Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonate

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Lilit

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Levi, Primo 2 occorrenze

Le colline intorno erano pietrose e deserte, traforate da grotte; alcune di queste, non lontane dal sentiero, erano state ostruite con tavole e fascine, forse per trasformarle in stalle od ovili, ma parevano abbandonate. Il versante opposto della valle era coperto di vegetazione, e non vi si distingueva alcuna traccia di sentiero; ad intervalli giungeva fino a noi un belato di capre, gracile e breve. Il tempio sorgeva in cima alla collina, elusivo come un miraggio: vasto ed informe, risultava difficile valutarne la distanza. Lo raggiungemmo con fatica, infastiditi dagli insetti e snervati per l' assoluta mancanza di vento. Era un' alta costruzione di blocchi squadrati di pietra pallida: il suo contorno era un esagono irregolare, e le pareti erano rotte da poche e piccole aperture a livelli diversi. Queste pareti non erano piane: alcune sensibilmente concave, altre convesse; i blocchi che le componevano non erano che approssimativamente allineati, come se i remoti costruttori non avessero conosciuto l' uso del filo a piombo e della cordicella. Nell' ombra delle mura, timorosi del sole, stavano alcuni cavalli, immobili, scuri di sudore, ansimanti per la calura. Penetrammo nel tempio attraverso una stretta apertura, che sembrava essere stata ricavata scalpellando rozzamente il sasso, o sfondandolo come con un ariete: porte vere e proprie non se ne vedevano. Tanto appariva massiccio l' esterno dell' edificio, tanto invece era articolato e frastagliato il suo interno: vi si succedevano cortili grandi e piccoli, terrazze, serre, giardini pensili, fontane e piscine asciutte; questi elementi erano collegati fra loro (quando erano collegati) da rampe larghe o strette, scalinate ampie, ripide scale a chiocciola. Tutto era in condizione di estremo abbandono. Molte strutture erano crollate, alcune da gran tempo, a giudicare dal portamento delle piante che ovunque erano cresciute sulle rovine; in tutte le fenditure si era accumulato terriccio, in cui allignavano erbe selvagge e rovi dall' odore penetrante, muschio e piccoli funghi fragili. Certo non sarebbero bastati dieci giorni per esplorare tutti i meandri della costruzione. Agustìn insistette per condurci al Passaggio dei Sepolti, ed attraverso questo al cortile più interno, che lui chiamava il cortile della Bestia. Il Passaggio dei Sepolti era una lunga lista di terreno battuto, di forse ottanta metri per dieci: stranamente, non vi cresceva un filo d' erba. Agustìn ci raccomandò di passare in fila indiana lungo il margine, senza varcare una linea di demarcazione che era contrassegnata con una fila di paletti. Ci mostrò che dal suolo sporgevano qua e là, verticali od obliqui, un centinaio di oggetti metallici, appuntiti e rugginosi: alcuni emergevano di un palmo o due, altri erano appena visibili; e ci disse che erano punte di spade e di lance. Il suo paese, ci raccontò, era stato spesso terra di invasione: alcuni secoli prima dell' arrivo degli europei, era calata dal nord, ma nessuno sapeva bene di dove, un' orda di cavalieri. Erano impetuosi e crudeli, ma pochi di numero; i suoi antenati (_ erano più coraggiosi di noi, _ disse con uno dei suoi sorrisi pudichi) avevano tentato invano di respingerli alle loro navi, e loro si erano asserragliati nel Tempio, e di qui avevano tenuto il paese per qualche anno, con scorrerie improvvise, incendi e strage e trascinandosi dietro una pestilenza. I cavalieri morti di peste, o in battaglia, erano stati sepolti dai compagni secondo il loro costume barbarico: ognuno a cavallo del suo cavallo, e con l' arma levata a sfidare il cielo. Il cortile della Bestia era vasto, ricoperto da una volta ancora quasi integra: la sola luce che vi penetrava era appunto quella che filtrava attraverso le lacune del tetto. Ci occorsero alcuni istanti perché i nostri occhi si avvezzassero alla semioscurità. Vedemmo allora che ci trovavamo al margine di un' arena coperta, di forma approssimativamente ellittica; intorno ad essa, in luogo delle gradinate, erano disposti tutto intorno innumerevoli palchi, in quattro o cinque ordini, sostenuti e divisi fra loro da una selva di colonne di pietra o di legno dorato. Le colonne non erano che approssimativamente verticali, e gli ordini non si svolgevano lungo linee orizzontali, per cui i palchi non erano tutti uguali: ve n' erano di alti e stretti, di larghi e bassi (alcuni erano talmente bassi che un uomo non ci sarebbe potuto entrare che strisciando sul ventre). Di fronte a noi, una intera zona si presentava fortemente inclinata, come una dislocazione geologica, o come un frammento di nido d' api che fosse stato estratto e riinserito in posizione obliqua. Ci siamo attardati a lungo per cercare di capire come un edificio di quel genere potesse non dico reggersi in piedi per molti secoli, ma addirittura esistere. Nella mezza luce a cui ci stavamo abituando, si distingueva che alcune delle colonne più vicine a noi presentavano un fenomeno irritante, difficile ad esprimersi qui in parole, e del resto, sul luogo stesso avevamo constatato l' impossibilità di descriverci l' un l' altro quello che pure i nostri occhi vedevano. Sarebbe certamente più facile rappresentarlo con un disegno; lo sentivamo come un' insolenza, una sfida alla nostra ragione: una cosa che non aveva diritto di esistere, eppure esisteva. Nella loro parte bassa, queste colonne lasciavano intravvedere attraverso i loro intervalli, in secondo piano, il fondale dei palchi, dipinto a festoni neri ed ocra; ma seguendole verso l' alto con lo sguardo, i loro contorni mutavano funzione, gli intervalli diventavano colonne e le colonne diventavano intervalli, ed attraverso questi intervalli si scorgeva il cielo opaco della laguna. Ci sforzammo inutilmente, i Torres e noi, di venire a capo di questa apparenza assurda, che svaniva se ci avvicinavamo, ma si imponeva con l' evidenza pesante delle cose concrete se osservata dalla distanza di qualche decina di metri. Claudia scattò qualche fotografia, ma senza fiducia: la luce era troppo scarsa. La platea dell' arena appariva invasa da una vegetazione folta e bassa. Agustìn ci trattenne ai margini, e ci fece salire su un cumulo di macerie; poi, senza parlare, ci indicò una forma oscura che si spostava frammezzo gli arbusti. Era un animale massiccio, bruno, un po' più alto e più grosso di un bufalo di palude; nel silenzio si percepiva il suo respiro profondo ed aspro, e lo strappo e lo scroscio degli arbusti che esso divelleva pascolando. Uno di noi, forse io stesso, domandò smarrito: _ Che cosa è quello? _ Subito Agustìn fece cenno di tacere, ma la bestia doveva avere udito, perché levò la testa e sbuffò forte, al che si levò dai palchi un volo di uccelli inquieti. La bestia mugghiò, si scrollò e partì di corsa, diritta davanti a sé, come se caricasse un nemico invisibile, forse l' insensatezza, l' impossibilità dello scenario entro cui era rinchiusa. Ci guardammo intorno: la platea aveva parecchie aperture, ma strette ed ingombre. Per nessuna di esse la bestia avrebbe potuto passare. Galoppò sempre più impetuosa, rompendo davanti a sé arbusti e rami: il suolo risuonava al ritmo ternario della sua corsa, si sentirono frammenti di capitelli staccarsi dalle colonne e cadere. La bestia puntava verso una delle aperture, la meno angusta e la più sgombra da sfasciumi. Cozzò contro gli stipiti, come se, cieca di collera, non li avesse visti ; vi si incastrò per un attimo, emise un ruggito di dolore e si trasse indietro; l' architrave di pietra crollò sgretolato dall' urto, e l' apertura apparve più stretta di prima, ostruita a mezzo dalle pietre cadute. Claudia mi strinse nervosamente il braccio: _ È prigioniera di se stessa. Si chiude intorno tutte le vie d' uscita. Uscimmo nella luce del pomeriggio, che ci parve abbagliante. La signora Torres ci fece notare che nelle fenditure delle pietre si annidavano molte lucertole grigio-brune, squamose; altre stavano immobili al sole velato, come minuscoli bronzi. Se disturbate, fuggivano fulminee a rintanarsi, oppure si avvolgevano su se stesse come gli armadilli, e in quella forma, ridotte a piccoli dischi compatti, si lasciavano cadere nel vuoto. Fuori del tempio si era radunata una folla di mendicanti scarni, uomini e donne, dall' aspetto minaccioso. Alcuni avevano eretto poco lontano delle basse tende nere, e vi stavano accovacciati al riparo dal sole. Ci guardavano con curiosità insolente ed insistente, ma non ci rivolsero la parola. _ Aspettano la bestia, _ disse Agustìn: _ aspettano che esca. Vengono tutte le sere, da sempre; passano la notte qui, e nelle tende hanno i coltelli. Aspettano da quando esiste il tempio. Quando uscirà, la uccideranno e la mangeranno, e allora il mondo sarà risanato: ma la bestia non uscirà mai.

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Norie abbandonate, ma avevano ancora intorno la pista circolare dove aveva camminato l' asino, chissà quanti anni prima e per quanti anni. Due osterie straordinarie, dove si trovava vino e pasta di casa che a Milano neanche te li sogni. Ma la scoperta più curiosa era stata la Bomboniera. La Bomboniera era una villa minuscola, candida, quadrata, di due piani, appollaiata su un rilievo. Non aveva facciata, ossia ne aveva quattro, identiche fra loro, ognuna con una porta di legno lucido e con intricati stucchi e decorazioni in stile Liberty. I quattro spigoli finivano in alto in quattro graziose torrette che avevano la forma di corolle di tulipano, ma di fatto erano gabinetti; lo dimostravano i quattro tubi di grès, malamente incassati nella muratura, che scendevano fino al suolo. Le finestre della villa erano sempre chiuse da persiane dipinte in nero, e la targa sul cancelletto portava un nome impossibile: Harmonika Grinkiavicius. Anche la targa era strana, il nome esotico era circondato da una tripla cornice ellittica, su cui, dall' esterno verso l' interno, si susseguivano i colori giallo, verde e rosso. Era questa l' unica nota colorata sull' intonaco bianco della villa. Quasi senza accorgersene, Umberto prese l' abitudine di passare tutti i giorni davanti alla Bomboniera. Non era disabitata: raramente visibile, ci abitava una signora anziana, linda e smilza, dai capelli candidi come la villa e dal viso un po' troppo rosso. La signora Grinkiavicius usciva una sola volta al giorno, sempre alla stessa ora, con qualunque tempo, ma per pochi minuti; portava abiti di buon taglio ma fuori moda, un ombrellino, un cappello di paglia a larga tesa, e un nastro di velluto nero che le cingeva la gola sotto il mento. Camminava a piccoli passi decisi, come se avesse fretta di raggiungere una meta, ma invece percorreva il solito itinerario, rientrava e subito si richiudeva la porta alle spalle. Alle finestre non si affacciava mai. Dai bottegai non ricavò molte notizie. Sì, la signora era una straniera, vedova da almeno trent' anni, istruita, ricca. Faceva molta beneficenza. Sorrideva a tutti ma non parlava con nessuno. Andava a messa la domenica mattina. Non era stata mai dal medico e neppure dal farmacista. La villa, l' aveva comperata il marito, ma di lui nessuno si ricordava più, forse non era neppure un vero marito. Umberto era incuriosito, e inoltre soffriva di solitudine; un giorno si fece animo e fermò la signora col pretesto di chiederle dov' era un certo vicolo: la signora rispose brevemente, con precisione e in buon italiano. Dopo di allora Umberto non seppe immaginare altri artifici per varare una conversazione; si limitò a manovrare in modo da incrociarla nel suo giro mattutino, la salutava, e lei gli rispondeva sorridendo. Umberto guarì e ritornò a Milano. A Umberto piaceva leggere. Si imbatté in un libro che lo divertiva: erano le memorie di un soldato inglese che aveva combattuto contro gli italiani in Cirenaica, era stato fatto prigioniero e internato presso Pavia, ma poi era evaso e aveva raggiunto i partigiani. Non era stato un grande partigiano; gli piacevano di più le ragazze che le armi, descriveva diversi suoi amori effimeri ed allegri, ed uno più lungo e tempestoso con una profuga lituana. Su questo episodio il racconto dell' inglese passava dal passo al trotto e poi al galoppo: sul fondo teso e buio dell' occupazione tedesca e dei bombardamenti alleati, si delineavano pazze fughe a due in bicicletta per le strade oscurate, in barba alle ronde e al coprifuoco, e temerarie avventure nel sottobosco del contrabbando e della borsa nera. Della lituana emergeva un ritratto memorabile; instancabile e indistruttibile, brava a sparare quando occorreva, portentosamente vitale: una Diana-Minerva innestata sul corpo opulento (e diffusamente descritto dall' inglese) di una Giunone. I due indemoniati si perdevano e si ritrovavano per le valli dell' Appennino, impazienti di ogni disciplina, oggi partigiani, domani disertori, poi partigiani di nuovo; consumavano cene vertiginose in bivacchi e caverne, ed a queste facevano seguito notti eroiche. La lituana veniva rappresentata come un' amante senza eguali, impetuosa e raffinata, mai distratta: poliglotta e polivalente, sapeva amare nella sua lingua, in italiano, in inglese, in russo, in tedesco, ed in almeno altre due lingue su cui l' autore sorvolava. Questi amori torrentizi si dipanavano per trenta pagine prima che l' inglese si preoccupasse di svelare il nome della sua amazzone: se ne ricordava alla trentunesima, e il nome era Harmonika. Umberto sobbalzò e chiuse il libro. La coincidenza del nome poteva essere casuale, ma gli ritornava sullo schermo della memoria quel cognome curioso e l' ellissi colorata che lo circondava; quei colori dovevano pure avere un senso. Cercò invano per casa una documentazione, la sera dopo andò in biblioteca, e trovò quanto desiderava sapere: la bandiera dell' effimera repubblica lituana, fra le due guerre mondiali, era gialla verde e rossa. Non soltanto: alla voce "Lituania" dell' enciclopedia gli cadde l' occhio su Basanavicius, fondatore del primo giornale in lingua lituana, su Slezavicius, Primo Ministro negli anni venti, su Stanevicius poeta settecentesco (dove non si trova un poeta settecentesco!) e su Neveravicius romanziere. Possibile? Possibile che la taciturna benefattrice e la baccante fossero la stessa persona? Da allora in poi Umberto non fece che pensare a un pretesto per tornare in riviera, fino ad augurarsi una leggera ricaduta della sua pleurite; non ne trovò alcuno plausibile, ma raccontò una fandonia a Eva, e un sabato partì lo stesso, portandosi dietro il libro. Si sentiva ilare e intento come un bracco sulla pista della volpe; marciò dalla stazione alla Bomboniera con passo militare, suonò il campanello senza esitazioni, ed entrò subito in argomento, con una mezza bugia fabbricata all' istante. Lui abitava a Milano ma era della Val Tidone: aveva sentito dire che la signora conosceva bene quei paraggi, aveva nostalgia, gli sarebbe piaciuto parlarne con lei. La signora Grinkiavicius ci guadagnava ad essere vista da vicino ; la fronte era rugosa ma fresca e ben modellata, e dagli occhi traspariva una luce ridente. Sì, ci era stata, molti anni prima; ma lui, da dove aveva saputo quelle notizie? Umberto contrattaccò: _ Lei è lituana, vero? _ Ci sono nata; è un paese infelice. Ma ho studiato altrove, in diversi altri luoghi. _ Così parla molte lingue? La signora era ormai visibilmente sulla difensiva, e si impuntò: _ Le ho fatto una domanda, e lei mi risponde con altre domande. Voglio sapere da dove lei ha saputo questi fatti miei: mi pare lecito, non le sembra? _ Da questo libro, _ rispose Umberto. _ Me lo dia! Umberto tentò una parata e una ritirata, ma con scarsa convinzione; si era reso conto in quel momento che lo scopo vero del suo ritorno in riviera era stato proprio quello: vedere Harmonika in atto di leggere le avventure di Harmonika. La signora si impadronì facilmente del volume, sedette vicino alla finestra e si immerse nella lettura: Umberto, sebbene non invitato, sedette anche lui. Sul viso di Harmonika, ancora giovanile ma rosso per le molte venuzze dilatate, si vedevano passare i moti dell' animo come le ombre delle nuvole su una pianura spazzata dal vento: rimpianto, divertimento, stizza, ed altri meno decifrabili. Lesse per una mezz' ora, poi gli tese il libro senza parlare. _ Sono cose vere? _ chiese Umberto. La signora tacque talmente a lungo che Umberto temette si fosse offesa; ma poi sorrise e rispose: _ Mi guardi. Sono passati più di trent' anni, e io sono un' altra. Anche la memoria è un' altra; non è vero che i ricordi stiano fermi nella memoria, congelati: anche loro vanno alla deriva, come il corpo. Sì, ricordo una stagione in cui io ero diversa. Mi piacerebbe essere la ragazza del libro: mi accontenterei anche solo di esserlo stata, ma non lo sono mai stata. Non ero io a trascinare l' inglese; io ricordo me stessa molle nelle sue mani, come argilla. I miei amori ... sono questi che le interessano, vero? Ecco, stanno bene dove sono: nella mia memoria, scoloriti e secchi, con un' ombra di profumo, come fiori in un erbario. Nella sua sono diventati lucidi e chiassosi come giocattoli di plastica. Non so quali siano i più belli. Scelga lei: via, si riprenda il suo libro e se ne torni a Milano.

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