Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: a

Numero di risultati: 534 in 11 pagine

  • Pagina 2 di 11

Otto giorni in una soffitta

204491
Giraud, H. 7 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Ma a un tratto si stropiccia gli occhi. Non ha veduto due Maurizi, uno accanto all'altro? E non ha anche visto che se ne sono andati dandosi la mano? La povera Maria, pazza di terrore, manda un grido. - Maurizio! - Ne verranno due? Ma non ne viene nemmeno uno. Maria scende in giardino e accorre verso l'albero grande; ma il suo grido è stato udito, e quando essa giunge non c' è più nessuno. I ragazzi impauriti si sono rifugiati dietro gli alberi. Questa volta non c' è via di scampo: non potranno più far ritornare Nicoletta nella soffitta. Bisogna scegliere: o confessare tutto o lasciare la fanciulla a dormire in giardino. Che prospettiva tremenda! Maria se ne va brancolando come una cieca, con le mani in avanti, sospettando uno scherzo. Ciò suggerisce un' idea ad Alano. Dal suo albero, spia Francesco.... ma non vuol parlare; come farsi intendere da suo fratello? - Signor Francesco, - chiama Maria - signor Alano, signor Maurizio! - Essa si volta ad ogni nome che pronunzia, e Alano coglie l'occasione. Con un salto rapido e leggero, raggiunge Francesco che è accanto a Nicoletta. A voce bassissima insinua nell'orecchio a suo fratello maggiore: - A moscacieca con Maria. Così farai risalire Nicoletta. - Francesco con un piccolo cenno della testa fa vedere che ha capito. Coi gesti Alano tenta di spiegare a Maurizio. Tira fuori il suoi fazzoletto, lo piega e indica Maria. Nel momento in cui essa li supplica di non prendersi giuoco della loro vecchia governante, con grida selvagge, si precipitano su lei e la circondano con un allegro girotondo. - Maria, mia cara Maria, facciamo un po' a moscacieca. - Via, via, - risponde Maria - non è l'ora di giocare; bisogna andare a letto. - Un giuoco, uno solo, piccolo piccolo, - insiste Maurizio. Egli lo dice col suo tono carezzevole al quale la vecchia non sa resistere.... e sente che ha vinto. Con un grido di gioia, egli prende nella tasca del grembiule di Maria il suo gran fazzoletto e in un batter d'occhio glielo lega sugli occhi. - Tre piccoli giri, - annunzia Alano.

Pagina 105

La fanciulla morde con appetito la bella fetta di pane e conserva, pur continuando a chiacchierare. - Dunque, - dice - il signore che passeggia qualche volta in giardino, con le mani dietro la schiena, non è il vostro babbo? - È lo zio Fil, - rispondono in coro i tre ragazzi. - Il babbo morì - spiega Alano - quando Maurizio era ancora piccino, e suo fratello maggiore, lo zio Fil, è venuto in casa nostra per tener compagnia alla mamma. - Perchè - continua Maurizio - la nostra mammina è tanto giovane, che pare una bambina; così dice il comandante Grey. Ma quando sarò grande la guarderò io, prenderò il posto dello zio Fil. - È carina? - chiede Nicoletta. - Oh, tanto carina!... È la più elegante e graziosa mamma che esista.... e giuoca con noi proprio come un ragazzo.... Ma è stata malata, e il dottore l' ha mandata ai bagni termali. - E lo zio Fil è gentile? - Non vuol bene che ai suoi libri. - È brontolone.... - È vecchio.- E Francesco riprende: - Eppoi non gli piacciono i bambini. - Perchè? - domanda la innocente Nicoletta. - Perchè facciamo troppo chiasso. - E gl' impediamo di lavorare. - Io non vorrò bene allo zio Fil, - dichiara Nicoletta. - Io voglio bene a chi mi vuoi bene. - Ma Francesco è tormentato per un istante da un' idea e bisogna parlarne a Nicoletta, poichè si tratta di una cosa seria. - Nicoletta, - domanda gravemente - tu sei una bambina, non è vero? - Nicoletta, sorpresa, risponde affermativamente. - E le bambine non sono coraggiose, - continua Francesco. - Avrai una paura orribile così sola, in soffitta, durante la notte. - Gli altri due ragazzi si guardano. A che cosa è mai andato a pensare Francesco?... È vero, però, che quella soffitta deve far paura.... Maurizio pensa che al posto di Nicoletta avrebbe paura.... Ed è un ragazzo!... Ma Nicoletta scuote la testa. - Dalla mamma Duflet, - racconta essa - ho avuto molta paura dopo.... dopo.... - I ragazzi cominciano a capire che quel «dopo» di Nicoletta vuoi dire dopo la morte della mamma, e che la fanciulla non vuol parlarne. - Dormivo nella soffitta, in alto, nella stanza accanto a quella della mamma Duflet; ma lei non saliva con me, e andavo a coricarmi al buio.... e non la sentivo mai venire. I primi giorni tremavo, ma poi mi sono abituata. Sono sicura che qui avrò meno paura, poichè so che voi siete subito di sotto. - È straordinario, - esclama Maurizio, facendo una bella capriola - una bambina che non ha paura!... - E poi forse avrò con me Matù, - aggiunge Nicoletta. Il resto della giornata vien passato a migliorare l'alloggio di Nicoletta. In parecchi, viaggi i ragazzi hanno portato acqua, una saponetta che Maria cercherà inutilmente.... Povera Maria! Vedrà sparire misteriosamente tante cose! Il più difficile è il desinare. Mai come quella sera Leonia e Maria hanno veduto i ragazzi girare intorno a loro dalla cucina alla sala da pranzo e alla credenza. - Ma insomma, - dice Maria - non potreste andare in giardino ad aspettare l'ora del pranzo? - Avete tanta fame? - domanda Leonia. - Molta fame, - rispondono tre voci. - C' è un buon pranzo, - annunzia maestosamente Leonia. - Che cosa, Leonia? - domanda Maurizio. - Pollo.... - E budino di riso alla crema, - termina il ragazzetto. - Proprio! - esclama Leonia stupefatta. - Come avete fatto a indovinarlo? - Ah, - dice Maurizio - in premio, perchè ho indovinato, ne avrò un pezzetto di più! - - Non vi ho mai visto così ghiotto, signor Maurizio, - soggiunge Leonia in tono di rimprovero. - Siete sempre molto goloso, ma stasera!... - Intanto Francesco e Alano discutono in disparte. - Non so come faremo, - dice Francesco. - A tavola non potremo mai prender nulla, e qui, guarda, Leonia sorveglia le sue cazzeruole, Maria i suoi piatti.... Ho paura che Nicoletta non debba desinare. - Bisogna assolutamente inventare qualcosa, aggiunge Alano. - Alla minestra non è affatto il caso di pensare. - Oh, la minestra, - esclama Maurizio, che arriva a questo punto - la minestra a Nicoletta deve piacere quanto piace a me e ne farà a meno volentieri! - C' è il pollo. - Ma come servirsi? - Ascolta; - dice Francesco - se Maria non è nella stanza da pranzo, lo zio Fil non farà attenzione; ne prenderemo un pezzetto dal vassoio. - Ma Maria non lascia la stanza da pranzo. - E allora bisogna tenere un pezzo di carta sui ginocchi. - Un pezzo di carta? - domanda Alano. - Sì, un pezzo di carta nel quale involgeremo quello che potremo. - Ma la carta farà rumore. - Un piatto, - propone Maurizio. - Bestia! Un piatto scivola e si rompe. - Allora, lo so io: - dice Maurizio giulivo - un sacchetto di carta. Io so dove li tiene, Leonia; vado a prenderne uno. - Ma sarà un po' difficile - obietta Francesco - mettere della roba in un sacco. - Allora, - dice Maurizio indispettito - trova tu di meglio! - Nondimeno va a cercare un gran sacco di carta nella riserva di Leonia e riesce a mettersi a tavola e ad aprire il sacco tra i ginocchi, sotto la tovaglia, senza che la vecchia Maria dica altro che questo: - O che avete oggi per dimenarvi così, signor Maurizio? State più composto. - Lo zio Fil non guarda nulla, non vede nulla. Con gli occhiali rialzati sulla fronte, ha ben altro da pensare che ai suoi tre nipoti e alle loro fantasie. È a tavola

Pagina 25

. - E ora dovete andare a lavorare, - aggiunge. - Sì, Maria, - dice Francesco in tono dignitoso - ma però devi lasciarci tranquilli. Quando ci giri intorno, non posso risolvere i problemi. - Parrebbe - brontola Maria - che fosse un grande scienziato. - Lo diverrò, - annunzia Francesco. - E sarai seccante come lo zio Fil. - Signor Alano, cercate di esser più rispettoso quando parlate di vostro zio. - - Come! - dice Alano. - Non è seccante? L' hai detto tu stessa a Leonia. - Io? - protesta Maria. - Sì, tu. Il giorno in cui la mamma parlò di partire, dicesti a Leonia: «Povera signora, non sarà male che si prenda un po' di svago! Tra suo cognato così seccante e i suoi bambini che la fanno giocare come se avesse dieci anni, non fa davvero una vita molto lieta, nè adatta alla sua età.... » vero o non è vero? - conclude Alano trionfante. - Quando si ascolta alle porte.... - comincia Maria. - Oh, - esclama Alano - alle porte! Sbucciavate i piselli nella corte. - Si dice « sgusciare », - riprende Francesco. - E la mamma disse che si divertiva molto a giocare con noi, e che le dispiaceva enormemente di lasciarci. E disse anche che lo zio Fil non è seccante, ma è un sapiente. - Va bene, va bene, - dice Maria. - Non avete bisogno di andare a ridirlo a lui. Orsù, abbiamo chiacchierato abbastanza, e m' impedite di fare il mio lavoro. Signor Francesco, siate ragionevole: fate lavorare i vostri fratelli. - È molto difficile fare problemi e analisi quando si hanno delle preoccupazioni, e i tre ragazzi pensano assai più alla loro «figlia» che ai compiti. La « figlia » è molto savia, e Francesco la trova a cantar la ninna-nanna alla bambola. Egli giunge con un pettine, una spazzola e un gran libro. - Qui son descritte le avventure di Beccaccino, - dice. - Ma tu non sai leggere e non ti divertirai tanto. Se vuoi, t' insegnerò a leggere. - Oh, sì! - dice Nicoletta. - La mamma voleva farlo, ma era sempre malata e non aveva la forza di muoversi. - T' insegnerò io, - ripete Francesco. - Intanto ti pettinerò meglio che mi è possibile. - Ahimè, è un terribile compito, quello a cui si accinge, e benchè tanto lui che Nicoletta diano prova di una pazienza angelica, la

Pagina 35

Costa caro dar da mangìare a questi tre ragazzi. Fortunatamente la signora non è in condizioni di badarci tanto. Via, Leonia, vado a finire di preparar la tavola. Riempitemi bene il vassoio. - State attenta, Maria, - dice Leonia, brontolando - stasera non potranno rifarsi con la pietanza: c' è soltanto una focaccia per ciascuno, non di più. - Fatele grosse, almeno, - chiede Maria che si lamenta, ma che poi è la prima a viziare i suoi padroncini. I ragazzi si sono messi a tavola. Maurizio ha richiesto l'arrosto, e Maria consiglia a Francesco di fare come suo fratello. - Non mangiate abbastanza, signor Francesco, siete troppo magro. - E io? - domanda Alano. - Anche voi potreste ingrassare un poco, signor Alano. - Via, Maria, lasciate tranquilli i ragazzi, che mangiano anche troppo, - dichiara lo zio Fil, uscendo dalla sua apatia, non si sa per qual miracolo. Maria non insiste, ma Francesco la consola chiedendo ancora dei fagiolini. Dopo la colazione di Nicoletta, colazione così abbondante che ha durato fatica a finire, Francesco le mostra un grande alfabeto, ma rimane sorpreso di vedere « sua figlia» ridergli sul naso. - Oh, - esclama essa ridendo di tutto cuore - tu hai creduto che non sapessi nemmeno questo! Conosco tutte le lettere e le sillabe, ma non so leggere correntemente, nè leggere i caratteri troppo piccoli. - Occorre dire che Francesco è rimasto un po' deluso? Sperava di avere la gioia completa d' insegnare a leggere a « sua figlia». - Ebbene, - dice però in tono allegro - sarà più facile. Ci vuole il primo libro dì lettura: eccolo! - Oh, Francesco, - esclama Alano - speravi che dopo la prima lezione Nicoletta avrebbe imparato l'alfabeto?! - Ma Francesco non è perfettamente in buona fede quando risponde: - Come vedi, ho fatto bene, poiché ne abbiamo bisogno. - Io, - dice Alano - propongo di far leggere Nicoletta quando

Pagina 53

Nicoletta ha tutto il tempo d' imparare a giocare a dama e di battere due volte Maurizio, cosa di cui è molto orgogliosa, ed egli, cattivo giocatore coi suoi fratelli, non osa stizzirsi. Maria ritorna tutta raggiante all'ora della merenda, ridendo tra sè, e Francesco le fa notare che deve essersi divertita un mondo per esser così allegra. - Sei andata a far visita alle tue care amiche, Maria? - domanda Mano. - Hai chiacchierato per due ore? - Maria scuote il capo. - Bene! Bene! - dice alfine la vecchia. - Quando saprete dove sono andata e quello che ho fatto, non mi canzonerete nè sarete più cattivi. - Ma le preghiere dei ragazzi non la inducono a confessare la ragione della sua uscita, e questa volta tocca a loro ad esser presi in trappola, poichè la loro curiosità è messa a dura prova. Una movimentata partita di calcio in giardino fa dimenticare ai ragazzi Maria e la sua passeggiata. Nicoletta, in questo tempo, si rovina gli occhi, tentando di leggere per fare una sorpresa a Francesco, domani, quando riuscirà, a leggere senza errori tutta la lezione; ma finisce con addormentarsi col naso sul libro, fin che i ragazzi la svegliano per portarle la cena. La fanciulla è subito attratta da una bella torta di albicocche, così appetitosa, che chiede di poter cominciare con quella; ma obbediente, tuttavia, aspetta, per mangiarla, d'aver cenato. E quando affonda i denti nella pasta saporosa, chiudendo gli occhi per meglio gustarla, non vede l'aspetto felice dei suoi tre babbi e non dubita che quella buona torta rappresenta il sacrificio d'una parte del loro dolce. Infatti Maria ha portato in tavola quattro torte e i fanciulli si sono guardati sgomenti. E il dolce per Nicoletta? Ma ognuno, con gesti, ha voluto far capire che dava generosamente il proprio dolce a Nicoletta. Francesco, sempre a cenni, ha spiegato: una torta per Nicoletta, due per loro tre. E, sotto gli occhi distratti dello zio Fil, ha diviso egualmente in tre parti le due torte. Non è altrettanto buona, una torta manomessa, ma il pensiero della loro figlia fa trovare leggero il sacrificio ai ragazzi. E, ciò che è più ammirevole, Nicoletta non lo saprà mai. Ma al momento in cui. i ragazzi, prima d'andare a letto, vanno a fare un ultimo giro in giardino, Maria li richiama dalla scalinata. - Signor Maurizio! Tenete, signor Maurizio, - dice essa porgendogli qualcosa. - Io sono vecchia e questa mi fa male ai denti. Sono certa che mangerete anche questa piccola torta qui! - I tre ragazzi mordono a turno il dolce, e Francesco fa notare che il sacrificio, in fondo, è stato di Maria.

Pagina 57

Credo che appunto per questo sia di cattivo umore, e sia diventata a un tratto così cattiva e brontolona. - È molto tempo che la tua mamma è morta? - domanda Maurizio. Nicoletta ricomincia a piangere: - Sono.... tre mesi.... Mi aveva detto che sarei andata a raggiungerla più tardi, che bisognava che fossi molto coraggiosa e aspettassi il babbo. - E la mamma Duflet non ha mai scritto al tuo babbo? - La lettera è ritornata indietro. Non l' hanno trovato. - I ragazzi si guardano scotendo la testa. Tante catastrofi a una fanciulla così piccola! - Dunque, mi tenete con voi? - Sicuro! - Le tre voci hanno risposto tutte insieme. - E mi nasconderete bene, perchè mamma Duflet ha detto che se mi ritrovava l'avrei pagata cara. Ho troppa paura! - Sì, ti nasconderemo bene, - dice Alano. Francesco, pensieroso, tace. - E allo zio Fil non diremo che Nicoletta è qui? - domanda Maurizio. - Oh, a nessuno, - esclama Nicoletta - a nessuno! - Come faremo? - dice Alano. - Se ci fosse la mamma! - mormora Francesco. - A nessuno, a nessuno! - ripete la vocina implorante di Nicoletta. - Nascondetemi. - Dove? - In soffitta, - dice Francesco. - Ti accomoderemo molto bene in un cantuccino. - Ma il mangiare? - E il letto? - E se facesse rumore? - E se qualcuno venisse in soffitta? - Non ci viene mai nessuno, - risponde Francesco. - Faremo in modo di portarle da mangiare.... dormirà nell'antico lettino di Maurizio, che è nell'angolo laggiù, ed essa non farà rumore, ne sono sicuro. Soltanto, non so se sarebbe meglio avvisare lo zio Fil. - Lo zio Fil, lo sai bene, - dice Alano - andrà subito a riportarla da mamma Duflet con un gran sermone.... e sarà di nuovo come prima.... La mamma forse ci aiuterebbe.... ma non ritorna tanto presto; ha cominciato appena ora la sua cura. - Ebbene, ce la sbrigheremo da noi! - conclude Maurizio. - All'opera! - soggiunge Francesco. - Nicoletta è nostra figlia: bisogna che le facciamo la sua casa. - E tutti e tre si accingono a metterle su casa. Una vecchia granata fuori d'uso serve a spazzare un angolo della soffitta. Poichè, fortunatamente, la soffitta serve da stanza di sgombro per i mobili

Pagina 9

Dopo essersi assicurato che Leonia è in cucina intenta a fare il dolce, ciò che significa che non si moverà per un pezzo, Francesco va a prendere Nicoletta e le fa visitare la casa. Vanno pian pianino, in punta di piedi. Al pianterreno, Nicoletta vede la stanza da pranzo, il posto di Francesco, di Alano, di Maurizio.... Vanno nel salotto, dove Francesco mostra il cuscino della bambola, oggetto della collera di Maria. Al primo piano, i fanciulli sono più tranquilli. Francesco indica soltanto una porta, e abbassando la voce: - È quella della biblioteca, - dice. E vanno a visitare la camera dei bambini e la stanza da studio. Francesco è tutto contento di far vedere a « sua figlia» i libri, i balocchi, il posto dove lavorano. Poi vanno nella camera della mamma. Francesco mostra dove la mamma scrive, dove lavora. Indica la poltrona vicino alla quale vi è una sedia bassa. Là, i ragazzi vanno a raccontare le loro pene, a chiedere dei favori o a farsi sgridare. - E vi sgrida? - domanda Nicoletta. - Qualche volta; - risponde Francesco ridendo - ma la povera mammina è così dispiacente, e vediamo che soffre tanto quando noi siamo cattivi, che cerchiamo di esser buoni. Ora conosci la casa, - continua Francesco. - Vieni, andiamo a giocare. Che peccato non poterti far vedere il giardino! Sarebbe stato divertente correre un po'. Ma Leonia ci vedrebbe. - Tranquilli, sicuri della loro solitudine, i due fanciulli si preparano a risalire nella soffitta. - Potremmo divertirci nella stanza da studio, ma è seccante stare con la paura che qualcuno entri, - dichiara Francesco, e Nicoletta è del suo parere. Il pericolo viene qualche volta quando non ci si aspetta. Ecco che nel momento in cui i fanciulli passano senza timore davanti alla biblioteca, la porta s'apre pian pianino e lo zio Fil appare. Vi è un attimo di silenzio. I fanciulli sono serrati contro il muro, come se sperassero di scomparire nella tappezzeria. Francesco, sentendo tremare la mano di Nicoletta, la stringe forte per farle capire che è pronto a difenderla. Lo zio Fil ha gli occhiali sulla fronte. Ha l'aria distratta che gli è abituale, ma questa volta mista a una certa inquietudine. - Francesco, - comincia egli. Poi vede Nicoletta. - Chi è? - domanda macchinalmente. - È.... è Nicoletta, zio, - risponde coraggiosamente Francesco. E ciò pare che basti allo zio Fil, il quale dice: - Ah, bene, bene! - Poi torna all'argomento che lo preoccupa. - Francesco, Maria deve aver toccato una carta molto importante che non posso ritrovare.... Dov' è essa? - È andata al bosco delle Fate, zio.... - Al bosco delle Fate? - mormora lo zio Fil. - Male, male! - Evidentemente non pensa ad una passeggiata coi bambini, ma s' immagina che Maria sia andata sola sola a passeggiare nel bosco delle Fate. - Benissimo; ma ciò è seccante. Venite ad aiutarmi a cercare negli angoli, - dice ai fanciulli. E Nicoletta e Francesco entrano nella biblioteca. L'emozione di poco fa ha dato posto a un riso convulso, benchè Francesco non sia ancora molto rassicurato. Se lo zio Fil domanda spiegazionì a Maria, che cosa succederà? - Non sulla tavola, non sulla tavola, - urla lo zio Fil, vedendo Francesco avvicinarsi alla scrivania. - Cerca in terra, negli angoli, dappertutto, ma non lì. È un grande foglio giallo coperto di appunti. - E i fanciulli cercano. Ci sono dei fogli su tutti i mobili e anche sotto; ma non quello che cerca lo zio Fil. A un tratto la vocina timida di Nicoletta si fa sentire. Essa indica un angolo di carta gialla che si scorge sotto la carta asciugante dello zio Fil. - È forse quello? - dice essa, senza osare di toccare. Lo zio Fil manda un'esclamazione di gioia. - È questo, sì, - dice tirando fuori il foglio. - Alla buon'ora! - E senz'altri ringraziamenti, senza più pensare ai due fanciulli, si sprofonda nella lettura del foglio giallo : più nulla esiste per lui. Francesco e Nicoletta risalgono nella soffitta, molto scossi da quest' avventura. - Forse lo zio dimenticherà di parlarne, - dice Francesco, non molto convinto. - È tanto distratto! A volte non si ricorda più le cose importanti e parla di un particolare insignificante che tutti hanno dimenticato. - L' incontro dello zio Fil assorbe i pensieri dei fanciulli, che non cessano di parlarne. A un tratto, Francesco, stupefatto, sente la voce dei suoi fratelli al pianterreno. Scende a precipizio, prima che Nicoletta, sorpresa, abbia avuto il tempo di raccapezzarsi, ed esce dalla stanza da studio zoppicando un po', per andare incontro ad essi. Maria è molto inquieta sulla sua sorte e perciò sono ritornati più presto. Francesco dice che sta meglio e che Leonia l' ha quasi guarito con l'acqua fredda.... è sicuro che domani non avrà più nulla. Maria è un po' dispiacente perchè il dottore non è venuto. - È sempre meglio, - afferma. Essa s' intenderà fra poco con Leonia che, certamente, le riderà sul naso. I due fratelli cominciano a raccontare a Francesco come hanno passato la giornata. È stata una giornata magnifica. Hanno giocato a nascondino, hanno inventato aggressioni ai viaggiatori, hanno trovato un albero dove potranno giocare al Robinson. Hanno fatto colazione sul margine

Pagina 95

Il giovinetto campagnuolo II - Agricoltura

205397
Garelli, Felice 4 occorrenze
  • 1880
  • F. Casanova
  • Torino
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

L'estirpatore, fig.14, è un gruppo di tre, o cinque, e fino a sette vomeri triangolari, a doppio taglio, saldamente fissati in un telaio di legno, o di ferro. Lo scarificatore si distingue dallo estirpatore solamente in ciò, che invece dei vomeri ha coltri. 2. Tutti questi strumenti estirpano le malerbe, e smuovono internamente il terreno, senza sconvolgerne la superficie.

Pagina 102

Con quali strumenti a mano si netta il terreno? - Con quali da tiro? - Che cosa è la zappa a cavallo? - L'estirpatore? - Lo scarificatore? 2. Quale lavoro fanno tutti questi strumenti? - Quale lo fa migliore?

Pagina 103

.); dà robustezza al gambo del frumento, e impedisce che alletti; favorisce la vegetazione di tutte le piante, accelerando a loro vantaggio la scomposizione delle materie animali, e vegetali, contenute nel terreno. La calce è ancora un buon correttivo per terre compatte, che rende più soffici; per terre torbose, o di brughiera, cui neutralizza l'acidità, e rende proprie ad una buona coltivazione. 2. Non si adopera allo stato di calce viva, perchè brucierebbe le piante, ed i semi. La si lascia prima sfiorire. Per ciò si dispone a mucchietti sul campo cui si vuole applicare, e questi si cuoprono di terra. Dopo 15 o 20 giorni, rimescolata bene con la terra, si spande uniformemente sul campo, e con replicate erpicature, seguite da lavori, alternativamente profondi e superficiali, s'incorpora bene col terreno. Ma il modo migliore di applicarla è di farne composte. Per ciò si dispone la calce viva a strati alternati con altri di zolle erbose, di terra di spurgo dei fossi, di torba, di polvere di strade, ecc. Il mucchio si cuopre con uno strato di terra; si lascia sfiorire la calce; poi si rimescola bene due o tre volte, a distanza di alcuni giorni da una volta all'altra. La sua azione sarà tanto più efficace, quanto più vecchia, e ben rimescolata, è la composta. 3. La calce si impiega in quantità variabile secondo la natura dei terreni. Agli argillosi, e ai torbosi, se ne dà molto. In generale la dose varia da 3 a 5 ettol. per anno, e per ettaro. Ma si applica per solito ogni 4 o 5 anni, e perciò in dose proporzionatamente maggiore. DOMANDE: 1. La calce a quali terre si dà, e a quali piante giova? - È un correttivo utile a quali terreni? 2. In quante maniere si adopera? - Come si fanno le composte di calce? 3. In quale dose si applica alle terre?

Pagina 128

Queste varie parti del corpo, od organi, hanno struttura diversa, e son destinate a funzioni od uffizi diversi. Anche le piante hanno organi diversi, destinati a funzioni diverse: e sono la radice, il fusto, le gemme, le foglie, i fiori, il frutto. Esaminiamo questi organi uno ad uno. 4. La radice è la parte che s'addentra nella terra. Essa serve prima a fissare la pianta nel terreno, e poi a nutrirla. La sua forma varia nelle diverse piante. È a filamenti lunghi e sottili nel frumento; a ciuffi più grossi e numerosi nel granoturco, e nel trifoglio; a grosso corpo, o fittone, profondo e ramificato, nell'erba medica. Il corpo, e i rami della radice sono formati di filamenti, o barbe. Queste hanno alla loro estremità delle boccucce, o piccole bocche, per mezzo delle quali succhiano gli umori del terreno. DOMANDE: 1. Quale dev'essere il primo studio del coltivatore? 2. Le piante sono esseri viventi? 3. Quali sono gli organi delle piante? 4. Che cosa è la radice? - A che serve? Quale forma ha? - Come succhia gli umori dal terreno?

Pagina 8

Gemme - Corso completo di letture

206827
Grassini, G. B., Morini, Carla 4 occorrenze
  • 1905
  • Remo Sandron - Editore
  • Milano - Palermo - Napoli
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Perciò volle provare a... cantare. Come ragliava forte! Si divertiva mezzo mondo credendo che tutti l'ascottassero. - Ih... aaa... Ih... aaa! - Anche per la strada, quando passava vicino alla gente, faceva sùbito: - Ih... aaa.... Ih... aaa! - I padroncini stessi, che prima gli volevano bene, furono così annoiati dal suo continuo ragliare che lo venderono: ed egli fu costretto a far la vita infelice di tanti altri poveri asinelli. E nessuno si curò più di lui! Anche i fanciulli quando chiacchierano troppo in mezzo ai grandi credendo di fare i bravi, vengono a noia a tutti. E allora... si mandano via.

Pagina 18

Lucio ha un grave difetto: quando deve andare a scuola manca sempre qualcosa nella sua cartella. Ieri mattina era tardi, e Lucio incominciò a correre per la casa in cerca del portapenna. - Chi me l'ha preso? Chi l'ha visto? - gridava. Dovette andare a scuola senza averlo trova, e finì col dire una bugia alla signorina. Disse che l'aveva dimenticato. Ma sapete dov'era? Sotto il letto di Lucio, mezzo rosicchiato dal gatto. Se Lucio fosse un po' più ordinato, sarebbe una gran bella cosa, e chi lo conosce gli vorrebbe anche più bene, perchè, nonostante i suoi difetti, Lucio è buono.

Pagina 27

Li accarezzo, dò loro da mangiare, vado a cavallo ora su l'uno ora su l'altro ; ed essi non mi fanno alcun male. - - mah! Enzo, Enzo, contafrottote! - La signora maestra udì e chiese: - Mi permetti di venire oggi a vederli in casa tua? - Enzo non rispose. Diventò rosso rosso come un peperone; e tutti capirono ch'egli aveva detto una grossa bugia. Così ormai nessuno gli crede più anche se dice la verità. E questo è ciò che capita a tutti i bugiardi

Pagina 28

Enzo aveva sentito dire che gli uomini avevano imparato a volare. Egli pensò - Bella forza! Basta attaccarsi un paio d'ali alle braccia, si vola sùbito.- E volle provare, tanto più che quel burlone di Antonio gli aveva insegnato come doveva fare. Come è andato a finire il volo di Enzo. Fot. R. Florilli. Enzo tornò a casa da scuola. La mamma era uscita ed egli ne approfittò per fare l'esperimento. Prese due sottane vecchie della mamma, e se le infilò una per braccio. Quindi salì sulla tavola nella sala da pranzo, e poi cominciò ad agitare le braccia con le due sottane che facevano da ali. - Una, due, due e mezzo, e mezzo tre! - Spiccò il volo, e... volò a battere il naso in terra.

Pagina 42

Angiola Maria

207210
Carcano, Giulio 1 occorrenze
  • 1874
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Per le strade e pe' corsi, la carrozza del signore urta e sperde la folla; e vedi mortorio del povero andar rasente la muraglia della via quasi, messo in fuga, mentre la turba curiosa s' arresta a contemplare un illustre cocchio vôto e due livree listate d'oro, alla porta d'un antico palazzo. Ma la Provvidenza non dimentica i poveri che sopportano la fatica, e non chiedono altra cosa quaggiù che di poter guadagnare il pane pe' loro figliuoli. Essa sola può rendere il bene fecondo per tutti; essa che dalla debolezza suscita, quando che sia, il coraggio e la forza; essa che fa nascere dalle lagrime la gioia, e apparecchia la pace a coloro che sostennero lunghe prove, quella gioia che si ravviva a ogni lieta benchè piccola vicenda, e quella pace che s' acquista quando il cuore senza viltà può benedire altrui. Il povero, che divide col fratello più infelice di lui la mercede prima contata con avara brama, si getta la notte sul suo stramazzo, forse più tranquillo e pago che non si giaccia il milionario in letto sprimacciato, su' gonfi guanciali, protetto dal baldacchino di velo frangiato, dopo avere aperta una scuola, o fondato un ospedale, pensando già di leggervi, su la fronte della porta, scolpito in pietra il suo nome e i suoi titoli superbi, pagati coll' oro, o colla viltà. E poi, nessuno c' è che, poco o assai, non viva per la domane. Se a ogni passo trovi chi bestemmia la povertà ne' giorni numerati sempre dagli stenti, i balzelli che non ristanno, il pane che rincara, trovi pure chi maledice alle noie della vita, al piacere marcito dall'abitudine, alla grandezza che fugge sempre, e fino all'anima che non si riposa mai. E la scontento agita questi e quelli: colui che vanta gran nome e gran censo, che ha sempre pranzi e ville, donne, cavalli e teatri, e sen va felice d'essere invidiato; ma egli stesso non di rado invidia la ruvida indifferenza, la credula mente, e la dura libertà del povero. Intanto gli anni passano per tutti, il sole nasce e tramonta su le prosperità e su le disavventure umane, la natura spoglia e riveste la sua bellezza; ma l'età perde i fiori, nè si rinnova più! E l' uomo, creatura così fiacca insieme e forte, così timida e così audace, l' uomo non sente venir meno la vita, e cedere quasi sotto a' suoi piedi la terra non s'accorge che, a una a una, sfumano innanzi a lui le più gentili e care illusioni, che la memoria ha l' ale corte, che il cuore si va sempre più stancando di battere.... Oh quant' è più felice colui, il quale, nell' allegrezza e nel dolore, non sa che credere, sperare e amare! Sul cadere di una malinconica giornata di novembre - era appunto il dì de' morti - un'orfanella, in povero ma decente vestito bruno, e coperta d'un velo, se n'andava, assorta in profondi pensieri, verso il camposanto suburbano di Porta Tosa. Il sole non era tramontato: ma si nascondeva innanzi tempo dietro una gran fascia cenerognola di nuvole; e pareva negare il mesto e poetico saluto dell'ultimo suo raggio alla vasta e sacra campagna, tutta semi- nata di basse croci, e a quella gente buona e fedele, venuta a consacrare un'ora alle memorie e alla preghiera, nel soggiorno de' trapassati. L'orfanella entrava anch'essa nel camposanto, in mezzo a una processione di povere donne, delle quali alcune venivano traendosi dietro due o tre figliuoletti, altre si recavano un bambino su le braccia, altre poi camminavan sole e taciturne; e quali andavano pregando in compagnia, e quale piangeva, e quale si fermava in un compunto raccoglimento. Ella, attraversando que' nudi sentieri, lasciavasi dietro alcuni buoni vecchi, che, col bastoncello in una mano e il rosario nell'altra, dilongava,nsi recitando con mesta cantilena quelle orazioni che presto dovevano esser ripetute sul dormente loro capo. Vedeva qua e là, al piede della bassa muraglia, all' angolo di qualche cippo, mendicanti accosciati sul terreno, appena coperti dagli ultimi cenci, e portanti. su le ginocchia le stampelle incrocicchiate, andar invocando lamentevolmente la pietà di chi era men povero di loro: vedeva più d' una madre infelice, circondata dalla misera corona di tre o quattro bambini, l' uno lattante, lagrimosi gli altri, sollevar la testa, e con gli sguardi muti e l'estenuato aspetto raccomandarsi alla carità del passeggiero, nel nome di quella che fu chiamata la Madre de' dolori; e lontano e da presso, spargersi in pietosa ricerca, entro a quella folta selva delle croci, intere famiglie; e poi, a mano a mano, ciascuna di queste raccogliersi vicino a una croce nota, inginocchiarvisi all'intorno, rispondere insieme alla stessa preghiera; da un' altra parte, un vecchio già curvo insegnare al figlio adolescente, sul cui braccio s'appoggiava, dove riposasse suo padre e dove la madre sua; e qui, una donna solitaria e muta presso una lapida recente; e là, al piede d' un' altra, due giovinette pari d' età e di sembiamza, orfane gemelle, spargere pochi fiori e piangere senza ritegno. Maria, la nostra orfanella, s' aggirava anch' essa per il sacro terreno, ma non cercava una croce, perchè questo segno non era stato posto a distinguer dall' altre la fossa della povera sua madre. Pure, essa conosceva una zolla, ignota a tutti, cara a lei sola; aveva veduto scavar quella terra, l' aveva visitata, prima che nessuno fosse passato a calpestarla; e di poi, quando un'erba verde e fresca la ricoperse, era tornata spesso a pregare colà; ell'amava quel breve palmo di terra, amava le bianche pratelline che lo smaltavano. Nel giorno solenne, Maria aveva speso i sottili risparmi del suo guadagno per far celebrare una messa di suffragio all'anima della madre; poi n'era venuta a visitare un'altra volta quell' angolo santo, a ripetere una di quelle orazioni, delle quali non è parola che non salga in cielo. Era là, in ginocchio, con la persona abbandonata mollemente, come stanca; e lasciando cadere sul grembo le mani intrecciate, rivolgeva al cielo la faccia, nello stesso soavissimo atto in che il Bartolini scolpì la sua divina statua della Fiducia in Dio. Affissandosi alla lontana dimora de' cieli, le pareva che l'anima di sua madre la vedesse di lassù, e ancora la benedicesse; e in fondo del cuore, mista alla dolcezza di quel sacro dovere, le si risvegliava una segreta fidanza, una virtù tranquilla, la certezza che il Signore non l' avrebbe abbandonata mai. Il solo pensiero a lei grave, in quell'ora dolorosa, era di non sapere in qual altro canto di terra avessero portato a riposare per sempre lo sventurato suo fra- tello, di non potere almeno spargere qualche lagrima là, dove forse nessuno mai avrebbe detto un requiem. Così, benchè sola nel mondo, la povera fanciulla ritrovava ancora la pace nel sentimento religioso dell'innocenza, e nella memoria de' pochi che l'amarono! Così, il ricordarsi di un primo affetto, che sull'alba della vita fu per lei amaro disinganno, non la turbava più; non era più che un' idea di tranquilla rassegnazione, forse un sospiro di timida speranza! Anche il pensiero, che spesso l'assaliva, d'esser predestinata a morir giovine, non aveva più spavento per lei; era anzi come la mesta aspettazione di chi non vede l' ora che sia adempita una promessa. Aveva assaggiata appena l'amarezza d'altri contrasti e d'altre angustie, in quel breve tempo passato dopo la misera morte del fratello e della madre; e già nessun legame più l'univa alla terra. Angiola Maria, dopo perduta la madre, era rimasa, per qualche settimana ancora, presso la signora Giuditta, la vedova del maggiordomo: colà vivendo abbandonata, ma paga almeno di potere a tutti nascondere i travagli del suo cuore. Ma quando, a poco a poco, il dolore si fece più quieto, e la mente tornò a' pensieri della vita e dell' avvenire, allora conobbe come anche troppo a lungo la vedova si fosse preso carico di lei, e com' ella, giovine e fresca tutt'ora, doveva oramai cercarsi altrove di che vivere con la fatica delle mani. Sulle prime aveva deliberato di tornarsene al paese, dove confidava di poter ancora compiere onestamente i suoi pochi giorni. Ma poi, non ebbe cuore di abbandonar così presto i luoghi dove suo fratello e sua madre erano morti, e dov'ella stessa aveva amato e sofferto. Una mattina dunque, colse il buon punto che la vedova amica, donna, come sapete, piena di buona volontà per il prossimo, doveva andarsene non so dove, per certa raccomandazione; e arrossendo con vezzosa modestia: « Ho a pregarla anch' io d' una cosa, signora Giuditta, ho a dirle.... » « Cosa volete? dite pur su col cuore in mano, la mia figliuola!... » Così la vedova, dopo la morte di Caterina, era solita di nominar l'orfanella, come una pietà segreta le suggeriva. « Ecco qui, » diceva Maria, « lei ha fatto anche troppo per me; ma io vedo di non essere al mondo altro che un peso a quelli che m'han voluto bene.... sì, di quanto disturbo di quant' angustia le siamo state causa noi, la mia povera mamma, e io massimamente! così potessi fare anch' io qualcosa per lei!... Ma, pur troppo, non potrò che tenermi nel cuore il bene che ho ricevuto, e pregare il Signore, che a lei ne renda altrettanto.... » « Non istate a dir così, poverina, chè avete sofferto anche troppo; e io non son riuscita a far niente per voi.... » « Lo può far adesso, signora Giuditta: da un pezzo ci penso, e capisco ch' è una vergogna per me.... Buona come sono a trovarmi da per me quel poco che mi basti a vivere, non devo restar qui, come fin adesso, d' incomodo a lei e di bene a nessuno.... È ben vero che, fuori di lei, non ho chi pensi a me, non ho più a cui pensare: ma, tant' e tanto, ho risoluto d' allogarmi in qualche maniera, di mettermi a qualche servizio. Dica anche lei, se non è vero che così fo bene?... » « Sì, la mia figliuola! voi sì avete un cuore, che dirlo è poco; ma vi cruciate a torto, e dovete stare con me. » « No, no: ci sto da troppo tempo, le ripeto; e non bisogna, no, che si vada innanzi così; n' avrei sempre rimorso in cuore.... » « Ma cosa pensate dunque di fare? » « Le dirò: prima volevo quasi tornarmene al mio paese; lassù, forse, potrei ancora trovar qualcheduno che si ricordasse di me; ma poi, venuta al punto di dir addio per sempre a questo luogo, dove avrei dovuto lasciare tutto quanto mi rimane di caro, la poca terra dove riposano i miei, m'è mancata la forza; chè quasi mi pareva di perdere per la seconda volta la mamma. Oh mi compatisca, signora Giuditta! in verità, c' è de' momenti che non so nemmen io perché sia ancor qui! Ho pochi anni, è vero.... ma, adesso, che avrei a fare a questo mondo?... » « Vi compatisco sì, ma certe cose non bisogna poi prenderle tanto sul serio, perchè staremmo freschi! Già lo so che avete la testina un po' guasta.... è stata una gran benedetta signora quella nostra padrona! e coll' avervi tenuta con sè, ne' vostri primi anni, e fatto imparar a leggere e scrivere di buon' ora.... Vedete, certe idee che avete voi, io non le ho mai avute, nè anche in sogno. » « Ma lei è buona, e non m'abbandonerà! Per carità dunque, lei che ha conoscenza di tante brave persone, mi raccomandi a qualcuna; mi trovino un posto qualunque, un luogo, un servizio, tanto che mi dia come campare, finché il Signore mi lascia qui; cerco poco, e purché, coi le ho detto, non abbia a darle altri fastidi, m'accontento. « Lo farò, Maria, se volete, lo farò: oh vivesse anco la buon' anima di mio marito! quello era un uomo di proposito; ha servito sempre delle eccellenze.... ah! ma saran quasi vent' anni ch' è morto!... » « Signora Giuditta, una buona carola soltanto, a qualche pia dama, a qualche signora.... può valer molto; e la terrò come un nuovo benefizio. » « Bene, sì parlerò, vi Prometto, lasciate pensare a me.... Andrò questa mattina stessa dal signor canonico***, un bravo, un sant' uomo, che conosce tutti gli ottimi signori di Milano.... Ma non crediate mai che sia per non volervi più in casa mia!... » « Perchè, dopo tutto il bene che m' ha fatto, mi vuoi dare questa mortificazione? No, no, l'assicuro, signora Giuditta, quel che le ho detto è proprio il desiderio del mio cuore! « « Dunque sarà come volete, e quando prometto io.... » E fattole una carezza, se ne andò. Benché la Giuditta fosse una donnicciuola sincera, e avesse, per dir vero, fatto qualche bene alla nostra fanciulla e a sua madre, nelle passate loro strettezze, pure non intendeva di prendersi sopra di sè il peso della giovine; la quale, secondo lei, aveva di mani e braccia come tutte l'altre, nè era che un po' ammalata di testa. E siccom'essa era sempre stata avvezza a quel monotono andare dì vita, a quel piccolo inerte egoismo d'una vecchia governante pensionata, così quel gran guaio sopravvenuto al povero vicecurato le era parso un gran malanno, un garbuglio, un finimondo. « Far del bene al prossimo, sì - pensava la Giuditta - quando per l' altrui bene non ci vada il nostro, la dute dell'anima, come andrebbe qui; perchè la cosa è ria, brusca.... e se la Caterina era una buona donna, e se la Maria è una tosa d'oro, c'è però di mezzo questa storia, scura scura del prete, che non ho mai potuto capire, e di cui non mi pento d'aver taciuto, secondo mi diceva quella cima d'uomo del signor Giosuè. » Ella dunque non lasciò fuggir l' occasione: la stessa mattina, non appena la fanciulla le ebbe spiegato il suo cuore, trottò diritto alla casa del signor canonico; e, trovato modo di parlargli, narrò la disgrazia dell' orfana, e lo scongiurò, con una litania di lamenti, che la pigliasse sotto la sua protezione. Egli le promise di far qualche cosa, e durò gran fatica a rinviarla, chè più non la finiva di piagnucolare. Passati alcuni dì, la vedova ritornava alla porta del signor canonico; non era in casa, ma essa, con la pazienza di chi vuoi ottenere a qual si sia costo, l'aspettò due lunghe ore. Alla fine il canonico comparve, e veduta che l'ebbe farsegli vicino e, attaccarsegli alla zimarra: « Siete una benedetta donna, » le disse ; « ve l' avevo pur detto d' aspet- tare, ciò v' avrei .fatta avvertire io stesso! Ma via, poichè la vi preme tanto, dite a questa vostra giovine che si presenti, domani, verso mezzodì, alla signora marchesa****, alla quale ho già parlato di lei; vedrò d'esserci anch' io, faremo di trovarle un destino. Domani.... a mezzodì preciso.... avete inteso? » « Oh quanta carità, signor canonico! lei fa da vero un'opera santa! » E si chinò per baciargli la mano, ch'egli, per modestia, nascose nelle pieghe della zimarra. « Sì, sì: andate, la mia donna, e ringraziate Dio che ci sieno ancora al mondo persone caritatevoli. » E passò innanzi. Non è a dire quanto lieta ne tornasse a casa la vecchia Giuditta, con siffatta novella; lieta, perciò nel riuscirle di metter, via, com' essa diceva, una giovine onesta, le era pur concesso alfine di racconciarsi nella sua pace casalinga, salvando l' opinione della pietà. Appena pose il piede sul suo limitare, non potè trattenersi Ball' abbracciar la giovinetta, dicendole: « Lo sapevo ben io, che il signor canonico, quel brav' uomo, norrpromette per niente! non ve l' ho detto che avrebbe subito trovato dove allogarvi ?... bene , è cosa fatta: domattina vi presenteremo alla marchesa ****, ch' è una gran signora, una dama che ce n' è poche come lei, una di quelle sul far della povera padrona, delle quali, pur troppo, s' è di questi dì perduta la stampa; mettetevi nelle sue mani, e al resto non ci pensate; è il caso vostro, e ne sono contenta per voi.... » « O signora Giuditta, quanto le devo! queste sue pa- role mi danno la vita; io ne la ringrazierò e benedirò sempre, » E Maria passò tutta la giornata nel rassettare il suo miglior vestito, apparecchiata da quel momento a mettersi per la via che la volontà del Signore le destinasse. Il giorno seguente, al primo toccar del mezzodì, le due donne si trovavano alla casa della marchesa: poichè la Giuditta s' era messa in capo di volere ella stessa presentarla a questa dama. Entrarono in uno di que' vecchi palazzi, che portano un nome storico, e de' quali pochi avanzano nella nostra città; uno di que' palazzi, che, in mezzo alle nostre moderne case dalla fronte gretta e linda, dalle molte finestre e da' leggeri terrazzini, mostrano ancora la pesante e soda struttura di un secolo e mezzo fa, il gran frontone della porta, i muri vestiti di sasso nericcio, i radi e ampii finestroni con le fosche invetriate e gli enormi davanzali. Appunto così appare talvolta, in mezzo a gaia gioventù, uno di que' zazzeroni sessagenarii che non si sono ancora emancipati dalla coda, dalla polvere di Cipri, e dalle grosse fibbie d'argento alle scarpe, nè dai due tondi orologi di Bordier, con le catenelle d'acciaio a pendaglio, sotto la giubba larga e quadrata. Per uno scalone, che pareva il vestibolo d' una chiesa, salirono all' appartamento della dama. Un vecchio servitore, infagottato in una livrea orlata di passamano turchino, ri- cevette le due donne nella vasta anticamera; e le fece di là passare nell' attigua galleria lunga e buia, dove stettero ad aspettare il buon momento di presentarsi alla signora marchesa. E passata mezz' ora, che a loro parve eterna,

Pagina 214

La giovinetta campagnuola

207938
Garelli, Felice 13 occorrenze
  • 1880
  • F. Casanova
  • Torino
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Ricòrdati allora che «il male viene a libbre, e se ne va a oncie;» perciò se tu, o altri cade ammalato, ricorra a quei due gran medici, che sono l'acqua e la dieta: e il più delle volte guarirà tosto. Se poi il male cresce, allora, senza por tempo in mezzo, chiama il medico, e segui esattamente le prescrizioni di lui. Non fare come la più parte dei campagnuoli, che mandano solleciti pel veterinario, se una bestia si ammala; e del loro male, o di quello dei suoi, si curano tanto poco, che aspettano a mandare pel medico, quando è già tempo di chiamare il prete, ed il notaio. Consigliandoti a mettere in serbo piante medicinali, non ti ho detto di farla da medichessa. Ora ti aggiungo due altri consigli. Non dare ascolto a certe femmine sciocche, e superstiziose, che pretendono di saperne più del medico, e vantano specifici per guarire le malattie. Non prestar fede ai ciarlatani che sulle piazze, nei giorni di fiera, vendono boccette, unguenti, e cerotti per guarire ogni sorta di mali. Bada che essi sono cavadenti di mestiere, veri scrocconi, che girano il mondo in carrozza, e vivono da gran signori, alle spalle degli ignoranti, e dei babbei che s'affollano a comprarne gli specifici.

Pagina 115

Chi non lo sa, spreca: oggi, perchè ha il fienile ben provvisto, getta il foraggio nella greppia a larghe braccia: più tardi fa mangiare paglia asciutta. Vuoi fare economia del foraggio, e nutrir bene le tue bestie? Taglia e sminuzza il foraggio, come si fa nei paesi, che la sanno più lunga di noi nel buon governo del bestiame. Per tagliare i foraggi, si adopera uno strumento, fatto apposta, che si chiama trincia- paglia, o trincia-foraggi. Ve n'ha di grossi, a ruota, che valgono cento e più lire, e servono per le grandi stalle. Ve n'ha di piccoli, a basso prezzo, specie di coltelli, uniti ad un tagliere, che bastano a preparare la razione a poche bestie. Col trincia-foraggi si taglia il fieno a pezzetti di uno o due centimetri, e il bestiame lo divora tutto, senza che ne perda briciola. Quando lo dài intero, te ne spreca la metà, gettandolo nel letto. Col trinciarli, rendi più facile a digerirsi le paglie, e i fieni di qualità scadente, i foraggi legnosi e grossolani. Prova, tieni conto di tutto, e vedrai l'economia che ti risulta. Col risparmio che fai nel foraggio, in poco tempo tu paghi la spesa del tagliafieno, e te ne avanza.

Pagina 125

Si rivanga in primavera; e si lascia riposare qualche tempo la terra lavorata, prima di seminarvi; perchè i semi attecchiscono male, se li affidi a un terreno lavorato di fresco. Ti giova seminare, e piantare tutto in file: così risparmi tempo, e fatica a nettare l'orto dalle malerbe. Per far bene il lavoro, tendi una funicella, e con la punta del foraterra segna il solco nel terreno lungo la corda. Vi metti quindi i semi; copri i più piccoli con un dito di terra, e con due o tre dita i più grossi. Con la coltivazione a linee sbrighi, da sola, tutto il da farsi nell'orto, lavorandovi tutt'al più un'ora al giorno per cinque o sei mesi dell'anno. Seminando a getto o alla rinfusa, non bastano le tue braccia a nettare il terreno. Devi aspettare che le malerbe siano un po' alte, dovendole estirpare a mano: ed è tanto nutrimento rubato alle buone piante. Eppoi questi lavori di nettamento riescono sì lunghi e faticosi da fartene scappare la volontà. Te lo ripeto: coltiva tutto a file; e ne sarai contenta. In due ore farai maggior lavoro, e più utile, che in quattro giornate. Provvediti dunque un zappino e una rastia. Con questa tagli le malerbe, appena escono da terra. Ripeti l'operazione ogni otto, o dieci giorni, in tempo secco, avvertendo di estirpare a mano le malerbe nelle file. Col zappino mantieni la terra smossa tra le file. Le sementi procura di fartele nell'orto stesso; altrimenti bada a provvederle di buona qualità, e di sicura riuscita. Finisco con un consiglio. In giro alle aiuole coltiva alcuni fiori. Essi dànno la vita, rallegrano l'occhio, profumano l'aria, abbelliscono l'orto. Alle rose di varia fioritura aggiungi garofani, reseda, gerani, ecc. Non dimentica tra essi il gelsomino, il giglio, e la viola màmmola: e questi ti ricordino sempre le virtù che fanno di te, giovinetta, il fiore più bello, e più caro della famiglia.

Pagina 135

È un difetto comune alle giovinette quello di chiacchierare un po' troppo: ed è un brutto difetto, del quale molte volte si hanno a pentire. Chi troppo ciarla, spesso falla, o dice sciocchezze. Parlare è facile, ma parlare bene e a proposito, è difficile. Parla poco; e sbaglierai meno. Per parlar bene quando devi parlare, sappi tacere quando devi tacere. Parlare poco, e a tempo, è da persona savia. Perchè Dio t'ha dato due occhi, due orecchi, e una lingua sola? Hai due occhi per veder molto, due orecchi per ascoltar molto, e una sola lingua per parlar poco. Dunque ascolta molto, e parla poco. Chi parla, semina; chi tace, raccoglie. Sopra tutto guardati dal brutto vizio di metter bocca nelle cose che non ti spettano; di sentenziare sui fatti altrui; di ridire tutto quello che vedi, o senti, e che può recar danno, o molestia altrui: ti guadagneresti i nomi di ciarlona; dottoressa; maldicente; pettegola; maligna. Ti piacerebbe di essere battezzata così? Bada dunque a te, e non ti avanzerà più tempo ad occuparti degli altri. Tieni a mente il proverbio: Dei fatti altrui, men se ne sa, meglio si sta. Compatisci gli altrui difetti, se vuoi che gli altri compatiscano i tuoi. Il tuo parlare sia sempre schietto, verace, e prudente. Se ti si confida un secreto importante, guàrdati bene che non ti esca di bocca. Non confidare ad amiche quello che non vuoi che si sappia. Vedi quello che accade, quando tu fai una confidenza ad un'amica, a patto che non la dica a nessun'altra. Questa la ripete solamente a una sua amica fidata, e le impone la stessa condizione del silenzio. La seconda amica la ripete a una terza. Così d'amica fidata, in amica fidata, il secreto gira, e gira tanto che arriva, e assai presto, alla persona cui tu intendevi di non lasciarlo arrivare mai. Se dunque vuoi che un secreto non si divulghi, sappilo custodir bene. Ma ricòrdati che pel babbo, e per la mamma non ci hanno da essere secreti.

Pagina 15

Un bugiardo si conosce più presto che uno zoppo; la verità, come l'olio, viene a galla. Ma poi, anche non si venisse a scoprire la bugia, forse che Dio non vede nel cuore? Non lo sa la coscienza? La bugia è un vizio brutto, e schifoso, che fa nell'anima una macchia più nera dell'inchiostro. La bugia è il primo passo al mal fare. Per ciò i bugiardi, e gli impostori sono disprezzati da tutti. A chi è conosciuto bugiardo non si crede più nulla, neanche se dice la verità. Peppina ha commesso un piccolo fallo; lo confessò subito, e le fu perdonato. Peppina è una ragazza sincera; non dice mai quel che non è, e tutti le vogliono bene. Quando si manca, bisogna confessare la propria mancanza, come ha fatto Peppina. Bisogna dir sempre la verità, anche se, a dirla, ce ne vien danno. È brutta cosa aver due lingue. Non si deve mai dire il falso; anche quando, a dire il falso, può venirne vantaggio. Non devi far la spia dei falli altrui. Ognuno ha da guardare a sè. Prima di parlare, pensa a quel che devi dire. A tempo e luogo sappi anche tacere, per non recar danno ad altri.

Pagina 16

Il tempo è un tesoro che non costa un soldo; ma se lo perdi, non lo puoi comprare, neppure a pagarlo un milione. Il tempo viene, passa, e non ritorna più: impara dunque a spenderlo bene, fin che lo hai. L'arte di impiegar bene il tempo si impara da ragazzi; si perfeziona con l'età, e l'abitudine; e poi non si perde, nè si dimentica più. Bada anzitutto che ogni cosa ha il suo tempo, e vuol essere fatta in quel tempo. Gli alberi mettono prima le foglie, poi i fiori, poi maturano i frutti. Così il campo prima si ara, poi si semina, più tardi si miete. Se un contadino volesse mietere quando è tempo di seminare, o seminare quando è tempo di mietere, farebbe ridere fin le galline. Così c'è il tempo di lavorare, quello di mangiare, e quello di riposarsi. Or bene, fa ogni cosa secondo il suo tempo. Quando è tempo di fare una cosa, non pensare a farne un'altra; e quando fai una cosa, sii tutto intento e attento a quella, se vuoi riuscirla bene. A far le cose sbadatamente, o fuor di tempo, si diventa vecchi senza aver fatto mai nulla di bene. Non rimettere a domani ciò che puoi fare oggi. Un buon oggi, dice il proverbio, vale due domani: e molte volte il domani non è più a tempo.

Pagina 29

25.La costanza riesce a tutto. Sì, giovinetta: con la pazienza, e la volontà, si viene a capo di tutto; senza costanza tutto va male, e non s'arriva a far nulla. Per riuscire in un lavoro, bisogna farlo con calma, e perseveranza, e non sgomentarsi delle prime difficoltà che s'incontrano. Se il lavoro che hai da fare è lungo, e pesante, non potrai finirlo nè in un giorno, nè in due; ma vi arriverai al fine, se tutti i giorni, senza perder tempo, ne farai un po'. Il mondo non fu fatto in un giorno; — un albero non cade al primo colpo di scure. Se è un lavoro difficile, mèttivi tutta l'attenzione che puoi. Se non ti vien fatto subito a modo, non devi perderti d'animo, e dire: «È inutile, tanto non mi riesce»; continua, e riuscirai. Si sa che nessuno nasce maestro. Anche qui ricorda i proverbi: Chi fa falla; — provando e riprovando si impara; — col vedere quel che non va, si capisce quel che va. Tutte le cose sono difficili, prima di diventar facili. Quando si guarda una montagna dal piede, sembra impossibile di salirne la cima: è così alta! così erta! Pròvati a salire, e trovi ombre, fontane che t'invitano a proseguire il cammino; più vai, più prendi coraggio; ed eccoti sulla cima, ove la bella vista di altri monti, di valli, e di pianure ti compensa della fatica fatta per giungere lassù. In conclusione: nulla è difficile a chi vuole di buon proposito, e tu pure lo sai per prova. Ricòrdati come ti imbizzivi di non poter imparare l'aritmetica! ma poi ti mettesti proprio di buona voglia, ed ora i conti li fai bene. Così avviene di ogni cosa: quasi sempre chi vuole, può. Sii dunque ferma, e perseverante nei buoni propositi, se vuoi che ti riesca bene quanto imprendi a fare.

Pagina 31

Ma un po' di buona creanza è necessaria a tutti, per farsi voler bene dalle persone con cui si tratta. Chi ha maniere incivili, grossolane, sgarbate, dà molestia, e disgusto alla gente. Se una persona è ruvida come una grattugia, nessuno si accosta volentieri a lei. Marta è una buona pasta di ragazza, ma, a trattare con lei, si direbbe il contrario. Se le chiedi un servizio, te lo fa con mal garbo; se lo riceve da altri, non dice un «grazie». A chi le parla, risponde asciutto ed aspro. Marta ama i suoi fratellini, ma non sa far loro una carezza; a divertirsi con essi non ci ha gusto. Obbedisce borbottando; s'imbroncia per nulla. La gente, quando parla di Marta, dice sempre: «Peccato che non conosca il galateo!». Giovinetta, fa in modo che la gente non dica altrettanto di te. Se vuoi essere benvoluta, conserva negli atti, nelle parole, in casa e fuori, il contegno di una ragazza bene educata. Ricòrdati che il bel tratto trova tutte le porte aperte — La creanza costa niente, e compra tutto. Ma ricòrdati ancora che la gentilezza delle maniere vuole avere a compagna la bontà del cuore.

Pagina 33

Carlambrogio sa quanto giovi un'abitazione sana, e l'ha procurata a sè e agli animali. La sua casetta guarda al bel mezzodì; da varie finestre riceve abbondanza di luce; ha dinanzi l'aia col pozzo; l'orto di fianco, e il letamaio di dietro, a mezzanotte. La stalla è a vôlta; alta, ampia, in modo che le bestie vi stanno comode; i muri intonacati, e imbiancati; le finestre munite di imposte e invetriate. Negli angoli della vôlta vi sono sfiatatoi che, nell'inverno, si aprono per rinnovare l'aria, senza dover aprire porte, o finestre. Il pavimento è fatto con mattoni di costa, e un po' inclinato, per dare scolo alle urine, le quali, raccolte da un canaletto, inclinato anch'esso, vanno a versarsi in un pozzetto, fuori della stalla. Uguali attenzioni usò Carlambrogio perchè il porcile, e l'ovile fossero sani, ariosi, e bene esposti. Queste spese gli tornarono a benefizio grandissimo. Tutta la famiglia di Carlambrogio ha fior di salute, e gli animali, che dalla sua stalla si presentano al mercato, vi fanno la prima figura, e ne ottengono i prezzi più alti.

Pagina 50

Ma a trattar male le bestie, si fa danno anche alla borsa. Gli animali malmenati dimagriscono, e quindi scemano di prezzo; oltre a ciò contraggono vizi, e difetti, che, nei contratti di compra o vendita, sono causa frequente di litigi e di spese. Vedi dunque che il tornaconto, non meno che la carità, comanda di trattar gli animali con dolcezza, di nutrirli bene, tenerli puliti, e non strapazzarli con lavori eccessivi. Il bestiame è una necessità pei lavori, e pel concime; ma è ancora un mezzo di guadagno per chi sa governarlo; mentre è causa di grosse perdite a chi lo trascura. Se il bestiame è affidato alle tue cure, sii attenta e paziente. Ama gli animali; affeziònati ad essi, e tràttali con dolcezza. Se un animale è triste, o non mangia volentieri, od è ferito, prèstagli le cure necessarie. Al pascolo sta in continua vigilanza. Impedisci che le bestie si battano fra loro; che si sbandino; che entrino nei seminati, o sulle terre altrui. Tieni d'occhio che non cadano nei fossi; non si accostino a precipizi; non si arrampichino in luoghi pericolosi. Abbi cura di non lasciarle troppo tempo al sole. Scegli i luoghi dove l'erba è migliore. A quando a quando loro parla, accarezzale, e non maltrattarle mai. Nella stalla distribuisci, ad ora fissa, le razioni; fa la pulizia giornaliera degli animali; rinnova la lettiera; spazza le corsìe, dà aria, e pulisci tutto. Pensa prima agli animali che a te. Non lasciarti vincere dal sonno: se fa bisogno, sii in piedi a qualunque ora di notte; àlzati per tempo al mattino; e alla sera va al riposo solamente dopo assestata ogni cosa.

Pagina 83

E lo ferma, ponendo a guardia della casa la virtù dell'economia. L'economia, utile a tutti, è per la povera gente altrettanto necessaria che il lavoro. Vedi quanto si suda a far piccoli guadagni! Pensa quanti pericoli corrono le raccolte, per le quali si fa tanta fatica! La brina, la siccità, la grandine possono mandarle a male: e allora come si vive, se nelle buone annate non si è fatto, con l'economia, un po' di risparmio? Per arricchire ci vuol molto: ma per andare in rovina ci vuol poco. Con la scioperatezza la miseria viene a tutta corsa, e va poi via a passo di formica. «Trista quella cà, che mangia quanto ha». Con la virtù dell'economia, la miseria potrà far capolino all'uscio, ma non vi entra. «La roba sta con chi la sa tenere». Senza economia, si lavora tutto l'anno, e si è sempre al verde. «Saccoccia forata non tiene il miglio».

Pagina 90

La buona massaia non compera mai a credito. Occorre biancheria per la casa? Abbisogna un abito per lei, o per altri della famiglia? Ne fa la compra, se ha il danaro che ci vuole; altrimenti la ritarda, fino a che abbia il mezzo di pagarla. Essa sa che col danaro contante si provvede roba migliore, e a meno prezzo. Eppoi: è mille volte meglio aver poca roba, ma tutta nostra, che averne molta, pagata col danaro altrui. Essa ha paura dei debiti, e con ragione, perchè sa che, a fare un debito, si lega una corda al collo, e dà il capo della corda in mano al creditore. Quindi fa qualunque sacrifizio, prima di contrarre un debito, anche piccolo. Per solito i debiti cominciano col poco, e finiscono col molto: precisamente come la valanga, che comincia dall'alto con una pallottola di neve, e, rotolando a valle, si ingrossa come una montagna. Guai a fare il prima debito! A pagarlo, se ne fa un altro più grosso; il secondo ne tira un terzo. Per chiudere un buco, si apre una finestra; per chiudere una finestra, si apre una porta..... e così si va dritti alla malora. Per ciò la buona massaia non fa il passo più lungo della gamba, e limita le spese secondo le entrate. Se poi la necessità vuole che essa faccia un debito, pensa continuamente al modo di pagarlo; e ogni giorno, vendendo uova, galline, legumi, mette a parte qualche cosa, per levarsi quel peso dalle spalle il più presto possibile.

Pagina 95

Regola le tue occupazioni in modo di trovar tempo a tutto, e di far ogni cosa a suo tempo. Rammenta che l'ordine nel lavoro è già un mezzo lavoro. La fanciulla disordinata gira di qua, gira di là, si affanna, e non ha mai nulla di fatto; e non impara nulla. Se vuoi diventare una buona massaia, avvèzzati a tenere ogni cosa ordinata; e osserva questo precetto: «un posto per ogni cosa; e ogni cosa a suo posto». Ora all'opera. Finita la colazione, e data al bestiame la razione preparata alla sera, farai la pulizia della casa. Te l'ho già detto, ma giova ancora ridirlo. Nettezza non è lusso; è sanità, e decenza. Il sudiciume è segno schifoso di disordine, di trascuratezza, di miseria; è la vergogna della massaia. La nettezza è la particolare eleganza del povero; essa rende piacevole una casa, anche povera e disadatta. Tu sai che la calamita attira il ferro, e se lo attacca. Ebbene, la casa, se ordinata e pulita, fa lo stesso con gli uomini: li attira a sè nei giorni di festa; non li lascia andar girelloni, o all'osteria. Dunque fa che ogni cosa sia sempre all'ordine. Occhio a tutto: ai pavimenti, ai letti, alla cucina, al vasellame, ai mobili. Più volte al giorno abbi in mano la scopa, e l'innaffiatoio. A rallegrare l'occhio ed il cuore, aggiungi un vaso di fiori alle finestre, e, se puoi, un quadro nella stanza.

Pagina 98

L'uccellino azzurro

213646
Maeterlink, Maurice 1 occorrenze
  • 1926
  • Felice Le Monnier, Editore
  • Firenze
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

FINITO DI STAMPARE A FIRENZE NELLO STAB. TIP. DEI F.LLI MODIGLIANI-ROSSI IL X SETTEMBRE MCMXXVI

Quell'estate al castello

213838
Solinas Donghi, Beatrice 6 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Almeno, io lo sentivo circa a quel livello li. C'era già la contessa, che versando caffè dalla caffettiera d'argento disse: - Buongiorno, cara. E Ippolita? scende adesso? - Non so, non l'ho vista, - mi scappò di bocca. Brava polla: quel «non so» era già una bugia. Allora era inutile aver tanto studiato perché non fossi obbligata a dirne! Andai avanti, standoci più attenta. - Ieri sera mi ha detto che non si sentiva tanto bene, e di non disturbarla, stamattina, perché voleva dormire fino a tardi - . Infatti aveva detto esattamente cosí, uso lezioncina imparata a memoria, e ci era riscappata la ridarella a tutt'e due. - Non si sente bene? - Si era già alzata in piedi. - Salgo a vedere. Accipicchia, che zelante. Mica le era già venuto qualche sospetto, a questa qui? Per poco non le agguantavo il braccio, tanto mi premeva di bloccarla. - No no, - dissi a precipizio, - non è il caso, non stava mica male. Cioè, un po' cosí, ma niente di speciale. - Ma che cosa si sentiva, precisamente? - Ecco, non so... - C'ero ricascata col non so. Invece lo sapevo benissimo che non aveva un fico secco di niente, ma questo non potevo mica dirlo, era tabù. - Un'indisposizione, - improvvisai, cercando di tenermi sul vago. - Che genere di indisposizione, si può sapere? - Credo... credo un po' di mal di testa. Non si era affatto parlato di mal di testa, tra me e Ippolita. Era un'invenzione mia. Be' qualcosa dovevo pure inventare a Intanto era entrato lo zio; per fortuna perché era un tipo meno ansioso. E difatti disse: - Be', Augusta, non mi pare il caso di agitarsi per un mal di testa. Dopo colazione, se la bambina non è ancora scesa, andrai magari a darle un'occhiata, cosí intanto parlate un po'. Si mise a ciarlare, falso-giulivo, al solito, del bel tempo che era ritornato e delle passeggiate che potevamo fare per approfittarne. Io sola sapevo che ci sarebbe stato ben altro da pensare e che non si sarebbe fatta nessuna passeggiata. Il boccone mi si fermava in gola se pensavo a tra poco, quando l'avrebbero scoperto anche loro. Appena finito, la zia piegò il tovagliolo e lo mise via nella sua busta ricamata, poi andò su sparata. E io dietro. Mi guardò un po' male, si vede che non ci teneva proprio alla mia compagnia, in quel periodo, oppure le premeva molto di parlare da sola con sua nipote. Ma ci voleva altro perché mi lasciassi seminare. Mi era uscita fuori, in aggiunta al resto, una grandissima curiosità di tutto quello che stava per succedere. Mi figuravo già l'urlo che avrebbe tirato lei nel trovare vuota la camera e volevo essere sul posto per sentirglielo tirare. Sorpresa: non ci furono urli e la camera non era vuota. C'era la Vittorina, che rifaceva il letto come se niente fosse. - Ippolita è alzata, allora? - Lo disse con un sollievo che pareva sincero. Valli un po' a capire, questi aristocratici falsi. - Oh sí, signora contessa. E andata giú a far colazione - . Logico che lo pensasse. L'ora era quella. - Macché, giú non si è vista. Sarà piuttosto di là in bagno. - Oh no, signora contessa. Ci sono andata adesso, nel bagno, per cambiare gli asciugamani, e la signorina Ippolita non c'era mica, sa. La Vittorina stava cominciando a sgranare gli occhi. La signora contessa, viceversa, a stringere le labbra. A labbra strette, senza dir niente, andò a vedere in bagno e poi anche in camera mia. Risultato, nixNicht (tedesco): pronunciato nix in alcuni dialetti italiani significa niente., si capisce. Allora tornò sul pianerottolo dello scalone e chiamò - Ottavio. Suo marito uscí dalla stanza da pranzo col giornale in mano, guardando in su. - Ottavio, qui la bambina non c'è, è una cosa piuttosto strana. Presi il coraggio a due mani e mi misi in mezzo io. - Sarà andata nel parco. Per farsi passare il mal di testa con l'aria fresca - . Ormai inventavo a rotta di collo, e pensare che credevo di non essere capace; proprio vero che tutto sta a cominciare. - Adesso vado a cercarla. Non l'avevo pensata male: cosí potevo tirare le cose per le lunghe quasi a volontà. Ma la zia di Ippolita non me ne lasciò il tempo. Si spostò di nuovo per andare in salone, era proprio un'anima in pena stamattina; andò sul verone, voglio dire il balcone, e di lí si mise a chiamare quel nome, Ippolita, Ippolita, e a guardare da una parte e poi dall'altra, senza pace. Quasi quasi mi faceva pena. Venne su il conte e le disse per favore di lasciar stare. (Non gli piaceva sentir gridare, era una cosa che gli dava proprio fastidio.) - Piuttosto, - disse, - mandiamo giú Remigio a vedere. Suonarono per Remigio. Ormai eravamo tutti in salone, anche la Vittorina, con gli occhi sempre più sgranati. Pareva come nei film gialli, quando qualcuno è scomparso ma non si è ancora trovato il cadavere e tutti cominciano a sospettare e ad aver paura ma riescono ancora a comportarsi in modo piú o meno normale. Preciso cosí. Venne su Remigio. Messo al corrente, fece una faccia strana. Invece di mettersi subito alla ricerca di Ippolita cominciò a raschiarsi la gola e poi venne fuori con una specie di gialletto supplementare. Tra me gli trovai un titolo: Il mistero della porta dietro. Questa porta, quando verso le sei e mezza era andato per aprirla (si era mattinieri a quei tempi, in campagna!), era risultata chiusa sí, ma senza paletto né girí di chiave. Ora, lui la sera prima i giri li aveva dati e cosí pure aveva messo il paletto, come faceva sempre. Ecco dove stava il mistero, che solo per me, tra i presenti, non era affatto misterioso. Mi sentii venire i capelli dritti. Né a me né a Ippolita, pare impossibile, era venuto in mente che da come trovava la porta Remigio doveva per forza accorgersi che qualcuno era già uscito; e se avvisava subito i suoi padroni, ecco lí che la fuga era finita quasi prima di cominciare! Invece non l'aveva fatto: chissà come mai. Fu proprio questo che gli domandò il conte. - Potrei sapere, - disse, - perché ne vengo informato soltanto adesso? Un gelo da restare assiderati. - Inaudito! - fece per giunta la contessa. Il poveraccio era sulle spine, non sapeva come rigirarsela. Certo che non si era dimostrato per niente furbo, come carceriere. Tra molti rigiri, si finí per capire che finora non aveva preso molto sul serio il fatto della porta. Secondo la sua versione, doveva esser stata la cuoca - mattiniera anche lei - ad aprirla, per metter fuori quelle tali bottiglie che Ippolita aveva visto nello scappare, pronte per quando doveva passare l'uomo a ritirarle. Lei, la cuoca, giurava che invece le aveva già messe fuori la sera prima e anzi aveva il coraggio di insinuare che fosse stato lui a dimenticarsi di chiudere, dopo. Erano tre ore ormai che ne discutevano, arrabbiandocisi, anche, ma ciascuno dei due credendo che l'altro, o l'altra, stesse scherzando. Tra loro scherzavano e bisticciavano in continuazione, quei tre, cioè i fidanzati - Remigio e Vittorina - e la cuoca, che si chiamava Adele ed era una grassona che le piaceva molto ridere. Li avevamo sentiti anche io e Ippolita il giorno dell'esplorazione delle cantine. Cosí dopo tutto non era poi tanto strano che non gli fosse venuto in mente che ad aprire la porta poteva esser stata un'altra persona. Come disse «altra persona», la Vittorina oltre agli occhi spalancò anche la bocca. Allora sí che usci l'urlo! - Maria Vergine! La signorina Ippolita!... - Verso le sei e mezza, avete detto? - esclamava intanto la contessa. - Dunque è da prima di quell'ora che... - Va bene, Augusta, ora ne parliamo, eh? - disse suo marito, facendole segno con le sopracciglia perché si trattenesse e non facesse scandali davanti alla servitù. Doveva essere una cosa molto scomoda, dato che la servitù dal più al meno l'avevano sempre intorno, questa di dover pensare prima di tutto a trattenersi per non far scandali. Difatti lei, da agitata che era, adesso che si tratteneva diventò nervosissima. Se la prese con la Vittorina, che poveretta non aveva colpa di niente. La mandò via domandandole cosa avesse da fare lí in salone, con un tono secco secco che non le avevo mai sentito. Io pensavo che adesso magari sarebbe toccata a me. Mi aspettavo da un momento all'altro che mi puntasse un dito contro, dicendo: - Confessa! Tu ne sai qualcosa di questo cadavere! Pavdòn: della scomparsa di Ippolita, volevo dire. Invece toh che suona il telefono e tutti ci pigliamo uno scossone! I nervi a fior di pelle ormai non li aveva mica solo la signora contessa. Andò a rispondere Remigio, che stava facendo sforzi eroici per riprendere la sua aria di cameriere stilé. Però aveva gli occhi sgranati peggio della sua fidanzata, quando disse: - E per lei, signor conte. Il maresciallo dei carabinieri di X. Giallo al completo! Il conte, al telefono, disse «sí» due o tre volte, con intervalli. Poi, a sua moglie: - La bambina è a X, sta bene. A lei in un minuto era venuta una faccia tutta a punta, dall'ansia. Appena sentí quelle parole piombò a sedere sulla prima seggiola a tiro. Mi domandavo se adesso sarebbe svenuta: pareva lí lí. Suo marito, al telefono, disse ancora: - Ha fatto bene, maresciallo, e la ringrazio - . E dopo: - D'accordo, allora: sarò lí al piú presto. Mise giú il ricevitore e si rivolse a Remigio: - La macchina, subito - . Anche questo suonava emozionante: un po' tutto lo è, quando si sta dentro a un giallo. La contessa poi non era svenuta. Rimasto solo con lei (cioè, c'ero ancora io, ma non mi facevano caso), le fa: - Ippolita è al comando dei carabinieri. L'hanno fermata in stazione quando ha chiesto un biglietto per Parigi. Ora posso dirlo: era stato questo il suo grande sbaglio. Avesse detto, che ne so, Milano, Torino, insomma la città dove doveva cambiar treno, poteva ancora andar liscia. Ma a X non si era abituati a vedere una ragazzina col valigino a mano che parte fresca fresca per l'estero senza nessuno che l'accompagni. Nel prossimo capitolo torniamo in stazione da lei, a vedere un po' bene come era andata.

- Si era accesa una lampadina anche a me. - I franc...! - Mi fermai a metà parola, presa da un dubbio: - Ma sono usati, varranno lo stesso? - Sí, se sono vecchi e rari. Lo so, perché una volta facevo collezione. Saltò in piedi e cominciò a rimescolare le lettere nel baule, come avrebbe rimescolato le monete d'oro, immagino, se ci fossero state. Allora anche a me venne la smania nelle mani, dalla voglia di tuffarle là dentro. È una sensazione che bisogna averla provata, per sapere com'è. Rimescolavamo in due, come due streghe intorno a un calderone; nel rimescolamento le buste un po' saltavano fuori, un po' tornavano a risprofondare nel mucchio, e si vedevano comparire e scomparire quei rettangolini colorati con elefanti e palme, mezzelune e soli levanti, figure vestite in maniere mai viste e profili di re che chissà mai in quale angolo del mondo regnavano o avevano regnato. Quei rettangolini che messi tutti insieme potevano valere un sacco di soldi. Quanti? Tanti, forse, da diventare milionari come Bonaventura, se in mezzo ci fosse stato per caso uno dei rarissimi, degli introvabili, che non c'è oro né diamanti da poterli pagare. Era una cosa grossa. Non c'era da meravigliarsi se eravamo rimaste come un po' istupidite. Ippolita sapeva solo ripetere: - Ecco cos'era, il tesoro! Ecco cos'era! E io: - Pensare che era qui! La cosa piú straordinaria per me era di averlo trovato proprio qui in casa della mia nonna, e insomma di averlo sempre avuto sotto il naso senza saperlo, mentre non c'era stato in un castello con sotterranei. Poi, passato quel primo momento di istupidimento, il solletico dietro le costole diventò cosí forte che per sfogarlo mi misi a saltare e a gridare a squarciagola: - Il tesoro! Guic guic! - Guic guic! - gridò anche Ippolita, buttando in aria le braccia e saltando cosí che le trecce volarono in linea orizzontale, mi sembra ancora di vederle. Ballavamo intorno al baule come ammattite, gridando e pestando forte i piedi per fare piú rumore. Ne facevamo tanto, che mamma e papà (mi son dimenticata di dire che era domenica, cosí c'era anche lui) vennero su di gran carriera a vedere cosa diamine stesse succedendo, mentre nonna, rimasta indietro, gridava dalle scale: - Ma cosa c'è? Ma cos'è che c'è? Per stringere, dato che ormai siamo alla fine, ripeterò solo una cosa per uno, di quelle che dissero i grandi. Papà, quasi mortificato: che bisognava far valutare quei francobolli per sapere quanto valevano, ma data la quantità qualcosa quasi certamente se ne sarebbe ricavata, e come mai non era mai venuto in mente a nessuno di darci un'occhiata? (Forse era mortificato che non fosse venuto in mente a lui.) Mamma, trionfante: che era ben contenta di non dover piú pensare male di nessuno, e lo vedevamo, adesso, se il tesoro c'era? Nonna, tranquillissima: certo che c'era. Il povero Pio lo aveva sempre detto.

L'«uh accipicchia» non faceva parte del canto, mi era venuto fuori per una slittata piú lunga che per poco non mi mandava a sbattere col sedere nell'acqua. Allora sentii ridere. Qualcuno, in tutto quel buio, stava ridendo di me. - Ippolita? Ormai ero abbastanza vicina al buco profondo e buio che era l'apertura del condotto. Mi catapultai avanti slittando di qua e di là senza piú farci caso, buttai le braccia con pila e tutto dentro a quel buco, trovai qualcosa di vivo che rideva rannicchiato lí dentro e lo tirai fuori con uno strappo, cosi che piombò in piedi nell'acqua vicino a me, facendo uno splaf gigante che mi schizzò fino agli occhi. Ed era Ippolita in stivali di gomma, che continuava a ridere col singhiozzo e diceva: - Come eri bu-u-uffa! Quando hai detto «gridando uh accipicchia», oh che bu-u-uffa eri! Prima cosa, le mollai uno schiaffone, dicendo: - Potevi ben rispondermi, stupida! Ed ecco che mi si mette a piangere come una fontana. Finalmente, pensai. Era proprio ora che piangesse. Però da un lato mi rincresceva che lo facesse per causa mia. Non l'avevo mica picchiata con malanimo, io; solo per il nervoso della paura che avevo patita. Le dissi di smetterla, che se no cresceva il livello dell'acqua e rischiavamo di annegare tutt'e due. Ricominciò a ridere col singhiozzo, e il momento dopo, giú di nuovo a piangere a cateratte. Insomma, proprio una bella scena. Andando avanti di questo passo il groppo che aveva sul cuore non ci avrebbe messo molto a sciogliersi, però mi sembrava inutile aspettare che succedesse proprio lí sottoterra e con l'acqua a mezza gamba. Cominciai a tirarmela dietro e lei a seguirmi senza fare resistenza. Siamo uscite fuori dal serbatoio, e poi dalla grotta, un po' ridendo e un po' piangendo, slittando da tutte le parti, sventolando le braccia e le pile (anche Ippolita aveva portato la sua) per mantenere l'equilibrio, cosí che i tondini di luce saltavano qua e là come se anche loro avessero perso completamente la tramontana. Non so che cosa ne pensassero i pipistrelli. Chi se ne ricordava più, dei pipistrelli. Non so nemmeno se si facessero di nuovo vedere; magari davanti all'invasione di queste due pazze scatenate che sventolavano tondini di luce dappertutto, avran pensato che fosse piú prudente starsene quatti nei nascondigli della volta. Al chiaro del giorno ci siamo riviste in faccia. Eravamo uno spettacolo: bagnate, spettinate, infangate fino in cima agli stivali e piene di freghi verdicci e marroncini dove gli schizzi di quell'acqua puzzolente avevano lasciato il segno. Cosí come eravamo siamo subito risalite al castello, dove nel frattempo gli zii erano tornati dal cercare Ippolita in su e aspettavano, friggendo, che tornasse Remigio dal cercarla in giú. Le feste che ci hanno fatto non si possono ridire. E anche la Vittorina e l'Adele, che appena ci sentirono (e non era una cosa difficile, perché eravamo rientrate cantando Suoni la tromba a squarciagola) non si sarebbe riusciti a trattenerle in cucina nemmeno con le catene. E anche Remigio, quando tornò sbuffando per la salita. Mi buscai un sacco di baci e di abbracci, anche dalla contessa, che piangeva addirittura mentre me li dava; ma quel che mi fece piú piacere fu di sentirmi dire da Remigio: - Però, che brava! alla seconda volta l'ha proprio indovinata lei -. Mi ci voleva, questa soddisfazione, dopo che mi ero tanto mortificata quando invece non l'avevo indovinata affatto. Le feste, come si vede, non erano mica solo per Ippolita ritrovata sana e salva. Anche per me, ex vipera, ex verme, ma ora amica eroica, che era andata a salvarla nel centro della terra. Be', quasi.

A Ippolita no. Aveva i suoi occhi di puro acciaio inossidabile, mentre lo diceva. - Allora ci vado. Scappo. E tu mi devi aiutare. Lo sapeva da tanto tempo di poter contare su di me, dato che ero tutta dalla sua parte. E lo ero, infatti. Solo che, al momento, non mi sentivo piú per niente coraggiosa. - Ma dài! - dissi, tremarellando. - Parlo sul serio. - Ma io... Ma tu... Insomma, che cosa hai in mente di fare? - Di scappare, te l'ho detto. Domani mattina presto, prima che si alzino Remigio e le donne. Con la bicicletta non mi ci vorrà molto a arrivare a X a prendere il treno. - A X? (Era la città piú vicina e naturalmente non si chiamava X, ma nei libri tante volte non si dicono i nomi veri dei posti.) - Ma si. Non vorrai che parta dalla stazione del paese, dove mi conoscono tutti. Ti pare che mi darebbero il biglietto per Parigi senza il permesso degli zii? Come minimo telefonerebbero qui per informarsi, un bel patatrac. Aveva ragione, niente da dire. Mentre ci pensavo su sentii di nuovo il frrzz frrzz frrzz della pioggia e allora mi scappò detto: - Ma ti bagnerai tutta, con la bici! Era un dubbio cretino. Quando una ragazza è pronta a scappare all'estero, dalle grinfie dei parenti cattivi, per riunirsi alla propria mamma che non vede da tanto tempo, sí che cambierà idea per quattro gocce di pioggia! Ippolita mi guardò con compatimento e disse: - Caso mai prendo l'impermeabile. Cercai di scovare dei dubbi piú intelligenti: quello del passaporto, che ci voleva, a quei tempi, per andare all'estero, e quello dei soldi, dato che di certo un biglietto per Parigi doveva costare un bel po'. Ma lei, che all'estero c'era anche vissuta, il passaporto lo aveva. E i soldi anche; almeno, per la sola andata quelli che aveva potevano bastare. - Poi non importa se rimango pelata, ci penserà la mamma, lassú, a comprarmi tutto quello che mi serve. Porterò solo la mia valigina piú piccola, quella ci sta, sulla bicicletta. Anzi, fammi ricordare di mettere da parte un pezzo di spago di quello forte, per legarla sul portapacchi. Aveva pensato proprio a tutto. Non trovai altro da dire. - Non avrai paura di aiutarmi, - fece lei, visto che rimanevo zitta. - No no, cioè non so, cioè, che cosa dovrei fare? - Oh, niente di speciale. Domani mattina scendi a colazione all'ora solita e dici agli zii che io vengo dopo, che non mi sento bene, quello che ti pare. Insomma la tiri in lungo perché si accorgano piú tardi possibile che non sono piú al castello. Cosí se tutto va bene sarò già in treno prima che a loro venga in mente di corrermi dietro. Mi venne su dal cuore: - Ma in questo modo se la prenderanno con me! - E cosa vuoi che ti facciano? - rispose Ippolita con impazienza. - Mica possono picchiarti, sei un'ospite. Tutt'al più ti rimanderanno dai tuoi; ma tanto ci devi tornare in tutti i modi, cosa ci staresti a fare qui senza di me? Già. E questo voleva dire che da domani mattina la mia vacanza al castello era bell'e finita. Mi venne quasi da piangere. Mi pareva di capire soltanto adesso che cosa preziosa, unica, è una vacanza. Fa male dentro, restarne senza prima del tempo. Fossi anche vissuta fino a cent'anni e fossi diventata milionaria e avessi fatto tre volte il giro del mondo con lo iòtYacht (inglese; pronuncia iòt): panfilo; bastimento da diporto, a vela o a motore., avrebbe continuato lo stesso a mancarmi fino alla fine dei secoli (mi pareva) quel pezzetto di vacanza al castello che ancora mi toccava e che invece stavo per perdere. E non parliamo del peggio. Le prese in giro dei miei fratelli, a vedermi tornare con l'accompagnamento di Remigio-carceriere; eh sí, perché il signor conte figuriamoci se si sarebbe degnato, tanto piú che di sicuro sarebbe stato furibondo con me, ossignoresignoresignore che imbroglio. E papà, chissà come si sarebbe mortificato. E la mamma... Non riuscivo nemmeno a figurarmi cosa avrebbe detto, la mamma. Era lei la piú severa, quando voleva. Mi ricordavo ancora di quella volta, quand'ero piccola, che mi ero voluta provare a raccontarle una bugia. Be': non mi ci ero provata piú, non dico altro. A proposito. - Guarda, - saltai su (tutti questi pensieri non ci avevano messo piú di dieci secondi a passarmi per la mente), - guarda che non mi va di raccontare le bugie. Non ci ho la pratica, mi imbroglierei subito, e dunque non so mica come farò a. a tirarla in lungo con i tuoi zii, come hai detto tu. Lei ci pensò su un momento e poi disse; - Fa lo stesso. Basta che tu non dica niente di dove sono andata. A star zitta sarai capace, no? Mi vergognavo a dire che non ne ero mica tanto sicura e che dipendeva da come me lo chiedevano, cosí risposi: - Va bene, proverò. Con tutti i miei dubbi e paterni, finora non mi ero dimostrata per niente una amica eroica, ma adesso un filino di eroismo sentivo proprio che mi stava venendo su, chissà da dove. Purché durasse. Ne avrei avuto un gran bisogno, l'indomani! Non era un bel pensiero, quello di tener testa al conte e alla contessa, furiosi e incalzanti, - dov'è Ippolita? nostra nipote dov'è? tu ne sai qualcosa! parla! - e non rispondere niente, facendo tra l'altro una figura da perfetta maleducata. Tutto sommato era più facile la parte di Ippolita, che aveva solo da volarsene via, con la pioggia o col sereno, leggera come una farfalla sulla sua bicicletta, e poi col treno, fino a Parigi, che dicono tutti che è cosí una bella città. - Beata te! - dissi con invidia. - Beata di cosa? - Di andare a Parigi. E io intanto chissà come me la caverò. - Oh, te la caverai benone. Caso mai, se non ti andasse di stare proprio zitta, puoi dire delle mezze parole, cosí nel vago. Oppure, idea! ecco come si può fare. Stasera quando andiamo a letto ti dico che mi sento poco bene... - Come fai a saperlo già adesso? - Ma che polla, - (femminile di pollo, nel senso di stupido), - sei! Sarà per finta, no? Un'astuzia, insomma. Dunque ti dico che mi sento poco bene e che domani mattina voglio dormire fino a tardi. E tu, domani, non fai altro che ripeterlo pari pari agli zii. Non è una pensata palpitante? Cosí non hai da dire bugie e si guadagna tempo lo stesso. Cosa te ne pare? Fu quello il vero momento della decisione, anche se naturalmente restavano ancora un sacco di cose pratiche da combinare. Le dico adesso, perché dopo non c'entrano piú. 1°, preparare la valigina e trovare un posto per nasconderla, che non se ne accorgesse la cameriera. 2°, cercare la bici di Ippolita - nel ripostiglio da dove non la muoveva quasi mai, tanto a usarla solo nel parco non si divertiva e per la strada senza accompagnamento non la lasciavano andare; gonfiare le gomme, oliare la catena, ecc. ecc. 3°, procurarsi con qualche scusa il pezzo di spago forte per legare la valigia sul porta- pacchi. 4°, mandare Remigio in paese sotto la pioggia (e ben gli stava, cosí imparava a fare il complice e il carceriere), a comprarle una tavoletta di quelle piú grosse di cioccolato, che è tanto nutriente e doveva servirle di provvista per il viaggio. Insomma, cose cosí. Parti tutto il resto del pomeriggio per queste cose, tra le altre occupazioni normali, le strizzate di dispiacere a tradimento per la bella vacanza che finiva e gli accessi di ridarella, perché eravamo eccitate. Ma come ho detto, il momento della grande risoluzione fu proprio quello, quando mi decisi a dire: - Già, è proprio una bella pensata. - Allora... - fece Ippolita, per concludere; e pensavo che avrebbe detto «siamo d'accordo?» o qualcosa del genere. Invece mi tese la mano e fece, col punto interrogativo: - Guic guic? Non mi venne da ridere. Era la nostra parola avventurosa, ma detta sul serio, stavolta, nel momento di imbarcarsi in un'avventura seria e vera. Cosí strinsi forte la mano tesa e risposi: - Guic guic. Seria anch'io; quasi solenne. Come se fosse una promessa.

- domandai, per farla tornare a bomba. - Oh, papà è fratello di zio Ottavio: è naturale, immagino, che ragioni un po' alla stessa maniera, anche se è piú giovane. Non era fatto per capire la mamma; non c'era proprio niente da fare. Avevo sulla punta della lingua di domandarle «Tu però gli vuoi bene?», ma queste sono domande micidiali, quando una ragazza ha i genitori che non vanno d'accordo. Dunque, zitta e mosca. Ippolita intanto aveva di nuovo messo via il ritratto, maneggiandolo con delicatezza, come se lo accarezzasse, e aveva ripreso in mano la lettera. - Poi papà ha il lavoro, - aggiunse, mentre cominciava ad aprire la busta con un dito. - Tanti lavori molto importanti. Questo che ha adesso in Brasile dovrebbe quasi esser finito, forse fra due mesi ritorna. Io in Brasile non potrei starci, per il clima, dicono che mi ammalerei. Invece quando si sono separati sono stata un pezzo con mia madre, qui - in Italia, voglio dire - e anche a Parigi. Poi però lei ha dovuto andare in America, negli Stati Uniti, perché lí si fa piú presto a ottenere il divorzio. Almeno, credo che ci sia andata per questo. E cosí sono rimasta con gli zii, per il momento. Diceva queste cose svelta svelta, buttando lí tutti quei nomi di posti lontani un po' con l'aria di vantarsene. Però a me sembrava che lo facesse apposta a prendere questo tono, per non essere compatita. Capivo molte piú cose, adesso, di Ippolita. Come ho già detto, potevo persino capire che in un certo senso mi invidiasse. Poi finalmente si mise a leggere la sua lettera; e di quel giorno non c'è da raccontare altro. Nei giorni successivi, ora che era rotto il ghiaccio, tornò ogni tanto a parlarmi in confidenza dei suoi, soprattutto per dire male degli zii. Era sicura che in parte fossero stati loro a metter su suo padre contro la mamma e a rovinare il loro matrimonio. Questo mi sembrava un modo di comportarsi veramente orribile e cosí decisi che, come amica, avevo il dovere di odiarli anch'io. Un po' mi dispiaceva, a dir la verità, perché conoscendoli meglio non mi risultavano poi niente antipatici. Lui anzi, il conte, a parlarci era persino divertente. E la contessa era molto gentile, mi chiamava sempre cava, cara cioè. È vero che mi ero accorta che lo diceva un po' a tutti, anche alla cameriera; ma insomma. In ogni modo ero decisa a non lasciarmi incantare, dato che volevo avercela con loro. Non avrei mai avuto il coraggio di dimostrarglielo, questo no, però in cuor mio ero tutta dalla parte di Ippolita, adesso, e lei lo sapeva. Se non fosse stato cosí, cioè se lei non si fosse sentita tanto spalleggiata da me, forse quel che successe dopo non sarebbe nemmeno successo.

Dunque la prima cosa che aveva detto a Ippolita l'impiegato della biglietteria, quello coi baffi stupefatti, era stata per l'appunto: - Viaggi sola? Non poteva negarlo, dunque disse: - Già. - Ma a Parigi ti aspetta qualcuno? Qui andava sul sicuro: - Sí, mia madre. - E come ti chiami, di' un po'? Faceva troppe domande. A lei venne in mente che quando si scappa di casa non si dice il nome vero alla gente che fa domande. - Rosabella Rosamini, - gli fa allora. Questo era un nome che avevamo inventato noi due per significare una signorina di quelle piene di smorfie, il tipo gnegné, insomma. Era il primo che le fosse venuto in mente, ma purtroppo come nome vero non convinceva granché. - Non credere di prendermi in giro, sai? - disse infatti l'uomo coi baffi. - Guarda clic chiamo i carabinieri. Sembrava una cosa di quelle che si dicono ai bambini piccoli per spaventarli e difatti Ippolita ci fece su una risatina. Ma in stazione un carabiniere c'era davvero. Fisso o di passaggio, questo non lo so, perché non mi è mai venuto in mente di informarmi. L'impiegato non ci mise né due né quattro a chiamarlo. Magari si era anche offeso della risatina. Altre persone intanto erano venute a quello sportello a prendere i biglietti e tutte tenevano gli occhi fissi su Ippolita, aspettando di vedere come sarebbe finita. Lei faceva la disinvolta ma cominciava a stare abbastanza sulle spine. Il carabiniere era poi un appuntato: un tizio giovane giovane, roseo come un bebé. Mica stupido, però, come presto si sarebbe veduto. Prima cosa, anche lui le domandò: - Come ti chiami? - Rosabella Rosamini - . Ormai era in ballo e non poteva rispondere diversamente. - Dove hai detto di voler andare? - A Parigi, a raggiungere mia madre che abita là. - Lo sai che ci vuole il passaporto, per andare in Francia? - Ce l'ho. Lo tirò fuori trionfalmente dalla borsetta, brava polla. Cosí l'appuntato ebbe solo da aprirlo per conoscere il suo nome vero. Un'altra cosa che Ippolita non aveva pensato era che anche a X quel nome, cioè quel cognome, che naturalmente era lo stesso degli zii, doveva per forza essere abbastanza conosciuto. Ci andavano per far compere di vestiario, per il dentista, e tante altre cose. I carabinieri poi, nemmeno a farlo apposta, li conoscevano di persona per via di un furto che c'era stato al castello l'anno prima. Dunque l'appuntato, leggendo il cognome sul passaporto, capí subito di chi era parente. Lei voleva continuare a fingere; ma niente da fare. La fuga era fallita, l'avventura finita. Si sarebbe messa a piangere ben volentieri, se non fosse stato per non dare soddisfazione alla gente che stava a guardare, compreso l'impiegato coi baffi. Stava con la testa piú alta che mai, per non rischiare che le colassero le lacrime. Quelle persone devono aver pensato che era una gran superba, oppure una delinquente incallita. Insomma l'appuntato la accompagnò al comando. Là anche il maresciallo guardò il suo passaporto e fece qualche domanda; poi telefonò al castello, come già detto. Torniamoci, al castello, per vedere cosa successe dopo la telefonata. Intanto successe che, dieci minuti dopo, Remigio era pronto con l'automobile davanti al portone. (Quello davanti, si sa.) Lo zio, pure. La zia, pronta anche lei, inappuntabile con cappellino e borsetta, perché aveva deciso di accompagnarlo. Io ciondolavo lí nei dintorni, senza perderli di vista. Li vidi entrare nell'auto. Un momento ancora, il tempo che Remigio chiudesse la portiera e tornasse al volante, e sarebbero partiti. Di botto sentii che mi tornava su un coraggio proprio eroico e mi infilai dietro a loro. - Vengo anch'io, - dissi, a muso duro. Era importante che la povera prigioniera, nel momento d'essere riacchiappata dai suoi aguzzini, avesse accanto almeno una persona che teneva dalla sua parte. Lo zio mi guardò un po' male. La zia invece disse: - Si, forse sarà meglio - . Sottovoce aggiunse: - Almeno con lei la bambina potrà sfogarsi, se... se ne avesse bisogno. Con noi non lo farebbe mai. Dal tono sembrava amareggiata. Quasi quasi mi faceva di nuovo pena. Ma cosa mi prendeva, di aver sempre pena della aguzzina della mia migliore amica? Parlottò ancora un po' col marito, sempre molto sottovoce. Capivo solo pissi pissi pissi, e sí che ero seduta di fronte, su una specie di sgabellino ripiegabile che si tirava giú quando serviva. (Non ce n'è piú di sgabellini nelle auto di adesso. Questa era molto bella, dentro, come un salottino tutto foderato di velluto. C'era perfino un vasetto smilzo smilzo per metterci dei fiori. Remigio però oggi non li aveva messi, non aveva avuto il tempo di pensarci.) A un certo punto la zia disse, un po' piú forte: - Ma perché? Non capisco che cosa avesse in mente, ecco: dato che ancora non sa, non c'era ragione di... Non me lo spiegavo tanto, questo discorso. Che cos'era che non sapeva ancora, Ippolita? Che cosa c'era, da sapere o non sapere? Mi uscí subito di testa, perché adesso la contessa si era messa a guardarmi e a me quasi mi prendeva un colpo di accidente pensando a tutte le domande imbarazzanti che poteva farmi. La domanda venne. - Senti, cara. Ippolita ti aveva forse detto qualcosa che potesse far pensare a... a questa scappata? Cielo aiutami. Cercai di tenermi nel vago. - Mah, ecco, cosí, era triste di aver la mamma lontana... Era già una risposta compromettente? D'altra parte, meno di cosí non potevo dire. Per fortuna la zia sembrò che se ne accontentasse, almeno per il momento. Strano ma vero: non aveva l'aria di sospettare di me. Nessuno disse piú niente. L'auto filava. Tutto restava indietro in un baleno, alberi, case, pali del telegrafo. Era una mattinata di un bello! le nuvolette come fiocchi di panna montata, le foglie verdi lustre che brillavano al sole. Da piangere, a pensare come ci toccava passarla male. Avrei voluto non arrivare mai. Mi ero figurata che al comando dei carabinieri dovesse esserci come una cella, magari con delle sbarre, per chiuderci i delinquenti. Invece a vederlo cosí era un ufficio come gli altri. Forse la cella era da un'altra parte (nei sotterranei?) con Ippolita chiusa dentro. Difatti lí nell'ufficio non c'era. Il maresciallo era un omone tagliato senza risparmio che batteva qualcosa a macchina pestando sui tasti con due manone come prosciutti. Smise di battere per venirci incontro, cioè venne incontro ai signori conti, io non c'entravo. Però vide che c'ero, infatti dopo i saluti domandò: - E questa ragazzina? - Una amica di nostra nipote. - Ah, bene. Anche lui doveva aver afferrato al volo che era meglio che ci fossi, caso mai Ippolita facesse delle difficoltà. Mi lasciarono in disparte parlottando fra loro tre, di nuovo pissi pissi pissi, uffa che barba. Anche l'appuntato era in disparte impalato vicino a una porta, e magari si annoiava pure lui. Avevo persino voglia di attaccare discorso, sarebbe stato giusto che ci facessimo compagnia tra noi due, dato che gli altri ci mettevano al bando. Ma forse non avrebbe risposto, per via della disciplina. - Se vogliono passare di là, - disse dopo un momento il maresciallo e l'appuntato apri la porta. Proprio allora, guarda il destino, entrò nell'ufficio un tizio scalmanato che aveva da denunciare qualcuno o qualcosa. Che cosa, o chi, non l'ho mai saputo di preciso, perché era una storia complicata. C'entravano certi vicini, un cane, anzi due cani e anche delle galline, sembrava l'arca di Noè. Il maresciallo tornò a dirci di passare. Si capiva che voleva venire di là con noi, ma quel tale era un tremendo attaccabottoni e non lo mollava. Era inutile dirgli che i signori conti c'erano da prima: lui non rispettava nessun conte e nessuna precedenza. Continuava a ripetere: - Lei ce lo deve dire, maresciallo, a quegli altri là! - Quegli altri là erano i vicini. E diceva anche: - Se mi velenano il mio, - (di cane), - io ci veleno il loro! Questa è giustizia! Anzi diceva giustissia, con due esse. Aveva la bava alla bocca, non c'era verso di calmarlo né di interromperlo. Allora disse, il maresciallo: - Entrino, prego Li raggiungo subito. Io pensavo che certo, nel mentre che dava retta all'attaccabottoni, avrebbe mandato l'appuntato a prendere Ippolita nella cella o in qualsiasi altro posto fosse. Insomma siamo passati di là, i conti e io, senza altro accompagnamento. C'era come una specie di sala d'aspetto, divisa a metà da una panca di legno scuro con lo schienale molto alto. Non c'era altro mobile, almeno nella metà che si vedeva. L'altra era nascosta dallo schienale della panca. (È importante spiegare bene tutto, se no dopo non si capisce.) Il conte andò a mettersi davanti a una finestra che c'era nella metà visibile. Mica che guardasse fuori; si tirava solo i baffi, con aria seccata. Sua moglie si sedette in punta alla panca. L'aria che aveva lei, era di star pensando a tutte le persone poco fini, come dire delinquenti e parenti di delinquenti, che potevano essersi sedute in quel medesimo punto; e di averne un grandissimo ribrezzo. - Non me lo sarei mai aspettato, - cominciò infatti a dire, - di dover venire a cercare una mia nipote in un posto simile. Non me lo aspettavo proprio da Ippolita, che ci costringesse a questo. Una simile ingratitudine! Ingratitudine, ah questa poi. Si aspettava che le fosse anche riconoscente, dopo i bei trattamenti che le aveva fatto? Era tanto grossa che scoppiai fuori quasi senza accorgermene: - Be', ma è colpa loro, in fondo! Non capirono; o facevano finta. - Loro... di chi? Mi feci piccola piccola: - Be', vostra. Subito dopo avrei voluto scomparire, essere inghiottita dal pavimento, qualsiasi cosa. Mi guardavano, tutt'e due, come se fosse stata la panca a mettersi a parlare e per di piú avesse detto chissà quale enormità. - Prego? - fece il conte, molto dall'alto in basso. Da congelarmi sul posto. E lei, idem: - Che cosa vuoi dire? spiegati. Congelata o no, ormai dovevo andare avanti per forza. - c'è la faccenda delle lettere, - dissi, sulla difensiva. - Naturale che Ippolita l'abbia presa male. - Lettere? - Pareva proprio che cascassero dalle nuvole. - Quelle di sua madre, no? - Ero tutta sudata, ma zitta non stavo, nossignori. - È tanto ormai che non ne riceve. E sarebbe colpa nostra? - fece il conte. - Be', per forza. Chi altri potrebbe avergliele nascoste? Era detta. Calò un silenzio da affettare col coltello. La contessa pareva diventata una statua. Poi strinse le mani sul manico della borsetta - forse aveva voglia di tirarmela in testa - e disse queste precise parole: - Piccola vipera! Fu la prima e l'ultima volta in vita mia che mi beccai questo titolo. Mica male, per una che aveva fin la stufa di passare sempre da brava ragazza giudiziosa! Non si fermò qui. Continuava che era una bellezza. - Osi insinuare che saremmo capaci di sottrarre delle lettere destinate a nostra nipote? di tenergliele nascoste, sapendo con che ansia le aspetta? Ma come ti è potuto venire in mente? Mai, tientelo per detto, mai, mai mio marito o io faremmo una cosa simile! Con ogni mai dava uno scrollone alla borsetta, da tanto parlava con convinzione. Di botto mi venne un pensiero terribile, cioè che probabilmente stava dicendo la pura verità. Suo marito invece non diceva niente. Mi guardava soltanto, tra compassionevole e schifato; ma più schifato, almeno mi pareva. Come se non fossi nemmeno una vipera, solo un miserabile verme. - Ma allora, - balbettai, sentendomi verme, - le lettere che non arrivavano... Se non erano stati loro a farle sparire, forse non era nemmeno vero che fossero degli aguzzini e Ippolita loro prigioniera. E allora che cosa venivo ad essere io, per averlo pensato? Risposta: un verme. Stavolta parlò lui: - Non arrivavano, perché sua madre ultimamente non gliene ha scritte. Poi lei, a ruota: - Aveva delle difficoltà a farlo. Ha scritto a me, ieri, pregandomi di preparare Ippolita a... a quello che aveva da comunicarle - . (La busta crema. Era questo, allora, che c'era dentro.) - Ma la bambina è tanto chiusa, con noi... È cosí difficile trovare il modo giusto per parlarle... Pareva che le venisse da piangere. Capii in un lampo che, altro che aguzzina, era una pasta di donna, questa qui, anche se era un'aristocratica. Capii, cioè, che io e Ippolita non avevamo capito niente: era tutto più meno all'incontrario di come ci eravamo figurate. - Non solo il modo, anche il momento, - proseguÍ, rimestando nella borsa per cercare il fazzoletto. - Ieri non c'era verso, nemmeno a farlo apposta eravate sempre insieme, ancora più del solito -. Mi ricordai di come aveva cercato di separarci per la passeggiata e non c'era riuscita. - Volevo dirglielo stamattina, ma lei era già andata via... Allora, per un momento, ho persino pensato che... ho avuto paura che l'avesse saputo, chissà in che modo, e fosse scappata per il dispiacere. Assurdo: perché non poteva ancora esserne a conoscenza, naturalmente. - Ma essere a conoscenza di cosa? Crepavo, a questo punto, se non me lo diceva. - Ma si, è bene che anche tu lo sappia. Sei cosí una buona amica, per Ippolita. Dunque non ero già più una vipera. Questo mi avrebbe fatto sentire ancora piú verme, se non fossi stata tanto occupata a crepare di curiosità. - Il fatto è, - concluse, - che a New York sua madre si è risposata. Rimasi un po' lí. Cosí sul momento non mi sembrava una notizia tanto tragica, da dover fare dei preparativi speciali prima di decidersi a darla. Dipende dai casi, si sa. Certo che a me sarebbe dispiaciuto da matti, se la mia mamma da un giorno all'altro avesse sposato uno che non fosse mio papà. Non riuscivo nemmeno a figurarmela, una cosa simile. Ma avevo già visto che Ippolita in questo non ragionava proprio come me. - Forse non le rincrescerà tanto, - dissi, ottimista. - Per lei sua madre ha sempre ragione. Basta che possano tornare a stare insieme, poi... - Ma non capisci. È proprio questo il punto. In pratica, risposandosi, mia cognata (la mia ex cognata, ormai) rinuncia a tenerla con sé. - Non solo in pratica, Augusta, - precisò il conte. - Fa differenza anche di fronte alla legge, se interviene un secondo matrimonio. In quel preciso momento... Ossignoresignoresignore, se ci penso mi viene ancora male. Sentii un rumore, un movimento dietro lo schienale, nel punto dove stavo appoggiata. Poi, proprio sopra di me, una voce sottile fece: - Non è vero! Scattai su come se avessi preso la scossa e sopra lo schienale della panca vidi la testa di Ippolita. La testa sola, collo compreso. La faccia grigia, da tanto che era pallida. E quella faccia continuava a dire, sempre con lo stesso vocino sottile, da non riconoscerlo per suo: - Non è vero! Non può essere vero! La mia mamma non può avermi fatto questo! Ci misi un momento a capire come era andata la faccenda.

Pagina 103

I miei amici di Villa Castelli

214435
Ciarlantini, Franco 8 occorrenze
  • 1929
  • Fr. Bemporad & F.°- Editori
  • Firenze
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Le nubi candide, che a maggio ancora passavano lente per il cielo, sono scomparse e una grande serenità si diffonde per l'aria. Su l'aia di Mario, in certe ore pomeridiane tutto pare che dorma, specialmente nei giorni festivi. Il cortilone è bianco per troppa luce e le ombre sembrano più scure. I bambini sono raccolti sul piazzale della chiesa e giocano a palline coi noccioli di ciliegia, d'albicocco o di pèsca. Gli uomini sono andati al borgo vicino o si riposano sotto qualche pergola. Le donne stanno in casa nelle stanze più fresche, tendendo l'orecchio per udire quando si svegli, strillando, il bimbo più piccolo che è nella culla. Appena appena qualche gallina esce sull'aia a becchettare o a razzolare; appena appena dalle stalle giungono i soffi profondi dei buoi, il battere degli zoccoli dei cavalli e il rumore delle catene smosse. Per l'aria si sparge invece l'odore del fieno di cui son colmi i fienili, l'odore acuto delle ultime acacie in fiore e delle piante di tiglio, profumi intensi che invitano a dormire.

Pagina 107

Il paiolo appeso sopra la grossa fiamma, continua a borbottare forte: blo-bloblò-blo-bloblò Ancora un momento e le prime castagne di ottobre saranno gustate dai ghiotti bambini. Mamma Vittoria ora stacca il paiolo dalla catena del camino, scola l'acqua delle castagne e mentre tutti gli occhi dei piccoli sono rivolti a lei, ella stende sulla tavola grande le castagne e incomincia a distribuirle. Ciascuno siede in silenzio gustando la sua parte e mamma Vittoria guarda i suoi bimbi contenti.

Pagina 12

Il gioco che piace di più a Pietrino lo conoscon tutti i bambini. Vorrebbe far sempre quello e implora : -Oh, mamma, si fa a gira gira rota? -Ho altro per il capo, bimbo mio- risponde la buona mamma che deve accudire alla cucina. Ma il bimbo insiste e la mamma che non sa dire di noquando il bimbo è garbato, tralascia le faccende per un momento, prende l'anello dalla tasca, lo nasconde in una mano, finge di averlo anche nell'altra e le gira entrambe a mulinello, e il bimbo con gli occhi ridenti dalla gioia le tocca ripetutamente mentre la mamma dice: «Gira gira rota, quale è piena e quale è vuota» Il bimbo canterella: «Però però, dimmi il vero! non mi dire una bugia, dimmi tu qual' è la mia!» Alla fine sceglie la sua; ma sbagli o indovini vorrebbe ricominciare da capo, finchè la mamma non lo manda a raggiungere i fratellini.

Pagina 33

L' OZIOSA La zia Conceda diceva a Bianchina, una bimba assai svogliata:

Pagina 34

LE NOVELLE DELLA NONNA Nonna Giuuditta sferruzza vicino al focolare e intorno a lei i quattro nipotini chiedono che racconti qualche novella perché oggi è giornata di pioggia e non si può andare. Fa freddo e i monti lontani sono già coperti di neve. Il babbo è nella capanna che riaccomoda gli arnesi da lavoro per quando tornerà il bel tempo. Mamma Vittoria rammenda i giubboncini e siede vicino alla finestra per vederci meglio. Ma i bimbi non le dànno tregua; essi vogliono una novella e la buona nonna invece delle novelle narra la storia della nascita di Gesù «Una volta nacque un bel bambino: faceva tanto freddo e la mamma non aveva di che coprirlo nè fuoco per scaldarlo. Un asinello si accostò al bambino bello col suo morbido pelo lo riscaldò. Intanto si fece intorno una gran luce e un Angelo si mise a carezzare il bambino annunciando forte che era nato il Salvatore del Mondo, Gesù. Tutti i pastori, a questo annunzio vennero da ogni parte a trovare il bambino cantando gloria a Dio nel più alto dei cieli, e si misero nella capanna ad adorarlo». A questo punto nonna Giuditta con una voce fioca intona la laude:

Pagina 40

LA ZINGARELLA Mario è andato coi suoi compagni a vedere una comitiva di zingari che si è fermata appena fuori del paese. Povera gente, ha per casa una rozza baracca oscillante sopra le ruote. V'eran due uomini bruni di pelle e alcune donne scarmigliate e vestite di cenci variopinti; c'era pure una bimba di forse cinque anni infagottata in una giacca militare col capo avvolto in uno scialletto di lana. Da questo però appariva un visetto rosso e due occhietti neri vivi come quelli degli uccellini. Essa andava qua e là mentre gli uomini stavano accoccolati sui calcagni intorno a un foco che avevano acceso all'aperto e sul quale le donne cuocevano la cena in unapentola fuligginosa. A un tratto la bimba si trovò d'accanto a Mario, il quale le chiese: - Di dove vieni? Ella Io guardò un momento, poi rispose: - Non so. - E allora dove vai? - Ma la bambina scosse il capo e disse ancora: - Non so - poi stese la manina e domandò a sua volta: - Dammi qualcosa. - Mario diventò rosso; ma siccome i compagni non lo vedevano ebbe il coraggio di darle una monetina di quelle che il babbo gli aveva regalato la vigilia, poi si allontanò da lei. Ma già la bambina saltellando contenta era andata con gli altri a dividere all'aria aperta il suo povero cibo.

Pagina 45

Ogni bambino dice a se stesso che vuoi essere proprio savio, così da non meritare più castighi da nessuno. Anche Mario ha promesso alla mamma di essere sempre savio. Che bella cosa se sapesse mantenere i suoi proponimenti fino alla fine dell'anno! Scriviamo intanto qui alcuni pensieri che non dobbiamo dimenticare mai e che ci faranno buona compagnia se sapremo metterli in pratica: Perdona molto a tutti, ma niente a te. L'ordine è pane, il disordine è fame. Punti lunghi e mai tirati, oggi cuciti, domani strappati. Chi sa ha dieci occhi, chi non sa è cieco affatto. Chi vuoi ben parlare, ci deve ben pensare.

Pagina 49

Un giorno passeggiando per una via di campagna trovò un ragazzo che teneva in una gabbia quattro bellissime tortore selvatiche Il Santo gli domandò dove si recasse con quelle povere bestiole, e saputo che il ragazzo le portava a vendere al paese, gli disse con voce angelica : -Puoi darle a me, per amor di Dio?— Il ragazzo non seppe dir di no a quella dolce implorazione e consegnò subito le tortorelle a San Francesco. - Iddio vi ha creato tortorelle perchè voliate libere nel cielo: andate pure! - E in così dire il Santo aprì la gabbia alle bestiole che volarono felici pel cielo. Il ragazzo non seppe pronunziar parola e guardò estasiato San Francesco.

Pagina 96

Sempronio e Sempronella

214747
Ambrosini, Luigi 6 occorrenze
  • 1922
  • G. B. Paravia e C.
  • Torino - Milano - Padova - Firenze - Roma - Napoli - Palermo
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Comare Assunta staccò la padella dal chiodo e la diede a Trottolina. - Grazie - disse Trottolina e via di corsa a casa. La sera le frittelle erano pronte. Trottolina si metteva in bocca la prima, quando udì cantare chicchirichì, e si ricordò del gallo. Sebbene il gallo fosse stato un prepotente, Trottolina volle mantenere la promessa. Prese due frittelle e le buttò per la finestra. Ma, mentre il gallo allungava il becco, ecco sopraggiungere il gatto, il quale credeva che le due frittelle fossero per lui, e in un lampo gatto e gallo s'azzuffarono. Proprio sul più bello arrivò il cane: e già abboccava le frittelle, quando gli saltò addosso il lupo, e cane e lupo s'addentarono. Allora venne fuori la mamma con un grosso bastone in mano, e giù botte a destra e a sinistra. Il gallo stramazzò con la testa rotta: il gatto ci perse i baffi; il cane ci lasciò la coda; il lupo se ne andò tutto spelacchiato. Queste furono le frittelle che toccarono a quei prepotenti. E Trottolina richiuse la finestra e mangiò le frittelle, e da ultimo, come il suo solito, non potè tenersi dal leccarsi le dita.

A metà maggio, i peri, i meli, i mandorli, i peschi innalzavano sui tronchi i mazzi del loro verdeggiante fogliame. Le ciliege rosseggiavano a coppie, a mazzi e parevano dondolarsi a cavalluccio dei rami. Gli albicocchi a spalliera rivestivano tutto un muro e mostravano i bei frutti gialli, che facevano venire l'acquolina in bocca. - Nel recinto di questo frutteto - disse il signor Cominetti - la natura osserva il suo calendario, come fa nei giardini e nei campi. Di mese in mese ella inscrive i suoi messaggi sugli alberi e sui frutti, anzi ogni settimana ella opera i suoi mutamenti, che indicano il passaggio delle stagioni. Voi dovreste venire spesso a trovarmi, per seguire da presso i progressi delle mie piante, e gustare le più squisite qualità di susine, di pesche, di pere, di mele, di nespole. Intanto prendete là quel panierino ed empitelo di fragole. I nostri piccoli amici scesero alcuni gradini, e, percorso un vialetto fiancheggiato da una folta siepe d'uva spina e di ribes, si trovarono in una specie di vasto campo tutto lavorato a solchi, e sotto un denso fogliame videro le piccole, odorosissime fragole. Il signor Cominetti raccomandò ai ragazzi di raccogliere solo le più mature e di passare guardinghi da un solco all'altro, per non danneggiare le pianticene. Sempronio e Sempronella deposero alcune foglie sul fondo del cestello, poi raccolsero i frutti, posandoli con cura, e ogni tanto abboccandone qualcuno. Erano così dolcigne e così profumate quelle fragole! Quando il cestello fu ripieno, i due ragazzi si levarono, così contenti del bel dono, che non trovarono parole per ringraziare l'amico del loro ottimo maestro. A tavola le fragolette furono condite con zucchero e vino bianco, e furono la delizia dei tre commensali.

SEMPRONIO DISEGNA Anche a Sempronio venne la voglia di disegnare. Quando non aveva nulla da fare, prendeva un foglio di carta e una matita, e si metteva a copiare ora una cosa ora un'altra. Un giorno disegnava un albero: schizzava il tronco, i rami, le foglie. Un giorno disegnava un fiore, una rosa o un bel papavero. Se egli avesse avuto una scatola di colori avrebbe anche dipinto; ma pensando a Giotto, che cominciò a disegnare sul tufo, Sempronio si accontentava di avere carta e matita. Egli era pieno di buona volontà. Non faceva i miracoli di Giotto, ma ognuno fa quello che può. Ed egli era contento, perchè il disegnare gli serviva a molte cose: a non stare mai in ozio e ad osservare gli oggetti meglio che non faceva prima quando non disegnava, e meglio che non facciano di solito gli altri bambini, i quali guardano tutto, ma vedono poco. Tutti i bambini sanno che il cane e il gatto hanno due orecchi. Ma solo Sempronio sapeva come sono gli orecchi dei gatti, e quante forme hanno gli orecchi dei cani. Egli lo sapeva perchè osservava. E osservando gli oggetti per disegnarli, il disegno era per lui una istruzione.

Pagina 37

LA CASA DEL MAESTRO SAVERIO Sempronio e Sempronella si presentano rispettosamente a maestro Saverio. Sempronio gli dice: - Signor maestro, io non so neanche stampare un O con un bicchiere. Le sarei riconoscente se m'insegnasse a scrivere! E Sempronella: - Io non so contare più là del due. M' insegna l' aritmetica, perchè io possa almeno contare le uova che mi fanno le galline? - V'insegnerò tutto quello che volete - risponde maestro Saverio, carezzando i due contadinelli. - Entrate, entrate! E accoglie in casa i piccoli analfabeti. Come è felice il buon maestro di avere due nuovi scolari! Egli è come il pastore che vede aggiungersi due agnellini al gregge. Ora maestro Saverio conduce i ragazzi a visitare la casa. È una bella casa bianca, ariosa, pulita come uno specchio: e vede il sole sorgere e tramontare. Di sotto è il porticato, la stalla con due mucche e l'asinello, l'orto e il pollaio. Per una scaletta si sale alla loggia, dove è la dispensa delle frutta. Di lassù si mira la campagna, i lunghi filari di viti appoggiati agli alberi, che in ottobre cominciano a perdere le foglie. Si vede la terra bruna, lavorata di fresco. Un'altra scaletta conduce all'abbaino, che dà sul tetto. - Guai a voi se salite sui tetti! - dice maestro Saverio. - Sui tetti lasciateci andare i gatti, e, quando occorra, i muratori. - Ecco il pollaio - aggiunge poi maestro Saverio, facendo girare Sui cardini un cancello. È un pollaietto con dieci galline impennacchiate e un gallo maestoso. - Piro, piro... - fa Sempronella, rovesciando a terra le molliche che le sono rimaste in fondo alle tasche. Tutto il pollaio svolazza a' suoi piedi, e chi non può beccare la mollica becca la cresta al compagno vicino. C'è anche la conigliera, con due paia di conigli dalle orecchie lunghe e dagli occhi rossi come lanternini accesi. - Chi accudisce a questi animali? - domanda Sempronella. - Io stesso. Finita la lezione, vengo a dare il becchime ai polli, ripulisco il covo ai conigli, cambio l'acqua. Se vuoi, d'ora innanzi, sarai tu la custode del pollaio. A Sempronella par di essere una regina.

Pagina 5

Certe sere ella appare rotonda. come un disco: altre volte somiglia a una falce. Quando la luna è piena par di vederci disegnata la faccia di un uomo, col naso, gli occhi e la bocca. La genie dice che quella è la faccia di Caino. Una sera la luna fece uno scherzo a Sempronella. Il maestro le aveva detto: Va' in cucina a prendere un bicchiere d'acqua. Sempronella ubbidì, ma eccola tornare senza bicchiere e smorta di paura. Che li è accaduto? Signor maestro, in cucina c'è un fantasma vestito di bianco. Il maestro prese il lume e ridendo disse: Vieni, vieni, andiamo a prendere il fantasma. Il maestro andò in cucina verso il luogo indicato dalla fanciulla e non trovò altro che un panno bianco, disteso sulla spalliera d'una seggiola, sul quale batteva in pieno la luce della luna. Il panno s'era agitalo quando Sempronella aveva aperto l'uscio e così la fanciulla aveva veduto un fantasma!

Pagina 54

Chi gli insegnò a leggere le vocali, chi gli insegnò a leggere le consonanti, e chi gli insegnò a leggere i numeri. Così un po' per giorno a forza di buon volere, si dirozzava. Ma egli avrebbe voluto fare ben altro!

Pagina 66