - Non importa, oramai mi vergogno di accettare l'elemosina di quel manigoldo; in fin dei conti perchè vivo alle sue spese? che sono io per colui? ditemelo, zia, sono in età da saperlo, mi pare. - Egli è la persona a cui tua madre ti ha raccomandato ..... rispose Mansueta confusa. Ed io che le stavo vicino l'intesi sospirare: Oh Rosilde! Rosilde! - La sua roba non la desidero, io non voglio più nulla da lui ..... foss'egli mio padre non voglio più vederlo; egli m'inspira odio, - ed io non vorrei che dimenticarlo. Egli mi detesta, mi tiene per forza, perchè, dice, gli sono stato imposto .... ma perchè, domando io, impormegli? M'avessero buttato in mezzo alla strada era meglio ... era meglio che fossi morto ... In questo punto una dolorosa esclamazione ci fe' voltar tutti e tre. Don Luigi era lì dietro a noi appoggiato allo stipite dell'uscio. Aminta s'interruppe a mezzo del suo sfogo e chinò il viso rosso dalla vergogna. Il curato si fe' innanzi, gli pose una mano sulla spalla. - È vero, ho fatto male, compatiscimi. Egli era pallidissimo: la sua voce tremante rivelava l'interna battaglia degli affetti. Il giovane al colmo della confusione voleva buttarsegli ai piedi. Egli lo trattenne, lo strinse fra le braccia. - Ho fatto male, ripetè con maggior forza, molto male, ma, se Dio vuole, vi metterò riparo. Poi piegando la sua testa fino ad appoggiar la guancia sui capelli di Aminta, soggiunse intenerito: - Tu non tornerai più dal De Boni. È la Provvidenza che mi ti manda; ch'ella sia benedetta, poichè si è degnata di soccorrere la mia debolezza. Il mio cuore ti desiderava, ti cercava, tu sei venuto; ebbene tanto meglio! tanto meglio! .... Oramai il tuo avvenire mi appartiene; per fortuna nessun vincolo giuridico ti lega alla persona che finora s'è incaricata di te. Farò il possibile per risarcirti di quel che hai sofferto, voglio che tu sia contento, figliolo mio; penserò io alla tua sorte .... intanto per ora starai con me, - questa casa è, come nei giorni della tua fanciullezza, la tua; .... tornerai ad abitare la cameretta d'una volta .... poi vedremo cosa s'ha da fare. Don Luigi, così dicendo guardava me e la Mansueta come volesse prenderci a testimoni del solenne impegno che si assumeva. Noi eravamo sopraffatti dalla commozione, dalla meraviglia, dalla riverenza. Quanto ad Aminta egli non poteva parlare: ricambiò il suo benefattore con uno sguardo di riconoscenza, di gioia ineffabile. Io mi chiedevo quali crudeli esigenze avevano potuto separare in questo mondo così arido di sentimenti generosi, quelle due nobili creature, così degne l'una dell'altra, fatte per comprendersi e per corrispondersi. È strano, anzi è triste, molto triste: se vi sono due cuori che si vogliano bene davvero tutto cospira contro di essi per disgiungerli, per strapparli l'uno dall'altro, ed essi passano il maggior tempo della vita lontani a desiderarsi; per cui quel loro tesoro d'affetti invece che di conforto riesce loro una squisita tortura. Don Luigi avvertì poi il singolare vestito di Aminta: - Poveretto, come sei ridotto! sclamò a mani giunte. Queste parole scossero Mansueta dal suo stupore: in lei la sollecitudine della donna tornò a prevalere. Ella descrisse gli strapazzi patiti dal nipote e assicurò che egli doveva esser digiuno dalla mattina in poi. - Orsù, disse il curato, affrettate la cena e mettete a tavola un coperto per lui. E portategli subito qualcosa. Poi presolo per mano lo trasse amorevolmente con sè, facendomi cenno di seguirli. Nel tinello c'era don Sebastiano. Seduto davanti la tavola già apparecchiata, al suo solito posto, leggeva il breviario aperto nel piatto, come si legge il giornale per ingannare il tempo e l'appetito: - sbrigava il Signore apprestandosi a soddisfare le più gradevoli esigenze del ventre. Quando il curato entrò con Aminta, levò gli occhietti grigi sopra agli occhiali e scattò loro uno di quei suoi sguardi freddi, penetranti da inquisitore. Bisognava rispondere. È curioso come don Luigi, spirito superiore, subiva l'ascendente di quell'uomo volgare. S'affrettò a informarlo dell'accaduto, e a partecipargli le sue risoluzioni per il giovine chierico. - Spero, conchiuse, che non si disapproverà la mia condotta. Don Sebastiano ascoltò con la massima indifferenza il racconto; e si guardò bene dal manifestare il proprio avviso: solo notò, così indirettamente, che il giovinetto, destinandosi alla carriera ecclesiastica, doveva dar prova prima di tutto della sua docilità verso coloro che si prendevano cura di lui Poi ripiegò il muso sul suo breviario e ve lo tenne immobile finchè Mansueta recò la terrina della minestra. Allora lo chiuse subito sostituendo il riso alla preghiera con una calma ammirabile. L'avrei stritolato. La sua imperturbabilità mise freno alla nostra commozione. Secondo il solito egli uscì subito dopo cena: e ci sollevò della sua presenza. Allora don Luigi prese la mano di Aminta, e mentre io raccontavo, per la prima volta, il colloquio che avevo avuto parecchie settimane prima coll'abatino, egli lo guardava affettuosamente senza parlare. Mansueta, ritta in piedi, completava intenerita il quadro commovente. Ma le peripezie di quella giornata non erano finite. Un «si può?» stridulo si fe' sentire. E subito dopo la ciera aguzza dello speziale Bazzetta comparve nel vano dell'uscio. L'indiscreto ciarlone, senza aspettar risposta, sì fe' innanzi con quelle sue maniere dolcereccie e sornione; diè un'occhiata curiosa ad Aminta, un'altra a don Luigi e allargò le ampie narici come per annusare ciò che accadeva nella casa. Passandomi davanti mi porse la sua manuzza viscida e fredda e mi disse ammiccando furbescamente: - Beato chi vi può vedere voi! E senza aspettare invito, si pose a sedere al posto lasciato vuoto da don Sebastiano. Don Luigi colla usata bonarietà gli chiese: - Che buon vento vi porta? - Eh! buono non tanto .... sapete che .... E lasciò a mezzo la frase come per assaporare l'effetto della reticenza. - Sapete che i consiglieri Gervasio, Lovati e Leonardo del Gasco hanno fatto opposizione presso all'Intendenza contro la rivendicazione della Carbonaia .... Ebbene l'intendente ha rinviato il reclamo alla Giunta con incarico di sottoporlo alla deliberazione del Consiglio. - L'avevo detto io, non mi hanno voluto dar retta; che costrutto ci hanno cavato? nulla .... E s'interruppe di nuovo: - Dunque? disse don Luigi senz'ombra d'impazienza. - Dunque? quando si dice la Giunta, si intende il Sindaco: egli ci ha riuniti oggi, e naturalmente si è deliberato di presentare il reclamo nella seduta di domenica. I due oppositori saranno soli a sostenerlo, - per cui, se non avete altra speranza, potete rinunziare fin d'ora alla Carbonaia. - Ebbene, caro Bazzetta, bisognerà aver pazienza .... io vi ho rinunziato. Quel terreno, come tutti gli altri che posseggo, sono doni del comune. Se ora lo rivuole, e la legge non lo vieta ... qualunque opposizione da parte mia sarebbe non meno sconveniente che illegittima. Non si poteva dubitare della sincerità delle sue parole. Il signor Bazzetta rimase piuttosto sorpreso che ammirato di tanta arrendevolezza. Si sarebbe detto anzi che ne fosse scontento. Si strinse nelle spalle coll'aria di chi si vede frodato da una legittima soddisfazione e disse: - Bene, bene, ciò riguarda voi solo, - voi farete il piacer vostro: ho voluto avvertirvi .... - Ed io vi ringrazio di cuore, interruppe premuroso don Luigi. - Credevo foste vivamente affezionato a quelle poche spanne di terra .... - Diffatti mi rincrescerà molto il perderle, - rispose un po' commosso il curato, - ma non si tratta del mio rincrescimento. Che volete, non capisco un prete che piatisce; ciò è tanto contrario al nostro carattere ... Non vi pare? - Già, già, prevedevo che m'avreste risposto a quel modo, e mi sono detto: - perchè tanti misteri quando si possono fare le cose d'accordo, in buona armonia? E per questo motivo mi sono indotto a parlarvene. Voi conoscete i miei sentimenti conciliativi. Oh se tutti fossero come voi e me, che vita carina si farebbe! eh che paradisetto, che piccolo elisuccio la nostra Sulzena eh! che ne dite? Il curato evitò di rispondere. - Bevete, caro Bazzetta? domandò. - No, grazie, - ben, due ditini, due soli ditini .... troppo incomodo. E rivolto a me: - Io e il signor curato, non s'è mai avuto in venti anni una parola da dire, vero don Luigi? È un uomo raro (no basta ... troppo .... grazie ... alla sua salute). Bevette il secondo bicchiere, strizzò l'occhio luccicante, e ripetè schioccando colle labbra: - Un uomo raro. Non ostante questo subito entusiasmo si vedeva ch'era contrariato. Non fu buono di riappiccare il discorso e nessuno di noi si diè la briga di aiutarlo. Però dopo un quarto d'ora prese la magnanima risoluzione di andarsene. Ma non senza prima gittare ancora la rete per pescare qualche notizia. Nell'uscire chiese ad Aminta se veniva con lui, che si sarebbero accompagnati sino in piazza. - Aminta resta con noi, rispose don Luigi e soggiunse: - anzi fatemi il piacere voi di avvertire il signor De Boni. Lo speziale non potè trattenere un atto di meraviglia: la sua ciera volpina si aguzzò alla più viva curiosità. - Le solite ... intemperanze? sclamò tentennando il capo, benedetto uomo quel De Boni! ... Ma le desiderate confidenze non venivano. - Debbo metter io una buona parola? domandò. - Grazie, per ora è inutile, disse il curato, il signor De Boni non disapproverà che Aminta resti colla zia. In caso verrò io a chiedere i vostri buoni uffici. - Sta bene. Lo speziale non era proprio fortunato quella sera: non ne indovinava una. Indugiò un minuto sulla soglia; finalmente, con visibile malavoglia, uscì. Mansueta, chiusa ch'ebbe la porta, tornando a ritirare i bicchieri, osservò: - Egli è venuto per comprare, - e se ne va dal sindaco a rivendere. Il giorno dopo fu segnalato da due grandi avvenimenti. La mattina per tempo venne un messo del sindaco a recare le vesti di chierico ad Aminta e a chiedere a Mansueta certe carte ch'ella sapeva, - e ch'ella ricusò assolutamente di consegnare. Poi, verso mezzodì, capitò di nuovo lo speziale a parlar con don Luigi. Il colloquio durò a lungo. Io ero nella mia stanza e la voce stridula del signor Bazzetta giungeva di quando in quando distinta fino al mio orecchio. Senza quasi volerlo intesi ch'egli diceva: - Il De Boni, in sostanza, se voi gli restituite quei documenti vi lascia la Carbonaia e promette di non darvi altra molestia nè ora nè mai .... ma vuole ad ogni costo le carte. Il curato rispondeva: - Quanto alla Carbonaia, ve lo ripeto, ho già rinunziato. Ditegli del resto che, nè per avidità di quel possesso, nè per timore delle sue misteriose minaccie, acconsentirei a tradire interessi non miei. Spero che voi troverete ragionevole la mia condotta. Non si tratta di me, ma del ragazzo: le carte sono sue. Queste proposte e queste risposte si ripeterono, con diverse parole da una parte e dall'altra, molte volte. E mi parve che la missione del signor Bazzetta restasse senza frutto. Venni confermato quello stesso giorno nella mia opinione. Dopo il desinare, quando don Sebastiano si fu ritirato, il curato disse ad Aminta che aveva a intrattenerlo di cose molto importanti. Volevo uscire per discrezione, ma egli mi pregò di rimanere, dicendo: - No, voi siete oramai di casa, siete amico di Aminta, avete molta più esperienza di lui, e sarà bene che egli abbia in questa circostanza qualcuno in cui liberamente confidarsi. E volgendosi all'abatino che aveva ripreso la sua veste talare, - Figliuolo mio, a scarico di coscienza, debbo avvertirti che abbandonando la casa del sindaco tu rinunzi a una fondata speranza di fortuna. Aminta rispose vivacemente: - Oh don Luigi, per me non ci può esser fortuna maggiore della sua benevolenza. - Questa non ti può mancare mai, - ma puoi perdere delle sostanze .... - Non importa, non importa, purchè io non abbia a tornar più in quella casa, rinunziereì ad un regno .... - Sta bene, figliolo; fa il voler tuo. - Però ascolta, Mansueta è depositaria di documenti che comprovano i tuoi diritti verso il signor De Boni. Tua zia ed io abbiamo creduto conveniente, per motivi di delicatezza e nel tuo stesso interesse, di non farli valere che indirettamente. Adesso egli li ridomanda. - Oh glieli dia, che quell'uomo feroce cessi una volta di perseguitarmi. - No, li conserveremo fino a che tu abbia raggiunta la età maggiore. Allora tu sarai in grado di giudicare la nostra condotta e potrai o continuarla o ripararla. - So bene fin d'ora che lei ha agito sempre per il mio bene. Io non posso che ringraziarla lei e anche la zia ... ma da quell'uomo non voglio più accettar nulla, è tempo che io mi guadagni il mio pane. Mi vergogno di aver mangiato quello del signor Angelo .... - Oh quanto a lui, saltò su a dire la Mansueta ch'era presente, quanto a lui, ha fatto il peccato è giusto che faccia la penitenza. - Mansueta, l'interruppe don Luigi in tono di dolce rimprovero. - Aminta, soggiunse poi, i tuoi sentimenti sono onesti, e se, quando tu sarai padrone dei tuoi atti, la penserai ancora a quel modo, non sarò io a disapprovarti. Mentre eravamo in questi discorsi tornò il signor Bazzetta ad annunziare con gravità piena di mistero che il Sindaco era su tutte le furie, che pretendeva la restituzione di quei documenti e faceva, per il caso di rifiuto, i più grandi spergiuri di vendetta. Il curato, quella mite creatura, tutta indulgenza e dolcezza, fu irremovibile. - Voi sapete di che cosa è capace quell'uomo. osservò lo speziale. Don Luigi disse soltanto: - Fategli sapere che non lo temiamo. Egli non può farci altro male che quello che il Signore permetterà. E il signor Bazzetta dovette rassegnarsi ad uscire senza aver cavato della sua seconda ambasciata, maggior frutto che della prima.

L'altrui mestiere

680291
Levi, Primo 1 occorrenze

Era una costruzione faraonica, una delle prime in cemento armato erette in Torino: terminata verso il 1915, nel 1934 era già abbandonata e fatiscente, insigne esempio di spreco del pubblico denaro. L' anello della pista, lungo .00 metri, era ormai in terra nuda, cosparso di buche malamente riempite di ghiaia; sulle gigantesche scalinate crescevano erbacce ed alberelli stenti. Ufficialmente, l' ingresso era vietato, ma noi entravamo dal bar, portandoci dietro le biciclette. C' era chi lanciava il peso (un blocchetto di cemento) o un giavellotto casalingo, e chi faceva il salto in alto o in lungo meglio che poteva: ma Guido ed io ci attenevamo rigorosamente al "pulverem olympicum" cantato da Orazio. Ci eravamo scoperti mezzofondisti, ma i 1500 di Beccali per noi erano troppi; ci bastavano e avanzavano i polverosissimi .00 metri della pista. Quei tre versi ci riconciliavano con la latinità; quegli antichi romani non erano puri fossili, dunque: conoscevano la febbre della gara, erano gente come noi. Peccato che scrivessero in un latino così difficile. Guido era un giovane barbaro dal corpo scultoreo. Era intelligente ed ambizioso, ed invidiava i miei successi scolastici; io, simmetricamente, invidiavo i suoi muscoli, la sua statura, la sua bellezza e le sue precoci libidini. Questa competizione incrociata aveva creato fra noi una curiosa amicizia ruvida, esclusiva, polemica, mai affettuosa, non sempre leale, che comportava una gara continua, un confronto ad oltranza, e di fatto ci rendeva inseparabili. Avevamo quindici o sedici anni, e questa tensione competitiva sarebbe stata pressoché normale se fossimo stati ad armi pari, ma così non era. Io disponevo di un certo vantaggio iniziale sul piano della cultura, perché avevo a casa molti libri, e mio padre ingegnere me ne portava altri a volta di corriere se solo accennavo ad un desiderio specifico (ad eccezione di Salgari, che lui detestava e mi vietava), mentre il mio rivale era figlio di gente semplice; ma Guido non era né stupido né pigro, si faceva imprestare tutti i libri di cui gli parlavo, li leggeva voracemente, ne discuteva con me (eravamo quasi sempre di pareri contrari), e poi non me li rendeva più; perciò il suo handicap culturale si andava riducendo di mese in mese. Per contro, il suo vantaggio sul piano fisico era incolmabile. Guido pesava sessanta chili di buoni muscoli, ed io solo quarantacinque; qualsiasi forma di corpo a corpo era da escludersi, ma competere dovevamo e volevamo (forse lo volevo più io di lui), e prima di scendere sul campo aperto dell' atletica avevamo escogitato varie forme di confronto indiretto. Per settimane ci sfidammo a chi tratteneva il fiato più a lungo; dapprima senza particolari accorgimenti, poi affinando via via le nostre armi. Io inventai l' artificio di ossigenarmi previamente il sangue, respirando a lungo e profondamente prima della prova; Guido scoperse che si guadagnava qualche secondo se si gareggiava stando coricati sul pavimento anziché seduti; io affinai la tecnica della respirazione interna, contraendo ed espandendo il torace a glottide chiusa. Funzionava, ma Guido si accorse della manovra e subito la imitò. Tutti e due resistevamo ostinati fino all' orlo dello svenimento; gareggiavamo a turno, ognuno reggendo il contasecondi davanti agli occhi via via più sbarrati dell' altro. Non c' era bisogno di controlli, non ci sarebbe mai venuto in mente di frodare sull' effettiva chiusura dei canali, perché ciascuno era in cerca piuttosto di una prova di volontà che di un confronto vincente. Mi pare che i risultati non fossero brillanti, arrivammo fin verso i cento secondi di apnea, poi, contro le nostre abitudini, convenimmo di sospendere la gara "perché se no finisce che diventiamo tisici". L' inventore del gioco degli schiaffi fu senza dubbio Guido. Le regole, mai scritte né enunciate, si erano definite da sole: bisognava sorprendere la guardia dell' avversario, in strada, alla scrivania, se possibile anche in scuola, e colpirlo in piena faccia, senza preavviso, con quanta più forza si poteva, a metà di un discorso pacifico. Era lecito, anzi apprezzato, distrarre l' avversario con chiacchiere, ed anche colpirlo da dietro, ma sempre e solo sulle guance, mai sul naso o sugli occhi; vietato colpire una seconda volta approfittando del suo stordimento; erano ammesse, ma quasi impossibili, le parate; era disonorevole protestare, lamentarsi o mostrarsi offesi; doveroso rivalersi, ma non subito: più tardi, o il giorno dopo, in piena distensione, nel modo più brusco e imprevisto. Eravamo diventati abilissimi nel leggere l' uno sul viso dell' altro la contrazione impercettibile che preludeva allo schiaffo: "Ecco che straluni li occhi per fedire", citai io dall' "Inferno", e Guido cavallerescamente mi lodò. Contro ogni previsione, dal selvaggio torneo uscii vincitore io, ai punti: avevo riflessi più rapidi di Guido, forse perché le mie braccia erano più corte, però i miei schiaffi andati a segno, anche se più numerosi dei suoi, erano molto meno violenti. Guido ebbe una facile rivincita in un cimento che lui stesso aveva istituito in un tempo in cui lo strip-tease non esisteva ancora neanche in America; io non seppi vincere il mio pudore, concorsi una volta sola e mi fermai alle scarpe. Come ho detto, in quella classe eravamo tutti maschi; non tutti eravamo mascalzoni, ma i mascalzoni erano i veri leader, non noi "intellettuali". Guido li sfidò e li vinse tutti. La prova consisteva nello spogliarsi in classe, e poteva svolgersi solo nelle ore di scienze naturali perché il professore aveva la vista corta e non scendeva mai fra i banchi. Alcuni arrivarono fino al torso nudo, quattro fino alle mutande, ma solo Guido giunse a denudarsi da capo a piedi. Il rischio di essere chiamati alla lavagna faceva parte del gioco e lo arroventava: accadeva infatti di vedere qualcuno che, interrogato, si riinfilava a precipizio i pantaloni sotto il piano del banco. Guido, stratega d' istinto, aveva preso le sue precauzioni. Con un pretesto si era fatto spostare dal secondo banco all' ultimo, si era allenato a rivestirsi rapidamente, aveva atteso il giorno dopo un' interrogazione, e infine, mentre il professore illustrava lo scheletro indicandone le parti con la bacchetta, non solo s' era spogliato completamente, ma nudo era salito in piedi prima sul seggiolino e poi sul pianale, mentre tutti trattenevano il respiro, sospesi tra l' ammirazione e lo scandalo. Così era rimasto per un lungo istante. Ligi al mito collettivo, ci eravamo dedicati finalmente all' atletica, ma fu presto evidente che Guido avrebbe stravinto in tutte le specialità salvo una, e quest' una erano gli .00 metri. E proprio sugli .00 metri lui mi voleva battere, affinché la sua supremazia atletica non avesse ombre. Il giro dell' anello era una fatica da bestie. Calzavamo scarpette da tennis, e la ghiaia ci faceva male ai piedi e sottraeva spinta alla falcata. Avevamo corso insieme una volta sola, massacrandoci a vicenda; nessuno dei due voleva lasciarsi sorpassare, neppure per pochi metri: non sapevamo che la condotta di gara più razionale consiste invece appunto nel farsi tagliare l' aria dall' avversario, risparmiando fiato per lo scatto finale. Così, a metà percorso eravamo tutti e due suonati; io rallentai, non per generosità o per calcolo, ma per totale esaurimento; Guido, per l' onore, corse ancora una decina di metri, poi uscì di pista anche lui. Dopo di allora, ciascuno atterrito dall' ostinazione dell' altro, corremmo a cronometro: uno arrancando in pista, l' altro inseguendolo in bicicletta ed annunciandogli i tempi parziali; ma Guido era sleale, invece di rispettare la mia rabbiosa concentrazione mi raccontava storielle sporche per farmi ridere. Andammo avanti così per parecchie settimane, riempiendoci la trachea di polvere olimpica, convivendo civilmente in scuola, odiandoci allo Stadium dell' odio inconfessato degli atleti. Ad ogni prova, ciascuno metteva in atto tutta la sua ferocia per rosicchiare qualche secondo dal tempo dell' altro. Alla fine dell' anno scolastico io smisi di rosicchiare: la superiorità di Guido era conclamata, consolidata; ci separava un abisso di almeno cinque secondi. Il caso mi concesse tuttavia una magra rivincita: il bar dello Stadium aveva chiuso, e per entrare nella pista bisognava ormai scalare gli spalti fino in cima, dove non so che varco era stato dimenticato aperto. Ora io mi accorsi che le cancellate che sbarravano l' ingresso al piano terra avevano interstizi di sedici centimetri: ci passava giusto il mio cranio, ma a quel tempo ero così magro che se passava il cranio passava anche facilmente tutto il resto. Di questa impresa, solo io ero capace: bene, non era forse una specialità anche quella? Un dono di natura, come i quadricipiti e i deltoidi di Guido? Forzando un po' sui termini, come facevano i sofisti, poteva essere definita una specialità atletica, le cui modalità avrebbero potuto essere precisate con un opportuno regolamento. Forse, all' elenco di indociles, di non paghi, iniziato da Orazio, si sarebbe potuto aggiungere un item, quello dei passatori di cancellate? Guido non sembrava molto d' accordo. Di Guido ho perso le tracce, e non so quindi chi di noi due abbia riportato la vittoria nella gara di gran fondo della vita; ma non ho dimenticato quello strano legame che forse amicizia non era, e che ci ha uniti e divisi. Nel mio ricordo la sua immagine è rimasta così, fissata come in un' istantanea: nudo in piedi sull' assurdo banco del liceo, simmetrico allo scheletro osceno di cui il professore stava esponendoci l' inventario; procace, dionisiaco ed oppostamente osceno, monumento effimero del vigore terrestre e dell' insolenza.

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Vizio di forma

681769
Levi, Primo 1 occorrenze

Era un mare senza pesci, buono solo per il sale: la salina era abbandonata ormai da dieci anni, ma sale se ne poteva ancora cavare, benché misto a sabbia. Sinda c' era stato una volta, con suo padre, molti anni prima; poi suo padre era partito a caccia e non era più ritornato. Il sale, adesso, lo portavano qualche volta i mercanti, ma poiché nel villaggio non c' era nulla con cui scambiarlo, venivano sempre più di rado. Sinda vide nel mare qualcosa che non aveva mai visto. Vide dapprima, proprio sulla linea dell' orizzonte, una piccola gobba luminosa, rotonda e bianca; come una minuscola luna, ma non poteva essere la luna: quella vera, quasi piena e coi margini netti, l' aveva vista tramontare solo un' ora prima. La mostrò a Diuka, ma senza molto interesse: nel mare ci sono tante cose, che entrambi avevano sentite descrivere attorno al fuoco; navi, balene, mostri, piante che crescono dal fondo, pesci feroci, anche anime di morti annegati. Cose che vengono e vanno e non ci riguardano, perché il mare è vanità e apparenza maligna: è un' immensa radura che sembra porti dappertutto e non porta in nessun luogo; sembra liscio e solido come una corazza d' acciaio, e invece non regge il piede, e se ti ci avventuri affondi. È acqua e non la puoi bere. Proseguirono il cammino: ormai la salita era finita, e il pascolo era in vista, poco più alto di loro, a un' ora di cammino. I due ragazzi e le capre avanzavano per un tratturo ben battuto, in mezzo a una nuvola di polvere gialla, di tafani e di odore ammoniacale. A intervalli, Sinda osservava il mare, alla sua sinistra, e si accorse che quella cosa stava cambiando aspetto. Adesso era tutta fuori dell' orizzonte, era più vicina, e sembrava uno di quei funghi globosi che si incontrano ai margini dei sentieri, e a toccarli si squarciano e soffiano un fiato di polvere bruna; ma in realtà doveva essere molto grossa, e a guardarla bene si vedeva che i suoi contorni erano sfumati come quelli delle nuvole. Pareva anzi che ribollisse, che cambiasse continuamente forma, come la schiuma del latte quando sta per traboccare; e diventava sempre più grossa e più vicina. Poco prima che raggiungessero il pascolo, e quando già le capre si sbandavano per brucare certi cardi fioriti, Sinda si rese conto che la cosa viaggiava diretta verso di loro. Allora gli vennero in mente certi racconti che aveva sentiti dai vecchi, e creduti solo a mezzo come si credono le favole: raccomandò le capre a Diuka, le promise che, lui o altri, sarebbero venuti prima di sera a riprenderle, e si avviò di corsa verso il villaggio. Dal villaggio, infatti, il mare non si vedeva: ne era separato da una catena di balze scoscese, e Sinda correva perché sperava-temeva che la cosa fosse la Nutrice, che viene ogni cento anni e porta la sazietà e la strage; voleva dirlo a tutti, che si preparassero, e voleva anche essere stato il primo a portare l' annuncio. C' era una scorciatoia, nota a lui solo, ma non la prese perché gli avrebbe tolto la vista del mare troppo presto. Poco prima che Sinda raggiungesse il costone, la cosa appariva enorme, da togliere il respiro: la cima era alta fino al cielo, e dalla cima pioveva acqua a torrenti verso la base, e altra acqua si avventava verso la cima. Si sentiva come un tuono continuo, un rombo-fischio-scroscio da gelare il sangue nelle vene. Sinda si arrestò un attimo, e provò il bisogno di gettarsi a terra e adorare; ma si fece forza, e si precipitò giù per la discesa, sgraffiandosi fra i rovi, inciampando nei sassi, cadendo e rialzandosi. Adesso non si vedeva più niente, ma il rombo si sentiva, e quando Sinda giunse al villaggio tutti lo sentivano, ma non sapevano cos' era, e lui Sinda invece lo sapeva, e stette in mezzo alla piazza ebbro e insanguinato accennando con le braccia che tutti venissero e ascoltassero, perché la Nutrice stava arrivando. Vennero prima pochi, poi tutti. Vennero i molti, troppi bambini, ma non era di loro che c' era bisogno. Vennero le vecchie, e le giovani che parevano vecchie, sulle soglie delle loro capanne. Vennero gli uomini dagli orti e dai campi, col passo lento e slombato di chi non conosce che la zappa e l' aratro; e venne infine anche Daiapi, quello che Sinda più attendeva. Ma Daiapi stesso, che pure era il più vecchio del villaggio, non aveva che cinquant' anni, e perciò non poteva sapere per esperienza propria che cosa si deve fare quando la Nutrice viene. Non aveva che ricordi vaghi, ricavati dai ricordi appena meno vaghi trasmessi a lui da chissà quale altro Daiapi, e poi consolidati, cementati e distorti da innumerevoli ripetizioni accanto al fuoco. La Nutrice, di questo era certo, era già venuta altre volte al villaggio: due volte, o forse anche tre o più, ma delle visite più antiche, se pure ve n' erano state, ogni memoria si era perduta. Ma di certo Daiapi sapeva, e con lui tutti sapevano, che quando viene viene così, all' improvviso, dal mare, in mezzo a un turbine, e non si ferma che pochi istanti, e getta cibo dall' alto, e bisogna essere pronti in qualche modo perché il cibo non vada disperso. Sapeva ancora, o gli pareva di sapere, che essa varca i monti e i mari come un lampo, attratta verso là dove si ha fame. Per questo non si ferma mai: perché il mondo è sconfinato, e la fame è in molti luoghi fra loro lontani, e appena saziata rinasce come i germogli delle male piante. Daiapi aveva poche forze e poca voce, ma anche se avesse avuto la voce del monsone non avrebbe potuto farla sentire per entro il fracasso che veniva dal mare, e che ormai aveva riempito la valle, tanto che ad ognuno pareva di essere sordo. Con l' esempio e coi gesti, fece sì che tutti portassero all' aperto tutti i recipienti di cui disponevano, piccoli e grandi; poi, mentre già il cielo si oscurava, e la pianura era spazzata da un vento mai visto, prese un piccone e una pala e cominciò a scavare febbrilmente, subito imitato da molti. Scavarono con tutte le loro forze, con gli occhi pieni di sudore e gli orecchi pieni di tuono: ma erano riusciti a malapena a scavare sulla piazza una fossa grande come una tomba, quando la Nutrice superò le colline come una nuvola di ferro e di fragore, e rimase librata a picco sopra le loro teste. Era più grande dell' intero villaggio, e lo coprì con la sua ombra. Sei trombe d' acciaio, rivolte verso il basso, vomitavano sei uragani sui quali la macchina si sosteneva, quasi immobile; ma l' aria scaraventata a terra travolgeva la polvere, i sassi, le foglie, gli steccati, i tetti delle capanne, e li disperdeva in alto e lontano. I bambini fuggirono, o furono soffiati via come la pula; gli uomini resistettero, avvinghiati agli alberi ed ai muri. Videro la macchina scendere lentamente; in mezzo ai turbini di polvere giallastra, qualcuno sostenne di aver intravvisto figure umane sporgersi dall' alto a guardare: chi disse due, chi tre. Una donna affermò di aver udito voci, ma non umane: erano metalliche e nasali, e così forti che superavano lo strepito. Quando le sei trombe furono a pochi metri dai culmini delle capanne, dal ventre della macchina uscirono sei tubi bianchi, che rimasero penzoloni nel vuoto: ed ecco, a un tratto dai tubi scaturì in bianchi getti l' alimento, il latte celeste. I due tubi centrali gettavano entro la fossa, ma intanto un diluvio di alimento cadeva a casaccio su tutto il villaggio, ed anche al di fuori, trascinato e polverizzato dal vento delle trombe. Sinda, in mezzo al trambusto, aveva trovato un truogolo, che aveva servito un tempo come abbeveratoio per le bestie: lo trascinò sotto uno dei tubi, ma fu pieno in un attimo, e il liquido traboccò a terra imbrattandogli i piedi. Sinda lo assaggiò: sembrava latte, anzi crema, ma non era. Era denso e insipido, e saziava in un momento: Sinda vide che tutti lo ingoiavano avidamente, raccogliendolo da terra con le mani, con le pale, con foglie di palma. Risuonò dal cielo un rumore, forse un suono di corno, o forse un ordine pronunciato da quella fredda voce meccanica, ed il flusso cessò di colpo. Subito dopo, il rombo e il vento si gonfiarono oltre misura, e Sinda fu soffiato via a rotoloni in mezzo alle pozze vischiose; la macchina si sollevò, dapprima a perpendicolo, poi obliquamente, e in pochi minuti si nascose dietro le montagne. Sinda si rimise in piedi e si guardò intorno: il villaggio non sembrava più il suo villaggio. Non solo la fossa traboccava, ma il latte colava denso per tutti i vicoli in pendio, e grondava dai pochi tetti che avevano resistito. La parte bassa del villaggio era allagata: due donne erano affogate, e così pure molti conigli e cani, e tutti i polli. A galla sul liquido furono trovati centinaia di fogli di carta stampata, tutti uguali: portavano in alto a sinistra un segno rotondo, che forse rappresentava il mondo, e poi seguiva un testo diviso in articoli, e ripetuto in diversi caratteri e in diverse lingue, ma nessuno del villaggio sapeva leggere. Sul rovescio del foglio era una ridicola serie di disegni: un uomo nudo e magro, accanto un bicchiere, ancora accanto l' uomo che beveva il bicchiere, e infine lo stesso uomo, ma non più magro; più sotto, un altro uomo magro, accanto un secchio, poi l' uomo che beveva dal secchio, e infine lo stesso uomo coricato a terra, con gli occhi sbarrati, la bocca spalancata e il ventre esploso. Daiapi comprese subito il significato dei disegni, e convocò gli uomini sulla piazza, ma era troppo tardi: nei due giorni successivi otto uomini e due donne morirono, lividi e gonfi. Fu fatto un inventario, e si vide che, senza contare il latte che era andato perduto o si era mescolato con la terra o col letame, ne rimaneva ancora abbastanza per nutrire l' intero villaggio per un anno. Daiapi dispose che al più presto si cuocessero giare e si cucissero otri di pelle di capra, perché temeva che il latte della fossa si corrompesse a contatto con il terreno. Solo quando fu notte, Sinda, stordito da tutte le cose viste e fatte, e intorpidito dal latte bevuto, si ricordò di Diuka rimasta all' alpeggio con le capre. Partì all' alba dell' indomani, portando con sé una zucca colma di cibo, ma trovò le capre disperse, e quattro ne mancavano, e anche Diuka mancava. La ritrovò poco dopo, ferita e spaventata, ai piedi di un dirupo, insieme con le quattro bestie morte: le aveva soffiate giù il vento della Nutrice, quando aveva sorvolato il pascolo. Qualche giorno dopo, una vecchia, ripulendo il suo cortile dalle croste di latte seccato dal sole, rinvenne un oggetto mai visto prima. Era lucido come l' argento, più duro della selce, lungo un piede, stretto ed appiattito; ad una estremità era arrotondato a formare un disco con un grosso intacco esagonale; l' altra estremità costituiva come un anello, il cui foro, largo due dita, aveva la forma di una stella a dodici punte ottuse. Daiapi ordinò che si costruisse un tabernacolo di pietra sul masso erratico che stava presso il villaggio, e che l' oggetto vi fosse conservato per sempre, a ricordo del giorno della visita della Nutrice.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

"Ma perché l'hai abbandonata?" "Per non venire ucciso e divorato," rispose il mozzo, battendo i denti per il terrore. "Quale terribile dramma marino si è svolto in questi paraggi?" mormorò O'Donnell. "Si è affondata la tua nave?" chiese Mister Kelly. "Sì, è andata a picco tre settimane fa a milletrecento miglia dalle isole Canarie," disse il mozzo. "Si chiamava Florida ed era salpata da Baltimora con un carico di bazzeccole, destinata ai porti della Sierra Leone. Una notte si aprì una falla sotto la ruota di prua e il brick cominciò a fare acqua in tale quantità da rendere inutile il lavoro delle pompe. Si misero in acqua le imbarcazioni, ma il caldo aveva disgiunto le tavole e affondarono tutte, eccetto il piccolo canotto che io montavo poco fa. Allora, mentre una parte dell'equipaggio manovrava le pompe, gli altri marinai improvvisarono una zattera. Non avevano ancora terminato di costruirla, che il brick affondò, trascinando con sé il capitano e il secondo di bordo. Nella confusione che accadde in quel supremo istante, furono dimenticati i viveri che erano stati accumulati sul ponte del legno affondante, e si poterono a grande stento salvare tre casse di biscotti e due barilotti d'acqua che ancora galleggiavano. Fu deciso di fare rotta verso l'est, per approdare alle isole Canarie o in qualche punto della costa africana, ma le calme ci sorpresero e rimanemmo lunghi giorni immobili sotto un calore spaventevole. L'acqua ben presto mancò, poi mancarono i biscotti, quantunque venissero misurati con grande parsimonia. Io avevo notato che i marinai tenevano sovente gli occhi fissi su di me e che poi si radunavano, discutendo calorosamente, ma procurando sempre che la loro voce non giungesse fino a me. Mi nacque un sospetto orribile: che tramassero di uccidermi e poi pascersi delle mie carni. Cinque notti orsono, mentre fingevo di dormire, vidi avvicinarsi a me il mastro d'equipaggio, seguiti da due marinai e udii il primo dire: "È magro come un merluzzo secco: preferisco che la sorte decida." "No," risposero i compagni. "Questo fanciullo sarà la prima vittima della fame. Perché attendere che muoia? Prima o dopo è tutt'uno e noi potremo forse salvarci." Poi si allontanarono dicendo: "A domani." "Miserabili," esclamò O'Donnell. "Uccidere un ragazzo!" "La fame non ragiona, amico mio," disse l'ingegnere. "Continua, ragazzo." "Avevo messo in serbo alcuni biscotti e un mezzo litro d'acqua che avevo nascosto nel cavo di una trave, sotto il tavolato della coperta. Decisi di fuggire senza perdere tempo. Attesi che tutti dormissero, poi salii nel canotto che era ormeggiato a poppa della zattera, m'imbarcai portando con me le poche provviste e mi allontanai dirigendomi verso il sud. Arrancai disperatamente tutta la notte, e all'alba avevo percorso tanto cammino da non scorgere più la zattera. Due giorni dopo avevo consumato i miei viveri, ma continuai a remare, con la speranza di incontrare qualche nave in rotta dall'Europa all'America, finché, stremato di forze, morendo di sete e di fame, stramazzai in fondo al canotto. Mi ero rassegnato a morire, quando, aprendo gli occhi vidi brillare una luce e presso a questa disegnarsi una forma umana ... " "Ero io che avevo acceso una torcia," disse l'ingegnere. "Devi essere rimasto assai sorpresero nel vedere un uomo in aria." "Sì, signore," rispose il mozzo. "Credetti di sognare, ma avendo scoperto sopra di voi una grande massa nera che rifletteva qua e là i bagliori della torcia, quantunque la cosa mi sembrasse strana, indovinai subito che sopra di me passava un pallone e lancia il mio primo grido." "Sei americano? " gli chiese Kelly. "Sì, signore, sono virginiano, nato a Richmond e mi citiamo Walter Chidley." "Hai parenti a Richmond?" "No, signore, sono solo al mondo e non li ho mai conosciuti." "Ti prendo come mio figlio." Gli occhi azzurri del povero mozzo si empirono di lacrime. "Signore ... signore." balbettò. "Voi siete buono ... e vi offro la mia vita." "Conservala, mio povero ragazzo," disse l'ingegnere, commosso. "Benedico questo viaggio che mi ha fatto incontrare due buoni amici." "Grazie, Mister Kelly," disse O'Donnell, stringendogli la mano che gli porgeva. "Questi due amici, come voi volete chiamarli, vi devono la vita." "E a voi forse devo la mia salvezza, O'Donnell. Senza di voi non so cosa sarebbe accaduto di me, in compagnia di quel disgraziato Simone." Poi, volgendosi al mozzo: "È al nord che si trova la zattera?" gli chiese. "Lo credo, Mister Kelly." "Quanti uomini la montano?" "Quando l'abbandonai si trovavano a bordo quattordici marinai, ma temo che ora non siano tutti vivi. Qualcuno sarà stato divorato." "Se la incontreremo cercheremo di aiutare quei disgraziati. Possiedo ancora dei viveri sufficienti per nutrirci un mese e spero di non aver bisogno di tanto per raggiungere la costa. Coricati su quel materasso, ragazzo mio e riposati: tu devi essere sfinito. Quando ti sveglierai potrai mangiare a piacimento." In quell'istante un urto violento fece oscillare fortemente la scialuppa e un nembo di spuma balzò sopra i bordi. "Le onde!" esclamo O'Donnell, che si era curvato sull parapetto. "Tocchiamo la superficie dell'oceano." "Ci eravamo dimenticati di scaricare della zavorra," disse l'ingegnere. "Questo ragazzo non pesa molto, ma gli aerostati non vogliono saperne di sopraccarichi." O'Donnell prese un sacco di zavorra di cinquanta chilogrammi e lo precipitò nell'oceano. Il Washington subito si rialzò, tendendo le corse delle àncore e la guide-rope. "Vento da sud-ovest," disse l'ingegnere, gettando uno sguardo sul mostra-vento appeso all'asta della bandiera e un altro alla bussola. "Partiamo!" Rovesciarono i due coni e trassero a bordo la guide-rope. I due immensi fusi salirono lentamente e, raggiunti i quattrocento metri, si misero a filare verso il nord-est, in direzione delle Canarie. Il mozzo, stremato dalle lunghe veglie e dai lunghi digiuni, si era coricato e dormiva tranquillamente sul materasso un tempo occupato dal disgraziato Simone; l'ingegnere, che aveva terminato il suo quarto di guardia, l'aveva imitato e O'Donnell si era collocato a prua, fumando. La notte era oscura assai. Uno strato di vapori, che a poco a poco si erano accumulati nelle profondità degli spazi celesti, intercettava completamente la debole luce degli astri. Giù, in fondo, l'oceano brontolava sordamente e si udivano le onde, sollevate dal vento che era diventato assai fresco, urtarsi e sfasciarsi. Di quando in quando, su quei flutti d'inchiostro si vedevano balenare dei punti luminosi che tosto scomparivano. Probabilmente erano pesce-cani, le bocche dei quali, di notte, diventano fosforescenti. Il Washington marciava con rapidità di venti chilometri all'ora, ma la sua direzione non era stabile. Sovente la corrente d'aria cambiava e lo spingeva ora verso il nord ora verso l'est e qualche volta lo ricacciava verso il sud. Alle dieci del mattino, però, la corrente del sud-ovest ebbe il sopravvento e trascinò l'aerostato verso il nord-nord-ovest, con una velocità superiore ai quaranta chilometri all'ora. Se continuava in quella direzione, gli aeronauti non dovevano tardare a scoprire qualche terra. Alle quattro, mentre cominciava a disegnarsi verso oriente una bianca striscia di luce, una pioggia violenta si scatenò sull'oceano. I vapori che durante la notte si erano condensati sopra quella porzione dell'Atlantico, si scioglievano rapidamente. Quei grossi goccioloni, cadendo sulla seta dei due palloni, producevano degli strani crepitii e rendevano pesante il vascello, il cui gas non aveva ancora cominciato a dilatarsi. O'Donnell, che era sempre di quarto, s'accorse ben presto che scendeva verso l'oceano con notevole velocità. Dopo pochi minuti scorse le onde dell'Atlantico a sole quaranta braccia. Svegliò Mister Kelly e lo informò di quella rapida caduta. "Gettiamo zavorra," disse l'ingegnere. "Ne abbiamo gettati altri cinquanta chilogrammi ieri sera, Mister Kelly," disse l'irlandese. "È necessario alleggerirci, O'Donnell". "Ma fra poco rimarremo senza, se continuiamo questo getto." "Abbiamo ancora trecento metri cubi d'idrogeno." "Vada la zavorra, dunque." Un altro sacco fu gettato. Il Washington s'innalzò con rapidità, attraverso lo strato nuvoloso, inzuppando uomini, coperte e materassi e si arrestò a milletrecento metri, filando sopra le masse vaporose. Lassù il vento soffiava gagliardo, mantenendo la direzione di nord-nord-est, con grande soddisfazione dell'ingegnere che sperava di risalire verso l'Europa, evitando la grande corrente dei venti alisei che potevano spingerlo nell'Atlantico centrale. Alle otto del mattino, l'aerostato era salito di altri millecinquecento metri avendo cominciato il dilatamento dell'idrogeno a causa del calore solare che era ancora intenso, quantunque gli aeronauti si fossero allontanati assai dal Tropico del Cancro. Alle dieci, O'Donnell, che stava seduto a prua discorrendo col mozzo, segnalò un grande transatlantico che filava verso l'occidente con una velocità di quarantadue chilometri all'ora e al basso, a circa ottocento metri dalla superficie dell'oceano, si estendevano ancora qua e là dei nuvoloni gravidi di pioggia, i quali erano separati da brevi distanze. Alle undici, l'ingegnere che da parecchio tempo guardava ostinatamente verso l'est, mostrò a O'Donnell una specie di nebbia, ma che si alzava in forma di cono e che appariva a una grandissima distanza. "Che cos'è?" chiese l'irlandese. "Laggiù si estendono le isole Canarie," rispose l'ingegnere. "Le Canarie!" esclamò O'Donnell. "È impossibile, signore, che vi siamo giunti così presto!" "Giunti? Vi è ancora un bel tratto di via da percorrere, amico mio." "Se si scorge una delle loro montagne, non devono essere molto lontane." "Ma quel picco che voi scorgete è quello di Teneriffa, il quale è tanto alto che lo si scorge dalla distanza di più di duecento chilometri." "Abbiamo del tempo per giungere a quell'arcipelago" "Se mai lo toccheremo, poiché il vento ci spinge al largo di quelle isole." "Formano un gruppo considerevole, quelle terre?" "Le isole sono cinque, la Gran Canaria, Palma, Lanzarate, Geneira, Ferro; poi vengono le isolette di Labos, Roqueta, Alegranza, Santa Giara e Graciosa, ma pare che un tempo fossero undici." "È scomparsa l'undicesima?" "Così si dice." "Non si crede forse alla sua scomparsa?" "Sì e no." "Spiegatevi meglio, Mister Kelly." "Allora vi dirò che le antiche cronache portoghesi fanno menzione di un'isola che si chiamava S. Bernardo. Si dice che alla prima metà del XV secolo, un vecchio marinaio si presentasse al re Enrico confidandogli di aver veduto nei pressi delle Canarie un'isola abitata da antichi portoghesi e sulla quale sorgevano sette opulente città con grandiosi palazzi. Narra ora la leggenda che un ricco cavagliere portoghese, certo Don Fernando de Ulmo, partisse con due caravelle armate a proprie spese, alla ricerca di quell'isola misteriosa che supponeva abitata da portoghesi fuggiti dalla patria durante l'invasione dei mori, cioè nell'VIII secolo. Fernando de Ulmo sarebbe partito, avrebbe sbarcato a S. Bernardo, splendidamente accolto da parte dei suoi compatrioti i quali lo avrebbero nominato loro adelantado. Ma ecco che comincia una storia meravigliosa e assai stravagante. La leggenda dice che, un secolo dopo, Fernando de Ulmo ritornava a Lisbona ... " "Cent'anni dopo?" chiese O'Donnell. "Sì, ma è la leggenda che narra questo amico mio. Si fece conoscere, ma lo trattarono da pazzo: più nessuno si ricordava di lui e del suo viaggio all'isola delle sette opulente città, essendo i suoi amici e i suoi parenti morti da molti anni. Un vecchio, però, si rammentò di aver udito raccontare, nella sua gioventù, che un Ulmo era partito per le Canarie e condusse il navigatore presso una tomba dove era scolpito il suo ritratto, che gli somigliava assai, malgrado l'età. Ulmo ripartì per le Canarie per ritrovare la sua isola, ma era scomparsa. Morì poco dopo mentre sul promontorio di Palma cercava avidamente con gli sguardi le tracce di quella misteriosa terra, e fu sepolto nella cattedrale dell'isola." "Ma credete che sia realmente esistita quell'isola?" "E perché no? Le Canarie sono di natura vulcanica e quell'isola può essere stata inghiottita durante qualche terribile commozione del fondo marino. Gli abitanti dell'arcipelago e i naviganti portoghesi e spagnuoli dicono che, di quando in quando, specie allorché i crateri di Teneriffa eruttano e il terremoto scuote le isole, quell'isola riappare a fior d'acqua per poi tornare a inabissarsi."

La zattera, poiché era proprio quella che il mozzo aveva abbandonata sei giorni prima, era ormai visibile. Era un ammasso informe di legnami, di travi, di pennoni, di pezzi di fasciame, di tavole legate con cordami e catene, e sormontato da un troncone d'alberetto, da cui pendeva una vela stracciata. Undici uomini montavano quella zattera, undici miserabili, coi volti bestiali, le membra ischeletrite dai lunghi digiuni, con le barbe arruffate e coperti di stracci Alcuni impugnavano delle scuri e due tenevano dei fucili; pareva che minacciassero il pallone, decisi a rovinarlo con una scarica, piuttosto di lasciarlo andare. A prua di quello strano galleggiante, gli aeronauti scorsero, non senza un fremito d'orrore, gli avanzi di due scheletri umani gettati dietro a due barili sfondati. Non ci voleva molto a comprendere che quegli sciagurati, rosi dalla fame, si erano pasciuti delle carni di quelle due vittime. "Orrore!" esclamò O'Donnell. "Questa è una seconda edizione del naufragio della Medusa ... " "La fame non discute, O'Donnell" disse l'ingegnere. "Orsù, cerchiamo di soccorrerli nel limite delle nostre forze." "Ci lasceranno liberi poi?" "Taglieremo le funi." "E le nostre àncore?" "Piuttosto di farmi trascinare sulla zattera, preferisco sacrificarle." "Temo che quest'incontro ci porti sfortuna, Mister Kelly." L'ingegnere non rispose. Esaminò rapidamente la sua dispensa, scelse parecchie scatole di carne conservata, ammucchiò in una cassa qualche decina di chilogrammi di biscotti, vi unì dello zucchero e delle scatole di tonno. "Caliamo questi viveri" disse. "Mettendosi a razione, quegli uomini possono vivere qualche giorno e guadagnare le Canarie, che non sono lontane." "Ma non abbiamo funi per calare questa cassa" disse O'Donnell. "La faremo scorrere lungo una fune di un'ancora. Aiutatemi, amici." I naufraghi, comprendendo che il soccorso stava per giungere, avevano cessato le loro grida minacciose, ma non abbandonarono i due coni, che avevano tratti presso la zattera per impedire la fuga dell'aerostato. Coi visi in aria, gli occhi fissi, non perdevano di vista una mossa degli aeronauti. L'ingegnere e O'Donnell, legata la cassa attorno alla fune dell'ancora poppiera, la lasciarono andare gridando: "Attenti alle teste!" La cassa filò lungo la fune e piombò sopra il cono. I naufraghi vi si precipitarono sopra urtandosi e respingendosi per essere i primi a metter le mani su quei viveri, la tirarono a bordo e con pochi colpi di scure la sfondarono. Ad un tratto un urlo di furore scoppiò fra quei disgraziati. "E l'acqua! ... Noi vogliamo dell'acqua!" urlarono, tenendo le mani raggrinzite verso gli aeronauti. "Ne abbiamo appena per noi" disse l'ingegnere. "Dateci la vostra acqua, canaglie!" tuonò Mac-Canthy. "Ti schiaccio nel cranio una palla, brigante!" urlò O'Donnell. "La canaglia sarai tu!" "A me amici!" gridò il marinaio. "Tiriamoli giù!" "Sì, giù, giù, o dateci la vostra acqua!" urlarono i marinai furiosi. L'ingegnere raccolse il winchester e lo armò risolutamente, mentre O'Donnell impugnava una scure, pronto a tagliare le funi. "Il primo che tocca le àncore lo uccido come un cane!" tuonò Mister Kelly con tono minaccioso. I naufraghi, lungi dal calmarsi a quella minaccia, inferocirono maggiormente: si precipitarono sulle funi e diedero una tale strappata, da abbassare l'aerostato di parecchi metri. "Tagliate, O'Donnell!" gridò l'ingegnere. L'irlandese con due colpi di scure assestati sui bordi della navicella, sui quali poggiavano le due funi, liberò l'aerostato, il quale fece un balzo in aria. Vedendo fuggire e precipitare le funi, i naufraghi emisero urla feroci. I due uomini armati alzarono le armi e fecero fuoco. Una palla passò fischiando rasente il bordo poppiero della navicella e si perdette altrove; l'altra non fu udita. O'Donnell, furibondo, armò una carabina, e la puntò contro la zattera, ma l'ingegnere lo trattenne. "È inutile" disse. "Lasciateli: la fame e la sete non ragionano." "Sono canaglie, Mister Kelly, che non conoscono la riconoscenza. Avrei cacciato ben volentieri una palla nel corpo a quel brutale Mac-Canthy." "È lui che voleva mangiarmi" disse il mozzo. "Ma spero che sarà lui il mangiato, Walter" disse O'Donnell. Il Washington intanto s'innalzava rapidamente, alleggerito com'era di quei duecento e più metri di funi e di coni. I naufraghi nondimeno continuavano le loro minacce e tiravano coi loro fucili, quantunque l'aerostato fosse ormai fuori portata. La loro rabbia parve che non avesse più limiti, dopo che si erano accorti della presenza di Walter, e si udiva la rauca voce di Mac-Canthy che urlava: "Scendi, cane di un mozzo!" Vedendo il Washington dirigersi verso il sud, quegli uomini, che parevano diventati pazzi, si precipitarono sulla vela, che in un istante fu bracciata sul filo del vento, poi s'armarono di tavole e di pennoni, mettendosi ad arrancare con furore: però dovettero ben presto convincersi dell'inutilità dei loro sforzi. La distanza cresceva rapidamente, di secondo in secondo: le loro grida divennero fioche, poi non si udirono più; la zattera rimpicciolì a poco a poco e finalmente fu perduta di vista. "Che l'oceano v'inghiotta, canaglie!" esclamò O'Donnell che era ancora esasperato. "Bel modo di ricompensarci dei viveri che abbiamo loro gettato." "Le privazioni li hanno resi feroci, O'Donnell disse l'ingegnere. "Nel loro caso noi, forse, ci saremmo condotti egualmente." "Che il diavolo se li porti! Ecco delle àncore perdute, che forse rimpiangeremo." "Questo é vero, O'Donnell, poiché ormai noi non possiamo più fermarci. Siamo in balìa dei venti." "Perdita grave e ... " Si era arrestato col viso in aria, fiutando l'atmosfera. Ad un tratto impallidì ed emise una sorda imprecazione. "Mister Kelly" disse con voce alterata "sentite odore di gas." "Sì, sì" disse l'ingegnere. "Che una valvola si sia aperta o che ... ?" "Una valvola? ... È impossibile. O'Donnell. Qualcuno ha guastato i nostri palloni." "Una palla di quelle canaglie, forse?" Kelly, che non era meno agitato dell'irlandese, salì sull'asta che sosteneva la scialuppa, e ascoltò con profondo raccoglimento. In alto, udì dei leggeri scoppiettii. "Infami!" esclamò. "E io li ho soccorsi!" Ridiscese in preda ad una sorda collera: se la zattera si fosse trovata ancora sotto il pallone, non avrebbe forse più trattenuto O'Donnell, che voleva rispondere alle palle di quei miserabili con la grossa carabina. "Ebbene?" chiese l'irlandese con ansietà. "L'idrogeno fugge" rispose l'ingegnere. "Ci hanno traversato un pallone quei naufraghi?" "Sì e forse tutti e due." "Sono ferite gravi?" "Sì, O'Donnell, perché fra poco quei fori s'ingrandiranno, e noi cadremo sull'oceano." "Se provassimo a turarli? Non v'è qualche mezzo?" "Sì, cucirli, ma chi salirà fino ai fusi?" "Io, Mister Kelly." "No, Mister O'Donnell" disse il giovane Walter, "è affar mio." "Non avrai paura delle vertigini, ragazzo mio?" chiese l'ingegnere . "Sono un mozzo, Mister Kelly." "Ma ci troviamo ad una spaventevole altezza, Walter: a 3300 metri." "Non avrò paura" rispose il ragazzo con voce ferma. "Ma può scivolarti una mano o un piede e tu potresti piombare nell'oceano" disse O'Donnell. "Lascia che vada io." "Voi siete troppo pesante, O'Donnell" disse l'ingegnere "e potete squilibrare il fuso. Preferisco che salga Walter, che non pesa molto." "Grazie, Mister Kelly" rispose il ragazzo. L'ingegnere frugò in una delle casse ed estrasse del filo di seta, degli aghi e una scatoletta contenente una vernice assai densa e molto attaccaticcia, che mandava un acuto odore di resina. Consegnò quei diversi oggetti al mozzo, dicendogli: "Non perdete tempo, mio bravo ragazzo. Ogni minuto che passa è un metro cubo di gas che sfugge." Walter intascò gli oggetti, si levò le scarpe per non guastare la seta dei palloni e per essere più sicuro dei piedi, poi si aggrappò alle funi e s'arrampicò coraggiosamente sull'asta sostenente la scialuppa. "Hai paura?" gli chiesero O'Donnell e l'ingegnere. "Se ti coglie un principio di vertigine, scendi." "Il vuoto non mi spaventa" rispose il ragazzo con voce ferma. S'aggrappò alla rete e s'innalzò sopra quello spaventevole abisso aperto sotto i suoi piedi. Di maglia in maglia raggiunse il margine inferiore del fuso di tribordo e si issò sul suo fianco, cercando i buchi aperti dalla palla. Il fuso, sotto quel peso aggrappato al suo fianco, si spostò, inclinandosi verso l'esterno, ma essendo solidamente legato all'altro non si rovesciò. "Ci sei?" chiese l'ingegnere, che non scorgeva più il mozzo. "Sì, Mister Kelly" rispose Walter. "È un buco o uno strappo?" "E uno strappo lungo sei centimetri; e ne vedo uno più lungo sull'altro fuso." "Puoi turare le ferite?" "Lo spero, Mister Kelly." Il mozzo si mise subito all'opera. Le palle, invece di aver attraversato i fusi aprendo due fori, come dapprima l'ingegnere aveva sospettato, li aveva sfiorati di fianco, producendo però due strappi considerevoli, attraverso i quali il gas fuggiva con grande impeto, scoppiettando. Si potevano turare ma, prima che l'operazione fosse terminata, una parte considerevole di idrogeno doveva fuggire, compromettendo grandemente la stabilità del Washington il quale cominciava ad abbassarsi rapidamente, inclinandosi sul tribordo. Walter, legatesi un fazzoletto sulla bocca e sul naso per non venire asfissiato dal gas che irrompeva attraverso l'apertura, si mise rapidamente al lavoro, mentre l'ingegnere e O'Donnell preparavano i cilindri contenenti l'idrogeno compresso per iniettarlo nelle manichette dei fusi. Malgrado il mozzo cucisse rapidamente, il Washington si piegava sempre più e s'abbassava rapidamente, anzi precipitava. In cinque minuti era calato di 1500 metri e non si arrestava ancora. L'ingegnere che vedeva avvicinarsi l'oceano con grande rapidità, aprì il primo cilindro e lanciò nel fuso riparato i primi quaranta litri di idrogeno. Il Washington si raddrizzò e la sua discesa si arrestò, anzi si mise a salire, dapprima lentamente, poi con una certa rapidità, finché raggiunse i 3200 metri. Il mozzo aveva terminato la cucitura. La coprì con parecchie pennellate di vernice, si assicurò che non vi fossero altre aperture, poi ridiscese, passò altro fuso e ripeté l'operazione sulla seconda ferita, che era più grave dell'altra. Pareva fosse stata fatta con un proiettile tagliente. "Hai finito?" gli chiese l'ingegnere. "Sì, Mister Kelly." "Grazie, mio bravo ragazzo. Rinforziamo anche il secondo fuso." "Resisteranno le cuciture?" cinese O'Donnell. "Non ho la pretesa che non lascino sfuggire il gas" disse l'ingegnere, "ma infine la perdita sarà minore e, forse, potremo sostenerci in aria qualche giorno ancora. "E poi? ... il vento ci spinge sempre al sud, Mister Kelly e la costa è lontana." L'ingegnere non rispose, ma emise un profondo sospiro.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

682231
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Quella barca era stata cosí crivellata dalle palle spagnuole che, trovandosi i filibustieri sul punto di annegarsi, l'avevano abbandonata coi prigionieri che conteneva. Questi ultimi, vedendosi cosí liberi, non avevano indugiato a prendere i remi per farsi raccogliere dai loro compatriotti. L'ammiraglio spagnuolo invece, avendola presa per un brulotto nemico, mosse ad incontrarla sul vascello e vi fece far fuoco sopra piú presto che poté, affondandola; e cosí fu, senza saperlo, lo sterminatore di quei disgraziati. Essendo, durante il combattimento, aumentata la furia del vento e delle onde, la flottiglia dei filibustieri fu in breve dispersa. Parecchi legni scomparvero dopo quella fatale giornata, né si ebbe di loro piú alcuna nuova. Gli altri, riunitisi finalmente, si rifugiarono all'isola di S. Giovanni, lontana solamente cinque leghe dal continente. Ma la discordia, dopo quel disastro, non tardò a nascere specialmente fra inglesi e francesi, essendo i primi protestanti ed i secondi cattolici. Sembrerà strano, eppure quei ladroni di mare ci tenevano alle loro religioni, singolarmente poi gl'inglesi in quei tempi del furore delle sette che tenevano il loro paese diviso. Essi mal soffrivano i loro camerati quando li vedevano salvare, nei saccheggi, i simboli della chiesa romana. Centotrenta francesi si stabiliscono sull'isola di S. Giovanni, ingrossati con altri duecento, che aveva condotto un capitano chiamato Grogner, il quale aveva pure girato il capo Horn; gl'inglesi invece riprendono la via dello stretto per far ritorno al golfo del Messico. Erano pochi eppure risoluti e quanto mai audaci. Dall'isola lanciano le loro navi in tutte le direzioni, prendendo quanti velieri incontrano, poi portano la guerra sull'istmo. Prendono d'assalto la piccola città di Leon e di Esparso e abbruciano Ralejo, spargendo ovunque un terrore immenso. Siccome ladroni di tale specie non se ne erano mai veduti in quei paraggi, gli abitanti fuggono dovunque spaventati, credendoli in buona fede demoni in carne umana. Invece di combatterli, li fanno maledire dai loro sacerdoti con esorcismi e contro di loro fanno alzare le cose piú sacre che abbia la religione, non diversamente che se avessero combattuto l'inferno. Gli spagnuoli, pressati da tanta rovina, cercano di temperare il flagello mandando a Grogner una lettera del vicario generale di Costarica, colla quale lo avvertivano essersi fatta la pace fra la Spagna e le potenze di Francia e d'Inghilterra e che il viceré di Panama metteva a loro disposizione parecchie navi per ricondurli in Europa. I filibustieri, che non erano cosí ingenui da accettare una simile proposta, che li avrebbe messi in balìa del nemico, per tutta risposta assaltano la città di Nicoya e la mettono a sacco e la bruciano, non salvando dalla distruzione che le chiese e tutti gli oggetti del culto cattolico. Le cose erano giunte a questo punto quando un mattino, mentre i filibustieri stavano allestendo alcune vecchie barcaccie per intraprendere qualche altra audace scorreria, videro approdare alla loro isola, che era diventata una piccola Tortue, sette scialuppe montate da un centinaio e mezzo d'uomini. Erano i corsari del conte di Ventimiglia e di Raveneau de Lussan. Quei valorosi, dopo aver conquistata e saccheggiata Pueblo-Viejo, avevano fatto una marcia rapidissima verso l'Oceano Pacifico, per portarsi a quell'isola dove erano sicurissimi di trovare dei soccorsi. Evitando con cura le città ed i villaggi, marciando sempre attraverso le boscaglie per non imbattersi nei corpi spagnuoli che il viceré di Panama, allarmato da quei continui attacchi, aveva lanciato in tutte le direzioni, risoluto a ricacciare in mare quei pericolosissimi nemici, erano giunti felicemente sulle sponde del grande Oceano, impadronendosi per sorpresa di un numero abbastanza rilevante d'imbarcazioni tolte ai pescatori della costa. Non giungevano però a San Giovanni di Pueblo in un momento felicissimo. Pochi giorni prima, una flotta composta di quindici legni spagnuoli aveva fatto la sua comparsa in quelle acque, costringendo Grogner ed i suoi uomini ad abbruciare piú che in fretta la loro fregata e gli schifi che possedevano, perché non cadessero nelle mani dei loro nemici. Fortunatamente gli spagnuoli si erano contentati di portar via le ferramenta del vascello e di distruggere quanto era rimasto di esso, senza osare di inoltrarsi nell'isola. La notizia dell'arrivo del figlio del Corsaro Rosso con Raveneau de Lussan, reduci dalla presa di Pueblo-Viejo, non aveva mancato di produrre una profonda emozione e anche di rialzare immensamente il morale dei filibustieri i quali, distrutta la loro flottiglia, non si trovavano piú in grado di riprendere le loro scorrerie verso il continente. Grogner, avvertito dell'approdo del nipote del famoso Corsaro Nero e cugino del non meno famoso Morgan, il conquistatore di Panama, si era affrettato a muovergli incontro. Già la notizia che un parente dei piú celebri filibustieri del Golfo del Messico veleggiava in quelle acque, era giunta fino all'isola. Grogner non era un gentiluomo come Raveneau de Lussan, tuttavia godeva fama di essere uno dei piú arditi corsari di quell'epoca. Aveva esordito, come quasi tutti i filibustieri, come mozzo; aveva combattuto in Francia, in Inghilterra ed in Olanda, poi era passato in America, desideroso di fare una rapida fortuna. Era giunto però troppo tardi, quando ormai le città del golfo del Messico erano state completamente rovinate dall'Olonese, da Montbars, dai tre corsari, da Grammont, da Wan Horn, da Morgan e da tanti altri non meno famosi. Aveva quindi seguito le tracce di Davis, girando il capo Horn ed era giunto ancora in tempo per fare dei bei colpi contro le cittaduzze dell'America centrale, aiutato da trecento disperati, che non avevano paura né degli archibugi, né delle artiglierie spagnuole e tanto meno delle loro squadre. Narrano le cronache di quel tempo che rassomigliava un po' a Morgan e che quantunque di statura mediocre possedeva una forza muscolare straordinaria ed un coraggio a tutta prova. Come abbiamo detto, udendo che il capo dei filibustieri sbarcato a San Giovanni di Pueblo era il figlio del Corsaro Rosso, si era affrettato a muovergli incontro, dicendogli: - Signor conte, vi si aspettava qui. Tutti i vecchi filibustieri hanno conosciuto e hanno combattuto sotto il comando dei tre corsari che hanno portato, sia pure per una loro vendetta privata, un terribile colpo alla potenza spagnuola del Golfo del Messico. Ecco la mia mano, ed ecco i miei uomini pronti a seguirvi dove voi vorrete. - Era appunto di voi che io avevo bisogno, - rispose il corsaro. lo sono venuto qui per proporvi una terribile impresa. - Voi sapete, signor conte, che nessuna impresa ha spaventato mai i Figli della Costa, come ci hanno chiamato noi per tanti lustri. Che cosa volete da noi? ... - La conquista di Nuova Granata, - rispose il signor di Ventimiglia. - Diamine, - disse Grogner. - È come domandare la testa del governatore di Panama o la presa di Messico o di Cuzco. Nuova Granata è una delle città piú fortificate del Nicaragua, signor conte. - Avreste paura? La prenderemo io ed il signor di Lussan. - Diamine, non correte tanto, signor conte. Là vi sono dei tesori favolosi da raccogliere ... - Che io sono pronto a rinunciare a beneficio dei vostri uomini e di quelli del signor di Lussan. - Si sa che i tre famosi corsari erano ricchissimi, - rispose Grogner. Che cosa chiedete per vostra parte? - Un uomo. - Un prigioniero? - chiese con stupore il filibustiere. - Niente di piú. - Che diavolo! ... Un uomo prezioso senza dubbio. - Il marchese di Montelimar. - Il governatore di Pueblo-Viejo? - Precisamente. - Vi è scappato? Mi hanno detto che voi avete presa d'assalto quella città, signor conte. - Ma ho avuto il torto di giungere troppo tardi, signor Grogner. - Quanti uomini avete? - Centocinquanta, con quelli di Raveneau de Lussan. - Ed altrettanti ne ho io, - rispose Grogner. - Se Pietro l'Olonese con un terzo delle nostre forze ha espugnato Maracaibo e poi Gibraltar, io sarei ben sorpreso se non si potesse prendere d'assalto Nuova Granata, prendere il marchese, molte piastre e fare anche parecchi prigionieri, signor conte. Voi avete sette schifi, mi hanno detto. - Sí, signor Grogner. - Il marchese è in quella città? - Ne sono sicuro. - Via - disse il filibustiere, dopo qualche istante di silenzio. Andremo a vedere se i cannoni che difendono il forte di Nuova Granata saranno carichi con ferro o con acqua calda. Al figlio del Corsaro Rosso un filibustiere che si rispetta non può rifiutare nulla. Signor conte, vi offro ospitalità nella mia povera tenda e domani partiremo. - Ecco un uomo, - disse don Barrejo, il quale aveva assistito al colloquio, tenuto sulla spiaggia, rivolgendosi verso i due inseparabili amici: il fiammingo e Mendoza. - Un vero filibustiere, - rispose il basco. - Siete mai stato in quella città, signor Mendoza? - Siccome non ho mai avuto alcuna premura di prendere un passaporto per l'altro mondo, cosí mi sono sempre ben guardato di mettere i piedi nelle città difese da troppi cannoni. - Troveremo delle taverne, io spero! ... - Che i granatini bevano dell'acqua? - disse il fiammingo. Io non lo crederò mai. - E nemmeno io, don Barrejo, - aggiunse Mendoza. - Là troveremo forse delle botti migliori di quelle che abbiamo assaggiato a Pueblo-Viejo. Granata fornisce di vini Panama e, siccome a Panama si trovano un viceré e degli altissimi funzionari, sono piú che certo che troveremo delle cantine meravigliosamente fornite. Mi stupite però, signor guascone. - Perché? - chiese lo spadaccino. - Si direbbe che voi siete diventato un filibustiere piú pel desiderio di assaggiare i vini spagnuoli che per avidità di guadagno. Eppure i dobloni non vi spiacciono, mi pare. - Quelli verranno piú tardi, - rispose il guascone. - Cerchiamo un posto dove si possa mangiare e bere. Qualche doblone passeggia ancora per le mie tasche e se si può berlo e mangiarlo, niente di meglio. Diamine! ... Un guascone è sempre generoso. Non era difficile all'isola di S. Giovanni di Pueblo spendere dei denari, poiché i filibustieri che vi si erano rifugiati ne avevano fatto, come abbiamo detto, una piccola Tortue. Malgrado le continue minacce degli spagnuoli, quei formidabili scorridori del mare si divertivano allegramente, profondendo le ricchezze guadagnate nei saccheggi, con una prodigalità da nababbi. Dei meticci, giunti dal continente ben provvisti di viveri e soprattutto di vini e di liquori, avevano piantate le loro baracche, vendendo a prezzi esorbitanti i loro generi. I filibustieri, da veri ladroni, non badavano a pagare. Che cosa costava d'altronde a loro il denaro? E come ne erano sempre ben provvisti! ... I tre compagni si cacciarono quindi sotto una immensa tenda, dove molti uomini bevevano allegramente o giuocavano o danzavano con alcune prigioniere spagnuole al suono di alcune chitarre suonate da negri. - Questo è il paese della cuccagna, - disse don Barrejo, sedendosi all'estremità d'una lunghissima tavola. - Io scommetto che le donne spagnuole non si sono mai divertite tanto, come quando si sono trovate con questi briganti. - Adagio, signor guascone, - rispose il basco. - Talvolta questi divertimenti costano cari alle prigioniere ed ai prigionieri. - Perché? Non si rispettano quelle signore? - Anzi si rispettano moltissimo e guai al corsaro che osasse comportarsi da villano contro le prigioniere. Talvolta però giungono i giorni tristissimi ed i sorrisi di quelle disgraziate si tramutano in lagrime di sangue. - Che cosa volete dire? - Che quando i loro parenti ed i governatori non mandano i riscatti, i filibustieri non esitano a far estrarre ai prigionieri, siano uomini o donne, la sorte. - E cosí? - Quello o quella che ha avuto la sfortuna di levare una palla nera, si decapita e la testa si manda al governatore per costringerlo a pagare. - Ciò è brutto. - Che cosa volete? È la guerra. Gli spagnuoli d'oltremare non sono piú generosi e quando riescono a prendere qualcuno di noi l'appiccano senza misericordia. - Guardiamo dunque di non farci prendere, - disse il fiammingo. Si fecero portare delle bottiglie e del prosciutto salato e si misero a bere ed a mangiare. Avevano però appena vuotata qualche tazza, quando un rimbombo assordante li fece balzare in piedi. - Il cannone! - aveva gridato don Barrejo. Tutti i filibustieri che si trovavano sotto la tenda si erano precipitati fuori, prendendo i loro archibugi, mentre le donne strillavano ed i chitarristi scappavano, gettando via gli istrumenti. - Che cosa succede dunque? - chiese il guascone, snudando la sua draghinassa. - Queste sono cannonate spagnuole, - rispose Mendoza. A loro volta erano corsi fuori, slanciandosi verso la piccola baja dove trovavasi ancorata la flottiglia dei filibustieri, la quale si componeva d'un vascello e d'una mezza dozzina di barcaccie. Una grande confusione regnava sulle sponde del porticino, dove si erano radunati tutti i filibustieri dell'isola. Vi erano anche il conte di Ventimiglia, Grogner e di Lussan. In lontananza il cannone continuava ancora a tuonare. Quindici vascelli muovevano lentamente verso l'isola, disposti su due colonne. Era la flotta spagnuola del Pacifico, incaricata di impedire il passo ai corsari che provenivano dal Capo Horn o dallo stretto di Magellano, flotta imponente che avrebbe potuto purgare per sempre quei mari da quegli audaci ladroni, se l'avessero voluto. - Signor conte, - disse Grogner al figlio del Corsaro Rosso, con voce un po' alterata. - Siete giunto in un cattivo momento. - Non mi pare, - rispose il signor di Ventimiglia, - poiché vi ho condotto dei rinforzi. - Non potremo resistere ad una squadra cosi potente. Non ho che un vascello e delle barcaccie. - Fate tirare a terra le barcaccie e gli schifi e nascondeteli sotto le foreste. - Ed il vascello? - Incendiatelo perché non venga preso dagli spagnuoli. Spicciatevi, signor Grogner e poi ritiriamoci nell'interno dell'isola. Se vorranno assalirci, sapremo difenderci. Gli ordini furono subito dati. Mentre una partita di corsari saliva a bordo della nave, radunando quanto catrame si trovava nella stiva e lo incendiava, gli altri s'affannavano a mettere in salvo le migliori barcaccie e le scialuppe, per non rimanere sprovvisti completamente di mezzi di trasporto, capaci più tardi di far loro raggiungere il continente. La squadra spagnuola, sicura del fatto suo, aveva intanto incominciato a sparare tremende bordate, specialmente contro il vascello il quale già era stato sgombrato rapidamente. - Perdinci! - esclamò il guascone. - Questa volta gli spagnuoli fanno sul serio. Signor basco, giacché i nostri compagni scappano, lavoriamo di gambe anche noi. I colpi di spada li ricevo volentieri, ma non ho provato mai alcuna affezione per le grosse palle che tagliano in due senza nemmeno dirvi: guarda che ti ammazzo, imbecille! I filibustieri infatti, messe in salvo le imbarcazioni, scappavano da tutte le partì, mentre i proprietarii delle baracche, aiutati dai loro negri, cercavano di portare via il meglio che possedevano, per non lasciarlo cadere nelle mani degli spagnuoli. Le cannonate intanto non cessavano. Le palle cadevano come una fitta gragnuola sulla spiaggia e sul vascello, il quale già avvampava rapidamente, eruttando dai boccaporti spalancati immense nuvole di fumo. Era una squadra veramente imponente, composta di galeoni, di fregate e di grosse caravelle e montata da duemila marinai. I filibustieri, guidati dal signor di Ventimiglia, da Grogner e da Raveneau de Lussan, si erano intanto affrettati a mettersi in salvo su una collina situata quasi nel mezzo dell'isola e perciò fuor di portata dalle artiglierie della flotta; artiglierie, che come abbiamo detto, in quei tempi avevano una portata molto limitata. Erano tuttavia assai inquieti, temendo un poderoso assalto da parte degli equipaggi. Fortunatamente nulla di grave accadde. La squadra, dopo aver cannoneggiate le baracche, sbarcò alcune centinaia d'uomini per raccogliere le ferramenta del vascello corsaro distrutto dall'incendio, e qualche ora dopo riprendeva la sua rotta veleggiando verso Panama. - Corpo di un bue! - esclamò il guascone, il quale osservava tutte quelle navi maestose, dall'alto della collina. - Avrebbero potuto distruggerci e hanno preferito invece andarsene. Buon viaggio, signori e che Dio vi guardi dalle tempeste. Si levò il feltro e salutò la squadra, facendo nel medesimo tempo un inchino cosí profondo da far scoppiare dalle risa non solamente il basco, bensí anche il conte di Ventimiglia e Grogner che gli stavano presso.

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

. - E perchè i superstiti non hanno abbandonata l'isola? - Pare che amino assai il loro suolo ingrato e malsicuro e poi credo che in nessun altro luogo potrebbero godere tanta libertà. Quantunque appartengano a razze diverse, essendovi inglesi, americani, malesi, bughisi, macassaresi e cinesi, vivono in perfetta armonia e sul piede d'una completa eguaglianza. Si può anzi dire che quegli isolani hanno risolto il famoso problema sociale e con soddisfazione generale, perchè sono retti da una specie di comunismo. Il loro capo è il più vecchio abitante dell'isola, con poteri limitati. Lavorano in comune, si istruiscono a vicenda, e non conoscono il valore del denaro che per loro rappresenta una mera curiosità. Perfino le donne, che sono molto più numerose degli uomini, si sono adattate ai lavori mascolini, onde ovviare il pericolo che vi possano essere persone più bisognose di venire nutrite che non lavoratori costretti a nutrirle. - Un'isola meravigliosa! - esclamò il dottore. - Sotto un certo aspetto è veramente ammirabile, - disse Yanez. - Sono molti anni che è popolata? - Dal 1810, perchè prima non vi erano che bande di uccelli marini. Un disertore inglese, certo Granvill, fu il primo ad approdare insieme ad un suo compatriotta e ad un americano. Più prepotente degli altri due, con un editto si proclamava re dell'isola e dei due isolotti vicini. Pare però che ciò non gli portasse fortuna, perchè quando nel 1818 il governo inglese inviava una nave a prenderne possesso, non viveva che l'americano. Era possessore di molto oro, moneta affatto inutile fra quelle rocce e che avrebbero potuto godere in patria. Pure invitato a tornarsene in America, oppose un rifiuto categorico. A poco a poco sbarcarono dei malesi e anche dei bughisi e degli inglesi. Nel 1865 la popolazione aumentò d'un colpo avendo, in quell'epoca, un corsaro americano, sbarcato quaranta prigionieri, presi durante la guerra di secessione. Quell'aumento di popolazione rese ben dura la vita agli isolani, essendosi dimenticato il corsaro di sbarcare dei viveri, nondimeno a poco a poco la colonia prosperò e continuò ad aumentare. Forse a quest'ora, il signor Griell, che è l'attuale governatore dell'isola, ha più d'un centinaio di sudditi. - Un piccolo re. - Che ci tiene al suo regno, specialmente dopo la visita ricevuta da un ammiraglio inglese della squadra della Cina che lo ha investito del supremo potere, d'incarico della Regina d'Inghilterra. - Figurarsi che onori avrà avuto quell'ammiraglio! - No, signor Held, gli onori ha dovuto farli lui, offrendo alla colonia un banchetto pantagruelico, di cui i buongustai dell'isola serbano immortale ricordo, seguìto da molti doni fra i quali una bandiera inglese che Griell conserva gelosamente. - Vedrò con piacere quel piccolo regno. Speriamo di avere una buona accoglienza, - disse il dottore. - Lo dubito, - rispose Yanez, - perchè quegli isolani ci terranno a non sprovvedersi di carbone che consumano essi in gran parte. Sapremo però calmarli avendo noi degli argomenti molto persuasivi. Chiamino pure in loro soccorso gli inglesi e ci scaccino. Siamo in guerra e la faremo a tutti i sudditi inglesi, senza eccezioni.

Un malese, dalla pelle quasi fuligginosa, con riflessi color del mattone, gli occhi un po' obliqui che avevano un lampo giallastro che produceva uno strano effetto su chi lo vedeva, a quella chiamata, aveva abbandonata la ribolla del timone che fino allora aveva tenuta e si era accostato a Yanez con un fare sospettoso che tradiva una coscienza poco tranquilla. - Padada, - disse l'europeo con voce secca, mentre appoggiava la destra sul calcio d'una delle due pistole. - Come va questa faccenda? Parmi avessi detto che conoscevi tutti i passi della costa bornese ed è solo per ciò che io ti ho imbarcato. - Ma, signore ... - balbettò il malese con aria imbarazzata. - Che cosa vuoi dire? - chiese Yanez che forse, per la prima volta in vita sua, pareva avesse perduta la sua flemma abituale. - Questo banco non esisteva prima. - Briccone, vuoi tu che sia sorto stamane dal fondo del mare? Sei un imbecille! Tu hai dato un colpo falso di barra per arrestare la Marianna. - A quale scopo, signore? - Che ne so io? Potrebbe darsi che tu fossi d'accordo con quei misteriosi nemici che hanno sollevato i dayaki. - Non ho avuto altri rapporti che coi miei compatriotti, signore. - Credi che ci potremo disincagliare? - Sì, all'alta marea. - Vi sono molti dayaki sul fiume? - Non credo. - Sai che abbiano buone armi? - Non ho veduto presso di loro che qualche fucile. - Chi può essere stato a sollevarli? - borbottò Yanez. - Vi è un mistero qui sotto che io non riesco a spiegare, quantunque la Tigre della Malesia si ostini a vedere in tutto ciò la mano degli inglesi. Speriamo di giungere in tempo e di ricondurre Tremal-Naik e Darma a Mompracem, prima che i ribelli invadano le loro piantagioni e distruggano le loro fattorie. Vediamo se possiamo lasciare questo banco prima che la marea abbia raggiunto la sua massima altezza. Volse le spalle al malese e si diresse verso prora, curvandosi sulla murata del castello. La nave che aveva dato in secco, probabilmente in causa d'una falsa manovra, era uno splendido veliero a due alberi, costruito di certo da poco tempo a giudicarlo dalle sue linee ancora perfette, con due immense vele simili a quelle che portano i grossi prahos malesi. Doveva stazzare non meno di duecento tonnellate ed aveva un armamento da renderlo temuto anche a qualche piccolo incrociatore. Infatti, aveva sul cassero due pezzi da caccia di buon calibro, protetti da una barricata mobile formata da due grosse lastre di acciaio congiunte ad angolo e sul castello di prora quattro lunghe e grosse spingarde, armi eccellenti per mitragliare i nemici, quantunque di corta portata. Inoltre aveva un equipaggio numeroso, fin troppo per un legno così piccolo, formato da una quarantina di persone, malesi e dayaki, per la maggior parte attempati ma ancora solidi, dai visi fierissimi e con non poche cicatrici, ciò che indicava come quegli uomini fossero gente di mare e anche di guerra. La nave si era arrestata all'entrata d'una vasta baia, entro cui sboccava un fiume che pareva abbondante d'acqua. Numerose isole, fra cui una grandissima, riparavano la baia dai venti di ponente, tutte cinte di scogliere corallifere e di banchi e coperte da una vegetazione foltissima d'un bel verde intenso. La Marianna si era arenata su uno di quei banchi che le acque nascondevano e che, in quel momento, cominciava ad apparire, continuando la marea ad abbassarsi. La ruota di prora aveva toccato molto profondamente, in modo da rendere impossibile lo scagliamento col solo mezzo delle àncore gettate a poppavia e alate all'argano. - Cane d'un pilota! - esclamò Yanez, dopo d'aver osservato attentamente il banco. - Non ce la caveremo prima di mezzanotte. Che cosa ne dici, Sambigliong? Un malese che aveva il viso assai rugoso ed i capelli biancastri, e che tuttavia sembrava ancora robustissimo, si era accostato all'europeo: - Dico, signor Yanez, che nessuna manovra riuscirebbe a toglierci di qui senza l'aiuto dell'alta marea. - Hai fiducia in quel pilota? - Non so, capitano, - rispose il malese, - non avendolo mai veduto prima d'ora. Nondimeno ... - Continua, - disse Yanez. - Quello d'averlo trovato solo, così lontano da Gaya, in un canotto incapace di resistere ad un'ondata e di essersi subito offerto di guidarci, non mi pare chiaro. - Che abbia commesso una imprudenza ad affidargli il timone? - si chiese Yanez, che era diventato pensieroso. Poi, scuotendo il capo come se avesse voluto scacciare lungi da sè un pensiero importuno, aggiunse: - Per quale scopo quell'uomo, che appartiene alla vostra razza, avrebbe cercato di perdere il migliore e più poderoso praho della Tigre della Malesia? Forse che noi non abbiamo sempre protetti gli indigeni bornesi contro le vessazioni degli inglesi? Forse che non abbiamo rovesciato James Brooke per ridare l'indipendenza ai dayaki di Sarawak? - E perchè mai, signor Yanez, - disse Sambigliong - i dayaki della costa si sono messi in armi improvvisamente, contro i nostri amici? Eppure Tremal-Naik, creando fattorie su queste spiagge, che prima erano quasi deserte, ha dato loro il mezzo di guadagnarsi da vivere comodamente, senza correre i rischi della pirateria che li decimava. - È un mistero questo, mio caro Sambigliong, che nè io nè Sandokan siamo ancora riusciti a spiegare. Questo improvviso scoppio d'ira contro Tremal-Naik deve avere una causa che per ora ci sfugge, ma certo qualcuno ha soffiato sul fuoco. - Che Tremal-Naik e sua figlia Darma corrano un vero pericolo? - Il messo che ci ha mandato a Mompracem ha detto che tutti i dayaki sono in armi e sembrano presi da una improvvisa pazzia, che tre delle fattorie sono state saccheggiate e poi incendiate e parlavano di massacrare Tremal-Naik. - Eppure non c'è un uomo migliore di lui in tutta l'isola, - disse Sambigliong. - Non comprendo come quei furfanti guastino e saccheggino le sue proprietà. - Ne sapremo qualche cosa quando giungeremo al kampong di Pangutaran. La comparsa della Marianna sul fiume calmerà un po' i dayaki e se non deporranno le armi, li mitraglieremo come si meritano. - E conosceremo le cause che li hanno indotti a sollevarsi. - Oh! - esclamò ad un tratto Yanez, che aveva volti gli sguardi verso la foce del fiume. - Vi è qualcuno che pare voglia dirigersi verso di noi. Un piccolo canotto, munito d'una vela, era sbucato dietro gli isolotti che ingombravano la foce del fiume ed aveva puntato la prora verso la Marianna. Un solo uomo lo montava, ma era così lontano ancora da non poter distinguere se era un malese o un dayako. - Chi può essere costui? - si chiese Yanez, che non lo perdeva di vista. - Guarda, Sambigliong, non ti sembra indeciso sulla sua manovra? Ora si dirige verso gli isolotti, ora se ne allontana per gettarsi verso le scogliere corallifere. - Si direbbe che cerchi d'ingannare qualcuno sulla sua vera rotta, signor Yanez, - rispose Sambigliong. - Che sia sorvegliato e che cerchi d'ingannarli? - Pare anche a me, - rispose l'europeo. - Va'a prendermi un cannocchiale e fa' caricare una spingarda a palla. Se si cercherà d'intralciare la manovra di quell'uomo, il quale evidentemente mira a raggiungerci, faremo fuoco. Un momento dopo puntava l'istrumento sul piccolo canotto che allora si trovava a non meno di due miglia e che aveva finalmente abbandonato le isolette della foce, per spingersi risolutamente verso la Marianna. Ad un tratto gli sfuggì un grido: - Tangusa! - Quello che Tremal-Naik aveva condotto con sè da Mompracem e che aveva innalzato alla carica di fattore? - Sì, Sambigliong. - Finalmente sapremo qualche cosa su questa insurrezione, se è veramente lui, - disse il dayako. - Non m'inganno: lo vedo benissimo. Oh! - Che cosa avete, signore? - Vedo una scialuppa montata da una dozzina di dayaki che mi pare voglia dare la caccia a Tangusa. Guarda verso l'ultima isola: la vedi? Sambigliong aguzzò gli sguardi e vide infatti un'imbarcazione stretta e molto lunga, lasciare la foce del fiume e slanciarsi velocemente verso il mare, sotto la spinta di otto remi poderosamente manovrati. - Sì, signor Yanez, danno la caccia al fattore di Tremal-Naik, - disse. - Hai fatto caricare una spingarda? - Tutte e quattro. - Benissimo: aspettiamo un momento. Il piccolo canotto che aveva il vento in favore, filava diritto verso la Marianna con sufficiente velocità, nondimeno non pareva che potesse gareggiare colla scialuppa. L'uomo che la montava, accortosi di essere seguìto, aveva legata la barra del timone ed aveva preso due remi per accelerare maggiormente la corsa. Ad un tratto, una nuvoletta di fumo s'alzò sopra la prora della scialuppa, poi una detonazione giunse fino a bordo della Marianna. - Fanno fuoco su Tangusa, signor Yanez, - disse Sambigliong. - Ebbene mio caro, io mostrerò a quei furfanti come tirano i portoghesi, - rispose l'europeo colla sua solita calma. Gettò via la sigaretta che stava fumando, si fece largo fra i marinai che avevano invaso il castello di prora attirati da quello sparo e s'accostò alla prima spingarda di babordo, puntandola sulla scialuppa. La caccia continuava furiosa ed il piccolo canotto, nonostante gli sforzi disperati dell'uomo che lo montava, perdeva via. Un altro colpo di fucile era partito da parte degli inseguitori e senza miglior successo, essendo generalmente i dayaki più abili nel maneggio delle loro cerbottane che delle armi da fuoco, non conoscendo l'alzo. Yanez, calmo, impassibile mirava sempre. - È sulla linea, - mormorò dopo qualche minuto. Fece contemporaneamente fuoco. La lunga e grossa canna s'infiammò con un rombo strano che si ripercosse perfino sotto gli alberi che coprivano le sponde della baia. Sul tribordo della scialuppa si vide alzarsi uno sprazzo d'acqua, poi si udirono in lontananza delle urla furiose. - Presa, signor Yanez! - gridò Sambigliong. - E fra poco affonderà, - rispose il portoghese. I dayaki avevano interrotto l'inseguimento ed arrancavano disperatamente per raggiungere uno degli isolotti della foce, prima che la loro imbarcazione affondasse. Lo squarcio prodotto dalla palla della spingarda, un buon proiettile di piombo misto a rame, del peso d'una libbra e mezzo, era così considerevole da non permettere di prolungare molto quella corsa. Ed infatti i dayaki distavano ancora trecento passi dall'isolotto più vicino, quando la scialuppa, che si riempiva rapidamente d'acqua, mancò loro sotto i piedi, scomparendo. Essendo i dayaki della costa tutti abilissimi nuotatori, perchè passano la maggior parte della loro esistenza in acqua al pari dei malesi e dei polinesiani, non vi era pericolo che si annegassero. - Salvatevi pure, - disse Yanez. - Se tornerete alla carica vi scalderemo i dorsi con della buona mitraglia a base di chiodi. Il piccolo canotto, liberato dai suoi inseguitori, mercè quel colpo fortunato, aveva ripresa la rotta verso la Marianna spinto dalla brezza che aumentava col calar del sole e ben presto si trovò nelle sue acque. L'uomo che lo guidava era un giovane sulla trentina, dalla pelle giallastra, ed i lineamenti quasi europei, come se fosse nato da un incrocio di due razze, la caucasica e la malese; di statura piuttosto bassa e assai membruto; aveva il corpo avvolto in brandelli di tela bianca che gli fasciavano strettamente le braccia e le gambe e che apparivano qua e là macchiati di sangue. - Che l'abbiano ferito? - si chiese Yanez. - Quel meticcio mi sembra assai sofferente. Ohe, gettate una scala e preparate qualche cordiale. Mentre i suoi marinai eseguivano quegli ordini, il piccolo canotto, con un'ultima bordata, giunse sotto il fianco di tribordo del veliero. - Sali presto! - gridò Yanez. Il fattore di Tremal-Naik legò la piccola imbarcazione a una corda che gli era stata gettata, ammainò la vela, poi salì quasi con fatica la scala, comparendo sulla tolda. Un grido di sorpresa ed insieme d'orrore era sfuggito al portoghese. Tutto il corpo di quel disgraziato appariva crivellato come se avesse ricevuto parecchie scariche di pallini e da quelle innumerevoli, quantunque piccolissime ferite, uscivano goccioline di sangue. - Per Giove! - esclamò Yanez, facendo un gesto di ribrezzo. - Chi ti ha conciato in questo modo, mio povero Tangusa? - Le formiche bianche, signor Yanez, - rispose il malese con voce strozzata facendo un'orribile smorfia strappatagli dal dolore acuto che lo tormentava. - Le formiche bianche! - esclamò il portoghese. - Chi ti ha coperto il corpo di quei crudeli insetti così avidi di carne? - I dayaki, signor Yanez. - Ah! Miserabili! Passa nell'infermeria e fatti medicare, poi riprenderemo la conversazione. Dimmi solamente per ora se Tremal-Naik e Darma corrono un pericolo imminente. - Il padrone ha formato un piccolo corpo di malesi e tenta di far fronte ai dayaki. - Va bene, mettiti nelle mani di Kickatany che è un uomo che si intende di ferite, poi mi manderai a chiamare, mio povero Tangusa. Ora ho altro da fare. Mentre il malese, aiutato da due marinai, scendeva nel quadro, Yanez aveva rivolto la sua attenzione verso lo sbocco del fiume dove erano comparse altre tre grosse scialuppe montate da numerosi equipaggi ed una doppia, munita di ponte sul quale si scorgeva uno di quei piccoli cannoni di ottone chiamati dai malesi lilà, fusi insieme con rame tolto dalla carena delle vecchie navi e qualche particella di piombo. - Oh diavolo! - mormorò il portoghese. - Che quei dayaki abbiano intenzione di venirsi a misurare colle tigri di Mompracem? Non sarà con quelle forze che voi avrete ragione di noi, miei cari. Abbiamo dei buoni pezzi che vi faranno saltare come capre selvatiche. - Purchè non abbiano altre scialuppe nascoste dietro le isole, signor Yanez, - disse Sambigliong. - Siamo troppo forti per aver paura di loro, quantunque noi conosciamo l'audacia e lo slancio di quegli uomini, figli di pirati e di tagliatori di teste. Ne abbiamo due di quelle casse. - Palle d'acciaio armate di punte? Sì, capitano Yanez. - Falle portare in coperta e da' ordine a tutti i nostri uomini di calzare stivali di mare se non vorranno guastarsi i piedi. Ed i fasci di spine li hai imbarcati? - Anche quelli. - Falli gettare sulle impagliature tutto intorno al bordo. Se vorranno montare all'assalto li udremo a urlare come belve feroci. Pilota! Padada che si era issato fino sulla coffa del trinchetto per osservare le mosse sospette delle quattro scialuppe era disceso e si era accostato al portoghese guardando obliquamente. - Sai dirmi se quei dayaki posseggono molte barche? - Non ne ho vedute che pochissime sul fiume, - rispose il malese. - Credi che tenteranno di abbordarci, approfittando della nostra immobilità? - Non credo, padrone. - Parli sinceramente? Bada che comincio ad avere qualche sospetto su di te e che questo arenamento non mi è sembrato puramente accidentale. - Il malese fece una smorfia come per nascondere il brutto sorriso che stava per spuntargli sulle labbra, poi disse un po' risentito: - Non vi ho dato alcun motivo per dubitare della mia lealtà, padrone. - Vedremo in seguito, - rispose Yanez. - E ora andiamo a trovare quel povero Tangusa, mentre Sambigliong prepara la difesa.

I sei marinai della scialuppa, quantunque privi della protezione dei loro compagni, non avevano abbandonata la catena e continuavano a tempestarla di colpi furiosi non accennando i grossi anelli a cedere tanto facilmente. Intanto l'incendio avvampava con rapidità spaventevole e nuove lingue di fuoco s'alzavano qua e là, per propagarlo su una più vasta estensione. Le fiamme trovavano un ottimo elemento nelle giunta wan (urceola elastica), quelle grosse piante rampicanti dalle quali i malesi traggono una sostanza vischiosa, di cui si servono per prendere gli uccelli, nei gambir, nei colossali alberi della canfora e nelle piante gommifere che sono numerose in tutte le foreste del Borneo. Tutte quelle piante crepitavano, come se contenessero nelle loro fibre delle cartuccie di fucile o detonavano e dai loro squarci lasciavano colare la linfa più o meno satura di resina, la quale a sua volta prendeva fuoco allargando sempre più l'incendio. Una luce intensa era successa alle tenebre, mentre miriadi di scintille s'alzavano a grande altezza volteggiando fra turbini di fumo. La Marianna scendeva precipitosamente, aiutata dai remi per sottrarsi a quell'incendio, che si propagava ormai anche alle piante prossime alle due rive, ma non aveva percorso che cinquecento passi, quando un urto avvenne a prora, che si ripercosse in tutte le parti della carena. Urla furiose erano scoppiate sul castello di prora, dove eransi radunati la maggior parte dei malesi, temendo che da un momento all'altro comparissero le scialuppe e i pontoni dei dayaki. - Siamo presi! - Ci hanno tagliata la ritirata! Yanez era accorso, immaginandosi che cos'era accaduto. - Un'altra catena? - chiese, respingendo i suoi uomini per farsi largo. - Sì, capitano. - Allora l'hanno tesa pochi minuti fa. - Così deve essere, - disse Tangusa, che appariva esterrefatto. - Signor Yanez, non ci rimane che di prendere terra mentre l'incendio non è ancora attaccato dovunque. - Lasciare la Marianna! - esclamò il portoghese. - Oh mai! Sarebbe la fine di tutti, anche di Tremal-Naik e di Darma. - Devo mettere in acqua l'altra scialuppa? - chiese Sambigliong. Yanez non rispose. Ritto sulla prora, colle mani strette sulla scotta della trinchettina, la sigaretta spenta e compressa fra le labbra, guardava l'incendio che s'allargava sempre più. Anche verso il basso corso del fiume delle vampe cominciavano ad alzarsi. Fra poco la Marianna doveva trovarsi in mezzo ad un mare di fuoco e, siccome gli alberi quasi riunivano i loro rami sopra il fiume, l'equipaggio correva il pericolo di vedersi rovesciare addosso una pioggia di tizzoni ardenti e di cenere calda. - Capitano, - ripetè Sambigliong, - devo mettere in acqua la seconda scialuppa? Noi corriamo il pericolo di perdere la Marianna, se non fuggiamo. - Fuggire! E dove? - chiese Yanez, con voce pacata. - Abbiamo il fuoco dinanzi e di dietro e anche spezzando le catene la nostra situazione non migliorerebbe. - Ci lasceremo dunque arrostire, signor Yanez? - Non siamo ancora cucinati, - rispose il portoghese, colla sua calma meravigliosa. - Le tigri di Mompracem sono costolette un po' dure. Poi, cambiando bruscamente tono, gridò: - Stendete la tela sul ponte, abbassate le vele sui ferri di sostegno. In acqua le maniche delle pompe e affondate le àncore. Gli artiglieri a posto! L'equipaggio che attendeva con angoscia qualche decisione, in pochi momenti issò i ferri di sostegno e ammainò le due immense vele. La Marianna, come tutti gli yacht che intraprendono dei viaggi nelle regioni estremamente calde, era fornita d'una tela per riparare il ponte dagli ardenti raggi solari e dei relativi sostegni. In un baleno fu stesa all'altezza delle bome e le due vele vi furono gettate sopra, lasciando cadere i margini lungo le murate, in modo da coprire interamente la piccola nave. - Manovrate le pompe e inaffiate, - comandò Yanez, quando l'ordine fu eseguito. Riaccese poscia la sigaretta e si spinse verso la prora, mentre torrenti d'acqua venivano lanciati contro la tela inzuppandola completamente. Gli uomini incaricati di spezzare la catena, tornavano in quel momento a bordo, arrancando disperatamente. Sopra di loro fiammeggiavano i rami degli alberi, coprendoli di scintille. - Giungono a tempo, - mormorò il portoghese. - Che spettacolo magnifico! Che peccato non poterlo vedere un po' da lontano! Lo ammirerei meglio! Una vera tromba di fuoco si rovesciava sul fiume. Gli alberi delle due rive, composti per la maggior parte di piante gommifere, ardevano come zolfanelli, lanciando dovunque mostruose lingue di fuoco e turbini di fumo denso e pesante. I tronchi, carbonizzati, rovinavano al suolo, facendo crollare le piante vicine a cui erano collegati da piante parassite e gambir e spandendo torrenti di caucciù ardente. Alberi della canfora enormi, casuarine, sagu, arenghe saccarifere, dammar saturi di resina, banani, cocchi e durion fiammeggiavano come torce colossali, contorcendosi e tuonando; poi s'abbattevano, rovesciandosi nel fiume con fischi assordanti. L'aria diventava irrespirabile e le tende e le vele che coprivano la Marianna fumavano e si contraevano, nonostante i continui getti d'acqua che le innaffiavano. Il calore era diventato così intenso che i Tigrotti di Mompracem, malgrado la protezione delle vele, si sentivano mancare. Immense nuvole di fumo e nembi di scintille, che il vento spingeva, si cacciavano entro lo spazio racchiuso fra il ponte e le tele, avvolgendo gli uomini terrorizzati, mentre dall'alto cadevano senza interruzione rami fiammeggianti, che le pompe penavano a spegnere, quantunque energicamente manovrate. Una cupola di fuoco avvolgeva ogni cosa: la nave, le rive ed il fiume. I malesi ed i dayaki che formavano l'equipaggio, guardavano con spavento quelle cortine fiammeggianti, che non accennavano a scemare, chiedendosi angosciosamente se stava per suonare per loro l'ultima ora. Solo Yanez, l'uomo eternamente impassibile, pareva che non si occupasse affatto del tremendo pericolo che minacciava la Marianna. Seduto sull'affusto di uno dei due pezzi da caccia, fumava placidamente la sua sigaretta, come se fosse insensibile a quel calore spaventevole che cucinava i suoi uomini. - Signore! - gridò il meticcio, accorrendo presso di lui, col viso smorto e gli occhi dilatati pel terrore, - noi ci arrostiamo. Yanez alzò le spalle. - Non posso fare nulla io, - rispose poi, colla sua calma abituale. - L'aria diventa irrespirabile. - Accontentati di quella poca che scende nei tuoi polmoni. - Fuggiamo, signore. I nostri uomini hanno spezzata la catena che ci chiudeva il passo verso l'alto corso. - Lassù non farà più fresco di qui, mio caro. - Dovremo perire così? - Se così è scritto, - rispose Yanez, senza togliersi dalle labbra la sigaretta. Si rovesciò sull'affusto come se fosse su una comoda poltrona, aggiungendo dopo qualche istante: - Bah! Aspettiamo! Ad un tratto alcune scariche di fucili rimbombarono sul fiume, accompagnate da clamori assordanti. Yanez si era alzato. - Come diventano noiosi questi dayaki! - esclamò. Attraversò il ponte, senza curarsi dei torrenti d'acqua che gli cadevano addosso e, alzato un lembo dell'immensa tenda, guardò verso la riva. Attraverso le cortine di fuoco scorse degli uomini che parevano demoni, correre fra le ondate di fumo, sparando contro il veliero. Pareva che quei terribili selvaggi fossero insensibili, come le salamandre, perchè osavano, quantunque quasi nudi, cacciarsi fra le fiamme per sparare più da vicino. Yanez si era fatto torvo in viso. Una bella collera bianca si manifestava in quell'uomo, che pareva avesse dell'acqua agghiacciata nelle vene e che potesse gareggiare coi più flemmatici anglo-sassoni delle razze nordiche. - Ah! Miserabili! - gridò. - Nemmeno in mezzo al fuoco volete lasciarci un momento di tregua! Sambigliong, Tigrotti di Mompracem, bordate senza misericordia quei demoni! Fu un po' rialzata la tenda, le quattro spingarde furono riunite sul tribordo, e mentre l'incendio avvampava più che mai, divorando gli enormi vegetali, la mitraglia cominciò a fischiare attraverso le cortine di fuoco, tempestando i selvaggi con uragani di chiodi e di frammenti di ferro. Bastarono sette od otto scariche per decidere quei bricconi a mostrare i talloni. Parecchi erano caduti e arrostivano in mezzo alle erbe ed i cespugli crepitanti, continuando il fuoco a dilatarsi. - Potesse essere caduto anche il pellegrino! - mormorò Yanez. - Quel furbone si sarà purtroppo ben guardato dall'esporsi ai nostri tiri. Chiamò il malese che aveva guidata la scialuppa, che era tornata a bordo nel momento in cui gli alberi costeggianti il fiume prendevano pure fuoco. - L'hai spezzata la catena? - gli chiese. - Sì, capitano Yanez. - Sicchè il passo è libero. - Completamente. - Il fuoco scema verso l'alto corso del fiume, mentre tende ad aumentare verso il basso, - mormorò Yanez. - Sarebbe meglio andarcene, prima che quei birboni possano tendere altre catene o che le loro scialuppe giungano qui. Checchè debba succedere, partiamo. La volta di verzura che copriva in quel luogo il fiume, era stata distrutta dall'uragano di fuoco che l'aveva investita, e sulle due rive più non rimanevano in piedi che pochi enormi tronchi di alberi della canfora, semi-carbonizzati e qualche tronco di durion che fiammeggiava ancora come una immensa torcia. Il fuoco invece avvampava terribile verso ponente, dove le foreste erano fino allora rimaste intatte, ossia dietro la Marianna. Il pericolo quindi che il veliero s'incendiasse, era ormai evitato. - Approfittiamo, - disse Yanez. - L'aria comincia a diventare un po' più respirabile e la brezza è sempre favorevole. Fece togliere l'immensa tela che grondava acqua, poi fece levare e quindi inferire le vele ai pennoni. Quelle manovre furono compiute rapidamente, fra una vera pioggia di cenere che la brezza avventava contro il veliero, accecando e facendo tossire gli uomini. Regnava ancora un caldo infernale sul fiume, essendo le due rive coperte da un altissimo strato di carboni ancora ardenti, tuttavia non vi era più pericolo di morire asfissiati. Alle quattro del mattino le àncore furono issate e la Marianna riprese la navigazione con notevole velocità, senza essere stata disturbata. I dayaki, che dovevano aver subite delle perdite crudeli, non si erano più fatti vedere. Forse l'incendio, che aumentava sempre verso ponente, li aveva obbligati ad una precipitosa ritirata. - Non si scorgono più, - disse Yanez al meticcio, che osservava le due rive sulle quali ondeggiavano ancora dense colonne di fumo e nembi di scintille. - Se ci lasciassero tranquilli almeno fino a che possiamo raggiungere l'imbarcadero! Che non abbiano capito che noi siamo persone risolute a difendere estremamente la pelle? Dopo le due lezioni ricevute, dovrebbero essersi persuasi che non siamo gallette pei loro denti. - Hanno capito, signor Yanez, che noi accorriamo in aiuto del mio padrone. - Eppure nessuno glielo ha detto. - Io scommetto che lo sapevano, prima ancora del vostro arrivo. Qualche servo ha tradito il segreto o ha uditi gli ordini dati da Tremal-Naik all'uomo che vi fu mandato. - Che sia così? - Quel malese che voi avete raccolto e che si offerse come pilota devono averlo mandato essi incontro alla Marianna. - Per Giove! Non mi ricordavo più di quel furfante! - esclamò Yanez. - Giacchè i dayaki ci lasciano un po' di tregua e l'incendio si spegne più in su, potremmo occuparci un po' di lui. Chissà che riusciamo a strappargli qualche preziosa informazione su quel misterioso pellegrino. - Se parlerà! - Se si ostinerà a rimaner muto, m'incarico io di fargli passare un brutto quarto d'ora. Vieni, Tangusa. - Raccomandò a Sambigliong di mantenere gli uomini ai loro posti di combattimento, temendo sempre qualche nuova sorpresa da parte di quegli ostinati nemici e scese nel quadro, dove la lampada bruciava ancora. In una cabina attigua al salotto, su un tettuccio, giaceva il pilota, sempre immerso nel sonno profondo, procurategli dalle compressioni energiche di Sambigliong. Un sonno regolare veramente non lo era. Il respiro era leggerissimo, tanto che si avrebbe potuto scambiare il malese per un vero morto, essendo anche la sua tinta diventata quasi grigiastra, come quando gli uomini di colore diventano pallidi. Yanez, che era stato istruito da Sambigliong, strofinò violentemente le tempie ed il petto dell'addormentato, poi gli alzò le braccia ripiegandole all'indietro più che potè onde dilatargli i polmoni, eseguendo quel movimento parecchie volte. Alla nona o alla decima mossa il malese aprì finalmente gli occhi, fissandoli sul portoghese con un lampo di terrore. - Come stai, amico? - gli chiese Yanez con accento un po' ironico. - Mentre noi combattevamo contro i tuoi alleati, tu dormivi saporitamente. Diventano poltroni i malesi. Il pilota continuava a guardarlo senza rispondere, passandosi e ripassandosi una mano sulla fronte che s'imperlava di sudore. Pareva che cercasse di riordinare le sue idee e di mano in mano che la memoria gli ritornava, la sua pelle diventava sempre più smorta ed una espressione angosciosa gli si diffondeva sul viso. - Orsù, - disse Yanez, - quand'è che ci farai udire la tua voce? - Che cosa è avvenuto, signore? - chiese finalmente Padada. - Non riesco a spiegarmi come io mi sia addormentato di colpo, dopo la stretta datami dal vostro mastro. - È cosa tanto poco interessante che non vale la pena che io te la spieghi, - rispose Yanez. - Tu invece dovresti darmi qualche spiegazione che mi premerebbe. - Quale? - Sapere chi è che ti ha mandato verso di noi per far arenare la mia nave sui banchi. - Vi giuro, signore ... - Lascia andare i giuramenti: già non credo a quelle cose io, mio caro. È inutile che tu ti ostini a negare: ti sei tradito e ti tengo in mia mano. Chi ti ha pagato per rovinare la mia nave? Tu stavi per incendiarla. - È una vostra supposizione, - balbettò il malese. - Basta, - disse Yanez. - Vuoi farmi perdere la pazienza? Voglio sapere chi è quel maledetto pellegrino che ha messo in armi i dayaki e che domanda la testa di Tremal-Naik. - Voi potete uccidermi, signore, ma non obbligarmi a dire delle cose ch'io ignoro. - Sicchè tu affermi? - Ch'io non ho mai veduto alcun pellegrino. - E che anche non hai mai avuto rapporti coi dayaki che mi hanno assalito? - Non mi sono mai occupato di costoro, signore, ve lo giuro su Vairang kidul2 (La regina del sud). Io stavo seguendo la costa per visitare le caverne, entro le quali le rondini salangane costruiscono i loro nidi, avendo ricevuto l'incarico di fornirne ad un cinese che ne abbisognava, quando un colpo di vento mi trasportò al largo trascinandomi, assieme al canotto, verso ponente. Vi ho incontrati per un caso. - Perchè sei pallido allora? - Signore, mi avete sottoposto ad una compressione tale che credevo mi si volesse strozzare e non mi sono ancora rimesso dall'impressione provata, - rispose il pilota. - Tu menti come un ragazzo, - disse Yanez. - Non vuoi confessare? Sta bene: vedremo se resisterai. - Che cosa volete fare, signore? - chiese il miserabile con voce tremante. - Tangusa, - disse Yanez, volgendosi verso il meticcio. - Lega le mani a questo traditore, poi conducilo in coperta. Se cerca di resistere bruciagli le cervella. - La mia pistola è carica, - rispose l'intendente di Tremal-Naik. Yanez uscì dal quadro e salì sul ponte, mentre il meticcio metteva in esecuzione l'ordine ricevuto, senza che il malese avesse osato ribellarsi.

I FIGLI DELL'ARIA

682315
Salgari, Emilio 2 occorrenze

Mentre il macchinista, abbandonata la ruota al capitano, andava a prendere le armi, i mongoli continuavano vigorosamente la caccia, sferzando e speronando le loro cavalcature. Dopo il primo slancio dello "Sparviero", erano rimasti subito indietro, ma da qualche minuto, rallentata la marcia dell'aerotreno per non compromettere l'ala già troppo malferma, avevano cominciato a guadagnare qualche centinaio di passi. Si trovavano però ancora a mille e duecento o trecento metri, ossia troppo lontani perché le palle dei loro moschettoni potessero giungere fino allo "Sparviero". Tuttavia di quando in quando, forse per entusiasmarsi o forse per intimorire gli aeronauti, sparavano qualche colpo, assolutamente inoffensivo, perché quelle vecchie armi non dovevano avere che una portata molto limitata, malgrado le grosse cariche di polvere. - Pare che siano proprio decisi a prenderci - disse Rokoff a Fedoro. - Finché i loro cavalli non cadranno, continueranno a darci la caccia. - Sono cattivi questi mongoli? - Forse no, anzi sono ospitali, tuttavia non c'è da fidarsi di loro. - L'hanno più collo "Sparviero" che con noi. - Vorranno impadronirsene. - Resisterà l'ala? - Lo dubito, Rokoff. Oscilla sempre più forte e m'aspetto di vederla cadere da un momento all'altro. - E precipiteremo anche noi dopo. - Vi sono le eliche. - Non basteranno ad innalzarci. - Impediranno o almeno ritarderanno molto la nostra discesa. - Se potessimo raggiungere prima quelle colline che occupano tutto l'orizzonte settentrionale! - Riusciremo a superarle? - Non mi sembrano molto alte - rispose Fedoro, che le osservava attentamente. - E noi ci troviamo? - A quattrocento metri d'altezza. - Se potessimo innalzarci di più! - Il capitano non osa forzare troppo le ali. - Ah, - Cos'hai Rokoff? - I mongoli accelerano la corsa e riprendono il fuoco. - Sono ancora troppo lontani perché le loro palle giungano fino qui. - E noi siamo abbastanza vicini per fucilarli - disse il capitano che li aveva raggiunti, portando tre splendidi Remington. - Volete provare! Il bersaglio non è che a mille metri ed è molto visibile. A voi, signor Rokoff; i cosacchi sono, in generale, dei buoni tiratori. - Cercherò di non smentire la loro fama, capitano. Mirerò il capofila, quello che monta quel cavalluccio morello. L'uomo o l'animale? - Il cavallo prima; d'altronde il mongolo a piedi è come il gaucho della pampa argentina. Non conta più, essendo un pessimo camminatore. - Vediamo - disse Rokoff. S'appoggiò alla balaustrata di poppa, si piantò bene sulle gambe, poi abbassò lentamente il fucile mirando con grande attenzione. L'arma rimase un momento ferma, tesa quasi orizzontalmente, poi uno sparo risuonò lungamente fra le collinette sabbiose del deserto. Il cavallo morello s'impennò violentemente rizzandosi sulle gambe posteriori e scuotendo la testa all'impazzata, poi cadde di quarto, sbalzando a terra il cavaliere prima che questi avesse avuto il tempo di sbarazzare i piedi dalle staffe. Altri tre cavalli che venivano dietro a corsa sfrenata, inciamparono nel caduto, stramazzando l'uno addosso all'altro e scavalcando gli uomini che li montavano. - Ben preso, signor Rokoff - disse il capitano. - Scommetterei un dollaro contro cento che la vostra palla ha colpito quell'animale in fronte. Vi ammiro. - Tiro come un cosacco delle steppe - rispose Rokoff, ridendo. I mongoli, sorpresi e anche spaventati da quel colpo maestro si erano arrestati intorno ai caduti urlando. La loro sosta fu brevissima. Appena videro i compagni rialzarsi, ripartirono al galoppo, sparando e vociando. - Ah! Non ne hanno abbastanza! - esclamò il capitano. - Vogliono farsi smontare? Sia! Stava per puntare il fucile, quando in aria si udì uno scricchiolio, poi il fuso si spostò, piegandosi un po' su un fianco. - Maledizione! - gridò il capitano. - L'ala ha ceduto! Macchinista, le eliche prima che la discesa cominci! Il fuso non si era ancora abbassato, quantunque il movimento delle ali fosse stato subito arrestato. Soffiando un fresco venticello i piani inclinati lo avevano sorretta in modo da far conservare al fuso la sua altezza di quattrocento metri. - Ci raggiungeranno, è vero capitano? - chiese Rokoff. - I mongoli? - Sì. - Guadagnano già. - Ed il vento è debole - aggiunse Fedoro. - Signori, si tratta di non risparmiare le cartucce, almeno fino a quando avremo raggiunto o superate quelle colline. - Rokoff - disse Fedoro. - A me il cavaliere di destra; a te quello di sinistra. - Ed a me quello che li segue - aggiunse il capitano. - Vediamo se possiamo arrestarli. Puntarono le armi appoggiandole sulla balaustrata, poi fecero fuoco a pochi secondi d'intervallo. Questa volta non erano stati tutti cavalli a cadere. Due avevano continuata la loro corsa senza i loro padroni, i quali giacevano sulla neve senza moto. Il terzo invece era stramazzato come fosse stato fulminato, facendo fare al suo signore una superba volata in avanti. I mongoli, vedendo quel massacro, per la seconda volta si erano arrestati, urlando ferocemente e scaricando i loro moschettoni, le cui palle non potevano ancora giungere fino allo "Sparviero". La paura cominciava a prenderli. Passarono parecchi minuti prima che si decidessero a continuare l'inseguimento. Conoscendo ormai l'immensa portata delle armi degli aeronauti, non si avanzavano più colla foga primitiva e rallentavano sovente lo slancio dei loro cavalli. - La nostra scarica ha prodotto un buon effetto - disse il capitano. - È stata una vera doccia fredda che ha calmato i loro entusiasmi bellicosi - rispose Rokoff. - Volete continuare capitano? - È inutile sacrificare altre vite umane. Sono dei poveri selvaggi che meritano compassione. Finché si tengono lontani e non ci fucilano, lasciamoli galoppare. D'altronde, fra una mezz'ora noi li perderemo di vista; le colline sono poco lontane. - Non potranno superarle? - chiese Fedoro. - Non credo. Le ho osservate poco fa col cannocchiale e mi sono accertato che sono assolutamente impraticabili per cavalli. Sono dei veri ammassi di rocce colossali, quasi tagliate a picco, senza passaggi - rispose il capitano. - Prima che i mongoli possano girarle, trascorreranno molte ore e noi guadagneremo tanta via da non temere più di venire raggiunti. - Nondimeno teniamoci pronti a fare una nuova scarica - disse Rokoff, il quale tormentava il grilletto del fucile. - Ce la prenderemo ancora coi cavalli. I mongoli invece si tenevano ad una distanza considerevole, pur continuando la caccia. Che cosa attendevano? Che lo "Sparviero" si decidesse a scendere o che, esausto capitombolasse? Magra speranza, perché l'aerotreno non accennava ad abbassarsi nemmeno d'un metro. Sorretto dai piani inclinati e dalle eliche orizzontali e rimorchiato da quella proviera, continuava la sua marcia, quantunque il vento non accennasse ad aumentare. Solamente la sua velocità da trenta miglia all'ora era discesa ad appena dieci e se i mongoli avessero voluto, avrebbero potuto facilmente raggiungerlo e moschettarlo. Alle dieci le colline non si trovavano che a cinquecento metri. Formavano una immensa doppia collina, la quale si estendeva dall'est all'ovest per parecchie decine di miglia. Più che colline erano rocce colossali e aridissime. Non si vedeva spuntare, né sui loro fianchi né sulle loro cime, la menoma pianticella ed erano così rigide da non permettere la scalata nemmeno a una scimmia. Non essendo alte più di trecento metri lo "Sparviero", che manteneva i suoi quattrocento metri, poteva facilmente sorpassarle senza urtarvi contro. I mongoli, accorgendosi che la preda agognata stava loro per sfuggire, sferzavano violentemente i cavalli e raddoppiarono i loro clamori, ricominciando un fuoco violentissimo, quantunque ancora inefficace per la poca portata delle loro armi. Si agitavano furiosamente sulle loro cavalcature, snudavano le loro scimitarre trinciando colpi a destra ed a manca ed insultavano gli aeronauti i quali si accontentavano di sorridere a quell'impotente rabbia. - Ci prenderete un'altra volta? - gridò a loro Rokoff, minacciandoli col fucile. - Per ora non abbiamo tempo di occuparci di voi. Una scarica violentissima fu la risposta, ma ormai lo "Sparviero" filava maestosamente sulla prima catena di rocce, attraversando un immenso abisso. I mongoli s'arrestarono dinanzi a quegli ostacoli insormontabili, continuando a sparare, poi si slanciarono a corsa sfrenata verso l'est. - Che cerchino di girare le colline? - chiese Rokoff. - Pare che ne abbiano l'intenzione - rispose il capitano. - Dovranno però percorrere almeno una quarantina di miglia prima di giungere là dove declinano e poi altrettante e anche più per raggiungerci. - I loro cavalli non potranno di certo percorrere d'un fiato un centinaio e mezzo di chilometri - disse Fedoro. - Sono già esausti. - Mi rincresce - disse Rokoff. - Questa caccia emozionante m'interessava. - E se fossimo caduti? - chiese il capitano. - I mongoli non ci avrebbero risparmiati, ve lo assicuro, essendo assai vendicativi. - Il vostro "Sparviero" è troppo ben costruito per fare un capitombolo. - Un guasto poteva avvenire nella macchina. Meglio che la sia finita così, signor Rokoff. - Ed ora dove andiamo? - chiese Fedoro. - A gettare le nostre reti nei laghi del Caracoruzn - rispose il capitano con uno strano sorriso. - Tanto ci tenete alle trote di quei laghi, signore? - domandò Rokoff. - Si dice che siano così eccellenti? - Le avete assaggiate ancora? - No, me l'ha detto un mio amico. - Le giudicheremo - concluse Rokoff, quantunque non credesse affatto che lo scopo di quella corsa fossero veramente le trote. Lo "Sparviero" aveva allora superata anche la seconda catena di rocce e ridiscendeva verso il deserto piegando un po' verso l'ovest. Lo Sciamo, al di là di quelle colline, perdeva molto della sua aridità. Se vi era maggior copia di neve su quelle immense pianure si vedevano anche molte erbe altissime e gruppi di betulle e di pini i quali formavano dei graziosi boschetti popolati dai nidi di falchi, di pernici da neve, di lepri e di ermellini. Era quella la regione abitata dai Chalkas, tribù di nomadi ospitali, che si dedicano all'allevamento del bestiame e che vivono sotto vaste tende di feltro che piantano qua e là, secondo che li spinge il capriccio. In quel luogo, in quel momento non si vedeva alcun attendamento. Probabilmente il freddo li aveva ricacciati verso l'est per cercare pascoli più abbondanti sui pendii dei Grandi Chingan o sulle rive del Kerulene della Chalka. Poco dopo il mezzodì lo "Sparviero" che aveva incontrata una corrente d'aria favorevole che spirava dal sud-est, si librava a poca distanza da un laghetto, le cui rive erano coperte da una vegetazione abbondante, composta di abeti giganteschi, di betulle, di larici, di lauri, di cespugli, di rose canine, di pomi selvatici e di noccioli. - Possiamo scendere - disse il capitano, facendo cenno al macchinista di arrestare le eliche. - Le nostre trote ci aspettano. - Ci fermeremo molto qui? - chiese Rokoff. - Finché il macchinista avrà riparata l'ala in modo da garantirmi che non si spezzi più. Avete forse fretta di tornare in Europa? - Nessuna, signore - rispose il cosacco. - Ah! Il telegramma! - Quale, capitano? - Quello del vostro compagno. Signor Fedoro, volete scriverlo? Il russo guardò il capitano, il quale sorrideva. - Vi è qui qualche ufficio telegrafico? - chiese Fedoro. - Qui no, ma non è molto lontano. - Se siamo nel cuore del Gobi? - E perciò? Badate a me, preparate il telegramma per la vostra casa. Ah? Signor Rokoff, voi non avete paura degli orsi, è vero? Vi avverto che qui non sono rari. Io vi farò assaggiare le trote; voi uno zampone di plantigrado. Vi piace? - Farò il possibile per soddisfarvi, capitano - rispose il cosacco. - Eccoci a terra: facciamo colazione, poi a me le reti ed a voi i fucili. Passeremo qui una bella giornata. Poi balzò verso la riva del lago, mentre Rokoff e Fedoro, sempre più sorpresi si guardavano l'un l'altro, chiedendosi: - Chi capirà quest'uomo?

Una, sola tortura è stata abbandonata, la terribile colonna di fuoco, inventata dall'imperatore Chean-Sin per far piacere alla bella Fan-ki, che desiderava vedere contorcersi, sul bronzo ardente, i condannati a morte. Strumento spaventevole, consistente in una colonna di bronzo cava, che si riempiva di carbone finché diventasse tutta rossa, intonacata esternamente di pece e di resina e che i condannati dovevano a forza abbracciare, mediante catene, e rimanervi finché le loro carni fossero completamente consumate. Eccettuata questa, tutti gli strumenti di tortura sono stati conservati. Per punire coloro che hanno commesso piccoli falli, si servono del bastone. Cinquanta e anche cento legnate, somministrate con una rapidità così prodigiosa che il condannato rischia sovente di morire soffocato, bastano a punire piccoli falli, e anche a rovinare talvolta il dorso al disgraziato che le riceve e che non ha avuto la precauzione di regalare qualche tael agli esecutori. Pei recidivi hanno la cangue, che i cinesi chiamano veramente kia, specie di tavola che pesa ordinariamente quindici chilogrammi e che serve per imprigionare il collo del condannato e talvolta anche le mani. Parrebbe a prima vista una pena tollerabilissima; invece finisce per diventare estremamente dolorosa, perché il povero condannato non può mangiare da solo e sovente corre il pericolo di morire di fame per incuria dei carcerieri. E questo non è tutto. Dopo un mese le spalle si rompono e si coprono di piaghe e quando la pena è finita, il prigioniero non è più che uno scheletro. Sono queste le torture minime, che di rado uccidono. Hanno poi gabbie strettissime dove il condannato è costretto a vivere ripiegato in due per mesi e mesi, rovinandosi le carni contro i bambù e storpiandosi le membra; hanno gabbioni più vasti dove si ammucchiano in una sola volta perfino quindici condannati, ai quali i carcerieri danno di rado da mangiare e dove sono costretti a vivere fra la più ripugnante sporcizia. Hanno poi altre gabbie irte di chiodi che traforano atrocemente le gambe e le mani dei pazienti; coltelli d'ogni dimensione per tagliuzzare la pelle e quindi strapparla a lembi, funi per strangolare, tenaglie roventi per strappare la carne; poi la terribile pena del ling-cink, ossia del taglio dei diecimila pezzi. La decapitazione poi è cosa comune e si eseguisce in pubblico, sotto una tettoia, mediante una larga sciabola, pena forse più temuta delle altre, non amando il cinese andarsene all'altro mondo colla testa staccata. E quali orrori poi dentro le carceri! Non sono carcerieri, sono feroci manigoldi, che inchiodano alle pareti le mani dei prigionieri allorquando mancano le catene; che bastonano senza pietà quelli rinchiusi nelle gabbie per farli tacere, quando quei miseri non possono sopportare più oltre l'atroce martirio; che preferiscono appropriarsi dei viveri che il governo assegna alle amministrazioni delle carceri; e che piuttosto di incomodarsi, allorquando qualche prigioniero muore molto sovente di fame, lo lasciano imputridire nella sua gabbia in attesa che i topi lo facciano sparire! . . . . . . . . . . . . . . . Fedoro e Rokoff erano rimasti come inebetiti dall'orrore, dinanzi all'atroce scena che si svolgeva sotto i loro occhi. Intorno a tutte quelle gabbie, degli aguzzini armati di bastoni e di ferri infuocati, bastonavano senza posa i disgraziati che vi stavano rinchiusi o rigavano a fuoco lo loro membra anchilosate, provocando urla e strida orribili. Erano almeno una dozzina che s'accanivano con un sangue freddo ributtante, contro una trentina di prigionieri impacchettati fra le traverse di bambù, spaventosamente magri, tutti più o meno sanguinanti, colle vesti stracciate e gli occhi enormemente dilatati dal terrore. - Ma questa è una bolgia infernale! - esclamò finalmente Rokoff. - E oserebbero applicare anche a noi quelle torture? Parla, Fedoro! - No ... non è possibile - rantolò il negoziante di tè, che aveva l'aspetto d'un pazzo. - No ... una simile infamia contro di noi! ... - Fedoro, che cosa possiamo tentare? Ci lasceremo torturare e assassinare in questo modo da queste canaglie? Noi siamo innocenti. - Non so che cosa risponderti, mio povero amico. - Ciò che ci succede è spaventevole! No, non può essere che un sogno! - gridò Rokoff. - È pura realtà, amico mio. - E non tenteremo nulla? - Non possiamo far altro che rassegnarci. - Ah! no, vivaddio! Io spezzerò questa gabbia maledetta e farò un massacro di tutti! - Non riuscirai ad abbattere le traverse - disse Fedoro. - Lo credi? Ebbene, guarda! Il cosacco, a cui il furore centuplicava le forze, afferrò due canne e le scosse con tale rabbia, da farle inarcare e scricchiolare. Un carnefice, che stava rigando le cosce ad un disgraziato prigioniero mediante una sbarra di ferro arrossata al fuoco, accortosi di quell'atto, accorse, vociando e minacciando. - Toccami, se l'osi! - urlò Rokoff, allungando le mani attraverso le canne. Quantunque l'aguzzino non avesse potuto comprendere la frase, vedendo quell'Ercole in quella posa, si era arrestato titubando. - Noi siamo europei! - gridò Fedoro. - Guardati, perché le Ambasciate ci vendicheranno e vi faranno uccidere tutti. Quella minaccia, forse più che l'atteggiamento del cosacco, aveva fatto indietreggiare il carnefice. - Europei! - aveva esclamato. Poi, passato il primo istante di stupore e anche di terrore, aveva rialzata l'asta infuocata, minacciando d'introdurla fra le traverse e di calmare i due prigionieri con qualche puntata. - Giù quel ferro! - urlò Rokoff, scuotendo le canne con maggior vigore. - Giù o ti strangolo come un cane. - Tu non mi fai paura - rispose l'aguzzino. - Ora lo vedrai. Stava per farsi innanzi, quando la porta della sala si aprì lasciando il passo al magistrato che aveva arrestato i due europei nella casa di Sing-Sing. Vedendo il carnefice avvicinarsi alla gabbia, con un grido lo arrestò. - No, costoro - disse precipitosamente - non ti appartengono! Vattene! Vedendolo, anche Fedoro si era afferrato alle canne, gridandogli: - Canaglia! Mettici subito in libertà! Tu sai che siamo stati condannati senza colpa e che gli assassini sono gli affigliati della "Campana d'argento". - La liberazione non è lontana - rispose il magistrato. - Abbiate pazienza fino a domani. - Allora levateci da questa gabbia. - È impossibile per ora. - Noi non possiamo resistere a queste atroci scene. - V'interessate di quei banditi? - chiese il magistrato. - Non siamo abituati ad assistere a simili torture. - Manderò via i carnefici. - E fate dare da mangiare a quei miserabili che muoiono di fame. La vostra giustizia vi disonora. - Avranno dei cibi, - rispose il magistrato. - I nostri carcerati sono trascurati, questo è vero. Con un gesto che non ammetteva replica, fece uscire tutti; poi, rivolgendosi ai due europei, disse: - Non farete nulla per informare la vostra ambasciata fino a domani mattina? Solo a questa condizione io vi prometto di lasciarvi tranquilli. - Avete la nostra parola - rispose Fedoro. - Vi farò subito servire il pasto. - Se non possiamo quasi muoverci? - Vi ho detto che pel momento non posso liberarvi, perché la grazia dell'Imperatore non è ancora giunta. Tranquillatevi e abbiate fiducia nella giustizia cinese. - Che cosa ti ha detto quel miserabile? - chiese Rokoff, quando il magistrato fu lontano. - Che domani saremo liberi - rispose Fedoro, raggiante. - Essi hanno avuto paura di qualche denuncia all'ambasciata. Hanno voluto solamente spaventarci, sperando forse che noi confessassimo il delitto che non abbiamo commesso. - Ti giuro che non me ne andrò da Pechino senza strangolare qualcuno. Mi prendano poi, se ne saranno capaci. - E chi? - Quel furfante di maggiordomo. - Ti prometto di aiutarti. Egli è stato la sola causa delle nostre disgrazie. Deve aver protetto i membri della "Campana d'argento", messo il pugnale nella nostra camera e poi saccheggiata la cassa del suo padrone. - Noi lo strozzeremo, no, lo martirizzeremo in modo che muoia a poco a poco. Alcuni carcerieri erano entrati portando delle scodelle di riso, del formaggio fatto con fagioli, piselli mescolati a farina, gesso e succhi di vari semi, che ha il sapore dello stucco e che pure è assai pregiato in Cina, dei pien-hoa o radici eduli, delle arachidi e delle kau-ban, ossia olive salate e poi seccate. Passarono i tondi entro la gabbia occupata dai due europei, poi si ritirarono precipitosamente per paura di venire afferrati dalle poderose mani dell'ufficiale dei cosacchi. Altri intanto avevano portato ai miseri, che morivano di fame nelle altre gabbie, delle terrine ricolme d'una certa poltiglia nera, che esalava un odore nauseabondo, formata da chissà quali generi alimentari. Fedoro e Rokoff, che dalla sera innanzi non avevano assaggiato alcun cibo, quantunque potessero appena muoversi, vuotarono i tondi, scartando però le arachidi, buone solamente pei palati dei cinesi, essendo rancidissime. Terminato il pasto, il magistrato, che era ritornato, si sedette presso la gabbia offrendo loro, con molta gentilezza, alcune tazze di tè recate da un carceriere e dei sigari europei; poi impegnò con loro una divertente conversazione. Non era più il burbero magistrato che li aveva trattati da assassini e perfino minacciati di farli fucilare. Era un vero cinese delle caste alte, cerimonioso fino all'eccesso, amabilissimo, che discuteva con competenza anche sulle cose europee. S'intrattenne con loro fino a quando le lanterne furono accese, poi si accomiatò augurando la buona notte e promettendo che all'indomani sarebbero stati rimessi in libertà. - Fedoro - disse Rokoff, quando furono soli. - Capisci qualche cosa tu di questi cinesi? Io no, te lo assicuro. Poco fa pareva che volessero sottoporci alla tortura; ora ci colmano di cortesie. - Senza liberarci però - rispose il russo, che pareva un po' preoccupato. - Si direbbe che tu dubiti della promessa fattaci. - No, ma ... vorrei essere già lontano da qui. - Ci andremo domani e anche in fretta. Ci recheremo a comperare il tè a Canton od a Nan-King o in qualche altro luogo. Qui non ci fermeremo nemmeno un'ora dopo ... - Dopo che cosa? - Che avremo strangolato il maggiordomo. Per le steppe del Don! Quel gaglioffo non vedrà tramontare il sole domani sera, parola di Rokoff! Fedoro non rispose e si accomodò alla meglio per dormire. Ciò era possibile, perché gli altri condannati, dopo la zuppa somministrata loro dai carcerieri, avevano cessato di urlare. Rokoff, vedendo il compagno chiudere gli occhi, si allungò quanto glielo consentiva lo spazio e cercò d'imitarlo, sognando già di sentire sotto le mani il collo del maggiordomo di Sing-Sing. All'indomani, quando riaprirono gli occhi, svegliati dalle urla degli affamati, ai quali la zuppa del giorno innanzi non era stata sufficiente a calmare i lunghissimi digiuni, Fedoro e Rokoff videro la loro gabbia circondata da otto robusti facchini. Due lunghe aste, un po' elastiche, erano state passate fra le canne che formavano la parte superiore della piccola prigione, assicurandole con corde. - Pare che si preparino a portarci via - disse Rokoff. - Che ci conducano all'ambasciata rinchiusi qui dentro? Potevano metterci in una portantina, questi spilorci; avrei pagato ben volentieri il nolo. Fedoro non aveva risposto. Guardava con viva inquietudine i facchini, chiedendosi dove lo avrebbero portato. Cercò cogli sguardi il magistrato, ma non era ancora giunto. Invece erano entrati dodici soldati, armati di fucili, guidati da un ufficiale che faceva pompa d'una larga e lunghissima scimitarra. - Fedoro, - riprese Rokoff - dove vogliono condurci? Domanda a quel comandante perché non ci mettono subito in libertà, come ci aveva promesso il magistrato. Tu non mi sembri tranquillo. - È vero, Rokoff; sono preoccupato per l'assenza del magistrato. - Si sarà ubriacato d'oppio e giungerà più tardi. In quel momento l'ufficiale si avvicinò ai facchini, dicendo: - Andiamo. - E dove? - chiese Fedoro, mentre la gabbia veniva alzata. Il comandante del drappello guardò il russo con stupore, inarcando le sopracciglia. Forse era sorpreso di sentirsi interpellare da un prigioniero. - Vi ho domandato dove ci volete condurre - replicò Fedoro. - Ci era stata promessa la libertà per stamane. - Ah! - fece l'ufficiale. Poi, voltandogli bruscamente le spalle, disse: - Orsù, sbrigatevi. Quattro facchini si posero le aste sulle spalle e portarono fuori la gabbia, seguiti dagli altri quattro che dovevano surrogarli più tardi e dal drappello dei soldati. L'ufficiale marciava innanzi a tutti, colla scimitarra sfoderata. - Comprendi nulla tu? - chiese Rokoff al negoziante di tè. - Non so spiegarmi il motivo per cui hanno preso tante precauzioni verso due uomini che devono mettersi in libertà - rispose il russo, le cui inquietudini aumentavano.- Vedremo come finirà questa avventura. Un carro massiccio, tirato da due cavalli e scortato da dodici cavalieri manciù, li attendeva fuori della prigione. La gabbia fu caricata, solidamente assicurata, poi i cavalli partirono al galoppo, fiancheggiati dai manciù. - Questi cinesi vogliono rovinarci - disse Rokoff, che si aggrappava fortemente alle canne per resistere agli urti ed ai soprassalti che subiva il ruotabile. - Ehi, cocchiere del malanno! Rallenta un po' la corsa! Non siamo già di caucciù noi! Basta, ti dico, buffone! Erano parole sprecate. I cavalli, piccoli, vivaci, eppur vigorosi, come sono tutti quelli dell'impero, galoppavano sfrenatamente, imprimendo al carro delle scosse disordinate in causa del pessimo stato delle vie, quasi tutte sfondate e rigate da solchi profondissimi. Sempre scortati dai manciù, i prigionieri attraversarono i quartieri meno popolati della capitale e che stante l'ora mattutina erano ancora quasi deserti e uscirono dalla porta di Shahuomen, passando sotto una massiccia torre quadrata. - Dove ci conducono, Fedoro? - chiese Rokoff, vedendo il carro seguire i bastioni esterni. - Vorrei saperlo anch'io. - All'ambasciata no di certo. - Siamo usciti dalla città. - E ci dirigiamo? - Verso il Pei-Ho, se non m'inganno. Ah! Mi viene un sospetto. - E quale Fedoro? - Che c'imbarchino su qualche giunca e che ci traducano a Tient-sin o fino al mare per impedirci di fare i nostri reclami all'ambasciata russa. - Ci sfrattano dall'impero? - Lo suppongo, Rokoff. - Che ci mandino via non m'importa: mi rincresce solo di andarmene senza aver strozzato quel cane di maggiordomo. Però non siamo ancora giunti al mare. Il carro intanto continuava la sua corsa indiavolata, seguendo sempre le mura della capitale, robustissime ancora, quantunque contino molti secoli, alte nove metri, con uno spessore di cinque, tutte lastricate in marmo, con bastioni, torri, fossati e cannoniere in gran numero, guardati però, per la maggior parte, da pezzi d'artiglieria di legno. Di quando in quando passava in mezzo a borgate popolose, circondate da ortaglie, attirando l'attenzione dei passanti, i quali però rimanevano subito indietro tutti, perché i cavalli non rallentavano il galoppo. Attraversato su un ponte di pietra il canale fangoso che viene chiamato pomposamente "fiume" e che altro non serve che ad alimentare gli stagni ed i laghetti dei giardini del palazzo imperiale, il carro si diresse verso il nord- est. - Mi pare che ci conducano a Tong - disse Fedoro. - Che cos'è? - Una borgata sulle rive del Pei-Ho. - Allora tu devi aver ragione. Vogliono imbarcarci. - Tale è ancora la mia opinione, Rokoff. - Purché facciano presto! Io ho tutte le membra rotte e se questa corsa dovesse durare ancora poche ore, non potrei più fare un passo. È così che trasportano i detenuti queste canaglie cinesi? - Sì, Rokoff. - In conclusione, trattano i prigionieri come polli. - Né più né meno - rispose Fedoro. - Bel sistema per far rompere le gambe. - Che ha però il vantaggio; di rendere le evasioni impossibili. - In quale stato devono giungere i condannati che si mandano dai paesi lontani! - E lontani centinaia di miglia? - aggiunse Fedoro. - All'inferno i cinesi! - Vedo delinearsi all'orizzonte delle abitazioni. - - Che sia la borgata? - Sì, Rokoff; il Pei-Ho deve scorrere dietro di essa, perché vedo anche delle piante d'alto fusto. La nostra prigionia sta per cessare. I cavalli acceleravano la corsa, attraversando la pianura piuttosto arida che si estende intorno all'immensa capitale. I manciù si erano divisi in due drappelli: uno marciava innanzi al carro; l'altro dietro. Come se temessero qualche sorpresa, avevano levato i moschetti che fino allora avevano tenuto appesi alla sella e sguainate le scimitarre. In lontananza si udiva un fragore confuso che pareva aumentasse di momento in momento. Erano urla acute, tocchi di tam-tam e muggiti di conche marine. Si sarebbe detto che una folla enorme si accalcava intorno alla borgata. - Che siamo aspettati? - chiese Rokoff. - Non so - rispose Fedoro, il quale era diventato pallido. Si era alzato sulle ginocchia, spingendo lontani gli sguardi. Di fronte alla borgata, una folla enorme si accalcava su una pianura sabbiosa, agitandosi disordinatamente e urlando a piena gola. Pareva che succedesse qualche straordinario avvenimento. Quando il carro giunse sul margine della pianura, la folla si squarciò di colpo per lasciare il passo, mentre da ventimila petti usciva quell'urlo terribile che è suonato agli orecchi degli europei come una tromba funebre durante le insurrezioni mongoliche: - Fan-kwei-weilo! Weilo! Fedoro aveva mandato un grido d'orrore. In mezzo a quel mare di teste rasate aveva veduto ergersi un palco, e su esso, ritto come una statua di bronzo giallo, un uomo di statura quasi gigantesca, che s'appoggiava ad una larga scimitarra. Era un carnefice in attesa delle sue vittime.

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

"La coraggiosa donna s'avanzò quindi nel deserto raggiungendo felicemente l'oasi di Gharbi, ma colà si vide subito abbandonata, con un pretesto qualunque, da quel capo, e affidata alla protezione di un marabutto chiamato Hang-Amed. "Poco tempo dopo essa veniva raggiunta da otto Tuareg che dicevano di aver ricevuto l'ordine di scortarla. "La Tinnè che non dubitava d'un tradimento, accettò la scorta e riprese la marcia con ventisette arabi ed altrettanti cammelli, forza imponente che avrebbe dovuto tenere in freno i predoni, se tutti quegli uomini fossero stati fedeli. "Al terzo accampamento dopo Murzuk, i Tuareg della scorta, quantunque avessero ricevuto ricchi regali, cominciarono a mostrarsi esigenti e ad assumere un contegno minaccioso. Si erano messi d'accordo col tunisino per spogliarla. "Resi arditi dalla complicità di quel miserabile, chiesero alla viaggiatrice cinquanta talleri ed un burnus nuovo, minacciando in caso contrario di abbandonarla nel deserto. È così, El-Haggar?" "Sì, signore," rispose il moro. "Il tunisino, anima vile e perversa, era d'accordo con loro." "La Tinnè, donna energica e risoluta, rifiutò recisamente, promettendo però di fare loro altri regali quando la carovana fosse giunta salva a Scenukhen. Tuttavia, temendo qualche brutta sorpresa da parte di quei ladroni, fece rimettere al loro capo un presente di valore. "Il giorno seguente i cammellieri, che si erano pure accordati coi Tuareg, cominciarono a dare segni d'insubordinazione, rifiutandosi dapprima di partire, poi sventrando alcuni otri. "La Tinnè sospettò qualche cosa, perché si è saputo che aveva divisato di tornare a Murgest, ma l'infame tunisino fu così abile nel rassicurarla, da indurla a riprendere la marcia verso il sud. "Il lo agosto erano già giunti nella valle dell'Aberdisciuk, lontani dalle oasi abitate. "La Tinnè aveva dato ordine dopo una notte tranquilla di levare le tende e di caricare i cammelli. Doveva essere l'ultimo ordine che dava; la sua morte era stata ormai decisa dai Tuareg e dal tunisino. "Già stavano per rimettersi in marcia, quando una viva questione insorse fra due cammellieri, pel carico dei bagagli. "Uno dei due marinai olandesi volle interporsi per rappacificarli. Un Tuareg si slanciò allora contro il disgraziato colla lancia alzata, gridandogli "Che hai tu per immischiarti in una questione sorta fra mussulmani?" "Aveva appena pronunciato quelle parole che il povero olandese cadeva al suolo trafitto. "Il suo compagno, Ary Jacobs, che si trovava già a cavallo, si slanciò verso l'assassino tentando di afferrare il fucile che aveva appeso alla sella, ma prima che avesse potuto armarlo cadde a sua volta, sotto un colpo di scimitarra e uno di lancia. "Alle grida delle donne e degli schiavi liberati, la signora Tinnè uscì dalla tenda, chiedendo che cosa succedesse. "I Tuareg ed i cammellieri si erano già precipitati sulle casse e le saccheggiavano, credendo che fossero piene d'oro come aveva dato loro ad intendere il tunisino, mentre i servi fuggivano vigliaccamente in tutte le direzioni. "La signora Tinnè comprese subito che la sua ultima ora era suonata, tuttavia cercò di calmare quei miserabili e d'imporsi colla propria energia. "Un arabo, certo Hman, della tribù dei Bu Sef, le passò dietro e le vibrò coll'jatagan un colpo sulla nuca facendola cadere al suolo svenuta e sanguinante. "Poche ore dopo la sfortunata signora spirava senza soccorso alcuno, mentre le sue ricchezze passavano nelle mani dei cammellieri e dei Tuareg. È così, El- Haggar?" "Sì, signore," rispose il moro. "E tu non l'hai difesa?" chiese Esther, con indignazione. "Ti credevo più coraggioso, El-Haggar." "Io ero stato abbattuto da un colpo di lancia, la cui punta mi aveva trapassato la spalla," disse il moro. "Quando tornai in me, dopo molte ore, la signora Tinnè era già morta." "Ed è rimasto impunito quell'assassinio infame?" chiese Ben. "Furono arrestati i servi, ai quali i Tuareg avevano dato alcuni cammelli perché tornassero a Murzuk, ma gli altri scorrazzano ancora il deserto," disse il marchese. "Anzi il dottor Bary incontrò più tardi l'uccisore della Tinnè nell'oasi di Ghat e lo udì ancora vantarsi di quel delitto." "E il tunisino?" chiese Esther. "Di quel miserabile, che osò perfino spogliare la Tinnè mentre era ancora agonizzante, non si seppe più nuova." "Che canaglie!" esclamò Ben. "Ah! Non è il solo delitto rimasto impunito," disse il marchese. "Anche l'assassinio dei signori Dournaux Duperrè e di Joubert non è stato vendicato." "Chi erano costoro?" chiesero Ben ed Esther. "Due coraggiosi francesi che si erano proposti di esplorare il Sahara al sud dell'Algeria e che furono vigliaccamente assassinati dai Tuareg. "Avevano già visitato felicemente parecchie oasi del Sahara, Dournaux studiando e Joubert negoziando, perché era un abile trafficante, quando ebbero la malaugurata idea di prendersi una guida tuarik, certo Macer-Ben-Tahar, un traditore forse peggiore del tunisino della signora Tinnè. "Si erano già molto inoltrati nel deserto, quando s'accorsero che quella guida cercava d'ingannarli e che per meglio riuscire nei suoi disegni cercava di allontanare la loro seconda guida. Amed-Ben-Herma, la quale invece aveva dato prove di fedeltà non dubbia. "Decisero quindi di sbarazzarsene e giunti a Ghedames la denunciarono al cumacan. Fu un'imprudenza di certo ed il magistrato, che conosceva l'animo vendicativo dei Tuareg, non mancò di avvertirli del pericolo. "Macer aveva infatti giurato di vendicarsi dei suoi ex padroni e non mancò alla promessa. "I signori Dournaux e Joubert si erano allontanati da Ghedames di alcune giornate, quando si videro raggiungere da sei tuarik che parevano affamati e miserabilissimi. "Avendo chiesto ai due francesi ospitalità con pianti e lamenti, furono ricevuti nel campo e provvisti di cibi. Erano sei assassini mandati dal vendicativo Macer. Di notte, mentre i due francesi dormivano, quei miserabili invasero la tenda e li trucidarono barbaramente a colpi di pugnale." "E nemmeno quei disgraziati furono vendicati?" "I loro assassini scomparvero nell'immensità del deserto e più nessuno si occupò di loro." "Abbiamo fatto bene a dare loro quella severa lezione," disse Rocco. "Se avessi saputo, ciò prima, invece che sui cammelli avrei sparato contro gli uomini. Forse quei bricconi avevano preso parte all'assassinio dei signori Dournaux e Joubert e fors'anche a quello della missione Flatters e ... " Rocco si era bruscamente interrotto. I suoi sguardi si erano incontrati a caso con quelli del sahariano, ed era rimasto stupito dal lampo terribile che balenava negli occhi di costui. "Che cosa avete, El-Melah?" chiese. "Perché mi guardate così?" Tutti si erano voltati verso il sahariano e rimasero colpiti dall'espressione cupa del suo volto. "È nulla," disse El-Melah, ricomponendosi. "Udendo questi racconti sanguinosi, ho avuto un'impressione sinistra." "Comprendo," disse il marchese. "Avete assistito troppo di recente a una simile strage." "È vero, signore," disse il sahariano. "Vado a riposare, se me lo permettete." S'alzò quasi a fatica e uscì dalla tenda con passo malfermo. "Flatters!" mormorò coi denti stretti, gettando all'intorno uno sguardo smarrito. "Che non lo sappiano mai, almeno fino a Tombuctu." Alle tre del mattino, dopo un riposo di sei ore, il marchese faceva suonare la sveglia, desiderando giungere ai pozzi di Marabuti prima che il sole, che fra poco doveva mostrarsi, tornasse a scomparire. Durante la notte nessun allarme era stato dato dagli uomini di guardia. Alle quattro la carovana, dopo una leggera colazione, si rimetteva in cammino scendendo una immensa pianura che, in tempi certo antichissimi, doveva essere stata il fondo d'un vasto serbatoio d'acqua salata, a giudicare dalle masse di sale che si vedevano sparse fra le sabbie. Il marchese e Ben si erano ricollocati alla retroguardia e Rocco come sempre all'avanguardia a fianco di El-Haggar. Le vicinanze dell'oasi di Marabuti s'indovinavano facilmente pel numero considerevole d'animali che si vedevano correre in mezzo alle dune. Di quando in quando, ma a grande distanza, e quindi fuori di portata dai fucili, si vedevano fuggire bande di struzzi e di grosse ottarde. Talora invece erano truppe di sciacalli dalla gualdrappa, specie di cani selvaggi colla testa da volpe, gli orecchi grandissimi, gli occhi grossi, le code lunghissime, ed il pelame rossastro, fitto e morbido, che diventava giallognolo sotto il ventre, col dorso coperto da una specie di gualdrappa nera a strisce bianche, del più curioso effetto. Al pari dei caracal questi sciacalli non sono pericolosi per gli uomini, tuttavia non mancano d'audacia e osano entrare perfino nei duar onde mangiare ai poveri montoni la grossa coda, un boccone squisito e molto apprezzato dai sahariani. Anche qualche iena striata di quando in quando si mostrava sulla cima delle dune, facendo udire il suo riso sgangherato; ma all'appressarsi della carovana subito s'allontanava al galoppo. A mezzodì El-Haggar, che si era spinto innanzi alcune centinaia di metri, segnalò una linea di palme, la quale spiccava vivamente sul purissimo orizzonte. "L'oasi!" gridò, con voce giuliva. "Presto! là avremo acqua fresca e selvaggina!" Anche i cammelli avevano fiutato la vicinanza dell'acqua. Quantunque stanchissimi, affrettarono il passo, mentre i mehari non si trattenevano che a grande stento. "Ben," disse il marchese, "precediamo la carovana. Sono impaziente di godermi un pò d'ombra e di bere una buona tazza d'acqua." "Sono con voi, marchese," rispose l'ebreo. Spronarono i cavalli, lanciandoli a corsa sfrenata. Le palme ingrandivano a vista d'occhio, spiegandosi in forma d'un vasto semicerchio. L'effetto che produceva quel verde in mezzo alle aride ed infuocate sabbie del deserto era così strano, che il marchese stentava a credere d'aver dinanzi a sé delle vere piante e dubitava che si trattasse invece d'uno dei soliti giuochi del miraggio. "Si direbbe che quell'oasi sia un'isola perduta sull'oceano," disse a Ben. "Ed è anche popolata, marchese," rispose l'ebreo, rattenendo violentemente il cavallo. "Vedo dei cammelli, in mezzo a quelle piante." "Che appartengano a qualche carovana proveniente dalle regioni meridionali?" "O che siano i nostri Tuareg? Possono averci preceduti e senza difficoltà, avendo tutti dei buoni mehari." "Se sono essi daremo battaglia e questa volta non saranno gli animali che cadranno." Ben non si era ingannato. Parecchi cammelli e mehari, montati da uomini vestiti di ampi caic bianchi e coi volti quasi interamente nascosti da pezzuole legate dietro la nuca, si erano schierati dinanzi ai gruppi di datteri e di palme che formavano l'oasi. Non dovevano essere quelli che li avevano inseguiti, perché erano tre volte più numerosi e per la maggior parte armati di lance. Anche gli uomini della carovana si erano accorti della presenza di quegli stranieri. Rocco ed El-Haggar accorrevano in aiuto del marchese e di Ben, l'uno col mehari e l'altro montato sull'asino. Dieci Tuareg, preceduti da un uomo di alta statura che portava un turbante verde, un capo di certo, s'avanzavano tenendo le lance in pugno. Quando giunsero a cento passi dal marchese, l'uomo dal turbante. verde lo salutò con un "Salam-alek" molto cortese. Poi, assumendo improvvisamente un'aria spavalda, gridò: "I pozzi sono occupati da noi e per ora ci appartengono: che cosa volete quindi voi, figli del sultano del Marocco?" "Noi siamo assetati, desideriamo bere," rispose El-Haggar. "L'acqua del deserto appartiene a tutti ed i pozzi sono stati costruiti dai nostri padri." "I vostri padri li hanno abbandonati ai Tuareg e noi li abbiamo occupati. Volete bere? Sia, ma l'acqua la dovrete pagare." "Che cosa chiedi?" "Le vostre armi e la metà dei vostri cammelli." "Ladro!" gridò il marchese, che non poteva più frenarsi. "Ecco la mia risposta!" Con un rapido gesto aveva alzato il fucile, mirando il capo. Già il colpo stava per partire quando El-Melah, che era giunto guidando il cammello di Esther, si precipitò innanzi, gridando: "Amr-el-Bekr, non mi conosci più? Pace! Pace!"

Quando, dopo alcuni minuti, si volse, vide Esther stesa sulla fine sabbia della caverna, colla testa abbandonata su un braccio e le palpebre chiuse. Il seno le si alzava affannosamente, come se provasse difficoltà a respirare quell'aria infuocata che pareva priva di ossigeno. "Un pò di riposo le farà bene," disse. Si rimise in osservazione, lottando contro il torpore che lo invadeva con maggior ostinazione; quando ad un tratto chiuse gli occhi. I fragori della tempesta non giungevano che vagamente alle sue orecchie e si sentiva invadere da un torpore delizioso, che lo invitava ad abbandonarsi. Lottò ancora qualche momento, poi, vinto da un estremo languore, si lasciò cadere, mentre le sabbie, spinte dai venti, continuavano ad accumularsi dinanzi al rifugio, minacciando di seppellirlo vivo colla giovane ebrea.

Lo sapevo che non mi avreste abbandonata!" Il signor di Sartena la sollevò come se fosse una piuma, e la mise sul cavallo che conduceva, gridando: "In ritirata!" Le capanne bruciavano dappertutto. Le scintille, cadendo dovunque, facevano scoppiare nuovi incendi. I negri, atterriti, credendo forse di aver di fronte un grosso numero di nemici, erano fuggiti senza tentare la menoma resistenza, disperdendosi per la pianura. I quattro cavalieri passarono a galoppo sfrenato fra le capanne fiammeggianti e scomparvero in direzione della palude, mentre in lontananza si udivano echeggiare urla di spavento e qualche colpo di fucile. "Dove andiamo, signore?" chiese Rocco. "Sarà impossibile attraversare quel pantano." "Ne faremo il giro," rispose il marchese. I cavalli, spaventati dall'incendio che proiettava sulla pianura una luce intensa, correvano come daini, senza bisogno di essere aizzati. Giunsero in pochi minuti sulle rive dei primi stagni e piegarono a sinistra, seguendone le rive, senza che fosse necessario guidarti. Dovevano conoscere la via che forse avevano percorso molte volte per trasportare al villaggio i carichi delle scialuppe. In meno di venti minuti girarono la pianura pantanosa e raggiunsero il margine del bosco. "Cerchiamo di orizzontarci," disse il marchese. "Il fiume sta dinanzi a noi," disse Rocco. "Troveremo subito la scialuppa." Si cacciaron sotto il bosco, seguendo le rive di un ruscelletto, e si trovarono ben presto nella piccola laguna. La scialuppa era ancora là, guardata da El- Haggar e dai due battellieri. "Esther!" disse il marchese, "raggiungete l'imbarcazione. Noi faremo una battuta nel bosco, prima di prendere il largo." Discesero da cavallo, lasciando che gli animali se ne andassero liberamente, non essendo più di alcuna utilità; poi i due isolani e l'ebreo fecero il giro del bacino, sia per procurarsi dei viveri, sia per assicurarsi che non vi fossero altri negri nascosti fra le piante. "Non abbiamo nulla da temere," disse il marchese. "Gli abitanti del villaggio non temeranno più qui di certo, dopo la lezione che abbiamo loro inferta. Fra poco d'altronde noi usciremo sul fiume e ce ne andremo da questi luoghi pericolosi." "Credete che tutto sia finito?" chiese Ben. "Lo spero," rispose il marchese. "Che cosa possiamo temere ancora?" "Uhm! io non sono tranquillo, signore. Conosco l'ostinazione dei negri, e vedrete che ci aspetteranno sul Niger." I tre esploratori fecero il giro del bacino senza aver incontrato alcun negro e tornarono verso la scialuppa portando un enorme grappolo di banane e un'ottarda che Rocco aveva sorpresa in mezzo ad un cespuglio e uccisa col calcio del fucile. "Nessuno?" chiese Esther, appena li vide. "La foresta è disabitata," rispose il marchese. "Credo che potremo divorare la nostra colazione senza venire disturbati." "Ne siete ben certo, signore?" chiese il sospettoso El-Haggar, crollando il capo. "Hai udito forse qualche cosa?" "Qui no, ma verso il fiume in direzione di Koromeh mi è sembrato di udire rullare i noggara." "Quegli abitanti non possono averci veduti." "Però perlustreranno il fiume. I nostri canottieri mi hanno detto che in quella borgata vi sono moltissime scialuppe e anche grosse." "Mi pare che siamo ben nascosti, tuttavia manderemo i battellieri sulla riva," disse il marchese. "Al primo allarme ci getteremo nella foresta. Rocco, prepara la colazione." "L'ottarda è già spennata." Fu acceso il fuoco sotto un sicomoro, onde il fumo non si spandesse e venisse notato dai rivieraschi o dai canottieri di Koromeh, ed il grosso volatile fu messo ad arrostire sotto la sorveglianza del buon sardo. Una mezz'ora dopo tutti davano vigorosamente l'assalto alla deliziosa colazione, mentre verso l'opposta riva del fiume si udivano rullare cupamente i tamburi di guerra.

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

682524
Serao, Matilde 1 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Non vi è venditrice di acqua minerale, di noci, di frutta fracide, di ciambellette, di spassatiempo che guadagni, quando li guadagna, più di dodici o quindici soldi al giorno e, se è sola, se è vedova, se è abbandonata dal marito, come potrebbe pagarne diciassette, al giorno, per il pigione di casa? In breve: come era naturale, non un solo luciano , non una sola luciana è andata ad abitare al Borgo Marinai. Non uno, una! Hanno preferito, ostinatamente, le loro vecchie, dirute, sudicissime case che, per diciotto anni, hanno aspettato il piccone, ove pagavano nove o dieci lire il mese, di pigione - è TUTTO ciò che può pagare il popolo napoletano NOVE o DIECI LIRE il mese! - e negli ultimi due anni, man mano si sono ritirati più indietro, nelle medesime catapecchie, e scacciati dalle demolizioni, sono rientrati, rientrano la notte ad abitare le rovine, e si gittano alle ginocchia dei demolitori, per non essere perseguitati dalle guardie, dai carabinieri, e piangono, e gridano, e urlano, non vogliono andar via, non sanno andar via, e alcuni di essi, o pietà grande, abitano, adesso, nelle grotte onde è forato il monte Echia che sovrasta santa Lucia, e talvolta una di queste grotte frana sulle teste, sui corpi di questi miseri luciani che dormono, e li uccide. Intanto dirimpetto, sotto il forte Ovo, il Borgo Marinai scintilla di lumi che si riflettono nelle acque del mare. Chi vi abita, chi vi vive, mai? Pittori che scelsero quei quartini per istudio, poichè il posto è pittoresco; qualche loro modella; delle ballerine o delle chanteuses del vicino cafè chantant dell'Eldorado, che prendono in affitto, per un mese, per quindici giorni, una cameretta con cucina; qualche donnina di facile vita e misera fortuna; e altra minuta gente, non del popolo. In quanto alle botteghe, esse in un vasto angolo, sono tutte trasformate in osterie grandi e piccole, alcune carissime, altre modeste, altre vere taverne e vi si aspira un'aria mefitica di cucine più o meno malsane, e nel piccolo porto cadono tutti i detriti di queste taverne e ciò contrista, affligge, avvilisce i due eleganti clubs dei canottieri che sono sulla riva accanto. A ogni modo il Borgo Marinai è vivido, lieto, curioso: e inutile, infine, anche al santo scopo a cui serviva. I luciani sono d'altra parte respinti di stamberga in stamberga, respinti di rovina in rovina, di grotta in grotta. E dopo, quando tutto, tutto sarà demolito dove andranno questi superbi ma poverissimi popolani, quelle fiere, ma miserissime popolane dove andranno? Lo sa Iddio! Anche le case del popolo costruite all'Arenaccia, nel Quartiere Orientale hanno fallito completamente la meta. Il minor prezzo di ognuno di questi quartini, è ventisette lire il mese; si domandano due mesate anticipate, per regolamento, cioè cinquantaquattro lire: o si domanda un garante solido. Anzi tutto, dove è mai un vero popolano che possa pagare ventisette lire il mese, di pigione? Per poter cavare questa somma, un napoletano del popolo deve guadagnare almeno due lire e cinquanta al giorno, o tre lire: e allora, qui da noi, non è più un popolano, è già un operaio, ma di quelli fortunatissimi, di opera eletta, diciamo così: è già un civile, è già appartenente alla piccola borghesia. Dove, dove è il popolano che disponga, mai, nella sua vita di cinquantaquattro lire tutte insieme? Dove, dove è il popolano che trovi un garante solido? Ah che nessuno, nessuno si convince che qui, il popolo nostro, vive di soldi e non vive di lire, che gitta la sua gioventù, la sua salute e la sua forza in fatiche compensate irrisoriamente, felice, anche, di trovarla, questa fatica; che, per istinto, poichè nessuno pensò a educarlo, preferisce spendere i suoi soldi più nel mangiare, che nell'aver una casa e delle vesti e che quando ha venti soldi, quindici, almeno, gli servono pel suo pranzo e il resto, pel resto! Ventisette lire il mese! Cinquantaquattro lire di anticipo! Un garante solido! Quale ironia insultante! Nelle case del popolo, all'Arenaccia, nel Quartiere Orientale non abitano, dunque, che gli operai eleganti, diciamo così, e tutta la piccola borghesia, piccoli impiegati, commessi, contabili, uscieri, scritturali e, persino, dei cancellieri di tribunale: non abitano che tutti coloro, il cui bilancio familiare fluttua da settantacinque lire a cento lire il mese, posizione, già molto brillante, in questo nostro paese. Borghesia, borghesia minuta, modesta, innumerevole come le stelle del cielo e le arene del mare, borghesia lavoratrice, onesta, ma, come si vede, molto povera, per la sua condizione: borghesia, non altro che borghesia, nelle case del popolo, ma niente popolo, mai! Vi è di più. Spesso, a questi operai fortunati, a questi oscuri borghesi dalla decente miseria, è impossibile pagare ventisette lire al mese, perchè vi sono spesso, cioè, non spesso, sempre, dei figli, e spesso, quasi sempre molti figli, poichè la fecondità femminile, la prolificazione, sovra tutto in certe classi, assume proporzioni assai patriarcali, ma, anche, terrificanti. E allora si trova il rimedio peggiore e migliore; sono due le famiglie che prendono in affitto la casa di ventisette lire, stringendosi, stringendosi, mettendosi in tre, in quattro in una stanza, avendo la piccola cucina comune e allora, addio aria, addio luce, addio igiene! Spesso una famiglia subaffitta una camera a studenti, a uomini soli e la vita è comune e tanto nel primo, come nel secondo caso l'agglomerazione, i contatti, il vivere gli uni sugli altri, conduce, novellamente, alla sporcizia, alla malattia, al vizio, alla corruzione e alla depravazione. In quei nuovi caravanserragli, laggiù, laggiù, in questi caravanserragli già tutti deturpati, dall'aspetto già sconquassato, dalle macchie di sudiceria trapelanti dai muri, dai vetri già appannati e dalle cui finestre, come nei quartieri antichi, pendono le biancherie di dubbio colore, mal lavate, e i mazzi di pomidoro e i mazzi di agli, in questi derisorii caravanserragli che dovevano servire alla rigenerazione fisica e morale del popolo napoletano, si svolgono, ogni giorno, drammi dolorosi venuti, appunto, dalla povertà e dalla degenerazione, si svolgono farse grottesche e si vive colà, male, malissimo, come si viveva altrove, e per una folla che, per abnegazione, per virtù naturale, per onestà natia conserva la decenza dei costumi, ve ne è un'altra che ha trasportato, colà, tutti i suoi istinti indomabili, indomati, che niuno ha cercato di domare, che ha impiantato, colà, una novella vita brulicante e scostumata come nei vecchi quartieri, che, infine, se pure non ruba, se pure non assassina, altri essendo i covi e le caverne del ladri e degli assassini, mette, accanto alla folla borghese e decente, una nota di più bassa borghesia, indecente, rumorosa, screanzata, villana, repugnante. Non popolo, non popolo! Il popolo napoletano è restato nei suoi bassi dei vecchi quartieri, nei suoi bassi dei quartieri non risanati, nei bassi purtroppo, del Vasto, dell'Arenaccia, del Quartiere Orientale; non è mai salito, in nessun posto, di Napoli antica, di Napoli nuova, al primo piano o all'ultimo piano, perchè non può pagare i prezzi, anche minimi che vi si pagano, perchè chi ha costruite quelle case non sapeva niente, ignorava tutto e, intanto, ha fatto una ottima speculazione, poichè tutte quelle case sono affittate, come ho detto; ma lo ripeto, e lo ripeterò sempre, il popolo napoletano non si è mosso dal suo basso , dovunque il basso si trovi, sia una bottega quasi pulita o sia un buco oscuro e insalubre Così, purtroppo, tutte le grandi idee dei grandi uomini, tutti i vasti progetti, a base di milioni, tutte le intraprese colossali, che volevano il risanamento igienico e morale di Napoli, bisogna dirlo hanno fatto fiasco. E non vi è rimedio, dunque? Non vi è altro da fare? Nulla, proprio, di fronte a tante tristezze, a tanti disastri, a tanti pericoli sociali? Chi sa! Vedremo!

CONTRO IL FATO

682599
Steno, Flavia 1 occorrenze

Ecco, c'è là, nel quarto palco a destra, la piccola marchesa di Rosenz divisa dal marito e abbandonata dall'amante. Il momento è buono, e poi è un tipo diverso dal solito, ottima educazione, quattro quarti di nobiltà, un'eleganza fine e distinta, una vera signora, ecco.... È bionda: vi va? - Non credo che siano molto divertenti le vere signore - osservò Willy. - Ah, preferite il demi-monde? Allora non so che cosa suggerirvi meglio di Georgette. Se vi piacesse la Pearl, là in seconda fila, quella con una corazza d'argento per busto.... È inglese, esordisce appena, quindici anni e un accento char- char-mant L'ha lanciata Louvedine, ma ormai ne è stanco. Vi piace? - È troppo giovane.... - disse ancora William. - Ah, ma siete di difficile contentatura, signor Rook! Nè Olga, nè Georgette, nè Pearl! Ecco! - esclamò ad un tratto, curvandosi un po' fuori per veder meglio, mentre un movimento di sorpresa agitava tutto il teatro. - Se non sbaglio, entra la bella Yvonne. Guardate un po', signor Rook, voi potrete veder meglio di me; nel palco di centro in prima fila.... Il signor Rook osservò, e potè frenare a stento un grido di meraviglia. - Splendida! - esclamò. - Ah è dessa, non è vero? - chiese di Chalmy trionfante. - Sarà certo col vecchio Paulowski; possiede molti biglietti da mille che ha mangiato al vecchio! Egli ne è pazzo, e credo che se essa lo abbandonasse, ne morrebbe. Ma com'è bella!... Dicono che a Mosca sia riuscita a far impazzire un conte innamoratissimo di sua moglie e tenerissimo pei suoi figli. Yvonne scommise che sarebbe stata capace di farlo fuggire con lei: diecimila rubli contro cinque giovanotti della haute di Mosca. Questi s'incaricarono di portare il conte in un gabinetto particolare del Café CaféFrançais con la scusa di dover discorrere d'affari. Yvonne pure vi si trovava, e a un tratto, essendo caduto il discorso sullo donne, essa protestò d'essere la più bella fra tutte; con un sol gesto si staccò di sulle spalle la tunica che la copriva, e apparve tutta nuda come un giglio superbo e intatto, agli occhi attoniti degli ammiratori. Il conte impazzì e fuggì con lei; la promessa era vinta, ma dopo pochi giorni egli si uccideva straziato dall'amore e dal rimorso, ed essa ritornava a Mosca a prendere i diecimila rubli scommessi. Potete immaginare il chiasso che ha fatto in Parigi questa storia!... Marchand ha voluto copiarla per esporla al Salon Salone le ha offerto ventimila lire per la posa. Ha accettato, e vi so dir io che la sua statua le ha procurato migliaia d'offerte splendide e l'odio di tutte le parigine.... Non siete stato al Salon, signor Rook? - No! - disse questi. - Peccato! val la pena d'andarvi, fosse solo per Yvonne. - Ah, conto di far meglio per Yvonne; vorrei vedere se ella è capace di far impazzire me pure - disse lo Yankee. Il visconte di Chalmy sorrise trionfalmente. - Signor Rook, siete vinto! Vi piace questa finalmente, eh? Andate! Vi assicuro io, che se ne accorgeranno i vostri banchieri. Il signor Rook aggrottò impercettibilmente le sopracciglia. - Quanto le darà Paulowski? - interrogò. - Non so precisamente; dicono ch'essa gli abbia già mangiato quasi un milione. - Da quanto tempo è a Parigi? - interrogò ancora il signor Rook. - Da due settimane appena; veniva direttamente da Vienna, dove appunto aveva incontrato Paulowski. - Ebbene, un milione in due settimane non è poi una somma enorme! Non sono neppure centomila lire al giorno! - disse il signor Rook con un'indifferenza che fece stupire di Chalmy. - Ma allora siete proprio deciso a voler sostituire Paulowski? - disse. - È un vero colpo di fulmine questo! - Se volete essere tanto gentile da presentarmi alla signorina Yvonne la bella.... - soggiunse William cortesemente. - Appena sarà finito l'atto, sarà un onore per me. - Grazie.... William fu subito accettato; era bastata una parola sussurrata da di Chalmy alla bella peccatrice, entrando nel palco, perch'ella sorridesse gentile all'americano. - Vi aspetterò domani a mezzogiorno in casa mia gli disse senza curarsi degli sguardi supplichevoli che Paulowski le rivolgeva, e aggiunse: - Via di Rivoli 14. Poi lo congedò perchè cominciava l'ultimo atto e voleva ascoltare la musica. William non insistette: uscì anzi volentieri da quel palco, felice d'aver trovato finalmente «il suo soggetto»; pronto pel giorno dipoi a qualunque patto, pur di farne lo strumento suo per un po' di tempo. Certo non ne parlò a di Chalmy. Continuò anzi a fingersi con lui innamorato della bella etèra, e pronto a deporle ai piedi tutto il suo avere. Uscirono insieme prima che l'ultimo atto fosse finito, e si diressero a piedi all'Hôtel d'Amèrique, dove il signor Rook aveva preso alloggio. - Se non vi dispiace di passare di qua verso le dieci, andremo insieme dal mio gioielliere - disse il signor Rook all'amico. Di Chalmy s'affrettò d'accettare, felice di essere a parte di questo nuovo intrigo e di portarne la primizia nelle sale del club. club.- Buona fortuna! - disse, stringendo caldamente la mano dell'americano. E se ne andò mormorando: - Povere miniere di Wyoming! Anche Yvonne fece la stessa riflessione, mentre si spogliava. Quella sera il povero Paulowski fu licenziato senza il menomo tributo d'affetto, cui avrebbe avuto diritto, e Maria, l'intelligente cameriera, fu invece la confidente della padrona. E la confidenza fu narrata assai affettuosamente nello spogliatoio elegantissimo della donna mondana, mentre, l'abito meraviglioso, le sottane di seta e le mutandine di trina, cadevano sulla pelle di tigre messa là davanti al divano, come emblema della crudele rapacità di quella donna. Intorno e sopra nell'atmosfera tiepida era un profumo acuto, snervante e galeotto fatto d'iris, di muschio, di pelle di Spagna e di opoponax fusi insieme per l'opera di perdizione; e nel piccolo spogliatoio, saturo di questi profumi, la bellissima, già spogliata, indugiava ancora movendosi lenta lenta coi rosei piedini, chiusi in certe babbucce di raso bianco, che sembravano giocattoli cinesi. - Dunque è molto ricco? - chiedeva Maria. - Ah! pare di sì! - fece Yvonne prendendo sul caminetto un elegante portasigarette e scegliendone una. - Cinquantamila lire l'ora di rendita! La cameriera spalancò gli occhi e la bocca stupita dall'enormità della cifra. - L'ora! - esclamò. - Già; l'ora.... - disse Yvonne con un'adorabile risata. - Per carità! Altro che il conte! - soggiunse Maria alludendo al povero Paulowski. - Oh il conte! ormai è liquidato; - fece la bella con un cinismo sfacciato - figurati che stamani ha pianto perchè non poteva darmi le diecimila lire pel mantello che abbiamo visto in Via Richelieu. - Lo so, lo so.... - E domani, il signor Beudy porterà la nota degli ultimi abiti. T'assicuro che sarei stata molto impensierita se non fosse capitato quest'americano. - Oh, la signora non ha che da scegliere.... - disse la ragazza adulando. - Ah! che cosa vuoi! - fece essa con una smorfia di disgusto, sfregando un fiammifero sul marmo del caminetto - sono una massa di spiantati, tutti questi adoratori d'oggi, che finiscono i loro denari al giuoco.... Non ce n'è uno serio! - Ma se la signora permettesse.... - soggiunse Maria un po' imbarazzata. - Di' dunque. - Ecco, vorrei permettermi un consiglio. La signora è molto buona, ma dovrebbe anche non fidarsi interamente degli uomini, e mettere qualche cosa da parte per quando si trovasse in un momento un po' imbarazzante.... Non so, mi pare!... - Ma se son tutte miserie! - protestò Yvonne accendendosi. - Credono tutti che io riceva delle somme favolose: dillo tu, che lo sai, in quali imbarazzi sono sempre! Se non fosse capitato l'americano, sarei stata costretta di vendere qualche cosa per pagare Beudy!... - Non si può risparmiar nulla! nulla! nulla!... E ne era perfettamente convinta quella divoratrice di patrimonî, nelle cui piccole mani passavano fiumi d'oro subito convertiti in abiti meravigliosi, in gioielli ricchissimi, in splendidi equipaggi e mobili principeschi, che godevano solo un istante il suo capriccioso favore, ed erano subito sostituiti da altre cento fantasie strane e costose. Tutto intorno il piccolo gabinetto a forma di conchiglia rosea incrostata d'oro, pareva il nido di una Nereide bionda, sorridente fra le trine preziose e il raso soffice delle poltroncine basse e bianche, come in mezzo a una candida spuma leggerissima, e attestava lo sfarzo di quella sovrana della bellezza e del piacere. - Quando verrà l'americano? - interrogò la cameriera colla familiarità d'una confidente necessaria. - Domani a mezzogiorno. - Ma domani a mezzogiorno verrà pure il marchese di Valmyère. - Oh! quello lo rimanderai. - Sarà la terza volta che viene senza essere ricevuto. - Che importa? forse si stancherà e non verrà più. La confidente non osò più di ripetere. - Che vestito desidera la signora per domani? chiese poi. Yvonne rifletté un poco. - Un accappatoio bianco - disse. E siccome la cameriera si mostrava stupita di tale scelta, troppo semplice secondo lei.... - Ciò è più signorile - osservò Yvonne. - A che ora devo svegliare la signora? - Oh, non prima ch'egli arrivi! Lo farai aspettare un po' nel salotto giallo. - Benissimo. - Puoi andare a dormire ora - disse congedandola ed entrando ella stessa nella sua camera principesca. Poi sulla soglia si rivolse ancora per soggiungerle: - E soprattutto non dimenticare di portarmi la nota di Beudy, mentre sono con lui. - Non dubiti, signora.... - assicurò la cameriera, già abituata a quella piccola commedia d' introduzione. - riposi bene, signora - soggiunse poi; e uscì....... Anche il signor Rook dormì bene quella notte, lieto della scoperta fatta, sicuro che quella donna gli avrebbe servito a meraviglia come strumento d'una vendetta da cui doveva nascere finalmente l'amore. Quando di Chalmy venne a svegliarlo, s'aspettava di trovarlo eccitato ed ansioso come un vero innamorato prossimo di vedere appagati i suoi desiderî, e fu sommamente stupito di saperlo ancora addormentato, come dopo una giornata di lavoro lungo ed ingrato. Egli non immaginava certo che l'adorata di William era assai lungi da Parigi, ben diversa dalla brillante etèra e che solo nella speranza di poterla presto ottenere, egli s'era addormentato finalmente tranquillo dopo tanti giorni e tante notti d'inquietudine terribile. Prima di lasciarsi fecero colazione insieme, e il signor Rook finì di meravigliare il visconte col suo appetito invidiabile. - Davvero non è questa una colazione da innamorato.... non potè trattenersi dall'osservare. - Ma voi dimenticate ch'io sono americano, caro visconte, e che l'essere innamorato o invogliato, come più vi piace, d'una bella creatura, non impedisce certo di render giustizia a questo pasticcio di lepre con tartufi, che è eccellente, e a questo vino del Reno veramente delizioso. Il visconte sorrise. - Ogni cosa a suo tempo, - soggiunse William, sbucciandosi una banana - anzi, non vi par questa una bellissima prefazione ad un duo d'amore? - Splendida assai, e vedete che per conto mio vi ho imitato fedelmente - E avete fatto bene! Vogliamo andare dal mio banchiere? - disse poi alzandosi. - Non ho abbastanza danaro in tasca, e per le imprese a cui ci accingiamo, il danaro è la sola chiave che deve aprirci le porte dell'Eden. - Siete molto spiritoso stamane, - osservò di Chalmy - si capisce che la felicità vi rende lieto. - Se tu sapessi quanto son felice! - non potè a meno di pensare William. E uscirono insieme. Il banchiere del signor Rook stava un po' lontano di là, ma nessuno dei due pensò a prendere una carrozza. Non era tardi, d'altronde, e la giornata splendida, come raramente ne spuntano in Parigi, rendeva deliziosa quella passeggiata mattutina attraverso i quartieri più popolosi e più industriosi. L'ampia e lunghissima Via Cassine, l'arteria del quartiere, pareva in quell'ora avanzata, un enorme alveare brulicante d'api affaccendate: ai lati, i negozi numerosi e svariatissimi, aperti con pompa fastosa di colori ridenti e vivi, erano un'offerta muta ma eloquentissima che spronava i desiderî e incitava al lavoro. Dalle vie laterali secondarie era un affluire continuo di gente, un'enorme massa frettolosa e affaccendata, dove si confondevano insieme i tipi più svariati, le condizioni più disparate: commercianti, industriali e negozianti occupatissimi, pei quali il tempo è oro, come nel vecchio proverbio inglese; piccoli impiegati pallidi e sfiniti stretti nel povero abito nero ormai stinto e ragnato, che affrettavano il passo per tornar pronti all'ufficio ingrato e penoso; gruppi di operai sereni e ridenti nello oneste bluse turchino, stanchi di lavoro ma inebriati di sole e di gioia di vivere; frotte di fanciulle e di bimbe che trotterellavano, alcune lacere, altre modeste, altre ancora arieggianti la piccola coquette: sartine, modiste, crestaie, maestrine, commesse, tutta la gran Parigi che lavora, che pensa, che si agita e vive, tutta la schiera dei laboriosi e degli onesti compresi della serietà della vita, che lottano strenuamente per l'esistenza, sempre immobili sulla breccia, spesso vinti, spesso spenti purtroppo, ma sempre pronti all'appello e sereni anche dinanzi al supremo sacrificio. E attraverso tutta quella folla d'onesti e di lavoratori che sudavano tutta la vita per un pane ed un tetto, passavano i due uomini occupati da un'idea che era ironia suprema a tutto quel lavoro, a tutto quel dolore fatto di stenti dignitosamente nascosti a tutta quella onestà sconosciuta; essi andavano a deporre ai piedi d'un idolo di fango un tributo d'oro e di gemme sufficiente a sollevare una gran parte delle miserie di Parigi.... a pagare con somme favolose e con doni regali una sezione di lussuria sapiente.... Era il trionfo della carne sull'intelligenza e sulla virtù! Era l'ironia suprema, lanciata dal vizio a tutto ciò che di onesto e di puro esiste ancora nel gran mare di fango dilagante.... Era l'infinitamente triste!...

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Il maleficio occulto

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Zuccoli, Luciano 3 occorrenze

Anastasia, abbandonata sulla seggiola, piangeva ormai senza tentar di nascondere le umili ed inutili lagrime, e s'asciugava gli occhi con l'angolo del grembiale: io udivo il singhiozzo profondo venir su dall'imo di quell'anima così nobile nel suo sentire, così pronta al riso e alla disperazione. Diedi uno sguardo involontario alla villa, circondata dal fitto alberarne, tragica e muta nel silenzio di tutto il paese; pareva, in quell'ora, veramente una tomba o un luogo d'agguati. - E il barone? - domandai d'un tratto. - Come rimase, quando tornò da Milano? La donna tacque ancora qualche istante, con la testa reclinata sul petto; poi con voce velata: - Non ne so niente, io. Dicono che si sia ammalato pel rimorso: fu malato davvero e dovettero interrogarlo in casa, senza farlo venire al processo. Ma è un tale uomo, che io non ne so niente: sarà stato rimorso? - Sarà stata un'infreddatura - mormorai. - E che cosa diceva con voi? - Si sa bene: diceva che era una gran disgrazia, e che non se la meritava: e fece funerali, qui e a Milano; a Milano, un funerale che non finiva più. Io ci sono stata; sa che a Milano è una città ben brutta? Pioveva a rovescio e c'erano i lumi accesi già alle quattro del pomeriggio. - Ma il nome del Boldrella non gli suggerì nessuna idea, non lo sorprese, non gli giunse insospettato? - Anzi: appena lo seppe, esclamò: " Già, me l'imaginavo! " - Lo imaginava e lo teneva in casa, e lo lasciava qui anche quando la baronessa era sola? Che cosa è, questo barone: un matto o un imbecille? Anastasia si guardò intorno, e abbassandosi improvvisamente al mio lato quasi fino a sfiorarmi la guancia coi riccioli o con la bocca, susurrò: - Sa che cosa dicevano in paese, del barone? Dicevano: " Pare che l'abbia fatto apposta!" Non ne poteva più della signora; in sei anni di matrimonio, avevan finito per odiarsi. Dicono che voleva sposare un'altra, più ricca, e che la cercava fin d'allora..... Io sentii un brivido prendermi alla nuca e scorrermi per tutto il corpo. L'imagine di Clara mi venne innanzi alla mente: doveva esser lei, dunque?... -... e in sei anni - continuò Anastasia, sempre in quella positura e sempre a bassa voce - divorò il patrimonio della signora. Ogni volta che andava a Milano, era una disperazione. - Giocava? Perdeva! - mormorò la giovane. - E per ciò abbandonava qui sua moglie, senza curarsene, in un paese isolato, con un ladro in casa? Ma aveva preveduto, aveva osato sperare?.... Anastasia capì e storse la bocca. - Chi sa? - disse. - Certo, se si fosse ammazzata da sé, a lui poco ne sarebbe importato: avrebbe pianto un po' e riso un pezzo, come si dice. - E veramente - seguitai, a bassa voce io pure con gli occhi fissi negli occhi della giovane, che ora vedevo bene - e veramente quella morte gli è stata utile? - Ma! - disse Anastasia. - Di roba d'avvocati io non m'intendo; ma quando era viva la baronessa, egli non poteva mettere la mano su tutto: e subito dopo si mise a vendere, case, mobili, quadri, terre qui, terre in Valtellina, come capitava, all'uno per cento. Io non volevo più rimanere al suo servizio: è stato il mio uomo che con la miseria d'oggi, ha dovuto cedere e continuare. Il barone vorrebbe vendere anche la villa, ma grazie a Dio, non gli riesce; non gli riuscirà mai.... Lì dentro c'è l'ombra della signora, e l'ombra non si vende...... Io mi volsi a guardar di nuovo la villa, che di nuovo Anastasia mi accennava. - Noi ci dormiamo tutte le notti - ella continuò - perché abbiamo l'anima tranquilla; e se la baronessa torna, non ci fa male. Ma c'è qualcuno che non ci potrebbe stare un minuto senza sentire la terra scottargli sotto i piedi..... Già: e voi dite che l'innocenza trionfa e il colpevole è punito, mormorai avvedendomi che quell'ingenua creatura aveva l'intelligenza pronta e lucida di chi ama. Anastasia chinò il capo, quasi colta in fallo. In fondo - susurrò - noi non sappiamo niente, e forse è tutta fantasia..... Forse - ripetei alzandomi, e appoggiandomi alla ringhiera del terrazzo. - Però si dice che l'abbia trovata, la donna ricca che cercava, e la sposerà fra poco. - Dev'essere una donna piena di coraggio - osservò Anastasia, facendo dell'ironia senza volerlo. Poi aggiunse quasi trasognata: - Pover'anima! Le auguro bene, speriamo! - Diamine! - esclamai, preso a un tratto dall'amara ebbrezza del sarcasmo. - Pensate che non debba esser felice neppur questa? Non sapete quanto è piacevole il barone, come sa innamorar le donne, come le circonda, le accarezza, le rapisce? Io non la conosco, questa signora che lo sposa; ma scommetterei che ne è innamorata pazza e che unendosi a lui farà la sua fortuna. E' giuocatore: perderà il vizio di giuocare. Ha lasciato ammazzare la prima moglie..... - Io non ho mai detto questo, cara Madonna! - obiettò Anastasia sbigottita. - Lo dico io: ha lasciato ammazzar la prima moglie; e che cosa importa? E' forse un Barba-bleu, un Orco, un antropofago? Non vorrà mica ingoiarsele tutte, coteste donne!.... M'interruppi, avvedendomi che Anastasia, venuta presso di me, mi guardava di sottecchi, trepidante e sollecita come innanzi a un mentecatto. - Scherzavo, - dissi. - Dopo tutto, che cosa può rappresentare per me e per voi questo imbroglio? Ci pensino quelli che ci si trovan dentro, non è vero?.... Guardate la luna com'è bella! Si udì il gorgogliar dell'acqua agitata dai pesci che salivano a inargentar di raggi pallidi le squame; e Anastasia guardò il lago attonita, indifferente allo spettacolo noto e famigliare. - Non vorrei - mormorò timidamente - ch'ella pensasse male di me. Mi ha parlato della mia povera signora e io avrò forse detto delle cattiverie; ma del barone io non so proprio nulla. Qualche voce, raccolta qua e là, qualche pettegolezzo del paese.... Poi, già c'è stato il tribunale, ed il tribunale ha giudicato, che sarebbe come dire che l'affare è finito e sepolto, e del barone nessuno ha mai detto niente.... Non è vero? - Parole d'oro, Anastasia - confermai sorridendo; e aggiunsi: che sarebbe come dire che io non ho udito nulla, che non vi ho mai vista, e che il barone è il primo barone del mondo. Va bene così? Allora, consolata, ella pure sorrise con un certo sorriso arguto da contadina furba e intelligente; e rimanemmo ambedue a guardarci, in silenzio appoggiati al medesimo ferro fragile, a viso a viso. - Devo andarmene, - dissi scuotendomi. - Domattina mi alzo presto. - Ha già finito tutto in paese? - domandò la giovane. - Sì; dovevo visitare una famiglia e portarle un'ambasciata: due parole..... Non insistetti più oltre, sentendo che l'invenzione era goffa, e vedendo le labbra di Anastasia schiudersi al medesimo sorriso di poco prima. - Addio, dunque. Salutatemi vostro marito, se gli dite che io sono stato qui.... Feci alcuni passi verso la scala di marmo, che dal giardino menava alla strada comunale; ma udendo sulla ghiaia il passo della giovane che m'accompagnava, mi rivolsi improvvisamente. La malinconia di lasciare quell'anima ignara, che aveva almeno la fedeltà per una morta, e il bei viso cupreo con la bella bocca corallina; e forse l'acredine del sangue per quell'altra donna che avevo perduta; queste cose lontane e vicine, sottili e volgari mi turbarono. Afferrai con le mani il volto di Anastasia e le diedi un bacio lungo sulla bocca sensuale. - Addio - ripetei, scendendo gli scalini. - Se ti avessi incontrata prima, forse ti avrei sposata. E aggiunsi tosto, ridendo: - Ma è meglio che t'abbia incontrata dopo!... Anastasia rientrò in giardino senza ridere e senza rispondere.

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Per qualche tempo, alla villa Scavolino, si stette assai male: tutti si sentivano sospettati e tutti sospettavano; la baronessa pensò di congedare quanti erano alle sue dipendenze: poi, sola, senza consiglio, abbandonata com'era, paventò qualche vendetta, e non osò nulla. I furti cessarono, per breve; la vita rientrò nella sua abituale monotonia: su, a destra della villa, abitava e viveva tristemente la baronessa; giù, a sinistra, il barone si logorava l'anima a escogitar espedienti per trovar quattrini.....Vuoi darmi un po' d'acqua?... - Siediti, - disse Clara, versandomi da bere. - Siediti qui vicino a me: riposati un istante. - Che ora è? - chiesi, rimettendo il bicchiere sulla tavola, e sedendomi presso Clara, che rimaneva sdraiata. - Quasi la una, - ella rispose. - Ma non importa: è fatta ormai! Non potei vincere un interno moto di gioia: comunque fossero per finire, quell'episodio notturno, quella mia visita sospetta, avrebbero ritardato il matrimonio, forse lo avrebbero reso impossibile; e il gusto di piantar così un dubbio atroce nel cuore dell'uomo che odiavo, mi parve squisito. - Ora, - dissi, riprendendo il racconto con nuova lena, - abbiamo due fatti quasi contemporanei, i quali ci svelano che nessuno dei due figuri aveva rinunziato alla propria idea. Il barone torna a mettere in campo le sue pretensioni di vendite e di denaro; il Boldrella, gironzando un giorno per la casa, trova aperto l'uscio della camera da letto della baronessa. Nella camera non c'è alcuno, ma sul tavolino d'abbigliamento, fra mille ninnoli, luccica un anello dimenticatovi un istante; la tentazione è troppo forte: all'occhio avido del ladro, quell'oro e quelle pietre rappresentano una somma favolosa, forse il coronamento di tutta la sua opera paziente, certo il viaggio e il soggiorno in America. Vi pianta l'artiglio, e poi, rapido e silenzioso, sale fino al granaio, sposta le tavole, dà un'occhiata in giro, si cala nel giardino, scivola in iscuderia. La baronessa che passa qualche istante dopo, vede il Boldrella tutto affaccendato a smuovere la lettiera e a rinfrescarla con nuova paglia. Chi sa se nel cuore dell'infelice un pensiero di benevolenza non è sorto per il giovane laborioso il quale si guadagnava così faticosamente la vita!..... " Un'ora dopo, la signora corre in biblioteca a denunziare il furto; anche il barone si scuote; promette di chiamare i carabinieri, di far perquisire tutte le persone di servizio e raccomanda alla baronessa di vigilare specialmente la cameriera, poiché questa sola si trovava o doveva trovare a quell'ora nella stanza. La signora insiste perché la perquisizione si faccia subito, all'improvviso, senza intervento dell'autorità; il barone fa osservare che l'anello non può essere più in tasca del ladro, e che scoperto questo, bisogna consegnarlo subito ai carabinieri, che se lo portino via; dunque i carabinieri sono indispensabili; non precipitiamo: prima i carabinieri, poi la perquisizione.... Notiamo che il barone è uomo forte e coraggioso, e che siamo in pieno giorno! In una camera, fino al sopravvenire della autorità. Invece, quale prudenza! Come calcola i pericoli fantastici! Per acciuffare il ladruncolo, gli abbisogna una legione di carabinieri, un esercito; ancora un po' e pretenderà l'artiglieria!.... Di questo grazioso episodio s'è riso molto al processo: il pubblico che non potè vedere il barone perché malato, si imaginò un omuncolo vigliacchetto e deboluccio, una specie di Don Abbondio senza il tricorno; qui dove la sua condotta comincia a diventar quasi imprudente, la comicità di tante precauzioni coperse il vero fine dell'individuo. " Meglio ancora quando si seppe che d'improvviso il barone era partito quel medesimo giorno con l'ultimo battello a vapore. Aveva pretestato una lettera urgente arrivatagli allora, la quale esigeva la sua presenza a Milano. Il presidente delle Assise non potè trattenersi dall'osservare che il barone in quel momento, era stato temerario Temerario, senza dubbio, ma a spese altrui: egli arrischiava, con un coraggio leonino..... la vita di sua moglie! Egli, che aveva dovuto confessare la necessità di chiamar la pubblica forza per difendere i propri averi, forse la propria esistenza, lascia la casa ad un tratto, lascia una donna in balia dell'ignoto e corre ad un supposto convegno di non sappiamo chi, di non sappiamo che cosa! Il Boldrella compiuto il furto, non era potuto rimaner tranquillo: qualche ora dopo essere stato visto in iscuderia dalla baronessa, attacca i cavalli ed esce per muoverli. " Ha paura: alcuni che l'hanno incontrato sulla strada comunale, dichiararono che aveva spinto i cavalli a corsa velocissima, e li sferzava, li eccitava con la voce a rischio di non dominarli più.... Ha paura: la sua opera diuturna e scaltra sta per essere svelata: bisogna giuocare una carta ultima, o veder tutto miseramente perire. Ma che fare? Quale occasione gli si offrirà? e quando?..... Ha udito susurrar di perquisizioni, di carabinieri, di arresti. Forse, tornando a casa, troverà il maresciallo sulla soglia.... Sarà difficile provare che il ladro è lui, perché la refurtiva è ben nascosta: ma intanto possono tendergli qualche tranello.... Poi il barone ricorda l'episodio della biada, e lo narrerà e quello sarà il filo conduttore che dipanerà la matassa..... " Lentamente, coi cavalli stanchi, verso sera egli si decide a ritornare; passando il cancello, non vede alcun carabiniere; tutto quieto, monotono e triste come ogni giorno.... Che più? In breve, egli viene a sapere che il barone è partito per Milano. E' un lampo di luce! L'occasione si offre da sé, nessuno l'ha cercata, bisogna approfittarne; pazzo chi non ne approfitta!.... Ma la baronessa?.... domanda; e il massaio, che, da galantuomo, ha l'antipatia istintiva per i mascalzoni, non gli risponde. " Che volete saper voi? " gli dice il massaio. "Ah non vuol parlare? Ebbene, il Boldrella spia; egli conosce le abitudini di tutta la casa e vede che le abitudini non si ripetono: la finestra della baronessa ha le gelosie socchiuse: alla sera non le recano il tè, come di solito: la cameriera, contro il solito, va a dormir presto. La baronessa non si vede, non si sente, la baronessa è partita, la casa è in mano di lui, la breccia su nel granaio, gli apre il passaggio e stanotte il colpo decisivo, il colpo maestro sarà compiuto. Il Boldrella ha qualche ora di gioia incontenibile. L'America è nel suo pugno, come le casa del barone! Egli canta, in iscuderia, canta sfrenatamente, di gioia spaventosa..... - Come sai tutto questo? - interruppe Clara, drizzandosi a guardarmi. - L'ha confessato lui, capisci? Ha confessato che la partenza del barone gli diede l'idea di finirla con un colpo d'audacia.... Era un'attenuante per l'assassino: ma i giurati la respinsero, nonostante gli sforzi del difensore.... Poi, il resto fu narrato dai testimoni e confermato a me da gente del paese..... -Ah, che orribile, che orribile cosa! - esclamò la donna, serrandomi le mani. - Non potrò più reggere alla sua presenza: mi sento un brivido freddo, pensando che egli è stato qui, ha toccato le mie mani, e verrà ancora..... - Vedremo, - dissi. - Ora ascoltami per poco; ho quasi finito. - Si, sì, ti ascolto.... Ma tu, dimmi, tu l'hai veduto, l'assassino? - Il Boldrella? Certo, per una settimana, ho passato lunghe ore a due passi da lui, perché col mezzo di certi amici avvocati m'ero fatto dare un posto, sotto la gabbia..... Allora non imaginavo che avrei parlato tanto di lui, e a te, in questa notte!.... Piccolo e magro, sembrava lo si potesse atterrare con una stretta, ed era un uomo che sollevava un peso di cento chili senza difficoltà.... Aveva occhi rotondi, come quelli del gufo, e lucentissimi: baffi scuri che gli celavan la bocca; fronte stretta, zigomi sporgenti, le tempia appiattite; non aveva mento, quasi: pareva che il volto finisse con i baffi; colorito pallido. Il suo sguardo non si poteva dimenticare; dritto, fisso, indagatore; nè si potevan dimenticare le sue mani, enormi di lunghezza e sempre instabili.... Quando lo conducevan nell'aula, non se ne udiva il passo: egli compariva, si sedeva; e risuonava appena il chiavistello della gabbia; il suo passo era sordo, quasi egli camminasse sulla bambagia..... " Fu quest'uomo, o meglio questa faina, questa volpe, quest'animale da preda, che spaccò il cuore alla giovane signora! - Come avvenne, di', come avvenne? - domandò Clara, guardandosi istintivamente attorno e stringendosi nella mantiglia. - S'è saputo bene? - S'è saputo molto e s'è indovinato il resto, - seguitai. - Pare che dopo una serata tristissima, in cui non volle veder nessuno, nemmeno la cameriera, dalla quale pure si sapeva amata, la baronessa si sia coricata affranta, e che verso le due di notte, quando il ladro cautamente forzò l'uscio, ella non abbia udito. Dormiva, come si dorme dopo aver pianto molto. Il Boldrella, sicuro di non trovare alcuno, entrò e si diresse a uno stipo ch'egli sperava di forzare come l'uscio. C'era la luna, e un po' del suo chiarore penetrava nella camera tagliandola quasi a metà; ombra dov'era la giovane signora coricata: luce dov'era il Boldrella. " La baronessa si sveglia e vede; non grida, non dà l'allarme; forse non osa; si lascia scivolar dal letto, e lestamente cerca di uscire per chiudere il ladro in trappola..... Ma il letto ha scricchiolato; il Boldrella si volge, si sente perduto, non ha nemmeno il tempo di meditare un piano.... - Dio! - esclamò Clara con un brivido, che la scosse. - Fa un balzo alla porta, verso la figura bianca: la vede in faccia, l'afferra, le chiude la bocca con la mano enorme e terribile: "Non gridare! - dice come in rantolo - non gridare, o sei morta! " Ma la baronessa, si divincola. L'orrore è troppo forte: lei, quasi nuda. fra quelle braccia! - Ah, non dire, non dire più nulla! - mormorò Clara. - Ella si divincola per fuggire: egli la serra sul petto in un abbraccio spaventoso, e colla mano libera cerca in tasca, trova una lima acuminata, la vibra nell'aria, l'affonda nel seno palpitante della donna, che gli manca tra le braccia, senza un grido.... Tutto questo in un attimo, in un lampo, sulla soglia, quasi senza parole..... Vi fu un lungo silenzio. Clara piangeva, come aveva pianto l'umile Anastasia, al ricordo della scena: e lo spettacolo di quelle donne che davan le loro lagrime più pure alla memoria della sacrificata era tenerissimo e nobile. Non diversamente, forse, le belle giovinette pagane piangevano la compagna immolata a qualche barbarica cerimonia. - Ho fatto male a raccontarti tutto? - domandai sottovoce, accarezzando lievemente la mano, che Clara aveva abbandonato lungo il fianco. - No, hai fatto bene: devo sapere, fino in ultimo, - ella rispose con impeto. E guardando un piccolo orologio, che stava in un angolo, sopra una mensoletta, aggiunse: - Sono appena le due. Abbiamo tempo....

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Avevo nelle vene e nei polsi un'inquietudine divorante: pensavo che la donna, sola, abbandonata a se stessa, poteva ricader nei dubbi, trovar delle lacune in quanto le avevo narrato, esser ripresa dalla necessità volgare delle prove. Se, per caso, il barone avesse potuto riavvicinarla, s'ella si fosse lasciata sfuggire una parola, un accenno, egli avrebbe trovato chi sa quali frasi, chi sa quali gesti, per distruggere a sua volta la mia opera! Quantunque la riamassi d'un tratto con l'impeto di mille fiamme, io non nutriva illusioni sul carattere di Clara. Era facile alla passione; mobile, intelligente, nervosa, s'assimilava agevolmente le idee altrui e le riviveva con intensità; un uomo forte e imperioso la dominava. Io aveva, anzi, perduto il suo amore per questo: la tenerezza soverchia m'impediva di dettarle la mia volontà, e non sentendo il freno, non avendo a temermi, a poco a poco s'era trovata libera e indipendente. In realtà, non aveva alcun bisogno di me, per essere sola; così ella m'aveva detto un giorno, molto tempo addietro, con la sincerità crudele e rara ch'ella metteva in tutte le cose sue. Nella mia implacabile ostinazione stava dunque il segreto della vittoria: ripetere, rammentare, approfondire indelebilmente nel cervello di Clara la convinzione del maleficio occulto di cui l'uomo era stato capace: far balzare dall'ombra il misfatto che vi si celava, perché sfolgorasse agli occhi di lei come stava intero innanzi agli occhi della mia mente; l'opera caparbia e tenace che mi spettava. Ma non ebbi nemmeno a cercarla, Clara. Quel medesimo giorno in cui l'avevo lasciata sull'alba, la vidi giungere da me, verso il tramonto. Io abitava in due camerette, Lungarno Acciaioli, e stavo alla finestra guardando il fiume bieco e giallastro per recenti pioggie. I colori sul Ponte Vecchio, sulle case antiche di fronte, e giù, a destra fino a Ponte alla Carraja, avevano una delicatezza squisita; e quella luce, quell'ora, quella torpida calma, svelavano l'anima della città, in altri giorni così cupa e veemente di passioni insaziabili. Vidi giungere Clara; la vidi alzar la testa e sorridermi: qualche passante levò la testa pure, guardando ov'ella guardava. - Che cosa avviene? - le dissi, correndole incontro per le scale, come un ragazzo. - Nulla; son venuta a trovarvi - ella rispose, mentre continuava a salire. - Vi spiace? E quando fu nella mia camera, ella seguitò: - Alle cinque è venuto il barone: gli feci dire ch'ero indisposta; egli restò a gironzare per via Tornabuoni; io allora mi son vestita e sono corsa qui, fingendo di non vederlo, ritto innanzi a un caffè. Egli mi segue, naturalmente. Dalla finestra potreste scorgerlo certo. - Grazie! - mormorai. - E' inutile ch'egli veda me. - Avete ragione - disse Clara tranquillamente sedendosi. - Egli deve credere che mi siate corso incontro abbracciandomi, baciandomi, portandomi in giro per la camera, come una statuetta di gesso. Rimarrò qui un'ora, un'ora e mezza, quanto basta. - Quanto basta a che cosa.? - domandai. - Ma.... a convincerlo ch'io vi amo più che mai.... - Per bacco! - dissi ridendo. - Vi ha vista entrare quì; che cosa potrebbe imaginare se non un convegno? Rimanete anche fino a stanotte, se vi par necessario. - Ah no, per esempio! - esclamò la giovane. - Sapete che non ho ancora dormito un istante? Dopo il vostro racconto, avevo quasi paura, lo confesso: ogni scricchiolar di mobili mi dava un colpo al cuore. Vedevo ladri e assassini ovunque. - Tanto più che il barone stava ad aspettarmi in istrada - interruppi. - Davvero? - disse Clara con un gesto di meraviglia. - Era facile prevederlo; voleva sapere esattamente quanto sarebbe durato il nostro colloquio e per questo rimase appostato fino alle quattro di stamane. - E vi ha veduto uscire di casa mia? - Se io ho veduto lui....! Non è arrivato in tempo a scantonare, ed io lo riconobbi. - Clara stette silenziosa un poco; quindi osservò: - Se l'avessi saputo, vi avrei risparmiato la noia della mia visita. - Repetita juvant Un colloquio fino a tarda ora della notte poteva anche insospettirlo: la vostra visita, oggi, ha invece la forma di un convegno amoroso, un po' ardito; i sospetti natigli ieri, oggi prendono tutt'altro colore; non teme più ch'io vi dica ciò che so di lui! crede di trovarsi innanzi ad un rivale qualunque.... E' una cosa diversa. Clara si guardò attorno. - Sapete, - disse improvvisamente, - son venuta qui senza avvisarvi, perché voi mi assicuraste mille volte che non ricevete nessuno; per ciò non ho temuto d'interrompere qualche visita più divertente. - Avete fatto benissimo, osservai. - Ora avete la prova che non ho mentito. Per voi la casa è aperta a qualunque ora. Ma non potremmo lasciar le cerimonie inutili, Clara? Seguitate a scusarvi, come se aveste sbagliato l'uscio..... La donna sorrise..... - Mi date un libro da leggere? - domandò, guardando la biblioteca aperta. - Un'ora e mezza sarà lunga. - Non volete parlare con me? - chiesi alla mia volta. Clara tornò a sorridere; parve impacciata. - Avete detto di non far cerimonie. - rispose. - Ebbene, senza cerimonie, vi assicuro che preferisco leggere. Non vi offendete; siete un bel parlatore; ma preferisco leggere. - Come volete, - dissi. - Ed io tornerò alla finestra. - No, alla finestra no! - interruppe Clara. - Il barone è nella via, a spiarci.... Se vede voi alla finestra, non ci capirà più nulla! - E' vero - osservai ridendo. - Io devo portarvi in giro per la camera, come una statuetta di gesso! Da tanto tempo ho perduto queste abitudini!..... Che libro desiderate? - seguitai, avvicinandomi alla biblioteca. - Il primo che vi viene sott'occhio. Nel recarle il libro le diedi uno sguardo. Era vestita di nero. - Cotesto abito lo conosco, - dissi. - L'avevate alle Cascine, ieri quand'eravate in carrozza con lui. Vi sta molto bene. - Si, mi sta bene - ella ripetè, guardandosi istintivamente la gonna e le maniche. Si levò, si mise dentro la luce dorata del tramonto che prorompeva nella camera dalla finestra aperta. I capelli scintillarono; la figura scultoria rimase un breve istante incorniciata in quella luce di fiamma. - Ho visto, ho visto! - dissi, mordendomi le labbra per non annoiarla con qualche frase di rammarico. Ella tornò a sedere e cominciò a leggere; io, in una poltroncina molto lungi dalla sua, fumavo, guardandola di tratto in tratto. La mia statuina di gesso faceva una lettura assai disattenta; era preoccupata: le mani a poco a poco le si abbandonavano col libro, ed ella si perdeva a pensare, gli occhi sbarrati nel vuoto. - Pare un sogno! - esclamò di repente. - Che cosa? - domandai con inquietudine. - Che cosa? Tutto! Tutto pare un sogno; da stanotte, mi sembra di vivere una vita nuova..... Chinò la testa sul libro e continuò la lettura. - C'è la finestra con le persiane spalancate, - osservai dopo qualche tempo. - Ciò non si usa in un convegno. Volete che chiuda? Accenderò il lume. - No: mi fa melanconia - rispose la giovane, continuando a leggere. - Piuttosto, avete chiuso la porta a chiave? - Me ne sono dimenticato. Del resto, è un particolare ch'egli ignorerà. - Non si sa mai..... - mormorò Clara, senza alzar gli occhi dal volume. - Supponete che egli abbia l'imprudenza di salire in casa mia? - La gelosia non ragiona. Io mi misi a ridere. - A quest'ora - dissi - un uomo geloso mi avrebbe già provocato. Clara depose il libro vivamente sulle ginocchia e fece un gesto di paura. Mio Dio, - proruppe. - A questo non avevo pensato! Sì, egli può provocarti, batterti, ucciderti! Come non ho pensato a questo? Ho commesso una imprudenza stupida, e tu ne avrai le conseguenze più dolorose. Io lo irrito, lo esaspero, ed egli non può nulla contro di me. A chi farà scontare la sua rabbia? A te certamente. Come non ho visto una cosa tanto semplice? Adagiato nella poltrona, io la lasciava parlare, compiacendomi egoisticamente di quella sua affezione che prorompeva. Ella agitatissima, e parlando, mi guardava quasi per implorare un conforto, una parola che la rassicurasse; io ascoltava, godeva e taceva. - Ti farà del male, di'! - ella seguitò. - Due uomini che si odiano sono terribili: e voi vi odiate furiosamente. Ah, che cosa ho mai fatto, amico mio! Ho giuocato la tua vita, come una pazza! Egli può ucciderti. Ecco in qual modo io ti ringrazio. Ah, quale follìa ho commesso! Ma io gli dirò che non ti amo: che vengo qui per isfuggire lui, non per essere la tua amante. Glielo dirò oggi stesso, ora, subito....... Devo salvare te, prima di tutto. - Clara! - esclamai, vedendo ch'ella si levava in piedi e si dirigeva alla porta. La giovane si fermò. - Che vuoi? - chiese. - Non c'è tempo da perdere: egli può provocarti quando esci di casa. Ora vado da lui e gli parlo. - Clara - mormorai - non ti credevo tanto sciocca. La poveretta restò presso la porta come fulminata. - Sì, sciocca - seguitai crudelmente. - Bisogna essere sciocchi per supporre che colui venga a cercarmi. Egli non farà nulla, egli non agisce mai per conto proprio, direttamente; è una bestia viscida e tu lo temi come un leone furibondo. Siediti, va! Non commettere altre ragazzate. Sei qui: rimani; egli deve credere che tu sei la mia amante; farglielo credere. Non lasciarti prendere da tenerezze ridicole. Dal modo con cui ella tornò a sedersi, umile e sommessa, compresi di avere trasmodato; ma la mia ira non si calmò. - Del resto, - soggiunsi - pensi che queste inquietudini mi commuovano molto? Sei la sorella, tu; me lo dicevi anche ieri. Ma io non posso essere un fratello, per te, e la tua affezione casta m'irrita. Non mi ami, ma mi vuoi bene: quali invenzioni, che piccinerie, che puerilità! Se mi uccidono, sarai disperata perché ti è morto il fratello d'anima! Quanto è goffo tutto questo; che settecento irrancidito, che smorfiette isteriche!.... - Eppure - susurrò Clara - se ho torto, potresti perdonarmelo. - Perdonare non è tacere, - osservai freddamente. - Prima ti dico quel che penso, e poi ti perdono! Quanto a me, non avere inquietudini..... Sarebbe troppo risibile ch'io mi facessi ammazzare per una sorella di passaggio. Ah, la frase volgare m'era scappata! Mi morsi la lingua troppo tardi, e mi serrai furiosamente le mani per richiamarmi alla realtà, al rispetto, al dovere. Ma mi giunse quasi in un soffio la voce di Clara, dolce, stanca, velata di lagrime: - Che posso fare di più? Quando vuoi, sono tua, anche ora. Ti devo tutto: mi hai salvata. Dimmi che mi vuoi, e sono cosa tua. - Morta, fredda, senz'anima, morta, fredda, - mormorai. Clara prese il libro e continuò la lettura. - Lo sapevo - ella disse - che non si può parlare con voi. Vi avevo pregato di tacere. - Verrai anche domani? - - chiesi, impaurito ch'ella mi sfuggisse. Devi venire qua, se vuoi che la finzione abbia un significato. La giovane dissimulò a stento un sorrisetto malizioso. In realtà, continuando con quella commedia, il barone avrebbe finito per credermi il più indomito amatore del secolo. Guardandoci negli occhi, vi leggemmo lo stesso pensiero, ed io mi arricciai i baffi per trattenere qualche parola piena di rimpianti. - Verrò, - ella disse, - s'egli verrà a cercarmi, benchè non creda che vi divertiate molto. Non penso a divertirmi, ora; penso a rendere impossibile il vostro matrimonio, senza provocare spiegazioni difficili fra voi due. Tacemmo: io mi avvicinai alla finestra e guardai cautamente giù, sul Lungarno. Il barone non si vedeva, forse stava celato in un negozio vicino, indugiando fino al ritorno di Clara. - Non andartene così, - dissi, vedendo che la donna si levava, e abbassava il veletto del cappellino - Aspetta ch'io chiami una carrozza. - Ma sono a due passi da casa mia, - ella obiettò. - Non importa; di costui non mi fido. In un istante son di ritorno..... Uscii: il barone seguitava ad essere invisibile; tornai con una carrozza chiusa; ciò era più romantico. La giovine vi saliva qualche istante appresso, ed io, dalla finestra, seguii dello sguardo la carrozza che si allontanava rapida e voltava per via Tornabuoni. - Anche voi siete fraterno, nelle vostre idee, - ella m'aveva detto, stringendomi la mano, e partendo. E il complimento, nello stato in cui mi trovavo, non poteva essere più sarcastico.

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