Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Se non ora quando

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Levi, Primo 2 occorrenze

Durante le fermate, che avvenivano di giorno, e per lo più in casupole contadine abbandonate, si coricava per dormire scegliendo il posto più vicino alla porta, e dormiva poco; si svegliava di soprassalto, si guardava intorno inquieto, spiava fuori dalla porta o dalle finestre. In un mattino grigio di nuvole, dopo una tappa notturna che aveva affaticato tutti, Mendel stava raccogliendo legna nel bosco e se lo vide accanto, che raccoglieva legna anche lui, sebbene nessuno glielo avesse ordinato. Era dimagrito e teso, aveva gli occhi lucidi. Si rivolse a Mendel con aria complice: _ Lo hai capito anche tu, non è vero? _ Capito che cosa? _ Che siamo venduti. Non possiamo più farci illusioni. Siamo venduti, e ci ha venduti lui. _ Lui chi? _ chiese Mendel sbalordito. Leonid abbassò la voce: _ Lui, Gedale. Ma non poteva fare diversamente, lo ricattavano, era un burattino nelle loro mani _. Poi fece cenno con l' indice sulle labbra di fare silenzio, e riprese a raccogliere legna. Mendel non raccontò l' episodio a nessuno, ma pochi giorni dopo Dov gli disse: _ Quel tuo amico ha delle idee strane. Dice che Gedale lavora per l' NKVD o per non so quale altra polizia segreta, che loro lo ricattano, e che noi siamo tutti ostaggi nelle loro mani. _ Qualcosa del genere ha detto anche a me, _ disse Mendel. _ Che fare? _ Niente, _ disse Dov. Mendel si ricordò di avere paragonato Leonid a un orologio inceppato dalla polvere; adesso, invece, Leonid gli ricordava certi altri orologi che gli avevano portati da riparare: forse avevano preso un urto, le spire della molla si erano accavallate, un po' ritardavano, un po' avanzavano follemente, e finivano tutti col guastarsi in modo irrimediabile. L' estate era fulgida e ventosa, e i gedalisti si accorsero di essere entrati nel paese della fame. Le raccomandazioni di Gedale, di evitare i contatti con la gente del luogo, si rivelarono superflue, se non ironiche. Non c' era molta gente, in quelle campagne: nessun uomo, poche donne; sulle soglie delle fattorie devastate, solo vecchi e bambini. Non era gente di cui si dovesse avere paura, anzi, erano essi stessi sigillati dalla paura. Pochi mesi prima, i partigiani dell' Armata Interna polacca avevano scatenato un attacco ai presidi4 tedeschi della zona, mentre a sud di Lublino reparti paracadutati sovietici interrompevano le linee di comunicazione tedesche che portavano munizioni e rifornimenti al fronte. Altri reparti polacchi avevano fatto saltare in aria ponti e viadotti, ed avevano attaccato un villaggio da cui i tedeschi avevano allontanato con la forza i contadini nel 1942 per installarvi i coloni del Reich Millenario. La rappresaglia tedesca si era estesa a tutta la zona ed era stata feroce. Non si era rivolta contro le bande, pressoché inafferrabili, che si erano rifugiate nelle foreste, ma contro la popolazione civile. I tedeschi avevano fatto accorrere rinforzi dalle lontane retrovie; di notte accerchiavano i villaggi polacchi e li incendiavano, oppure deportavano tutti gli uomini e le donne in età di lavoro: gli concedevano mezz' ora di tempo per prepararsi al viaggio, poi li caricavano sui loro autocarri e li portavano via. In alcuni paesi avevano dedicato la loro attenzione ai bambini: deportavano in Germania i bambini dall' aspetto "ariano" e uccidevano gli altri. I villaggi, poveri da sempre, erano ridotti ad ammassi di ruderi affumicati e di macerie, ma i campi erano rimasti indenni, e la segala matura aspettava invano chi la mietesse. L' iniziativa venne da Mottel. Era andato a chiedere acqua ad un casolare isolato, a forse un chilometro dal villaggio di Zborz, e ci aveva trovato una vecchia sola, coricata sulla paglia della stalla, ma nella stalla bestie non ce n' erano più. La vecchia faticava a muoversi, aveva una gamba rotta che nessuno le aveva curato. Aveva detto a Mottel che andasse al pozzo, prendesse tutta l' acqua che voleva, e ne portasse un poco anche a lei. Ma che le portasse anche qualcosa da mangiare: qualunque cosa. Era digiuna da tre giorni, ogni tanto qualcuno del villaggio si ricordava di lei e le portava una fetta di pane. Eppure nel campo lì davanti c' era segala da nutrire una grossa famiglia, ma alla prima pioggia sarebbe marcita, perché per falciarla non c' era nessuno. Mottel riferì a Gedale, e Gedale decise all' istante. _ Dobbiamo aiutare questa gente. La nostra guerra è anche questo. È l' occasione buona per fargli capire che veniamo da amici e non da nemici. Jòzek storse la faccia: _ Da queste parti non ci hanno mai voluto bene; prima che i tedeschi bruciassero le loro case, loro bruciavano le nostre. Non vogliono bene agli ebrei, e neanche vogliono bene ai russi, e molti di noi sono ebrei e russi. Sanno che cosa è successo ai contadini russi negli anni venti, e hanno paura della collettivizzazione. Aiutiamoli, ma stiamo attenti. Tutti gli altri, invece, furono d' accordo senza riserve: erano stanchi di distruggere, stanchi delle opere negative e stupide a cui la guerra costringe gli uomini. I più entusiasti erano Piotr e Arié, che erano pratici dei lavori della campagna. Mottel aveva riferito che il tetto della "sua" vecchia era sfondato, e Piotr disse: _ Lo riparerò io. Sono bravo a rattoppare i tetti di canne, è un lavoro che facevo al mio paese, mi pagavano per farlo. Ma adesso, per riparare il tetto della tua vecchia, darei tanti rubli quanti me ne davano; se li avessi, beninteso, perché invece non li ho. La vecchia accettò, Piotr si mise al lavoro aiutato da Sissl, e pochi giorni dopo un uomo anziano dai baffi spioventi fu visto aggirarsi nei dintorni. Faceva le viste d' interessarsi d' altro: raddrizzava paletti, controllava le paratie dei fossati benché questi fossero disperatamente asciutti, ma spiava da lontano il lavoro dei due. Un giorno si presentò a Piotr e gli rivolse in polacco diverse domande; Piotr finse di non capire e andò a cercare Gedale. _ Sono il Burmistrz, il sindaco del villaggio, _ disse il vecchio con dignità, benché avesse piuttosto l' aspetto di un mendicante. _ Chi siete voi? Dove andate? Che cosa volete? Gedale si era presentato al colloquio disarmato, in maniche di camicia, in brache borghesi lacere e stinte, e con il cappello di paglia che aveva comperato. Parlava polacco senza accento jiddisch, e per chiunque sarebbe stato difficile appurare la sua condizione. Da principio fu cauto: _ Siamo un gruppo di dispersi, uomini e donne. Veniamo da diversi paesi, e non vogliamo farvi del male. Siamo di passaggio, andiamo molto lontano, non vogliamo disturbare nessuno, ma non vogliamo neppure essere disturbati. Siamo stanchi ma abbiamo le braccia buone: forse vi possiamo essere utili in qualche cosa. _ Per esempio? _ chiese il sindaco diffidente. _ Per esempio potremmo mietere, prima che la segala si guasti. _ Che cosa volete in cambio? _ Una parte del raccolto, quella che ti sembrerà giusta; e poi acqua, un tetto, e che si parli poco di noi. _ Quanti siete? _ Una quarantina; cinque sono donne. _ Sei tu il loro capo? _ Sono io. _ Noi siamo meno di voi: neppure trenta, contando anche i bambini. Guarda che denaro non ne abbiamo mai avuto, bestiame non ne abbiamo più, e non ci sono neppure donne giovani. _ Peccato per le donne giovani, _ rise Gedale, _ ma non è questo il nostro primo pensiero. Te l' ho detto, ci bastano l' acqua, il silenzio, e se possibile un tetto sotto cui dormire qualche notte. Siamo stanchi di guerra e di cammino, abbiamo nostalgia dei lavori di pace. _ Anche noi siamo stanchi di guerra, _ disse il sindaco; e subito aggiunse: _ Ma sapete mietere? _ Siamo fuori esercizio, ma ce la caviamo. _ A Opatòw c' è il mulino, _ disse il sindaco, _ e pare che funzioni. Falci ce ne sono, quelle ce le hanno lasciate. Potete incominciare domani. Andarono a mietere tutti gli uomini di Blizna e di Ruzany, e in più Arié, Dov, Line e Ròkhele Nera, a cui si aggiunse Piotr quando ebbe finito di rassettare il tetto: una ventina in tutto. Arié era il più pratico, e insegnò a tutti gli altri come si rizzano i covoni e come si affila la falce prima con il martello e poi con la cote. Anche Piotr si dimostrò bravo e resistente alla fatica. Line stupì tutti: esile com' era, mieteva dall' alba al tramonto senza mostrare segni di stanchezza, e sopportava senza disagio il calore, la sete e il nugolo di tafani e di zanzare che si era subito radunato. Non era la prima volta che faceva quel lavoro: lo aveva fatto mille anni prima, presso Kiev, in una fattoria collettiva in cui i giovani sionisti si preparavano all' emigrazione in Palestina, al tempo remoto in cui essere sionisti e comunisti non era ancora diventata una contraddizione assurda. Lavorava bene anche Dov, benché gli pesassero gli anni e le ferite. Neanche per lui era un' esperienza del tutto nuova: aveva mietuto i girasoli quando era confinato a Vologda, dove i giorni d' estate erano lunghi diciotto ore e bisognava lavorarle tutte. Gli altri della banda, fra cui Mendel, Leonid, Jòzek ed Isidor, si distribuirono nel villaggio a fare diversi lavori che il sindaco aveva indicati: c' erano pollai da rimettere in ordine, altri tetti da riparare, orti da zappare. Superata la prima diffidenza, si venne a sapere che c' erano anche patate da raccogliere, e furono le patate stesse a fare da cemento fra gli ebrei vagabondi e i contadini polacchi disperati, a sera, sotto le stelle dell' estate, seduti nell' aia, sulla terra battuta ancora calda di sole.

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Sul piazzale davanti alla brutta facciata di pietra circolava qualche tram e qualche rara automobile; c' erano aiuole che erano state trasformate in orti di guerra, poi erano state saccheggiate ed abbandonate, e si stavano coprendo di erbacce. Vi erano state montate delle tende, davanti a cui donne dall' aspetto misero facevano cucina su fuochi improvvisati. Altre donne si accalcavano intorno alle fontanelle, con latte, pentole e recipienti di fortuna. Tutto intorno erano palazzi smozzicati dalle bombe. Soltanto Pavel conosceva qualche parola d' italiano, imparata al tempo in cui girava l' Europa come attore. Mostrò l' indirizzo a un passante, che lo guardò in viso con diffidenza e poi gli rispose irritato: _ Non c' è più! _ Che cosa non c' era più? L' indirizzo era sbagliato? O l' edificio era crollato? Il colloquio era faticoso, inceppato dalla reciproca incomprensione: _ Fascio, fascismo, fascisti, niente, finito, _ badava a ripetere il passante. Pavel finì col capire che a quell' indirizzo c' era stato un comando fascista importante, ma che adesso non c' era più; comunque, il milanese gli spiegò del suo meglio la strada che doveva tenere. C' era da camminare tre chilometri: che cosa sono tre chilometri? Una cosa da ridere. Si misero in via, timidi e curiosi; mai, in tutto il loro lunghissimo cammino, si erano sentiti tanto stranieri. Era primo pomeriggio. Procedevano in fila disordinata, attenti a non perdere di vista Pavel che marciava in testa, ma spesso lo trattenevano per potersi guardare attorno. A ruderi anneriti si alternavano alti edifici intatti, pretenziosi; molti negozi erano aperti, le vetrine rigurgitavano di merci piene di tentazioni sotto le insegne incomprensibili. Solo intorno alla stazione c' era gente miserabile; i passanti che incontravano nelle strade del centro erano ben vestiti e rispondevano affabilmente alle loro domande, cercando di capire e di farsi capire. Via Unione? Avanti diritto, ancora due chilometri, ancora uno; Duomo, Duomo, non capire? Piazza del Duomo, e poi ancora avanti. Davanti alla mole del Duomo, butterato dai bombardamenti, si arrestarono ombrosi, sporchi e intimiditi, carichi dei loro fagotti scoloriti dal sole; furtivamente, Piotr si segnò con le tre dita riunite, alla maniera russa. In via Unione ritrovarono un' atmosfera che era loro più familiare. L' Ufficio Assistenza pullulava di profughi, polacchi, russi, céchi, ungheresi; quasi tutti parlavano jiddisch; tutti avevano bisogno di tutto, e la confusione era estrema. C' erano uomini, donne e bambini accampati nei corridoi, famiglie che si erano costruiti ripari con fogli di compensato o coperte appese. Su e giù per i corridoi, e dietro gli sportelli, si affacendavano donne di tutte le età, trafelate, sudate, infaticabili. Nessuna di loro capiva il jiddisch e poche il tedesco; interpreti improvvisati si sgolavano nello sforzo di stabilire ordine e disciplina. L' aria era torrida, con sentori di latrina e di cucina. Una freccia, ed un cartello scritto in jiddisch, indicavano lo sportello a cui dovevano far capo i nuovi venuti; si misero in coda ed attesero con pazienza. La coda procedeva a rilento, e Mendel meditava pensieri informi e contrastanti. Mai tanto straniero, anche lui: russo in Italia, ebreo in cospetto del Duomo, orologiaio di villaggio in una grande città, partigiano in tempo di pace; straniero di lingua e d' animo, straniero estraniato da anni di vita selvaggia. Eppure, mai prima, in nessuno dei cento luoghi che avevano attraversati, aveva respirato l' aria che respirava qui. Straniero, ma accettato, e non solo dalle signore gentili dell' Ufficio Assistenza. Non tollerato ma accettato; nei visi degli italiani a cui dal Brennero in poi si erano rivolti c' era talora un lampo di diffidenza o di furberia, ma mai l' ombra torbida che ti separa dal russo o dal polacco quando ti riconoscono come ebreo. In questo paese sono tutti come Piotr; forse meno coraggiosi o più sottili, o solo più vecchi. Sottili come i vecchi, che ne hanno viste tante. Mendel e Pavel si presentarono allo sportello fianco a fianco; dietro lo sportello stava una signora sulla trentina, in una camicetta bianca ben stirata, minuta, graziosa, educata, coi capelli castani freschi di pettinatrice. Era profumata, ed accanto all' onda del suo profumo Mendel percepì con disagio l' odore pesante, caprino del corpo sudato di Pavel. La signora capiva il tedesco e lo parlava anche abbastanza bene: non c' erano grosse difficoltà per intendersi, ma Pavel si piccava di parlare italiano, e così facendo complicava la situazione invece di semplificarla. Nome, ancora una volta: età, provenienza, cittadinanza. Risposero in tre o quattro allo stesso tempo, e ne nacque un po' di confusione. La signora comprese che si trattava di un gruppo, e senza dare segni di impazienza pregò Pavel di rispondere lui per tutti: gli dava del lei, del Sie, ed anche questo era gradevole, imbarazzante, e non era mai successo prima. Era proprio un ufficio di assistenza: cercavano di assisterli, di aiutarli, non di liberarsi di loro né di chiuderli dentro una scatola di filo spinato. La signora scriveva e scriveva; trentacinque nomi sono tanti, e la lista si andava allungando. Nomi e cognomi esotici, irti di consonanti; bisognava fermarsi, controllare, far ripetere, chiedere la grafia. Ecco, finito. La signora si sporse dallo sportello a guardarli. Un gruppo, uno strano gruppo; profughi diversi dai soliti, diversi dai rottami umani che da giorni e giorni le sfilavano davanti in quell' ufficio. Sporchi e stanchi, ma diritti; diversi negli occhi, nella parlata, nel portamento. _ Siete sempre stati insieme? _ chiese a Pavel in tedesco. Pavel non perse l' occasione per fare bella figura. Chiamò a raccolta tutti i brandelli d' italiano che aveva raggranellati anni prima nei suoi viaggi, orecchiati fra le scene, nei treni, negli alberghetti e nei bordelli. Gonfiò il petto: _ Gruppo, graziosa signora, gruppo. Sempre insieme, Russia, Polacchia. Camminare. Bosco, fiume, neve. Tedeschi morti, tanti. Noi partisani, tutti, porca miseria. Niente DP, noi guerra, partisani. Tutti soldati, madosca; anche donne. La graziosa signora era perplessa. Pregò i gedalisti di mettersi da parte e di aspettare, e si attaccò al telefono. Parlò a lungo, in tono concitato, ma coprendosi la bocca con la mano in modo da non farsi sentire; alla fine, disse a Pavel che avesse pazienza; avrebbero dovuto passare ancora una notte accampati, che si sistemassero alla meglio anche loro nei corridoi, ma domani avrebbe trovato per loro una collocazione migliore. Lavarsi? Non era facile; bagni niente, neanche docce, l' edificio era stato riattato da poco, ma acqua sì, lavandini, sapone, e forse anche tre o quattro asciugamani. Pochi per tante persone, certo, ma che farci, non era colpa sua né dei suoi colleghi, tutti facevano del loro meglio, anche con contributi personali. Nelle sue parole e nel suo viso Mendel lesse reverenza, pietà, solidarietà ed allarme. _ Dove ci mandate? _ le chiese nel suo miglior tedesco. La signora fece un bel sorriso, e con le mani un gesto complicato ed allusivo che Mendel non capì: _ Non vi mandiamo al campo profughi, ma in un posto più adatto a voi. Infatti, il mattino seguente vennero due autocarri a caricarli; la signora li rassicurò, non sarebbero andati lontano, in una fattoria nei dintorni di Milano, mezz' ora di viaggio al massimo; si sarebbero trovati bene, meglio che in città, più al largo, più tranquilli .... Così sarà più tranquilla anche lei, pensò Mendel. Le chiese come mai parlava tedesco: sono molti gli italiani che lo parlano? Sono pochi, rispose la signora, ma lei era una insegnante di tedesco: sì, lo aveva insegnato in una scuola, finché non era venuto Hitler e lei era scappata in Svizzera. La Svizzera è a quaranta chilometri da Milano. Era stata internata in Svizzera col marito e col bambino piccolo; non si stava male; era tornata a Milano da poche settimane. Assistette allo spettacolo dei gedalisti che si arrampicavano sui camion con i loro bagagli da zingari; disse che avrebbe ripreso i contatti con loro, li salutò e rientrò nell' ufficio. La fattoria era stata danneggiata negli ultimi giorni di guerra e restaurata alla meglio. Vi trovarono una cinquantina di profughi polacchi e ungheresi, ma le camerate erano ampie, previste per almeno due o trecento persone, e bene attrezzate con brandine e cuccette. Si guardarono intorno: no, né sentinelle né filo spinato, per la prima volta. Non una casa, ma poco meno; nessuna costrizione, se vuoi entrare entri, se te ne vuoi andare te ne vai. Cibo alle ore giuste, acqua, sole, prati, un letto: quasi un albergo, che cosa volete di più? Ma si vuole sempre qualcosa di più: niente è mai così bello come uno si aspetta; ma niente è neppure brutto come uno si aspetta, pensava Mendel, ricordando i giorni di fervore operoso a Novoselki in mezzo alle nebbie e alle paludi, e l' ebbrezza smemorata delle battaglie. Ci fu una seconda iscrizione davanti a un secondo sportello; un giovane smilzo e sbrigativo, che parlava bene jiddisch ma veniva da Tel-Aviv, li prese in forza senza tante scritturazioni, ma si fermò davanti a Bella e a Ròkhele Bianca: queste no, queste devono tornare a Milano, non sono adatte al lavoro della fattoria; questa soprattutto, che cosa fanno in via Unione, sono diventati matti? Che cosa gli viene in mente, di mandare una donna incinta qui da noi? Intervennero Line, Gedale, Pavel, ed Isidor che gridava più di tutti: noi non ci separiamo, non siamo profughi, siamo una banda, una unità. Se la Bianca va a Milano, andiamo a Milano tutti quanti. Il giovane fece una faccia strana ma non insistette. Dovette invece insistere il giorno dopo. C' era del lavoro da fare, un lavoro urgente: i gedalisti si accorsero che quella era una strana fattoria, dove il lavoro agricolo contava poco, e invece c' era un grande movimento di merci. Erano casse di viveri e di medicinali, ma alcune erano troppo pesanti perché si potesse credere alle scritte che vi comparivano stampigliate in inglese. Il giovane disse che tutti dovevano dare una mano a caricare le casse sugli autocarri. Tre o quattro fra gli uomini di Ruzany brontolarono che loro non si erano aperta la strada combattendo, dalla Bielorussia fino in Italia, per fare i facchini, e uno addirittura mormorò fra i denti "Kapo". Zvi, il giovane direttore della fattoria, non raccolse l' affronto, alzò le spalle e disse: _ Quando arriverà la vostra nave, questa roba farà comodo anche a voi _; e poi, aiutato da due ragazzi ungheresi, si mise di buona lena a caricare lui stesso le casse. Allora tutti cessarono di protestare e si misero al lavoro. Alla fattoria c' era un grande movimento anche di persone; profughi di tutte le età arrivavano e partivano, in modo che era difficile consolidare le conoscenze. Tuttavia i gedalisti si accorsero presto che alcuni elementi erano stanziali: evitavano di mettersi in vista, ma dovevano esercitare una qualche funzione essenziale. Due soprattutto attirarono l' attenzione di Mendel. Erano sulla trentina, atletici, agili nei movimenti; parlavano poco, e fra loro parlavano russo. Spesso uscivano dall' aia con un drappello di giovani, con falci, tridenti e rastrelli, e sparivano in direzione del fiume. Tornavano solo a sera; dalla boscaglia che fiancheggiava il fiume si sentivano risuonare a tratti spari isolati. _ Chi sono quei due? _ chiese Mendel a Zvi. _ Istruttori: vengono dall' Armata Rossa. Due ragazzi in gamba. E se qualcuno di voi .... _ Ne riparleremo, _ disse Mendel senza compromettersi. _ Siamo appena arrivati; dateci un po' di respiro. E poi, non credo che noialtri abbiamo ancora molto da imparare. _ Nu, non volevo dire questo, anzi, il contrario. Volevo dire che voi avete parecchio da insegnare, _ disse Zvi scandendo le parole. A Mendel tornò in mente la proposta che gli aveva fatta Smirnov al campo di Glogau, e che lui per stanchezza non aveva accettata. No, non ne aveva rimorso. In coscienza, no; la nostra parte l' abbiamo pur fatta, io e tutti gli altri. Non adesso, comunque: abbiamo ancora il fiato grosso, non abbiamo ancora imparato a respirare l' aria di questo paese. Dopo due giorni arrivò alla fattoria una lettera da Milano: era scritta in tedesco, indirizzata al Signor Pavel Jurevic Levinski, firmata dalla signora Adele S.; emanava lo stesso profumo della graziosa signora di via Unione, e conteneva l' invito per un tè, domenica pomeriggio, alle cinque, nella sua casa di via Monforte. Non era limitato al solo Pavel, ma diceva vagamente "Lei ed alcuni dei Suoi amici"; non troppi, insomma, non tutta la banda: più che ragionevole. Nacque una grande eccitazione, e la banda si divise in tre fazioni: quelli che al tè ci volevano andare, quelli che non ci volevano andare a nessun costo, e gli incerti o indifferenti. Ci volevano andare Pavel stesso, Bella, Gedale, Line, e un buon numero degli altri, spinti da motivazioni diverse. Pavel, perché si riteneva indispensabile come interprete, e perché la busta recava il suo nome; Bella e Gedale, per curiosità; Line, per ragioni ideologiche, e cioè perché era la sola della banda che avesse ricevuto una educazione sionista; e gli altri perché speravano di trovare qualcosa di buono da mangiare. Non ci volevano andare Piotr ed Arié per timidezza e perché non capivano il tedesco; la Bianca, perché da qualche giorno aveva dolori all' addome; Isidor, per non separarsi dalla Bianca; e Mottel, perché diceva che le maniere "goyische" della signora lo mettevano a disagio, e che lui in un salotto non ci si vedeva. Andarono Pavel, Bella, Line, Gedale e Mendel. Mendel, per verità, era fra gli incerti, ma gli altri quattro insistettero perché venisse: che era un' occasione unica di vedere come si vive in Italia, che si sarebbero divertiti e distratti, che avrebbero avuto occasione di sentire notizie utili; ma soprattutto, che lui, lo volesse o no, era insomma l' uomo chiave della banda, quello che meglio la rappresentava e che aveva preso parte a tutte le imprese; e non aveva fatto parte dell' Armata Rossa? Certo per gli italiani questo doveva essere importante, o almeno interessante. Vestirono i loro abiti migliori. Line, che non possedeva nulla se non i goffi panni militari che portava addosso fino da Novoselki, disse che sarebbe andata al ricevimento così come stava: _ Se mi vestissi in un altro modo, sarebbe come se mi travestissi. Come se dicessi una bugia. Se mi vogliono, mi devono prendere come sono. Ma tutti cercarono di convincerla a vestirsi un po' meglio, in specie Bella e Zvi. Zvi tirò fuori dai magazzini della fattoria una camicetta di seta bianca, una gonna di tela avorio a pieghe, una cintura di pelle, un paio di calze di nailon e un paio di sandali con la suola di sughero. Line si lasciò persuadere e si ritirò con il corredo; pochi minuti dopo saltò fuori dallo spogliatoio una creatura inedita, come una farfalla da un bozzolo. Quasi irriconoscibile: più minuta della Line che tutti conoscevano, più giovane, quasi una bambina, impacciata dalla gonna che non portava da anni e dagli alti sandali ortopedici; ma gli occhi bruni e fermi, lontani fra loro, e il naso affilato, diritto e breve, erano rimasti quelli, e quello il pallore teso delle guance, che il sole e il vento non riuscivano ad abbronzare. Il velo del nailon conferiva grazia alle caviglie ed alle gambe nervose; Bella le sfiorò con la mano, come a sincerarsi che non fossero nude. Nel salotto della signora S. c' erano molti invitati, tutti italiani. Alcuni erano vestiti con eleganza, altri erano in abiti logori, altri ancora indossavano le divise degli Alleati. Solo due o tre capivano il tedesco e nessuno il jiddisch, per cui la conversazione si fece subito arruffata. I cinque della banda, quasi a difendersi da un' aggressione, tendevano a rimanere uniti, ma ci riuscirono solo per pochi minuti: in breve ciascuno di loro si trovò isolato, al centro di un cerchio di curiosi, e sottoposto a una grandine di domande melodiose ed incomprensibili. Pavel e la signora si affaccendavano a tradurre, ma con scarso risultato, l' offerta era di troppo inferiore alla domanda. Attraverso uno spiraglio fra due spalle, Mendel scorse Line attorniata da cinque o sei signori eleganti. _ Come le bestie al giardino zoologico! _ gli sussurrò la ragazza in jiddisch. _ Bestie feroci, _ rispose Mendel. _ Se sapessero tutto quello che abbiamo fatto, avrebbero paura di noi. La padrona di casa era in ansia. Erano suoi, quei cinque: una sua trouvaille, una sua scoperta, e ne rivendicava il monopolio. Ogni parola detta da loro le apparteneva, non doveva andare perduta; si dava una gran pena a inseguirli in mezzo alla calca degli invitati, ed a farsi ripetere le battute che non aveva sentito. Ma era in ansia anche per un altro motivo: era una signora fine e bene educata, e alcune cose che i cinque raccontavano le ferivano gli orecchi. Pavel e Gedale, in specie, non avevano ritegno. Si sa, queste cose esistono, sono avvenute, la guerra non è uno scherzo, tanto meno è stata uno scherzo la guerra che hanno fatto questa povera gente; ma in un salotto, via, nel suo salotto .... Sì, va bene per gli atti di valore, le rappresaglie contro i tedeschi, i sabotaggi, le marce nella neve; ma dei pidocchi si può anche fare a meno di parlare, e delle pezze dei piedi, e degli impiccati nelle latrine .... Quasi si era pentita di averli invitati: principalmente per via di Pavel, che purtroppo sapeva qualche parola di italiano, ma, chissà perché, sembrava proprio che avesse una preferenza spiccata per le bestemmie e le parole poco pulite. C' era poco da illudersi, i suoi amici si sarebbero fatte delle pazze risate, e avrebbero raccontato la storia a mezza Milano. Dopo una mezz' ora si rifugiò sul divano d' angolo, accanto a Bella, che sembrava meno rozza, parlava poco, e mangiava cioccolatini ammirando i quadri appesi alle pareti. Ogni tanto dava un' occhiata alla pendola: suo marito era in ritardo. Se soltanto si sbrigasse ad arrivare! L' avrebbe aiutata a tenere le redini del party, in modo che ogni invitato, esotico o locale, avesse quanto gli spettava, e che non ci fossero trasgressioni. Il signor S. arrivò poco prima delle sei e si scusò con tutti: il treno era partito da Lugano in orario, ma aveva perso tempo alla frontiera per i soliti controlli. Baciò la moglie e si scusò anche con lei. Era grassoccio, cordiale, rumoroso, calvo con una corona di capelli biondicci intorno alla nuca. Anche lui parlava tedesco, ma così alla buona, senza grammatica, lo aveva imparato viaggiando. Aveva un commercio, andava all' estero spesso. Si trovò faccia a faccia con Mendel e prese subito a raccontargli i fatti suoi come se lo conoscesse da sempre, e come usano fare coloro che hanno grande stima di se stessi e scarsa cura della persona a cui si rivolgono. Quanto era scomodo viaggiare, quanto difficile riprendere i contatti commerciali .... Mendel pensò al modo come loro avevano viaggiato ed al coniglio dell' usbeco barattato con sale, ma non disse nulla. L' altro finalmente si interruppe: _ Ma lei avrà sete: venga, venga con me! Afferrò Mendel per il polso e lo rimorchiò fino al tavolo dei rinfreschi. Mendel lasciò fare intontito; provava un' intensa sensazione di irrealtà, come nei sogni che si fanno a stomaco troppo pieno. Colse il momento in cui S. portava il bicchiere alla bocca, e trovò il coraggio di fargli le domande che gli ronzavano in testa dall' inizio del ricevimento. Chi era tutta quella gente? Erano proprio ebrei, lui e sua moglie? E la casa era loro? Non erano venuti i tedeschi, anche a Milano? Come si erano salvati, loro e tutte le belle cose che si vedevano intorno? Tutti gli ebrei italiani erano ricchi come loro? O tutti gli italiani? Tutti avevano case belle così? L' ospite lo guardò con una faccia strana, quasi che Mendel avesse fatto domande stupide o poco opportune, e gli rispose con pazienza, come si fa con i bambini non tanto svegli. Ma certo, loro erano ebrei, tutti quelli che si chiamano S. sono ebrei. Gli ospiti no, non tutti: ma è poi una faccenda così importante? Erano amici, ecco tutto, gente per bene, che desiderava conoscere loro che venivano tanto di lontano. E la casa era sua, perché no? Lui aveva guadagnato bene, prima della guerra, e anche nei primi anni di guerra, prima che venissero i nazisti. Dopo, la casa gliel' avevano requisita, ci avevano messo dentro un gerarca del fascio, ma lui, appena tornato dalla Svizzera, aveva mosso certe pedine e lo aveva fatto andare via. Eh no, non tutti avevano una casa come la sua: né cristiani né ebrei. Non tutti ma molti, Milano è una città ricca. Ricca e generosa, molti ebrei erano rimasti in città, nascosti o con documenti falsi; i vicini e gli amici che li incontravano facevano finta di non conoscerli, però di nascosto gli portavano da mangiare. Furono interrotti da un omone dalla voce leggera e giovanile, che non parlava né capiva il tedesco ma si mostrò estremamente amichevole con Mendel. Chiese di essergli presentato; S. accondiscese, storpiò il nome di Mendel, e disse a Mendel: _ Questo è l' avvocato Longo _. L' avvocato si mostrò più discreto del padron di casa; ascoltò in silenzio rispettoso la storia che Mendel raccontò in forma compendiaria e che il padron di casa tradusse frase per frase, ed alla fine disse a quest' ultimo: _ Saranno stanchi, questi tuoi amici: avranno bisogno di riposo. Chiedigli se vogliono essere miei ospiti, a Varazze; nella mia villa c' è posto, e forse loro non hanno mai visto il mare! L' invito colse Mendel di sorpresa. Esitò, prese tempo, poi cercò di avvicinarsi ai suoi compagni per consigliarsi con loro. Lui no, non avrebbe accettato, si sentiva lontano, altro, spiacevole, selvatico; gli pareva di avere ancora addosso l' odore sepolcrale della tana di Schmulek. Tuttavia, se gli altri dicevano di sì, lo avrebbe detto anche lui. Anche Bella, Line e Gedale propendevano per un rifiuto: addussero pretesti vaghi, di fatto erano intimiditi, non si sentivano all' altezza della parte che veniva loro attribuita. Pavel avrebbe invece voluto accettare, ma non da solo; così si attenne al parere della maggioranza, e tutti ringraziarono e declinarono l' invito, lieti che le loro parole maldestre venissero tradotte nell' italiano armonioso della signora S.. _ Però vedere il mare non mi sarebbe dispiaciuto, sussurrò Bella a Gedale. La padrona di casa colse il momento in cui i cinque erano riuniti e presentò loro un altro amico, un giovane alto e ossuto d' aria energica che indossava camicia e pantaloni di aspetto militare, ma senza gradi né mostrine. _ Questo è Francesco, un vostro collega! _ disse con un sorriso allusivo; Francesco invece rimase serio. _ Anche lui è stato partigiano, _ proseguì la signora: _ In Valtellina, nelle Alpi, insomma su quelle montagne che vedete laggiù. Un ragazzo di fegato; peccato che sia comunista. Con la mediazione della signora, la conversazione procedeva faticosa e contorta, ma quando Francesco seppe che Mendel aveva appartenuto all' Armata Rossa, gli si avvicinò e lo abbracciò: _ Dal giorno che la Germania vi ha attaccati, non ho più dubitato che sarebbe stata sconfitta. Diglielo, Adele. Digli che anche noi abbiamo combattuto, ma che se l' Unione Sovietica non avesse resistito, sarebbe stata la fine dell' Europa _. La signora tradusse del suo meglio, ed aggiunse di suo: _ È un caro ragazzo, ma è una testa dura e ha delle idee strane. Se dipendesse da lui, non ci penserebbe su due volte: dittatura del proletariato, la terra ai contadini, le fabbriche agli operai, e buonanotte. Tutt' al più, per noi che siamo suoi amici, un posticino al Soviet comunale. Francesco capì a mezzo, non volle approfondire, e sempre serio fece dire che il suo partito era stato la spina dorsale della Resistenza e la voce vera del popolo italiano; poi fece chiedere a Mendel come mai lui e i suoi amici venivano via dal loro paese. Mendel era confuso. Aveva idee vaghe su quanto era avvenuto in Italia durante la guerra, era stupito che la signora dicesse così apertamente che il suo amico era comunista: forse era uno scherzo? E scherzava anche quando accennava alla sua paura del comunismo? O ne aveva paura veramente? E se sì, aveva ragione di averne paura? Adesso però bisognava rispondere alla domanda di quel Francesco. Come spiegargli che essere ebrei in Russia o in Polonia non era come essere ebrei in Svizzera o a Milano in via Monforte? Avrebbe dovuto raccontargli tutta la loro storia. Si limitò a dire che lui e i suoi compagni non avevano nulla contro Stalin, anzi, gli erano grati per aver abbattuto Hitler; ma che le loro case erano distrutte, avevano il vuoto alle spalle, e speravano di trovare una casa in Palestina. La signora tradusse, e Mendel ebbe l' impressione che la traduzione fosse più lunga del testo; Francesco fece una faccia poco convinta e si allontanò. A Mendel, neppure le facce degli italiani erano chiare; le loro espressioni, le loro smorfie, non riusciva a leggerle, o temeva di leggerle in modo sbagliato. Francesco. Un partigiano, un commilitone. Quanto tempo hai combattuto, Francesco? Sedici mesi, diciotto: da quando la radio di Venjamìn in riva al Dnepr ha raccontato che Mussolini era in prigione, da quando Dov ha saputo che l' Italia aveva capitolato. Quanto hai camminato Francesco? Quanti amici hai perduto? Dov' è la tua casa? A Milano, forse, o su quelle montagne dal nome che non so ripetere; ma una casa tu ce l' hai, la casa per cui hai combattuto, oltre che per le tue idee. Una casa, una terra sotto i piedi, un cielo sopra la testa che è tuo ed è sempre lo stesso. Una madre e un padre; una ragazza o una moglie. Hai qualcuno e qualcosa per cui ti piace vivere. Se parlassi la tua lingua potrei cercare di spiegarti. Alle sue spalle, la signora Adele stava parlando con Line: _ ... ma adesso sono loro quelli che ci aiutano di più. Le armi vengono da loro, attraverso la Cecoslovacchia. È il Partito Comunista italiano che decide sugli scioperi; quando gli inglesi cercano di fermare una nave di profughi, tutti gli operai del porto entrano in sciopero, e gli inglesi la devono lasciare partire .... Mendel si sentiva disorientato: in un salotto pieno di cose belle e di persone gentili, e insieme una pedina di un gioco gigantesco e crudele. Forse da sempre, una pedina da sempre, da quando era rimasto disperso, da quando aveva incontrato Leonid: credi di prendere una decisione e invece segui il destino che qualcuno ha già scritto. Chi? Stalin, o Roosevelt, o il Dio degli Eserciti. Si volse a Gedale: _ Andiamo via, Gedale: congediamoci. Questo non è il nostro luogo. _ Come? _ chiese Gedale stupito: forse temeva di non aver capito, o stava seguendo un altro filo di idee. In quel momento suonò il telefono nell' angolo in cui sedeva Bella, e la signora andò a rispondere. Poco dopo depose la cornetta e disse a Mendel: _ È Zvi, dalla fattoria. La vostra compagna, quella che chiamate la Bianca, non sta bene. Hanno dovuto portarla in città; è in una clinica, non lontano di qui. Arrivarono alla clinica ostetrica tutti e cinque, stipati nell' automobile dell' avvocato Longo. Era una clinica privata, ordinata e pulita, ma molti vetri delle finestre erano sostituiti con pannelli di legno compensato, e sugli altri erano incollate strisce di carta incrociate. Ròkhele era in una camera con tre altre donne; era pallida, tranquilla e si lamentava debolmente: forse le avevano dato un calmante. Nel corridoio, davanti alla porta della camera, c' era Isidor, nervoso ed aggrondato, insieme con Izu, il pescatore a mani nude, ed altri tre compaesani di Blizna, i più ruvidi della banda. Isidor passeggiava in su e in giù, e aveva una pistola infilata nella cintura. Due dei suoi compagni erano seduti sul pavimento e sembravano ubriachi; gli altri due parlavano fra loro nel vano della finestra. Mendel riconobbe attraverso il cuoio dei loro stivali consunti il rigonfio del manico del coltello. Sul davanzale della finestra c' era una bottiglia di vino rosso e due pagnotte contadine. _ Come sta? _ sussurrò Bella a Isidor. Senza abbassare la voce, Isidor rispose: _ Non sta bene. Ha male, prima gridava. Adesso le hanno fatto una puntura _. In fondo al corridoio fecero capolino due suore, si scambiarono poche parole e subito sparirono. _ Venite via, è in buone mani, _ disse Mendel. _ Cosa state a fare qui? _ Io non mi muovo, _ disse Isidor. Gli altri quattro non dissero nulla; si limitarono a volgere su Mendel e gli altri uno sguardo ostile. _ Non servite a niente e date fastidio, _ disse Line. _ Io non mi muovo, _ ripeté Isidor. _ Io sto qui: io non mi fido. I cinque si appartarono. _ Che facciamo? _ chiese Gedale. _ Qui siamo in troppi, _ disse Mendel. _ Io resto a vedere cosa succede; proverò a calmarli. Voi scendete e tornare alla fattoria: l' avvocato è sotto che aspetta. Se si mette male vi chiamo al telefono. _ Resto anch' io, _ disse Line inaspettatamente. _ Una donna può essere utile _. Gedale, Bella e Pavel se ne andarono; Line e Mendel sedettero sulle poltrone della sala d' aspetto. Attraverso la porta socchiusa potevano sorvegliare i cinque uomini accampati nel corridoio. _ È ubriaco anche Isidor? _ chiese Line. _ Non mi pare, _ rispose Mendel. _ Fa il bravaccio perché ha paura. _ Paura per il parto? Per Ròkhele? _ Sì, ma forse non solo per questo. È un ragazzo, e ha bisogno di sentirsi importante. Ha fatto male Gedale a fargli guidare il camion. Line, negli inconsueti abiti femminili, sembrava cambiata anche interiormente. Rispose sommessa: _ Quando è stato? A febbraio, vero? C' era ancora la neve. _ Era ai primi di marzo, quando siamo usciti da Wolbrom; sì, doveva proprio essere il primo di marzo. _ È difficile mettere ordine nei ricordi, vero? Non capita anche a te? Mendel accennò di sì col capo, senza parlare. Venne un' infermiera, disse loro qualcosa in italiano; Line e Mendel non capirono, l' infermiera alzò le spalle e se ne andò. Line entrò nella camera di Ròkhele e ritornò subito: _ Dorme, _ disse; _ sembra tranquilla, ma ha il polso rapido. _ Forse è così per tutte le donne che partoriscono? _ Non lo so, _ rispose Line. Tacque, poi riprese: _ Non siamo fatti nel modo giusto. Ti pare giusto che un uomo diventi padre a diciassette anni? _ Forse non è giusto diventare padri mai, _ disse Mendel. _ Taci, Mendel. Scaccia questi pensieri. Stanotte deve nascere un bambino. _ Tu credi che i nostri pensieri lo possano toccare? Farlo nascere diverso? _ Chi sa? _ disse Line. _ Un bambino che nasce è una cosa tanto delicata! Dove è stato concepito? Mendel calcolò mentalmente: _ Quando eravamo con Edek, vicino a Tunel. A novembre. Sarà un bambino polacco? O ucraino come Ròkhele? O italiano? _ Narische bucher, vos darfst du fregen? _ disse Line ridendo, e citando la canzone che aveva segnato il passaggio del fronte: _ Ragazzo sciocco, come puoi domandare? Stranamente, Mendel non fu per nulla offeso a sentirsi chiamare così: anzi, intenerito. Questa nuova Line non era più Raab, ma la "meidele" pietosa-arguta della canzone. _ Come puoi domandare? _ riprese Line, appoggiando la mano sull' avambraccio di Mendel: _ Un bambino è un bambino; diventa qualche cosa solo dopo. Perché ti preoccupi? Infine, non è neppure nostro figlio. _ Già. Non è neppure nostro figlio. _ Anche noi siamo stati partoriti, _ uscì a dire Line ad un tratto. Mendel la interrogò con lo sguardo, e Line cercò di precisare il suo pensiero: _ Partoriti, espulsi. La Russia ci ha concepiti, ci ha nutriti, ci ha fatti crescere nel suo buio, come in una matrice; poi ha avuto le doglie, si è contratta e ci ha gettati fuori, e adesso eccoci qui, nudi e nuovi, come bambini appena nati. Non è così anche per te? _ Narische meidele, vos darfst du fregen? _ ritorse Mendel, sentendosi sulle labbra un sorriso affettuoso e un velo leggero davanti agli occhi. Ci fu movimento nel corridoio, passi, bisbigli. Mendel si alzò e andò a guardare dallo spiraglio: la Bianca respirava pesantemente e gemeva a intervalli. A un tratto si contorse e gridò forte, due, tre volte. I quattro di Blizna balzarono in piedi, bellicosi e insonnoliti; Isidor si inginocchiò accanto al letto, poi uscì nel corridoio a gran passi. Tornò dopo un minuto, trascinandosi dietro una suora e il medico di guardia. Erano tutti e tre spaventati, per motivi diversi; Isidor gridava in jiddisch: _ Questa donna non deve morire, signor dottore, mi capisce? È mia moglie, siamo venuti dalla Russia fin qui, abbiamo combattuto, abbiamo camminato. E il bambino è mio figlio, deve nascere. Non deve morire, capito? Guai se la donna o il bambino muoiono: noi siamo partigiani. Avanti, signor dottore, faccia quello che deve, e stia attento a quello che fa. Line si avvicinò a Isidor per calmarlo e rassicurarlo, ma Isidor, che teneva la mano sull' impugnatura della pistola infilata nella cintura, la mandò via con un urtone. Il dottore non capiva il jiddisch, ma capiva che cosa voleva dire una pistola in mano a un ragazzo terrorizzato; parlò rapido con la suora, poi fece un passo verso il telefono all' angolo del corridoio, ma Isidor gli sbarrò la strada. Allora lui e la suora presero la lettiga a rotelle che stava poco lontano, vi trasferirono la Bianca che continuava a gridare e si avviarono verso la sala parto. Isidor fece un cenno ai suoi e li seguì; Mendel e Line seguirono Isidor. Isidor non osò forzare l' ingresso alla sala parto. I sette si sedettero davanti alla porta, ed incominciarono a passare le ore. A diverse riprese Mendel cercò di acquietare Isidor e di farsi consegnare la pistola. Avrebbe anche tentato di strappargliela se non si fosse visto alle spalle i quattro compaesani. Non riuscì a nulla: Isidor gli stava davanti senza sentirlo, dapprima arrogante, poi tutto teso ai rumori attutiti che provenivano dalla sala. Seduto accanto a Line, Mendel guardava le sue ginocchia che sporgevano dalla gonna. Era la prima volta che le vedeva: mai prima, se non con le dita veggenti, tremule dal desiderio, nell' oscurità dei loro giacigli ogni notte diversi, o attraverso il panno opaco dei pantaloni. Non cedere. Non cederle. Non ricominciare, sii savio, resisti. Non vivresti una vita accanto a lei, non è una donna per la vita, e tu non hai ancora trent' anni. A trent' anni la vita può ricominciare. Come un libro, quando hai finito il primo volume. Ricominciare da dove? Da qui, da oggi, da quest' alba milanese che sorge dietro i vetri smerigliati: da stamattina. Questo è un buon luogo per cominciare a vivere. Forse avresti dovuto fare come loro, hanno avuto ragione loro, i due nebech; non hanno fatto come te con Line, hanno chiuso gli occhi e si sono abbandonati e il seme dell' uomo non si è disperso e una donna ha concepito. Passò una suora spingendo un carrello. Line, che sonnecchiava stanca, si riscosse e disse: _ Era un pezzo che non passavamo una notte bianca. _ Era un pezzo che non passavamo una notte insieme, _ rispose Mendel. No, non vivrei una vita insieme con Line, ma non posso lasciarla e non voglio lasciarla. Me la porterò dentro sempre, anche se saremo divisi, come sono stato diviso da Rivke. Si sentiva la città risvegliarsi, stridere i tram, alzarsi le saracinesche dei negozi. Dalla sala uscì un' infermiera, poi uscì il medico stesso e rientrò poco dopo. Isidor, non più arrogante ma supplichevole, fece domande che furono comprese a dispetto della lingua: il medico fece gesti rassicuranti, mostrò l' orologio da polso, fra due ore, fra un' ora. Si udirono grida ripetute, ronzare un motore, poi silenzio. Finalmente, a giorno pieno, uscì un' infermiera dal viso allegro, reggendo un fagottino. _ Maschio, maschio, _ rideva. Nessuno capì, lei si volse in giro, si trovò sottomano Izu l' irsuto, e gli dette uno strattone alla barba: _ Maschio, come lui! Tutti si alzarono in piedi. Mendel e Line abbracciarono Isidor, i cui occhi, arrossati dalla veglia, erano divenuti lucidi. Uscì anche il dottore, batté la mano sulla spalla di Isidor e si avviò per il corridoio, ma si imbatté in un collega che stava avanzando col giornale spiegato e si fermò a discutere con lui. Intorno ai due si raggrupparono altri medici, suore, infermiere. Si avvicinò anche Mendel, e riuscì a vedere che il giornale, costituito da un solo foglio, portava un titolo in corpo molto grande, di cui non capì il significato. Quel giornale era del martedì 7 agosto 1945, e recava la notizia della prima bomba atomica lanciata su Hiroshima.

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