Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonarsi

Numero di risultati: 64 in 2 pagine

  • Pagina 2 di 2

L'angelo in famiglia

182590
Albini Crosta Maddalena 1 occorrenze
  • 1883
  • P. Clerc, Librajo Editore
  • Milano
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Vi hanno alcune signorine di ottima indole, di ottimo cuore, le quali guastano l'uno e l'altra per abbandonarsi al dolce far niente, appunto perchè dolce al palato; ma le meschine non pensano che quella dolcezza è ingannevole, e lascia un fondo di amarezza! Dimmi, non ti fa compassione quella signorina che consuma il meglio del suo tempo appoggiata al davanzale della finestra a rimirare i passanti? Povera giovane, forse essa non sa che il mondo la critica, va almanaccando sulla sua condotta, e le attribuisce non solo il male che fa, ma spesse volte anche quello che non fa, e che perfino ignora. Si dice da taluni che se sta alla finestra ci avrà il suo perchè misterioso; si dice che o ha trovato chi la guardi, o lo cerca; si dice che si pavoneggia e fa la ruota; si dice, si dice,... e veramente non si ha il torto di dir tutto questo e peggio, perchè se ora quella giovane non ha simili intenzioni o cattiverie, certo la si espone volontariamente ad un gran rischio d'invischiarsene. L'ozio è davvero il padre di tutti i vizj, e tu, cara amica, tu abborrilo assai quel brutto figuro che colle più ingannevoli lusinghe ti vuol stringere fra le sue zanne, per ferirti ed ucciderti. Quanto ti senti svogliata o stanca, anzichè sdraiarti su di una soffice poltrona, a fantasticare od a borbottare della Provvidenza, degli uomini e delle cose, ove non ti astringa il dovere ad occuparti di alcunchè di speciale, prendi un lavorino, un buon libro, e se non hai voglia di far altro suona, o scrivi, o canta, o rimetti un po' d'ordine dove l'ordine è stato turbato; ma, per carità, non istartene neghittosa mai e poi mai! Mi ricordo d'aver sentito un mio caro congiunto dire una volta a proposito di una signora, la quale tranne le lunghe ore date al riposo, e le altre consacrate all'acconciatura, ai ricevimenti ed ai teatri, passava il suo tempo a deplorare l'abbandono in cui era lasciata, a lagnarsi del marito, della servitù e perfino della Provvidenza che le aveva tolto maggiori risorse, e che aveva formato la società con tante lusinghe e disinganni, quasi fosse questa opera della Provvidenza, e non degli uomini i quali l'hanno volta alla peggio; orbene quel mio congiunto, uomo che copre degnamente un bel posto nella magistratura, e non può essere sospetto di bigotteria, mi diceva essere per lui una gran pena veder sciupare tanto tempo ed una bella intelligenza in una vita così oziosa. Anzi aggiungeva che avrebbe amato meglio vedere quella signora occupata in fare una lunga calza, poi vedergliela a disfare e rifare all'infinito, anzichè vederla esposta o all'ipocondria ed al malumore, o ad avere bisogno di qualcheduno che le facesse passare o meglio ingannare il tempo; quello stesso tempo che per altri è si prezioso, e sì prodigiosamente fecondo. Non istar mai colle mani in mano; lavora, lavora sempre, ed il tuo riposo consista nel variare le tue occupazioni e prenderne anche di gradevoli se vuoi, come sono gli ameni studj, la musica, il disegno, e perfino il passeggio ed il divertimento. Purchè il divertimento sia onesto, meglio divertirsi che far nulla; però meglio di tutto è far qualche cosa, ma qualche cosa di utile e di concludente, affinchè si possa dire di te: quella damigella è simpatica, buona, amabile, ma soprattutto è operosa; e fortunata quella famiglia che sarà destinata a possederla!

Pagina 276

Come devo comportarmi. Le buone usanze

184954
Lydia (Diana di Santafiora) 1 occorrenze
  • 1923
  • Tip. Adriano Salani
  • Firenze
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Più che tutti gli esempi tolti dalla vita, gioverà l'esempio vostro: se il padre e la madre, ciascuno per la parte sua, saranno veramente e profondamente onesti, tali riusciranno anche i figliuoli, purchè padre e madre si occupino davvero della loro educazione e non li lascino invece liberi di abbandonarsi ai loro istinti. Purtroppo, in molte famiglie non accade così: la madre, una santa donna, per mancanza d'energia o di cultura, o per le troppe occupazioni, non può più occuparsi con frutto dell'educazione dei figliuoli, quando ormai sono giunti a una certa età; il padre, perfetto galantuomo, è occupato tutto il giorno dalla sua professione o dai suoi affari, e non ha nè tempo nè voglia di sobbarcarsi a un compito così grave, che richiede fatica e costanza. E i figliuoli vengon su come possono, abbandonati a sè stessi, o ai cattivi consigli dei falsi amici. Poi, a un tratto, si sente dire che il figlio del tal dei tali, di quel gran galantuomo che tutti conoscono, ha rubato, ha falsificato la firma del padre, ha coperto d'infamia il nome della sua famiglia. Conseguenze fatali d'un errore d'educazione. E l'esempio varrà anche per inculcare nei vostri figliuoli quell'altra grande virtù dell'amore al lavoro. Il figlio d'un padre ozioso e fannullone, d'una madre che abbandoni la casa a sè stessa per far visite o prender parte a ricevimenti, difficilmente diventerà un lavoratore; preferirà anch' egli di darsi buon tempo, che è cosa tanto più facile. S'abituerà invece a considerare il lavoro come un obbligo, se vedrà il padre occupato seriamente nei suoi affari o nella sua professione, la madre interamente dedita alle cure della famiglia. Il lavoro d'un giovinetto è, nelle famiglie borghesi, lo studio. Ed è un dovere imprescindibile dei genitori di sorvegliare gli studi dei loro ragazzi, continuamente e assiduamente. In molte famiglie, quando si è mandato a scuola i figliuoli, quando si son provveduti di carta, di libri, d'inchiostro e di penne, si crede di aver fatto tutto: tocca al maestro a insegnare, e ai ragazzi a imparare. Teoria comoda, che dà ai genitori l'illusione di viver tranquilli e senza sopraccapi. Ma è proprio un'illusione, che molto spesso riserba delle brusche sorprese: una lettera del preside della scuola, un rapporto dei maestri vi fanno a un tratto sapere che il vostro figliuolo non studia, che è indisciplinato, che manca ogni tanto alle lezioni. Sorpresa generale: lacrime della madre, ira violenta del padre, rimproveri, gastighi.... e poi si ricomincia da capo. Sorprese di questo genere, in una famiglia dabbene, non devono mai verificarsi. Se i figliuoli non studiano, i primi ad accorgersene devono essere i genitori; e se ne accorgeranno facilmente, se avranno l'abitudine di sorvegliarli di continuo, di interrogarli, d'informarsi di quel che fanno giornalmente, di fare ogni tanto una visita ai maestri e ai professori. Se li vedranno distratti, svogliati, più proclivi ai divertimenti che allo studio; se li vedranno tornar tardi da scuola, o imbrancarsi coi compagni, o ricercare amicizie non adatte alla loro condizione, avranno elementi sufficienti per far la loro diagnosi, e dovranno senz'altro correre ai rimedi; ai rimproveri, alle correzioni, ai gastighi, se la persuasione e le buone parole non bastano. Purtroppo, l'educazione dei figliuoli è fra le cose difficilissime di questo mondo, e chi volesse darne le norme dovrebbe scrivere un libro apposta; senza contare che le norme sole non bastano. L'animo del ragazzo è mutevole, incostante, e varia da individuo a individuo; e chi si occupa sul serio d'educazione sa che, caso per caso, individuo per individuo, bisogna saper scegliere il modo di correggere, di rimproverare, di punire. Ci sono dei giovinetti d'animo sensibile, coi quali tutto s'ottiene con la dolcezza e la persuasione; anche nei casi più gravi, basta un'occhiata, una parola severa, per rimetterli subito sulla buona strada; per altri invece le parole non bastano, ci vogliono i gastighi, ci vogliono qualche volta, purtroppo, anche delle correzioni più gravi. I genitori devono saper leggere nell'animo dei loro figliuoli come in un libro aperto, e valersi via via dei mezzi di correzione che si adattano di più al loro carattere. Il rispetto alle persone d'età non è soltanto un atto di buona educazione, una norma di civiltà; è, soprattutto, un dovere, fecondo d'ottimi resultati. Rispettare un vecchio vuol dire riconoscere in lui una persona di grado superiore, per coltura, per senno, per pratica della vita. E poichè molti degli errori giovanili dipendono più che altro da inesperienza, non è a dire quanto sia utile nel giovinetto la convinzione che i vecchi ne sanno più di lui: in tale persuasione, egli non sdegnerà di ricorrere ai loro consigli, quando l'occasione si presenti, e lo farà spontaneamente e con fiducia. Toccherà poi ai vecchi a non abusare di questa fiducia, a non mostrarsi noiosi e esigenti, a non far passare ai giovani la voglia di ricorrere ai loro consigli: ciò che sarebbe un gran danno. Due altre cose devono i genitori sorvegliare con gran cura nei loro figliuoli: la scelta delle letture e degli amici. Giunto a una certa età, il giovinetto prova, in generale, un gran desiderio di leggere; e poichè gli manca l'esperienza della vita, tutto quello che legge crede che rispecchi la verità di quel mondo che ancora gli è in gran parte ignoto. L'adulto legge in una maniera del tutto diversa; e qualunque sia il libro che ha sott'occhio, istituisce sempre, anche involontariamente, un confronto fra quel che in esso è detto e quello che è in realtà; e finisce col far la sua critica, dichiarando il libro o vero, o falso, o esagerato, o troppo crudo, o troppo sentimentale. Il ragazzo no: egli si fida ciecamente di quel che legge, e crede e spera di trovarlo poi nella vita. Non di rado si legge di giovinetti di dodici o quattordici anni, i quali, montatasi la testa coi romanzi d'avventure, hanno improvvisamente abbandonato le loro famiglie e si sono messi a correre il mondo per imitare i protagonisti dei loro libri prediletti; e ci fu un tempo in cui la lettura delle Ultime lettere di Iacopo Ortis, romanzo d'amore che finisce con un suicidio, fu causa della rovina di molte giovani vite. Sorvegliate adunque le letture dei vostri figliuoli, scegliete i libri che si adattano alla loro indole, e se non potrete sempre impedire che leggano certi libri un po' fantastici, che sono la loro passione, sappiate almeno porger loro un contravveleno, invitandoli a leggere anche libri d'altro genere e soprattutto aiutandoli, con la parola e con l'esempio, a separare la fantasia dalla realtà, a riconoscere tutta l'esagerazione di ciò che leggono. Se si deve essere severi e oculati nella scelta dei libri, severità e oculatezza anche maggiori saranno necessarie nella scelta degli amici. Non permettete mai che il vostro figliuolo si accompagni con ragazzi della sua età o maggiori di lui, se non li conoscete in modo da esser sicuri della loro moralità. Non è esagerazione dire che i cattivi compagni sono quel che di peggio possa capitare a un ragazzo, tanto essi influiscono sul suo carattere, sulla sua indole, sulle sue idee. E badate che, in generale, non è per malizia che i giovinetti stringono amicizie equivoche: quasi sempre essi credono ingenuamente d'aver trovato la perla degli amici; e solo più tardi, e insensibilmente, prendono il fare, i modi, le abitudini del cattivo compagno. Siate dunque, in questo, severissimi e sorvegliate anche voi stessi, perchè non accada che, in un eccesso di fiducia, non abbiate ad accogliere in casa vostra chi non è degno della vostra confidenza.

Pagina 82

Nuovo galateo

189670
Melchiorre Gioja 1 occorrenze
  • 1802
  • Francesco Rossi
  • Napoli
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N. mostrereste maggior appetito... ed altre simili goffaggini ti si dicono veramente offensive, e dalle quali non ti puoi liberare fuorchè mangiando più del dovere. » La maniera più sicura di piacere ai commensali sta nello scioglierli da ogni specie di soggezione, a quella onesta libertà abbandonarsi che non tocchi il limite dell'indecenza. I frequenti eccitamenti a mangiare ricordano al convitato ch'egli non isfugge ai vostri sguardi e sono numerati i bocconi ch'egli porta alla, bocca. Altronde se coi vostri eccitamenti voi costringete un commensale a giustificare la sua inappetenza, egli sarà talvolta costretto ad accennare particolarità che possono dispiacere alla delicatezza degli astanti nell'atto che mangiano ». IX. Un'aria piacevole e naturale che nè scioccamente si gloria della splendidezza del pranzo, né va mendicando lodi con ricercate scuse, forma il carattere d'un animo nobile che di si piccole cose non pigliasi fastidio. Il padrone non encomierà dunque il suo cuoco, non vanterà sopra gli altri i suoi vini, ecc. ecc. X. Il trinciare le vivande essendo un incomodo, è naturale cosa che il padrone se ne incarichi, dove non si suole far dividere le vivande da' servi. XI L'adirarsi all'altrui presenza col cuoco, col cantiniere, coi servi é somma impulitezza, giacché da un lato gli astanti provano dispiacere per l'altrui mortificazione, dall'altro suppongono che i servi Ii riguardino come occasione di questi rimproveri. XII. Il padrone dee vegliare attentamente, acciò fiorisca la conversazione in graziosi detti che l'uno all'altro s'appiccano, vivaci, repentini, vicendevoli, ma non mordaci, nè maligni; e soprattutto deve impedire che un commensale divenga il trastullo degli altri, come alla corte di Caligola accadeva al povero Claudio; il quale addormentandosi a mensa, dopo d'avere pranzato, diveniva scherno degli astanti che al volto gli gettavano de' nocciuoli d'ulivo o di dattili, e gli levavano i calzari e vestivano con questi le sue mani, acciò, svegliatosi improvvisamente, al volto li portasse con sorpresa e dolore.

Pagina 104

Nuovo galateo. Tomo II

195081
Melchiorre Gioia 1 occorrenze
  • 1802
  • Francesco Rossi
  • Napoli
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E per abbandonarsi a certe appetenze né molta istruzione si richiede, nè molto raffinamento. Consultiamo ora i fatti. 1.° Ho detto altrove che la poligamia proscritta dagli usi de' popoli inciviliti si trova estesa presso i popoli barbari e semi-barbari; il che dimostra chel'intensità e la moltitudine dei desiderii discordanti dalla monogamia vuol essere attribuita alla naturale costituzione dell'uomo non alla civilizzazione, come pretendono alcuni scrittori che non sono né filosofi né teologi (Vedi l'articolo seguente.) 2.° Le donne de' Bretoni, popoli che si scostavano alcun poco da' popoli selvaggi, erano, giusta il racconto di Cesare, comuni a dieci o dodici individui, particolarmente quelle d'un fratello erano comuni a' suoi fratelli, e quelle del padre a' suoi figli. De Bell. Gall. lib. V. AI rimprovero tatto dall'imperatrice Giulia su quel vergognoso commercio alla moglie d'Argatocoxus principe Bretone, questa non negò il fatto, ma ritorse l'accusa contro le dame romane. 3.° I codici de' popoli barbari che invasero l'impero d'Occidente parlano spesso delle violenze fatte al pudore, e del ratto delle donne; il che rende probabile il ratto delle Sabine attribuito ai Romani nella loro primitiva rozzezza. 4.° Sembra che dopo l'invasione de' Barbari nel V secolo fosse comune ai mariti l'uso di fare infame traffico delle loro donne, benché si fossero pubblicate severe leggi per reprimere questo delitto. « Siquis dixerit coniugi, malam licentiam dando, » Vade et concube, cura tali homine; aut si » dixerit alicui homini, Veni et fac cum muliere » mea carnis commixtionem; et tale malum factum » fuerit, et causa probata fuerit, quod, per ipsum » maritum factum sit, ita statuimus, ut illa mulier, » quae hoc malum fecerit et consenserit, moriatur » secundum anterius edictum; quia nec talem causam » facere nec celare debuit. » Leg. Longobard., p. 1099; ap. Georgisch. Corp. jur. Germ. antiq. In quello stato di società la cosa non poteva essere altrimenti; giacchè da un lato vediamo eccessi nel mangiare e nel bere; dall'altro la scarsezza delle arti prima dal XII secolo non presentava larghe risorse. La nobiltà aveva mezzi per comprare, la plebe aveva bisogno di vendere. Attualmente la plebe ottiene a titolo di lavoro ciò che allora otteneva a titolo di corruzione. (VIII e IX secolo). Carlomagno cambia moglie nove volte senza molte formalità e senza scandalo, il che dimostra che il sistema della monogamia quale fu predicato da Cristo, non era ancora protetto dalla pubblica opinione. Sembra che nelle Gallie parecchi monasteri fossero centri di prostituzione, ove incessanti infanticidi commettevansi. Quia dum illae meretrices sive monesteriales, sive seculares, male conceptas soboles in peccatis genuerunt, saepe maxima ex parte occidunt, non implentes Christi ecclesias filiis adoptivis, sed tumulos corporibus, et inferos miseris animabus satiant. (Canciani, Leges Barbororum, t. III, p. 408. col. 2.). (Avvegnaché quelle prostitute, o monache fossero o secolari, generassero prole concetta nel peccato per la massima parte la uccidevano, empiendo le chiese di Cristo non di figli adottivi, ma i sepolcri di corpi, e l'inferno di misere anime). S. Bonifacio attesta che le dame e le monache inglesi ne' loro frequenti pellegrinaggi a Roma perdevano la castità; cosicché nelle Gallie e in Lombardia pochissime erano le città dove non vi fossero prostitute inglesi. (X secolo). Bettinelli, parlando dell'influenza dell'ignoranza sul costume dopo il 900; dice: Sì, per lei perduti gli studi, i libri, le lingue, ignorossi la legge cristiana e civile. I dogmi e la morale si depravarono sin ne' sacri pastori e ministri; i vizi dunque e le virtù poco si distinsero, e si presero i gravi eccessi degli adulterii, degli omicidii, degli incesti, come fatti da scontrarsi dal ricco, o da perdonarsi al forte. Il sapere era volto in derisione e in biasimo; le leggi stesse e i magistrati giustificavano la scostumatezza. Le leggi e i magistrati giustificavano la scostumatezza sciogliendo da ogni colpa l'accusato che dal duello uscia vincitore. Se prestasi fede a Platina, Genebrardo, Stella, Baronio, le meretrici erano sì numerose e sì accreditate, che esse distribuivano le più illustri cariche, i vescovadi ed il pontificato. Edgard re d'Inghilterra attribuisce i vizi più scandalosi agli ecclesiastici, in un discorso pronunciato dinanzi ad un concilio generale del suo regno: egli rimprovera loro l'ubbriachezza, il gioco e la dissolutezza, e dice senza mistero, che le case degli ecclesiastici sono il ricovero delle prostitute. Dietro queste rimostranze l'arcivescovo S. Dunstan coll'assenso del concilio ordinò agli ecclesiastici di conservare la castità o di abbandonare le loro chiese (Fleury, Hist. Eccl. vol. VIII, pag. 286). (XI secolo). Dal 1003 al 1099 più di 20 concili ricordano la vita sregolata degli ecclesiastici si preti che monaci, la loro coabitazione con più donne ed i loro figli illegittimi. Fleury, svolgendo gli atti del concilio di Pavia del 1020, dice: « Les » actes qui nous en restent, commencent par un » grand discours, où il (le pape) se plaint que » la vie licenceuse du elergé deshonore l'église, » et qu' il dissipent les grandi biens qu'elle a recu » de la liberalité des princes, les employant à entretenir » pubbliquement des femmes et à enrichir » leurs enfans » (Hist. eccles., t. VIII, p.458) « Gli atti che ci restano cominciano da un » gran discorso, in cui il papa si lagna che la vita » licenziosa dei cherici disonori la chiesa, o che sciupano » grandi beni cui ella ricevette dalla liberalità » dei principi, adoperandoli a mantenere pubblicamente » donne, e ad inricchire i loro figliuoli.» Questi disordini indussero i sommi pontefici, gli arcivescovi e vescovi ne' susseguenti secoli a moltiplicare i Seminari, acciò nella forza intellettuale infiancata ed estesa trovasse argine la corruzione che era scaturita dall'ignoranza. La dissolutezza e l'impudenza delle persone potenti giunse al punto in quel secolo, che in Inghilterra molte donne si chiusero in monasteri per sottrarsi alla loro libidine, e presero il velo per salvar l'onore. Cadmer, Hist, t. 3, pag. 57. L'universale corruzione indusse a credere che era vicina la fine del mondo. * Le meretrici che seguivano i re ne' loro campi, ne' loro viaggi nelle loro corti, erano unito in corporazioni regolari, affidate al regime di ufficiali chiamati marescialli delle regie meretrici. Questi uffici avevano annessi de' beni e divenivano titoli di nobiltà ereditaria. * Gilbert Stuard, Tableau des progrés de la société en Europe. t. Il, pag. 92 e 193-194. (XI e XII secolo.) Alla vista d'imminente naufragio partono dal lido navi di soccorso; ai gridi degli assaliti le guardie nazionali corrono alla difesa. Ora ne' secoli di mezzo sorse l'ordine de' cavalieri, che ebbe per iscopo di difendere il sesso debole da' rapitori, come i gendarmi hanno per iscopo di difenderci da' ladri. Tanti cavalieri diffusi per tutti i regni fanno supporre un'aggressione generale e frequente. Il peggio si è che i difensori divennero corruttori; e le donne, o difese, o rapite, o sedotte, furono unite, quasi direi, in celle monastiche dirette da abbadesse, o sia in veri serragli. Fu inventore di quest'uso Guglielmo IX conte di Poitou, valoroso e cortese cavaliere, ma grande ingannatore delle dame, come dice la storia. Historie des Troubadours, t, I. Allorché sulla fine di ciascun secolo, dall'undecimo al decimoquinto i predicatori annunziavano la fine del mondo, le storie ci dicono che si restituivano le robe e le donne altrui. » I possessori de' castelli, dice Saint-Fois, eretti » in ogni parte per trattenere le scorrerie dei » Normanni, diventarono nel seguito un flagello » quasi tanto funesto, quanto lo erano stato quei » pirati. Dalla cima delle loro rocche piombavano » su quanto si mostrava nelle pianure, taglieggiavano » i vincitori, saccomannavano i mercatanti, » rapivano le donne se erano belle: talchè sarebbesi » detto che il brigantaggio, il ratto e lo stupro » erano diventati i diritti del barone... » Le donne e le zitelle non erano più sicure » passando da costo alle abbazie, e i monaci sostenevano » più presto l'assalto che restituire la » preda; se erano troppo pressurati portavano sulla » breccia le reliquie di qualche santo, e quasi sempre » accadeva che gli assalitori, colti da rispetto, si » ritiravano e non ardivano proseguire la loro vendetta » (Ouvres tom. IV, pag. 6o, 6I). » Gettiamo uno sguardo sui costumi del tredicesimo » secolo. Ei fu macchiato da disordini che » si estesero fino ai secoli seguenti. Vedevansi ecclesiastici » aggiungere all' immodestia del vestire » una condotta non meno riprensibile, che frequentavano » le taverne, giostravano ne' tornei, mantenevano » pubblicamente concubine; vedevansi curati » che uscivano colla spada al fianco, che ricoveravano » donne sospette, che esercitavano uffici » nelle giustizie secolari, che prestavano ad » usura ecc. In alcune diocesi il fornicario pagava » ogni anno un quartaio di vino, tassa che non » doveva finire che colla vita. Una volta inscritto » sui registri, bisognava pagare in perpetuo, quantunque » o non si volesse più o non si fosse più » in istato di pagare ». (Idem, ibid., pag. 89). (XIII secolo). Da un lato il numero delle feste era quasi triplo dell'attuale, quindi maggior ozio; dall'altro il sentimento religioso, depravato dall'ignoranza, dalle leggi, dagli usi, non riusciva a reprimere la sfrenatezza de' costumi. I tempi (dal 1096 al 1291) ne' quali tante armate accese di zelo aula andavano a combattere per ricuperare e conservare il santo sepolcro, presentarono lo spettacolo della depravazione più abbominevole, e più universale. I pellegrini e i crociati portarono in Asia i vizi d'Europa, e in Europa quelli dell'Asia. San Luigi, durante la sua pia e memorabile spedizione, non poté colle sue virtù, col sue esempio, colle sue precauzioni impedire la dissolutezza e i disordini che lo circondavano. Egli ebbe il rammarico di vedere i bordelli stabiliti dinanzi alla sua stessa tenda. Joinville, Historie de S. Louis, pag. 32. Più scrittori fanno fede dell'uso tirannico e infame che dava ai feudatari il diritto di dormire la prima notte colle novelle spose vassalle di essi. Questo costume si mantenne in Europa sino al XVII secolo. (XIV secolo). Sotto Carlo il Bello la storia della Guascogna cita l'insurrezione de' bastardi, figli naturali della nobiltà. Il saccheggio e le rapine, lo stupro e il ratto, le frodi ed un coraggio disperato furono le armi con cui que' bastardi tentarono di togliere ai loro fratelli legittimi i castelli paterni. Questa guerra sanguinosa fu si viva ed ostinata, che consumò la prima armata speditavi dal re Carlo. Ne' racconti scherzevoli e ne' romanzi, che sembrano essere stati la principal lettura di chi sapeva leggere nelle età di mezzo, e di chi aveva tempo GIOJA. Galateo. Tom. II. 14 d'ascoltarla, regna uno spirito licenzioso che dimostra una dissolutezza generale nel commercio de' sessi. Questa osservazione, che è stata sovente volte fatta a proposito del Boccaccio e degli altri antichi romanzieri italiani, s'applica ugualmente ai racconti ed ai romanzi francesi si in prosa che in versi, ed a tutte le poesie de' Trovatori. La violazione delle promesse e dei diritti maritali vi è trattata come un privilegio del valore e della bellezza: ed un cavaliere perfetto sembra avere goduto senza ostacoli, ed in virtù d'un consenso generale, degli stessi privilegi a' quali nell'epoca della massima corruzione francese pretendevano i cortigiani di Luigi XV. (XV secolo). Filippo il Buono duca de' Paesi Bassi, il quale nel 1438 institui l'ordine del Toson d'oro ed assunse per patroni la B. Vergine e S. Andrea, volle che ventiquattro fossero i membri o cavalieri del suo ordine, in onore delle sue ventiquattro amanti. Annales des voyages, t. IX, pag. 182 (XV e XVI secolo). Era si estesa la corruzione in questi tempi, che fu proposto da Enrico VIII re d'Inghilterra la pena di morte qual unico freno contro l'adulterio. Allorché nel clero, il quale serve ad altri di scorta e d'esempio, si veggono segni di corruzione, si può a buon dritto conchiudere che maggior corruzione è diffusa nella massa popolare. Ora se prestiamo fede agli storici ecclesiastici, che, avendo a cuore l'onor del clero, avrebbero desiderato di scioglierlo da que' vizi che atteso l'infelicità de' tempi lo screditavano, dobbiamo dire che ne' secoli XV e XVI « il clero, si secolare che regolare, era composto d'individui ignoranti e corrotti, i quali, » trascurando i doveri del loro stato, andavano in » giro con meretrici, e dissipavano le rendite dei » loro beneficai in banchetti ove pubblicamente alla » fornicazione abbandonavansi e all'adulterio» Wilkin, Concil., pag, 573. Sulla porta d'un palazzo appartenente al Cardinale di Wolsey si leggeva: Domus meretricurn domi curdinalis.(Stuart, Tableau des progrès de la sociètè en Europe, t. II, pag. 192-193). Gli storici accertano che il concubinato e la simonia erano delitti comuni, e perciò risonarono sì forte i gridi di riforma negli stessi concili di Costanza e di Basilea. Se crediamo a Clemangis, la corruzione in quegli sgraziati secoli continuava ancora ne' chiostri femminili, giacchè egli accerta che al suo tempo dare il velo ad una giovine era lo stesso che abbandonarla alla prostituzione. - Nissuno ardirebbe fare questo lamento a' tempi nostri. (XVII secolo). Nella vita di S. Carlo Borromeo si scorge a quale depravazione di costumi era giunto il clero secolare e regolare in Lombardia: basterà dire che il santo arcivescovo fu costretto a sopprimere più monasteri di monache, atteso la loro sfrenata scostumatezza. L'ordine religioso degli Umiliati, che si era renduto celebre per la sua condotta scandalosa, mal soffrendo le riforme che andava facendo S. Carlo, suscitò il fratello Farina, acciò con un colpo di fucile, che fortunatamente andò fallito, lo ammazzasse nella cappella arcivescovile. E' noto che l'autore di questo attentato e tre religiosi furono puniti di morte. L'anno 1659 sotto il pontificato d'Alessandro VII fu osservato a Roma che molte giovani spose erano rimaste in breve tempo vedove, e che molti mariti morivano dacchè non piacevano più alle loro donne. Nacquero da ciò più sospetti sopra una società di donne giovani. Garelli, medico di Carlo VI re delle due Sicilie, scrisse verso quel tempo al celebre Hoffmann ciò che segue: » La vostra elegante dissertazione sugli errori » relativi ai veleni ha richiamato alla mia memoria » un certo veleno lento che un infame avvelenatore, » tuttora esistente nelle prigioni di Napoli, » ha adoperato per la distruzione di più di 600 » persone.» Non si può dubitare che l'arte infame di preparare ed amministrare segretamente differenti specie di veleni non sia stata estremamente diffusa verso la metà del XVII secolo a Roma e a Napoli. In Francia, e principalmente a Parigi, ella giunse al più alto grado verso il 1670. Nel 1679 per punire questa specie di delitti fu eretta una corte di giustizia speciale detta chambre de poison, o chambre ardente (camera del veleno o camera ardente). Un certo Exili, italiano, compositore e venditore di veleni, è accusato d'avere fatto perire a Roma più di 150 persone sotto il pontificato d'Innocenzo X (XVII secolo). In Francia, dove diviene oggetto di ridicolo anche ciò che ne è meno suscettibile, il veleno fu chiamato, al tempo d'Exili, poudre de succession. In quel secolo perirono sul rogo due avvelenatrici, la Toffana in Italia, la marchesa di Brinvilliers in Francia. Giusta la testimonianza del celebre Flechier, vescovo di Nimes « ne' bei tempi di Luigi XIV (nel » 1665) furono portate 12,000 accuse per delitti » d'ogni specie davanti ai commissari reali nelle » sessioni chiamate le grands jours d'Auvergne. » Riferendo questo fatto, l'autore osserva che l'accusatore e i testimoni erano talvolta più rei che l'accusato. -» Un de ces terribles chatelains (dic'egli) » entretenait dans des tours, à Pont-du-Chàteau), » douze scélérats dévoués à toutes sortes de crimes, » qu'il appeloit ses douze apoires.» L' abate Ducreux, editore delle opere di Flechier, riporta in quella occasione « l'exécution d' un curé condamné » pour des crimes affreux, et il déplora l'état où » l'ignorance et la corruption des moeurs avoient » fait tomber la societé à cette époque: il y eut » dans un seul jour plus de trente exècutions en » effigie». « Uno di cotesti terribili castellani manteneva » nelle torri a Ponte di Castello dodici scellerati » devoti a ogni specie di delitti, cui chiamava » i suoi dodici apostoli.» -« Il supplizio di un curato condannato per delitti » orribili, e rimpiange lo stato in cui l'ignoranza » e i corrotti costumi avevano degradata la » società a quel tempo. In un solo giorno vi furono » più di trenta esecuzioni in effigie. » * Se fosse vero il principio che la mancanza di felicità conduce alla corruzione, converrebbe dire che i secoli scorsi furono mille volte più corrotti del nostro, giacchè la somma de' mali cui quei secoli soggiacquero, fu infinitamente maggiore dell'attuale, del che parlerò nel capo VIII. *

Pagina 230

Le buone usanze

195479
Gina Sobrero 1 occorrenze
  • 1912
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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Ella non balla mai due volte di seguito collo stesso cavaliere: può però nella serata accordargli più di un giro; ballando si tiene dritta, ma non stecchita, nè ha l'aria di abbandonarsi tra le braccia del suo compagno; non tiene il broncio, ma non sta bene che chiacchieri troppo o rida col ballerino; non lo guarda negli occhi, nè volge il capo dall'altra parte quasi ne avesse ribrezzo; infine è cortese e seria, prima perchè deve esserlo e poi perchè ha tutto a guadagnarvi. La nostra civiltà moderna dà alle fanciulle una grande libertà d'azione; esse, se sono senza genitori, viaggiano sole e magari non si peritano a presentarsi ad uno stabilimento di bagni, ad una cura d'acque. Io non condanno affatto che si liberi la donna da tanti pregiudizi, che non la si costringa a rendere monotona la sua vita o ad essere di peso agli altri: solo le consiglio di usare una grande prudenza e un tatto eccezionale, se non vuole essere mai giudicata. Sia molto guardinga nella scelta delle sue relazioni temporanee; si tenga piuttosto appartata dalle compagnie troppo allegre; rinunzi alle acconciature bizzarre che consentirebbero il luogo e la stagione; non accetti niente da nessuno. Se fa una partita paghi la sua parte, giacchè essendosi emancipata, ha rinunziato ad una parte dei vantaggi femminili; non riceva facilmente nella propria camera i compagni di villeggiatura: eviti le passeggiate sentimentali, i luoghi troppo solitari, infine si mostri quale vorrebbe parere, se tra il pubblico vi fosse l'uomo che ella sogna compagno della sua vita. Non ho bisogno di dire che per permettersi questa libertà d'azione bisogna aver passato almeno la trentina; non consiglierei mai ad una fanciulla più giovane di presentarsi sola ad uno di questi pubblici ritrovi. Abbiamo tutta una classe di giovanette, ormai, che col loro ingegno, col lavoro attivo, hanno acquistata una personalità spiccata; esse vivono indipendenti, lavorano e guadagnano, fiere di dovere a sè stesse il necessario o il superfluo dell'esistenza. Badino; la loro posizione non le dispensa affatto da tutti i doveri di una squisita educazione, esse sono soggette a tutte le leggi che guidano le meno privilegiate compagne, anzi occorre loro una più grande riservatezza se non vogliono esporsi ad essere classificate tra le insopportabili donzellone che della donna non conservano che le forme, e se non vogliono assoggettarsi ad una eccessiva confidenzialità da parte degli uomini di cui infine occupano il posto. Non affettino trascuratezza nel vestire, seguano pure la moda senza esagerarla; oggi anche i poeti hanno smessa la zazzera, e il pubblico si inchinerà più benevolo a quella conferenziera, scrittrice o maestra che si mostra vestita con grazia semplice, che oltre lo spirito soddisfa pure il senso dell'estetica. Queste signorine possono avere le loro carte di visita, cosa proibita a quelle che vivono in famiglia; possono scrivere una lettera ad un collega in arte, ad un giornalista, per sollecitare i favori della stampa, godono infine qualche vantaggio, che in genere sarebbe riservato alle donne maritate, ma debbono sapere usarne, non abusarne. Non si mostrino sdegnose dell'applauso, ma non lo mendichino vilmente; non affettino di disprezzare il proprio valore, ma non lo impongano a dritto ed a rovescio; sappiano adattarsi all'ambiente in cui si trovano e non posare a spostate quando si sentono circondate da persone meno colte. È certo assai più facile la vita di una fanciulla ritirata, casalinga, che non quella di una emancipata; alla prima basta per guida il suo cuore, all'ultima occorre molto spirito per farsi perdonare la sua originalità.

Pagina 28

Le buone maniere

202456
Caterina Pigorini-Beri 1 occorrenze
  • 1908
  • Torino
  • F. Casanova e C.ia, Editori Librai di S. M. il re d'Italia
  • paraletteratura-galateo
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L'uomo bene educato e gentile non avendo mai l'idea di offendere volontariamente alcuno, non crede che altri voglia offendere lui: la sua prudenza, è vero, non gli permette di abbandonarsi a credere di tutta schietta farina il pane che la società somministra al grande banchetto della fratellanza universale: tuttavia non è nemmeno portato a diffidare troppo del suo simile, o a prendere subito in mala parte qualche atto che, talvolta, può essere l'effetto di un caso, d'una distrazione o d'una circostanza imprevedibile e indipendente da ogni volontà altrui. Se si crede offeso non piatisce in pubblico e non fa pettegolezzi volgari, specialmente se l'offesa patita gli viene da una signora. Egli non sciupa in risentimenti puerili la sua forza, e sa prendere la sua via anche se ha sbagliato egli stesso, il che può accadere. Il riconoscere un errore e il confessarlo è prova di un grande valor personale; l'atto di scusa di chi ha errato è ancora superiore allo stesso perdono accordato da chi è stato offeso. È più facile essere clemente che umile. La clemenza e l'umiltà sono due virtù ma dipendono da una stessa passione - l'orgoglio; fra esse v'ha questa differenza: che la clemenza esalta il nostro amor proprio e l'umiltà lo abbassa. Ora la scelta è troppo facile fra queste due; ciascuno ama la parte del vincitore più che quella del vinto, siano pure due forti uomini come Carlo V e Francesco I. Colui che sa innalzarsi può giungere a sedere cogli Dei; ma solo ne è degno chi sa comprimerne in sè stesso il desiderio o l'aspirazione. L'uomo bene educato sarà sempre pronto a difendere una donna sola insultata per la strada, a soccorrere un poverello a cui cadesse il bastone o la stampella o il vento portasse via il cappello, anche quando fosse coperto di luridi cenci; e a condurre a casa un bambino smarrito. Esso non reputa cosa vile la pietà che i più Infelici di noi destano nei cuori, innalza fino a sè gli umili, dissimula i risentimenti personali all'altrui presenza e seduto a mensa col suo nemico in casa d'altri, non lo punge nè lo irrita con allusioni pericolose. Egli sta al corrente delle notizie anche indifferenti, quel tanto che basta per potere mettere i suoi amici e conoscenti al contatto di sè medesimo e degli altri; e raccoglie la voce pubblica per sapersi regolare con prudenza e con moderazione, non dimenticando che la voce del popolo, se non è sempre la voce di Dio, è nella maggior parte dei casi la vera pietra di paragone per conoscere i caratteri e i cuori degli uomini. Combatte le calunnie scagliate dagli invidiosi e le insinuazioni dei malevoli a viso aperto, quando può. E quando può, deve; quando non può e non sa, sta in quella forma di forte silenzio per cui a non spuntare gli strali, attutisce il rumore e diminuisce l'urto dei colpi. Non ignorando che una sapiente leggenda tolse dalla costola sinistra del suo cuore, dove si crede abbiano sede gli affetti, la donna, egli la tiene in quel rispetto che rivela un animo gentile ed amoroso, senza sdolcinature, ma evitando quello che ha l'aria di un imperativo, il quale nella crescente civiltà è diventato un vecchio e incomodo elemento di tirannide morale, rifiutato dal progresso e dalla ragione. E posto al contatto di donne loquaci e litigiose o importune si solleva al di sopra delle piccole questioni inevitabili nella vita, con quella fortezza, senza di cui un uomo non potrà mai credere di essere bene educato.

Pagina 87

Angiola Maria

207055
Carcano, Giulio 1 occorrenze
  • 1874
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Pagina 83

Mitchell, Margaret

221961
Via col vento 3 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Geraldo aveva cominciato ad abbandonarsi a una collera piacevolmente clamorosa, quando qualche cosa nel volto addolorato di Rossella lo fermò. - In fondo, sei giovine. L'amore per la terra ti verrà col tempo. Non potrà essere diversamente, perché sei irlandese. Ora sei una bambina, preoccupata soltanto dei tuoi adoratori. Quando sarai piú vecchia, vedrai... Ora rifletti, cerca di pensare a Cade o ai gemelli o a uno dei ragazzi di Evan Munroe, e vedrai come ti metterò bene a posto! - Oh, babbo! Geraldo era ormai stufo della conversazione e infastidito del problema che veniva a gravare sulle sue spalle. Inoltre si sentiva offeso che Rossella avesse ancora l'aria desolata dopo che le erano stati offerti i migliori giovanotti della Contea e per di piú, Tara. A Geraldo piaceva che i suoi doni fossero accolti con battimani e abbracci. - Ora non facciamo il broncio, madamigella. Non importa sapere chi sposerai, purché sia uno che la pensa come te e sia un bravo e orgoglioso meridionale. Per una donna, l'amore viene dopo il matrimonio. - Oh babbo, queste sono idee del tuo paese! - E sono idee ottime! Guarda un po', questi americani che hanno la smania di fare dei matrimoni d'amore, come i servitori, come gli yankees! I matrimoni migliori avvengono quando i genitori scelgono per la ragazza. Come potrebbe una stupida ragazzina come te distinguere un gentiluomo da un mascalzone? Guarda i Wilkes. Che cosa li ha conservati forti e orgogliosi attraverso tante generazioni? Il fatto di essersi sempre sposati tra di loro; tutti hanno sempre sposato i cugini o le cugine desiderate dalla famiglia. Rossella diede un piccolo grido, sentendo rinnovarsi la sua pena alle parole del padre che confermavano la tremenda inevitabile verità. Geraldo guardò il suo capo chino e si sentí a disagio. - Piangi? - chiese; e cercò di sollevarle il mento mentre sul suo volto si dipingeva una grande pietà. - No! - gridò la fanciulla con ira, volgendo altrove la testa. - Dici una bugia, ma ne sono fiero. Sono contento che tu sia orgogliosa; e voglio che questo orgoglio tu lo dimostri domani. Non mi piace che tutta la Contea spettegoli e rida di te, perché hai dato il cuore a un uomo che non ha mai avuto per te un pensiero che non fosse di semplice amicizia. «Lo ha avuto il pensiero» disse fra sé Rossella dolorosamente. «Oh, ne ha avuti tanti! Lo so. Ne sono certa. Se avessi avuto ancora un po' di tempo, so che lo avrei condotto a dirmi... Oh, se non fosse che i Wilkes debbono sempre sposarsi fra cugini!» Geraldo le prese il braccio e lo passò sotto al suo. - Ora andiamo a cena; e tutto questo rimane fra noi. È inutile preoccupare tua madre. Soffiati il naso, bambina. Rossella si soffiò il naso nel fazzoletto lacerato; quindi si avviarono a braccetto per il viale, col cavallo che li seguiva lentamente. In prossimità della casa la giovinetta stava per ricominciare a parlare, ma vide sua madre nella semioscurità del porticato. Aveva la cuffia, lo scialle e dietro a lei era Mammy col volto annuvolato, tenendo fra le mani la borsa di cuoio nero in cui Elena O'Hara portava sempre le bende e i medicinali che adoperava per curare gli schiavi. Le labbra di Mammy erano grosse e pendule; e quando essa era indignata, quello inferiore poteva raggiungere il doppio della sua lunghezza normale. In questo momento era lunghissimo, e Rossella comprese che Mammy stava rimuginando qualche cosa che non approvava. - Mister O'Hara - gridò Elena quando li vide avvicinarsi lungo il viale. Elena apparteneva a una generazione che rimaneva cerimoniosa anche dopo diciassette anni di matrimonio e la nascita di sei figli. - Mr. O'Hara, c'è bisogno di me dagli Slattery. Emma ha avuto un bambino, ma è moribondo e bisogna battezzarlo. Vado con Mammy a vedere che cosa posso fare. La sua voce aveva un tono interrogativo, come se ella attendesse l'approvazione di suo marito; una semplice formalità ma che a Geraldo faceva piacere. - Santo Dio! - proruppe Geraldo - perché quegli straccioni della palude vengono a chiamarti proprio a ora di cena e mentre io desidero raccontarti quello che si dice della guerra ad Atlanta! Vai, signora O'Hara. Non dormiresti tranquilla stanotte sapendo che fuori c'è qualcuno che ha delle angustie e tu non sei ad aiutarlo. - Non riposare mai tranquilla, perché dovere tante volte alzarsi per curare negri e bianchi poveri che non possono curarsi da soli - borbottò Mammy con voce monotona mentre scendeva i gradini e andava verso la carrozza che aspettava nel viale laterale. - Prendi il mio posto a tavola, cara - disse Elena accarezzando dolcemente il volto di Rossella con la mano coperta dal mezzo guanto. Benché sentisse alla gola il nodo delle lagrime, la fanciulla rabbrividí al tocco magico della mano materna, e al debole profumo di verbena che emanava la sua veste di seta. Per lei vi era in Elena O'Hara qualche cosa che toglieva il respiro; un miracolo che viveva in casa con lei e le ispirava rispetto, la affascinava, la blandiva. Geraldo accompagnò sua moglie fino alla carrozza e diede ordine al cocchiere di fare attenzione. Tobia, che aveva cura da vent'anni dei cavalli di Geraldo, sporse le labbra con muta indignazione nel sentirsi dire come doveva guidare. Mentre si allontanava, con Mammy seduta accanto a lui, entrambi erano la perfetta personificazione del broncio africano pieno di biasimo. - Se io non facessi tanto per quegli straccioni bianchi degli Slattery ed essi dovessero pagare qualcuno per tante cose - si adirò Geraldo - sarebbero costretti a vendermi quei miserabili pochi jugeri di fondo di palude e la Contea sarebbe sbarazzata di loro. - Poi, rallegrandosi in anticipazione di una delle sue solite burle: - Vieni, figliuola; andiamo a dire a Pork che invece di comprare Dilcey ho venduto lui a John Wilkes. Gettò le redini del suo cavallo a un negretto che era lí accanto e si avviò su per i gradini. Aveva quasi dimenticato il crepacuore di Rossella, e pensava solo a burlarsi del suo domestico. Rossella salí lentamente gli scalini dietro a lui, coi piedi pesanti. Pensava che, dopo tutto, un'unione fra lei e Ashley non sarebbe stata piú strana di quella di suo padre con Elena Robillard O'Hara. Come sempre, si chiese come mai sua padre, cosí rumoroso e cosí poco sensibile, avesse potuto sposare una donna come sua madre; poiché mai vi erano state due persone piú lontane come nascita, come educazione, come abitudini mentali.

Pagina 30

Com'era bello abbandonarsi senza passione, senz'ansia, come nelle braccia di un amico diletto. Solo Ashley che condivideva i suoi ricordi e la sua giovinezza, che conosceva il suo passato e il suo presente, poteva comprenderlo. Udí rumore di passi fuori, ma non vi badò, credendo che fossero i carrettieri che andavano a casa. Rimase un istante ad ascoltare il lento battito del cuore di Ashley. Improvvisamente egli si sciolse da lei ed ella fu sorpresa dalla sua violenza. Alzò gli occhi stupita, ma egli non la guardava; al disopra della sua spalla, Ashley fissava la porta. Si volse: sulla soglia erano Lydia, pallida, coi suoi chiari occhi fiammeggianti, e Baldo, malevolo come un pappagallo guercio. Dietro a loro era la signora Elsing.

Pagina 915

Melania non aveva mai visto piangere un uomo; e non avrebbe mai pensato che Rhett cosí tranquillo e beffardo, cosí sicuro di sé, potesse abbandonarsi al pianto. Quei singhiozzi disperati la spaventarono. Pensò che era ubriaco; e l'ubriachezza suscitava in lei un istintivo terrore. Ma quando egli levò il capo ed ella scorse il suo sguardo, entrò nella stanza, chiudendo l'uscio dietro di sé, e gli si avvicinò. Non aveva mai visto piangere un uomo, ma aveva confortato le lagrime di molti bambini. Gli posò una mano sulla spalla; e le braccia di lui la circondarono impulsivamente. Prima ancora di essersi accorta di ciò che accadeva, si trovò seduta sul letto, col capo di lui nel grembo e le sue mani e le braccia aggrappate a lei in una stretta frenetica che le faceva male. Accarezzò dolcemente la testa nera mormorando: - Via, via! tranquillizzatevi! Ora sta meglio! A queste parole la stretta si fece piú convulsa ed egli cominciò a parlare in fretta, balbettando, con voce rauca, come dinanzi a una tomba che non avrebbe mai rivelato i suoi segreti mormorando per la prima volta in vita sua la verità, denudandosi spietatamente a Melania che fin dal primo momento, pur senza comprenderlo, fu soavemente materna. Parlava a frasi spezzate, nascondendo il capo nelle pieghe dell'abito della donna; a volte le sue parole erano smozzicate, soffocate, altre volte le giungevano all'orecchio anche troppo esplicite: parole aspre ed amare, di confessione e di avvilimento, che dicevano cose che ella non aveva mai udito neanche da una donna, cose che le facevano salire al volto le fiamme della verecondia, ringraziando Dio che egli tenesse la testa china. Gli accarezzò il capo come faceva col piccolo Beau, dicendo: - Zitto, capitano Butler! Non dovete dirmi queste cose! Non siete in voi... Zitto! Ma la voce di lui continuò simile a un torrente irrefrenabile, mentre egli si aggrappava alla veste di Melania come se quella fosse la sua speranza di vita. Si accusò di azioni che Melania non comprese; mormorò il nome di Bella Watling; e la impressionò con la sua violenza quando gridò: - Ho ucciso Rossella! L'ho uccisa io! Voi non capite. Lei non desiderava questo bambino e... - Tacete! Siete fuori di voi! Non desiderava un bambino? Ma tutte le donne desiderano... - No! No! Voi li desiderate. Ma lei no. Non un bambino mio... - Finitela! - Non capite! Lei non voleva altri bambini ed io l'ho resa madre. Questo... questa gravidanza è tutta colpa mia. Non dormivamo piú insieme... - Ma tacete! Non è conveniente... - Ero ubriaco, quasi impazzito e volevo farle male... perché lei mi aveva offeso. Volevo... ma lei non mi voleva. Non mi ha mai voluto bene. Ed io feci tutto il possibile per... - Vi prego! - E non ho saputo di questa gravidanza fino all'altro giorno... quando è caduta. Non sapeva dov'ero per potermelo scrivere... ma se anche lo avesse saputo non me lo avrebbe scritto. Vi dico... che sarei tornato subito se avessi saputo... anche se lei non avesse desiderato la mia presenza... - Oh, sono certa che sareste tornato! - Sono stato come pazzo, tutte queste settimane; pazzo e ubriaco! E quando me lo disse, sulle scale, sapete che dissi? Che feci? Risi e le dissi: «Stai allegra. Potresti anche abortire». E lei... Melania impallidí e i suoi occhi si spalancarono inorriditi. Il sole pomeridiano entrava a fiotti dalla finestra aperta e a un tratto ella vide, per la prima volta, com'erano grandi e forti le mani di lui e com'erano vellose. Involontariamente distolse lo sguardo da esse. Le sembrarono predaci, crudeli, eppure - aggrappate alla sua gonna - deboli e innocenti. Possibile che egli avesse saputo della menzogna sul conto di Ashley e di Rossella e si fosse ingelosito? Veramente, aveva lasciato la città subito dopo lo scandalo, ma... No, non poteva essere. Egli partiva sempre all'improvviso per i suoi viaggi. Non poteva aver creduto a quel pettegolezzo. Se fosse stato a causa di quello, perché non se l'era presa con Ashley? O non gli aveva, almeno, chiesto spiegazioni? Non poteva essere. Egli era ubriaco e spezzato dalla tensione, e la sua mente galoppava, come quella di un uomo in delirio, attraverso le piú strane fantasie. Gli uomini non sopportano la tensione nervosa come le donne. Rhett era sconvolto: forse aveva avuto una piccola disputa con Rossella e ora la ingrandiva. Forse qualche cosa di quanto diceva aveva un fondo di verità. Ma non certamente l'ultima frase! Nessuno può dire una cosa simile a una donna che ama con passione come Rhett amava Rossella. Melania non aveva mai conosciuto il male, mai visto la crudeltà; ed ora che la prima volta si trovava di fronte ad essi li trovava troppo inconcepibili per poterli credere. Rhett era ubriaco e malato. E coi bambini ammalati bisogna essere consenzienti ai loro capricci. - Via, via! - gli disse dolcemente. - Tacete adesso. Ho capito. Egli rialzò la testa violentemente e la guardò con gli occhi iniettati di sangue respingendo con impeto le sue mani. - No, perdio, non potete! Siete troppo buona per comprendere. Non mi credete; ma tutto quello che vi ho detto è vero ed io sono un cane. Sapete perché ho fatto questo? Perché ero pazzo di gelosia. Lei non mi ha hai voluto bene e io ho creduto di poter riuscire a farmi amare. Ma non vi sono riuscito. Non mi ama. Non mi ha mai amato. Ama... Il suo sguardo ubriaco, pieno di passione, incontrò quello di lei, ed egli si interruppe, rimanendo a bocca aperta, come se per la prima volta vedesse con chi stava parlando. Il volto di Melania era pallido e teso, ma i suoi occhi erano fermi e dolci, pieni di pietà e di incredulità. Vi era in essi una luminosa serenità; e l'innocenza di quelle pupille brune e profonde lo colpí come un fulmine, illuminando il suo cervello offuscato dall'alcool, trattenendo le sue parole folli, insensate. Egli balbettò qualche cosa di incoerente abbassando gli occhi, battendo rapidamente le palpebre mentre cercava di rientrare in sé. - Sono un mascalzone - mormorò, lasciando ricadere stancamente il capo nel grembo di lei. - Ma non fino a questo punto. E se io ve lo dicessi, non mi credereste, non è vero? Siete troppo buona per credermi. Non ho mai conosciuto nessuno, prima di voi, che fosse veramente buono. Non mi credereste, non è vero? - No, non vi crederei - rispose Melania calmandolo e ricominciando ad accarezzargli i capelli. - State tranquillo, capitano Butler! Rossella sta meglio... Non piangete! Vedrete che guarirà.

Pagina 962

Cosima

243854
Grazia Deledda 1 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
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Ah, sí, Cosima adesso risponde, con lettera raccomandata, e non si proibisce di abbandonarsi con la fantasia, come un angelo viaggiante, al seguito dell'avventuroso suo cavaliere. Le pare di vivere al tempo delle Crociate: egli va, col nome di lei nel cuore, a combattere contro i pagani, i pellirosse, i serpenti, le foreste vergini, le erbe che uccidono. Furono i giorni piú belli della vita di Cosima, piú belli ancora di quelli passati sul Monte, a respirare l'aria che respirava Antonino. Era il sogno vivo, adesso, l'avventura epica, alla quale ella prendeva parte cavalcando sulle nuvole rosse dell'orizzonte, sui glauchi mari delle sere di luna. Tutto le sembrava grande e luminoso. Nella casa di faccia alla sua, essendo morto il nero canonico medioevale e sposata a un vecchio cugino la nipote, era venuto ad abitare un ricco attempato, ma ancora sanguigno e forte negoziante di scorze d'albero e di sugheri. Era anche un cacciatore famoso e ogni tanto radunava gli amici per una partita di caccia grossa. Scalpitavano i cavalli, nella strada stupita da tanta animazione quasi guerresca, e i cavalieri, armati di tutto punto, alcuni smilzi e dritti in sella, altri, già anziani, barbuti, grassi e un po' cascanti, ma col viso duro e deciso come di vetusti razziatori abituati a far preda, aspettavano che il gruppo fosse al completo, mentre i cani s'incontravano e facevano, fra le zampe dei cavalli, una schermaglia rintronante di guaiti e latrati; e appena usciva dal portone spalancato il cacciatore rosso dalle concie possenti e dagli occhi verdi brillanti di gioia beffarda e feroce, sul suo balzano quasi ancora indomito, la comitiva si slanciava al galoppo inondando la strada come un'orda diretta alla conquista di un luogo nemico: i passi dei cavalli risonavano a lungo, anche quando la strada ritornava deserta, e pareva uno scalpitio di treno che s'allontanava: Cosima, alla finestra, mentre ritirava, dopo averlo sgrullato, il piccolo soppedaneo del suo lettuccio, s'incontrava a seguire nell'aria l'eco della cavalcata: e pensava al suo esploratore, alla caccia dei selvaggi; e si sentiva anche lei in corpo una smania di amazzone, un ardore di eroina da avventure audaci; ma poi le toccava rifare i letti e pulire le camere, e, per risalire a galla da questo stagno di realtà, aspettare almeno il passaggio del portalettere. Era un uomo rude, il portalettere, anche lui rosso di pelo e di pelle; e quando passava, con le sue grosse scarpe, battendo alle porte dei cittadini e gridando forte: «posta, posta», tutti gli echi intorno si risvegliavano, persino i cani abbaiavano, l'aria prendeva un colore di inquietudine. Per Cosima rappresentava un personaggio quasi mitologico, apportatore di bene e di male, e quando ne sentiva la voce di lontano tremava come se il destino fosse in cammino verso di lei. Era stato lui, in fatti, a portarle le lettere di gloria e di amore, di umiliazione e di speranza, e il vaglia, e i giornali col suo nome scritto come su lapidi che le parevano eterne. Adesso ella aspettava notizie da un mondo misterioso, lontano, quasi di là dai confini del mondo reale: lettere dell'esploratore, che a quel suo mondo nuovo voleva mettere il nome di lei. Ma il portalettere passava con la borsa, che faceva un rumorino speciale, sulla cinghia di cuoio, come quello dei carnieri dei cacciatori, e picchiava con violenza il battente della porta del negoziante di scorze, traendo dalla borsa un pacco di lettere e di giornali. E a lei nulla: e la voce aspra dell'uomo della sorte che si andava affievolendo le pareva si burlasse crudelmente di lei. Cosí passò la bella stagione: ella non si curava piú neppure di Antonino. Di nessuno si curava, tranne che delle sue scritture, illuminate dalla luce di quel sogno che era il piú bello dei romanzi che ella avrebbe mai potuto scrivere. In ottobre ci fu, come al solito, la vendemmia. No, non come al solito, poiché la madre, d'accordo con Andrea, aveva fatto costruire una piccola casa di pietra nella vigna, sotto un pino che vigilava solitario la grande distesa quasi tutta selvaggia come una landa, e dichiarò che la voleva abitare per qualche settimana. Solo la vigna rallegrava coi suoi quadrati verdi e gialli, con qualche filare di grandi fichi bassi, la dolce triste solitudine del luogo: i monti lontani innalzavano una muraglia azzurra intorno all'orizzonte. Un colono del Continente coltivava, fin dal tempo in cui era vivo il padre di Cosima, la vigna da lui piantata, e un grande orto che godeva di un rivolo d'acqua raccolto in una vasca ampia come un laghetto, circondata di giunchi, canne e salici selvaggi. Il luogo era bello: una specie di oasi nella desolazione della pianura incolta e pietrosa, saettata, nell'estate, da un sole implacabile. Ed ecco, adesso, la casetta di pietra lo rendeva piú pittoresco ed ospitale: erano appena due stanze, addossate ad un'altra, piccola, che fino a quel tempo era stata l'abitazione del solitario colono, il quale non si moveva mai dal posto, rifornito ogni tanto di pane e altri viveri da Andrea, che di ritorno portava a casa i prodotti dell'orto. Erano per lo piú patate, legumi, verze, zucche e insalate, e qualche volta anche poponi e cocomeri. E nella stagione l'uva, quasi tutta da vino, quel vino leggero ma saporoso che aveva aiutato Cosima a comprar francobolli e spedir manoscritti. Fu dunque mandato un carro di mobili, come si usava per andare al Monte: e Cosima si offrí ad accompagnare la madre, mentre le sorelle, che non volevano neanche sentir parlare di un luogo sperduto come quello, sarebbero rimaste a casa sotto la sorveglianza della serva fedele. Il servo che accompagnava il carro sarebbe rimasto nella vigna, e anche Andrea vi avrebbe passato la notte, per maggior sicurezza delle donne. Ma il luogo era tranquillo; non si era mai sentito parlare di vicende spiacevoli: l'aperta e nuda pianura non permetteva neppure il passaggio di malviventi, tanto che il colono non aveva un'arma, un cane. Ad ogni modo una pattuglia di carabinieri a cavallo adibita alla sicurezza stradale, percorreva ogni giorno lo stradone comunale che attraversava quella specie di altipiano selvaggio. Cosima e la madre s'incamminarono, a piedi, lungo lo stradone, dopo aver oltrepassato le ultime case del paese. La giornata era limpida, tiepida; un acquazzone aveva rinfrescato i campi, e gli stessi cespugli e le erbe già inariditi della distesa intorno alla vigna avevano ripreso il verde: le ginestre fiorivano ancora, ancora qualche sambuco nano, dove il terreno era umido, apriva le sue ombrelle d'argento filigranato. Il pino, sopra la casetta che ancora odorava di calce, vibrava tutto di canti d'uccelli: ce n'erano di ogni specie, sopra tutto di passeracei, poiché era l'unico rifugio del luogo, e il loro chiassoso concerto strideva anche di voci di battaglia; tutti però d'accordo nello scavare i fichi nella vigna e a piluccare l'uva, nonostante gli spauracchi drizzati qua e là dall'ingegnoso colono. Del resto anche lui aveva l'aspetto di uno spaventapasseri, alto, scarno, dinoccolato, con gli enormi piedi scalzi nodosi, i calzoni logori di fustagno rimboccati sulle caviglie rosse, e altrettanto le maniche sulle braccia che, se egli stringeva i grossi pugni, sembravano clave. Tutto il suo aspetto era, piú che di contadino, di vecchio marinaio, di «lupo di mare», per il viso arso, di terracotta, i capelli irsuti di colore del sale, e come scarmigliati dal vento; ma specialmente per gli occhi piccoli, stretti, dei quali si vedeva quasi solo la pupilla verdognola. Quando arrivarono le padrone egli aiutava il servo a scaricare la roba dal carro, e non rispondeva alle domande e agli scherzi dell'altro: pareva sordo, anzi anche muto, perché salutò solo con un cenno del capo, e non aprí la lunga bocca rientrante, quasi invisibile. In cambio parlava molto il servo, un giovìnotto bruno tutto occhi e denti, che ogni tanto si aggiustava la cintura e rideva per nulla: la sua presenza metteva allegria, e quasi egli piaceva alla signorina: lo trovava per lo meno della sua razza, uno schietto contadino, figlio della stessa terra, mentre il colono - già per il nome stesso, che gli era stato consacrato dal vecchio padrone - rappresentava uno straniero, un lavoratore di terre lontane, d'origine ignota se non quasi misteriosa. Infatti nessuno aveva mai saputo la sua provenienza, anche perché nessuno, dopo il tempo in cui, finita la sorveglianza della polizia, era stato assunto in servizio dal signor Antonio e confinato lí nella vigna solitaria, nessuno se ne era piú curato: neppure Andrea, che come il corvo ad Elia, gli portava il pane. E infatti l'uomo si chiamava Elia. Dopo che ebbero messo a posto, nelle due stanzette, i Tettucci, due tavolini, alcune sedie, un attaccapanni e qualche arnese di cucina, i due uomini se ne andarono a lavorare, a togliere i pampini superflui alle viti, perché l'uva finisse di maturare; il giovine servo si mise a cantare, e la sua voce sonora ma monodica si sperdeva come nella vastità di una chiesa deserta. Allora Cosima, come già aveva fatto sul Monte, cominciò a riordinare e abbellire quella che, per far sorridere la madre, chiamava la villa. La madre non sorrideva: come sempre era taciturna e chiusa in una tutta sua segreta preoccupazione: ma gli occhi le si erano un po' illuminati, e il da fare che si diede, per preparare un po' di cibo nel camino della prima stanzetta, adibita a cucina, sala da pranzo e da ricevere, la distrasse. Si sarebbe potuto usufruire, per gli usí più comuni, della cameretta del colono, dove c'era un vecchio e grande camino che tirava molto bene; ma la padrona intendeva rispettare gli antichi privilegi del dipendente, che con la sua sola opera si era costruito quel rifugio da quando aveva assunto servizio nella vigna, e vi teneva i suoi stracci e il suo giaciglio. Cosima d'altronde ci sentiva odore di selvatico e non le sarebbe piaciuto neppure di guardare dentro se il vecchio non avesse attirato la sua curiosa attenzione, interessata, di osservatrice di tipi fuori del comune, con la nebulosità del suo passato e la sagoma della sua figura. Egli avrebbe forse potuto, ad esplorarlo, a farlo diventare docile e confidente, raccontarle qualche cosa d'interessante, con un colore diverso dal locale, qualche cosa da mettersi sulla carta e trasformarlo in materia d'arte. Appena dunque l'abitazione fu in ordine, ella andò nella vigna, dove i due uomini lavoravano, e diede ascolto ai discorsi del servo paesano, poiché l'altro conservava il suo assoluto e impassibile mutismo. «Speriamo» diceva il giovinotto «che la vostra mutria si cambi in buon umore fra una settimana, quando verranno le ragazze a vendemmiare. Verranno due mie cugine: ma quelle dovete contentarvi di guardarle da lontano e di non toccarle neppure con una canna: le altre, che la padrona sceglierà di suo gusto, ve le lascio liberamente, vecchio cinghiale.» Il vecchio cinghiale pareva non lo sentisse neppure: solo, all'accenno di una donna, una vedova già anziana, che un tempo si diceva avesse avuto relazioni con l'esiliato, i suoi occhi si allargarono un poco, ed egli scosse il mazzo di foglie di viti che teneva in mano: ma non apri bocca, non si volse a guardare Cosima che era arrivata in mezzo al filare e lo osservava silenziosa. Né piú fruttuosi furono gli altri approcci durante quella prima giornata, sebbene ai due uomini fosse servito un pasto certo per loro insolito, preparato dalla padrona, e anche lei tentasse di attaccare discorso col vecchio taciturno. Egli rispondeva sí e no alle domande di lei, riguardanti l'orto e la vigna, nel vederla si alzava e si piegava con segni di un rispetto quasi esagerato: null'altro. «È un idiota» disse il servo, quando l'altro non poteva sentirlo. «Ma è anche malizioso, e la sa lunga.» E raccontò della vedova, che un tempo veniva a trovarlo nella vigna, e accennò al lontano passato di lui. Pare che avesse tentato di derubare un suo ricchissimo parente, nelle cui terre lavorava: sebbene il parente avesse rimesso la querela, Elia era stato condannato. Poi la voce cambiava; il parente diventava un banchiere, o addirittura una banca, che era stata, svaligiata da un gruppo di ladri, dopo narcotizzato il custode, e fra i manigoldi era Elia. Disse la padrona : «Se fosse stato cosí, il mio povero marito non l'avrebbe assunto al suo servizio.» «Oh, il signor Antonio era buono: era un santo, di quelli che non ne nascono piú» disse il servo. Nel pomeriggio arrivò, a cavallo, Andrea. Fra le altre cose portava un giornale e una lettera per Cosima. Una lettera! Ella la prese, come faceva sempre, trepidando: le pareva, ogni volta, di afferrare un uccello a volo, l'uccello favoloso della fortuna e della felicità. Ma questa era una semplice lettera d'invito a mandare i suoi libri a un giornaletto, che prometteva di parlarne ai suoi lettori. Ed ella la lasciò andare, come appunto si lascia andare un uccellino che non serve a niente. Ad ogni modo la giornata fini bene: il tramonto arrossava la vigna, la vasca e i salici scintillavano; le distese della pianura avevano la calma e melanconica poesia della steppa, come Cosima l'aveva intraveduta in qualche racconto russo: ma il punto centrale del paesaggio, il piú bello, era il pino solitario entro il quale vibravano le fiamme del sole che pareva vi si annidasse come un grande uccello di porpora. E Cosima se ne andò per un sentiero della brughiera, dove avrebbe potuto camminare finché voleva, poiché non c'era pericolo di sperdersi, e dalla vigna potevano sorvegliarla con un solo sguardo. Le erbe sembravano colore di rosa, ogni seme, ogni fiorellino, ogni bacca, aveva come un occhio d'oro che rispondeva al suo sguardo: e i monti lontani, color d'acquamarina, svaporavano nel cielo arancione e verde e rosso che a poco a poco trascolorava e cambiava tinta. Una coccinella sali, da un cespuglio, sulla veste di Cosima, come su un cespuglio piú alto: andò su, su, tranquilla, fino al braccio di lei, fino alla sua mano. Era un essere meraviglioso e quasi terribile: sul piccolo dorso piatto, d'un rosso scuro di lacca, era disegnato in nero un viso umano perfetto, con gli occhi, il naso, la bocca, tutti un po' obliqui come nelle maschere giapponesi: parve a Cosima che quegli occhi la guardassero, con la stessa meraviglia misteriosa con cui lei li guardava. Arrivata all'estremità del dito medio, sull'unghia rosea di tramonto, la coccinella aprí due piccole ali iridate e volò via. Cosima avrebbe voluto imitarla, ma i suoi piedi erano legati alla terra, ed ella avrebbe dovuto camminare fino all'estremità del mondo per potersi slanciare cosí. Quando il sole spari, uno stupore quasi infantile parve incantare ogni cosa: il cielo si fece trasparente come l'acqua, e la stella che apparve sull'orizzonte vi tremolò come appunto riflessa dal mare. Mai Cosima, neppure sul limite dei boschi e delle roccie del Monte, davanti ai sontuosi tramonti visti dall'alto, aveva provato una malia simile a questa che l'avvolgeva in mezzo alla terra incolta, guardata solo da Dio. Invece di sentirsi piccola, e poiché era impotente a volare, le parve di essere alta, alta fino a toccare con la fronte la stella della sera; eppure in quel momento dimenticava tutte le sue ambizioni, i suoi vani sogni, la sua attesa di avvenimenti straordinari. La vita era bella cosí, anche fra gli umili steli nati da sé, fra le cose create da Dio per la gioia del cuore che è vicino a lui come il cuore del bambino a quello della madre: ed ella ne ebbe quasi la prima rivelazione, e si senti uno scalino ancora piú in alto, nella scala di Giacobbe che doveva essere la sua vita. Cosí, per nulla: solo perché vedeva la stella della sera brillare sopra i monti non meno e non piú meravigliosa della coccinella, e le erbe selvatiche odoravano al suo passaggio. Decise di non aspettare piú nulla che le arrivasse dall'esterno, dal mondo agitato degli uomini; ma tutto da se stessa, dal mistero della sua vita interiore. Cosí, ebbe fine l'attesa delle notizie dell'esploratore: e anche lui, del resto, non scrisse piú.

Pagina 123

Il marito dell'amica

245037
Neera 1 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
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È ben vero che Maria aveva dal marito frequenti inviti di seguirlo in città, dove ella avrebbe potuto abbandonarsi a tutte le seduzioni di una vita elegante e scapigliata; avrebbe potuto essere la compagna delle sue cene, delle sue partite di piacere; darsi come lui ad una amabile spensieratezza; ma questo per Maria era impossibile. Perduta ogni illusione di dolce ed intima vita di famiglia, non volendo d'altra parte concorrere alla rovina del marito nè farsi sua complice, ella vide la sua strada semplice e retta, attaccata alla casa, ai doveri che il marito trascurava. Si pose alla testa degli affari, attiva, intelligente; si fece rispettare, si fece amare sopratutto dai coloni, che dipendevano da lei. Un servo abile ed onesto, Pablo, fu il suo interprete nei primi tempi, il suo aiuto di poi e sempre. Ferita due volte, Maria non si abbandonò allo scoramento; lila dal suo stesso dolore traendo forza, invece di imprecare contro un ideale svanito, mosse coraggiosa alla ricerca di altri veri. Come un condottiero in campo nell'ora disperata si raccoglie intorno i migliori soldati, ella fece appello ai più nobili sentimenti, alla carità, al perdono. Il suo primo, il suo unico amore, come una dolce memoria lontana, venne a tenerle compagnia nella nuova solitudine. Dall'esperienza della vita, dalla conoscenza degli uomini, aveva attinta una filosofica rassegnazione e attraverso questo prisma guardando la condotta di Emanuele giunse a scusarla, a spiegarla, quasi logica conseguenza delle lotte interne che contristavano quella povera anima. Allora fu colta da una tenerezza senza nome, mista di acuti rimpianti e di infinita compassione. Il deserto che la circondava fu presto popolato dall'immagine di Emanuele; le memorie del passato accorsero in folla e ritrovarono subito il loro posto antico. Bastava una parola, un profumo, una data luce, uno scalino sprofondato nell'ombra perchè, in mezzo alle più aride occupazioni giornaliere, le si sprigionasse un vulcano di desideri, sopiti, non spenti; e un tormento continuo, e un rimorso d'averlo abbandonato; un accusare sè stessa di non essere stata generosa, di non essersi sacrificata interamente. Da queste lotte che avrebbero isterilita una persona volgare, Maria usciva radiante di fede, portando nel suo piccolo mondo un raddoppiamento d'affetti, una intelligenza squisita delle sofferenze umane; un compatimento, una misericordia che non si stancavano mai, perchè si alimentavano della ferita ch'ella aveva nel cuore. Improvvisamente suo marito morì, vittima di una rissa in una casa da giuoco. Trascorso l'anno di lutto, Maria affidando i suoi vasti possedimenti nelle mani di un agente sicuro, era venuta in Italia accompagnata dal suo fido Pablo. E quando, spoglio d'ogni riflessione personale, ella ebbe fatto a Sofia il racconto succinto del suo matrimonio, della vita in America e della morte del marito, Sofia celiando le disse: - E se ora ritrovassi il tuo primo innamorato? - Impossibile - rispose Maria, seria. - Perché? - È morto.

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Nel sogno

248220
Matilde Serao 1 occorrenze

Il sogno distende fra il sognatore e la vita come un velarlo, come una nuvola e il fortunato essere si avanza in questa specie di custodia immateriale, in quest'atmosfera spirituale isolante; e fra i veli del suo sogno, fra la bianca nuvola che Io avvolge, nella solitudine che lo assorbe, il fortunato può abbandonarsi alla sua profonda e cara visione, può come Issione struggersi di amore, di dolore, di folle ardore, senza che nulla di quanto esiste, nella verità, lo strappi al suo sentimentale delirio! Assai, assai più invidiabili coloro in cui, quale leva magnetica, il sogno diventa operoso. Può, spesso, la società positiva non saper risparmiare a questi sognatori il suo disprezzo; ma nella intimità del suo spirito, la società positiva invidia loro questa forza capace di sollevare le montagne, ma la vita e la morte di questi sognatori operosi finisce per istrappare un lungo grido di rimpianto e di ammirazione persino in coloro che li derisero. Che importa poi ai sognatori operosi la derisione, sogghigno, la beffarda incredulità? Coloro cui fu data questa suprema risorsa dell'intelligenza e del sentimento, coloro che portano in sè questo divino segreto, sono coverti di uno scudo fatato, scintillante, simile a quello su cui si spezzò la lancia di Telramondo senza giungere al petto di Lohengrin. Ogni anno, centinaja di deboli donne, soggette a tutte le fralezze del sesso, entrano negli ordini religiosi militanti e partono per le scuole, per gli ospedali, pei campi di battaglia, per le missioni nei paesi più inospiti e più selvaggi : e prese dal loro sogno di fede e di carità, esse combattono, decimate dalle malattie, dalle fatiche, dai climi perversi, dagli uomini perversi, e dove dieci sono cadute, venti, cento ne arrivano, e questa catena di nobilissime sognatrici giammai s'infrange, continuamente si prolunga. Ogni anno centinaja di giovani, di uomini maturi, di vecchi, entrano nei gabinetti della scienza e si curvano a interrogare tutti i misteri della natura e della vita, e impallidiscono sopra il microscopio, e perdono i loro occhi, la loro salute, semplicemente per portare un piccolo contributo alla verità; e spesso intiere esistenze si consumano, così, ignorate; e, spesso, i loro sforzi nulla raggiungono; e spesso la lotta è così inane, così acre, così tormentosa che essa li uccide, in pieno sogno di passione scientifica. Ma dove tanti perirono, altri, altri portanti nella mente questa visione fulgida, vengono ancora, lottatori accaniti, lottatori indomati, sino a che, un giorno glorioso, il sogno di tutti loro sia compiuto da un solo e la umanità possa dire di aver vinto, ancora una volta, il morbo e la morte. Ogni anno, ogni anno, in cento anime si svolge il sogno di viaggi in regioni non ancora percorse da piede d'uomo civilizzato: il grande sogno nordico, fra le nevi eterne del polo, fra le immortali bianchezze dove i giorni senza sole succedono alle albe livide e muojono ne le candide notti spettrali; e il sogno dell'Africa, sotto quella Croce del Sud che tanti occhi ansiosi interrogarono nelle notti di marcia, e che parve loro la mistica stella che condusse i Re nella peregrinazione verso Soria, questi due sogni immensi e profondi, affascinanti e travolgenti, tolgono alle ricchezze, agli agi, alla patria, alle famiglie cuori ed anime di sognatori sublimi. Invano essi languiscono di sonno, di fame, di malattia, fra i ghiacci che fanno scricchiolare la nave prigioniera: invano dieci, dodici muojono colà nel settentrionale estremo vedovo sito di silenzio e di gelo. Altri vi saranno che andranno, vinti dal sogno, a immolarsi, a cadere. Invano, la terra d'Africa si copre dei più nobili cadaveri di soldati, di marinai, di scienziati, di scrittori, di principi, di avventurosi: invano, ogni giorno, è la notizia di una nuova tragedia. Altri ancora, dalla Francia, dalla Germania, dall' Inghilterra, dalla stessa degenerata ed abbrutita Italia vi vanno, vi andranno ancora, poichè questo sublime sogno pare riceva un alimento prodigioso e misterioso dal sacrifizio, dal sangue, dalla morte. Infuria dappertutto la collera delle classi meno felici, meno fortunate contro coloro che tengono nelle mani tutti i poteri della Terra; ma dovunque sono donne di cuore, dovunque sono anime gentili muliebri, piccole e grandi associazioni di carità si formano, e ogni miseria morale, ogni infelicità fisica trova la mano che soccorre e che carezza, il sorriso che consola e che assolve, il ricovero che custodisce il sonno e l'innocenza, la protezione che sorveglia e che redime. Immensi dolori agitano il mondo: ma il sogno di carità che affratella le donne di ogni paese e di ogni condizione, ha tale soffio ardente e vivificante che esse sole, esse, le donne, le oscure e grandi anime sognanti, portano nel cuore il segreto che risolve il dolore umano! E il letto di morte dove posa la sua testa stanca, l'uomo che visse e andò verso la tomba per un sogno di fede, di bontà, di gloria, di grandezza, è pieno di pace finale per l'agonizzante. La monaca che muore uccisa dal tifo, il missionario che finisce, ferito dalla zagaglia barbara, lo scienziato che é avvelenato dai farmachi che maneggia,l'inventore che è stritolato dalla sua macchina, il viaggiatore che cade di freddo sulla tolda della nave confitta nella banchina di ghiaccio, l'esploratore che è ucciso dalle febbri o dalla lancia di un selvaggio, la dama che muore di una malattia presa nelle sue opere di carità, muojono in pieno sogno senza destarsi dalla loro nobile visione e dànno la loro vita senza rammarico, rassegnatamente, serenamente, sentendo di aver vissuto per qualche cosa di grande, sentendo di aver vissuto per qualche cosa di nobile. Oh, tu sei morto, Antonio Cecchi, dilettissimo amico, sulla terra di Africa dove vedesti cadere tanti altri, sognanti come te una gloria di civiltà e di redenzione: noi ti abbiamo perduto e non ci resta che abbracciare le tue ceneri fredde, quando arriveranno alla nostra marina, d'onde, anima tenera e gagliarda, tante volte ti salutammo partente. Tu sei morto, amico impareggiabile, impareggiabile cittadino, come Giuseppe Chiarini, come il nostro Licata, come Gustavo Bianchi, come Eugenio Ruspoli, come Vittorio Bòttego, morti, morti tutti, sognatori tutti, ma sognatori grandi, ma sognatori ammirabili, ma sognatori sublimi, morti sulla terra che vi ha sedotti, morti sul campo delle vostre visioni, morti in pieno sogno di eroismo. E voi siete perite, o dame del Bazar di Carità! Belle, ricche, nobili signore: gentili, leggiadre, briose signorine: monache delle case ospitaliere, il fuoco ha distrutto le vostre vite care alla fortuna, care alle vostre famiglie, care alla religione; siete morte mentre compivate un sogno di carità largo, vastissimo, tale da diffondere il bene nel cerchio più ampio e più oscuro delle tristezze umane. Più di cento donne sono morte a Parigi, facendo il bene, morte alcune senza voler fuggire, eroiche sino all'ultimo minuto della loro vita, trascinate dall'eroismo più sublime, dalla sognante passione della carità. Una di esse, mentre già le fiamme la investivano, ha abbracciato una monaca e le ha detto: Sorella mia, ora andiamo insieme in Paradiso. È vero. Deve esser vero. Dio ha fatto il Paradiso per chi muore, sognando così.

Pagina 31

Una peccatrice

249756
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
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Nulla varrà a riprodurre, ad accennare soltanto, l'impressione voluttuosamente affascinante di quel corpo leggiero da silfide, che librava, direi, le ali coll'espressione del suo sguardo, per abbandonarsi a tutto il trasporto di quel ballo. Le coppie cominciarono a girare; la musica eseguiva il Bacio di Arditi. Dopo il primo giro, quando la contessa si fermò, anelante, come cullandosi al braccio del suo splendido cavaliere, sfiorandogli un'ultima volta il viso cui suoi capelli; colle guance accese, il petto anelante, gli occhi umidi di languore e di piacere, incontrò un altro sguardo, umido ancor esso di una indicibile espressione d'angoscia e quasi di cruccio, che brillava su di una fronte alquanto calva e pallida di una spaventosa pallidezza. Ella fissò un lungo sguardo su quello che si fissava su di lei. - Vogliamo ricominciare? - le susurrò all'orecchio l'ufficiale passandole il braccio - attorno alla vita da bajadera. - È inutile... mi sento stanca... Non ballo più... Ella cercò cogli occhi un'altra volta quello sguardo supplichevole e nello stesso tempo minaccioso: era scomparso - Oh! questo Bacio! questo Bacio!... avrò da sentirlo dappertutto... - mormorava Pietro delirante scendendo le scale. - Domani ai Fiorentini si darà un dramma che ha fatto furore, a quanto si dice; avrete la compiacenza di accompagnarmivici? - domandò Narcisa al marito. Questi s'inchinò in silenzio. L'indomani infatti, alle 9 e mezzo, la contessa, che non si ricordava di essere entrata in teatro a tal ora, era in un palchetto di seconda fila sul proscenio: Il sipario non era ancora alzato e la sala era affollatissima. La contessa recava in mano un magnifico mazzo di viole bianche che posò sul parapetto insieme all'occhialetto. Il dramma fu recitato in mezzo ad una di quelle ovazioni che sembrano strappate agli spettatori quando l'autore ha saputo scuotere tutte le corde dei cuori colla sua mano potente: era una di quelle opere spontanee, tutte di un sol getto, che sono belle perchè sono vere, che sono inimitabili perchè sono semplici e comuni. Narcisa rivide quel giovanetto che passava le notti sotto i suoi veroni; lo rivide nel protagonista di quel dramma, con tutti i suoi fremiti d'amore e i suoi disinganni disperati; ella sentì che quel dramma parlava di lei, era scritto per lei, in tutte quelle sfumature di rimembranze che l'accennavano ad ogni passo... L'ufficiale, che avea battuto le mani quando l'aristocrazia aveva applaudito, osservò con sorpresa che ella rimaneva indifferente alle sue sollecitudini, tutta assorta in quel Gilberto che ad ogni parola destava in lei una reminiscenza e le svelava quale amore quasi sopranaturale avea saputo destare. Nel mezzo della scena che l'avea commossa dippiù, ella, coll'ispirazione improvvisa e adorabile della donna leggiera e capricciosa, s'era tolto dal dito un magnifico anello di brillanti e l'avea legato al nastro del mazzetto. Alla fine del second'atto l'autore, chiamato fragorosamente dal publico, venne sulla scena. Egli non ebbe che uno sguardo, in mezzo al turbine di quegli applausi frenetici, in mezzo all'agitazione di quella folla che si levava gridando il suo nome, in mezzo all'inebbriamento di quell'ovazione quasi delirante: uno sguardo che andò a posarsi su di un palchetto di proscenio al second'ordine. Egli vi vide la contessa... verso della quale si chinava sorridendo il biondo giovanotto dalla brillante divisa di ufficiale degli usseri. Pietro dimenticò quegli applausi, quelle corone che gli cadevano ai piedi, quei fiori che lo coprivano come in un nembo, quelle acclamazioni al suo nome; egli non badò più neanche ad un mazzo di viole bianche che gli era caduto ai piedi dal palchetto di Narcisa e che avea raccolto, per fuggire come un delirante, come un uomo che teme d'impazzire, poichè tutti questi applausi non potevano dargli quello sguardo ch'era venuto a cercare sino a Napoli, che avea voluto comprare a prezzo delle ispirazioni del suo genio, e che avea visto rivolto sul giovane sottotenente. La folla chiamò invano replicate volte l'autore. - Che ne dite del dramma? - domandò la contessa all'ufficiale, dopo l'ultimo atto, approfittando del tempo in cui il conte era uscito per fare ordinare la carrozza dal jokey che aspettava sul corridoio. - Molto bello, in verità; e anche assai applaudito. - E dell'autore? - Che volete che ne dica?... ch'è un autore come tutti gli altri; - soggiunse colui con il supremo disprezzo degli uomini di spada. - Eppure quest'uomo è celebre! - aggiunse la contessa avvolgendosi nella sua vespertina di cachemire bianco. - Sarà anche questo. - Sento che amerei quest'uomo come una pazza! - esclamò Narcisa punta dal freddo motteggio del suo vagheggino, colla viva schiettezza del suo carattere mobile ed impetuoso. - Confessate almeno che questa franchezza è odiosa!... - rispose ridendo il sottotenente, poichè non sapeva se dovesse prendere la cosa sul serio, sebbene l'espressione affatto nuova della contessa gli desse molto a pensare. - Ha però sempre il merito della franchezza! - replicò con tutta flemma Narcisa: - quest'uomo io l'amo... poichè la sua celebrità è opera mia!... opera di cui posso andare superba! ... Partite per la guerra, signore, a farvi uccidere per me o a ritornare generale d'armata, e allora... ma allora soltanto... forse... io vi amerò come sento che amo in questo momento quell'uomo! - Signora! - esclamò l'ufficiale coi denti stretti, facendosi pallido. - Non mi accompagnate sino alla mia carrozza? - disse senza scomporsi Narcisa, dandogli la busta dell'occhialetto da recarle nel momento che suo marito rientrava nel palchetto. Brusio era ritornato a sua casa agitatissimo, e passò la notte senza dormire. Ella! Narcisa! avea assistito al suo trionfo, avea palpitato dei suoi sentimenti, gli avea gettato quel mazzetto che avea fatto appassire a furia di baci!... Ma ella non era sola!... quel giovane, quel soldato, sì giovane, sì bello, sì splendido! che le parlava sì da presso... che le sorrideva in quel modo!... Tutt'a un tratto i suoi diti incontrarono l'anello che era legato al mazzo; un dubbio atroce lo fece impallidire: quei fiori, che la donna adorata avea lasciato cadere su di lui, invece di essere l'espressione della simpatia non dimostrava piuttosto uno di quei volgari applausi, uno di quegli splendidi regali con cui si paga l'abilità di un istrione?... Quest'idea lo martellò a lungo; e l'indomani, ancora sotto questa impressione, scrisse il seguente biglietto a Narcisa - sarcasmo pungente ed amaro velato dalla forma più delicata:

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