Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La chiave a stella 1978

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Levi, Primo 6 occorrenze

Io mi attaccavo alla telescrivente, perché anche il telefono funzionava solo quando voleva, e dopo un quarto d' ora la macchinetta si metteva a battere fitto fitto come fanno le telescriventi, che sembra che abbiano sempre fretta, anche quando scrivono delle coglionate, e sul foglio si leggeva: "Malgrado ns. raccomandazioni avete evidentemente impiegato materiale di origine sospetta", o qualche altra gofferia del genere che c' entrava come i cavoli a merenda, e io mi sentivo venire il latte ai gomiti. Guardi che non è un modo di dire, si sentono proprio i gomiti venire molli molli, e anche i ginocchi, le mani pendere e dondolare come le poppe di una vacca, e viene voglia di cambiare mestiere. A me è successo diverse volte, ma quella volta lì più che tutte le altre, e sì che ho visto le mie. A lei non le è mai capitato?" Eh, come no! Ho spiegato a Faussone che, almeno in tempo di pace, è quella una delle esperienze fondamentali della vita: sul lavoro e non solo sul lavoro. È probabile che, magari in altre lingue, quest' alluvione lattea, che interviene a debilitare e ad impedire l' uomo fabbro, possa venire descritta con immagini più poetiche, ma nessuna fra quelle che io conosco è altrettanto vigorosa. Gli ho fatto notare che, per provarla, non c' è bisogno di avere un caposervizio noioso. "Sì, ma quello, lasci perdere, avrebbe fatto scappare la pazienza a un santo. Mi creda, non è che io ci prenda gusto a leggergli la vita, perché gliel' ho detto che non era cattivo: è che mi toccava proprio nel mio punto debole, nel gusto del lavoro. Avrei avuto più caro che mi avesse dato una multa, non so, magari una sospensione, piuttosto di quelle paroline messe lì come per caso, ma che quando poi uno ci pensa sopra si accorge che portano via il pelo. Insomma, come se tutti gli intoppi di quel lavoro, e mica solo di quello, fossero stati colpa mia, perché non avevo voluto mettere i cuscinetti svedesi, e invece io li avevo proprio messi, erano mica soldi miei, ma lui non ci credeva, oppure faceva mostra di non crederci: basta, dopo ogni telefonata mi sentivo come un criminale, e sì che in quel lavoro ci avevo messo l' anima. Ma io l' anima ce la metto in tutti i lavori, lei lo sa, anche nei più balordi, anzi, con più che sono balordi, tanto più ce la metto. Per me, ogni lavoro che incammino è come un primo amore". Nella dolce luce del tramonto avevamo preso la via del ritorno, lungo un sentiero appena segnato nel folto della foresta. Contro ogni sua abitudine, Faussone si era interrotto, e camminava silenzioso al mio fianco, con le mani dietro la schiena e gli occhi fissi al suolo. L' ho visto due o tre volte prendere fiato e aprire la bocca come se stesse per ricominciare a parlare, ma sembrava indeciso. Ha ripreso solo quando eravamo ormai in vista della foresteria: "Vuole che gliene dica una? Per una volta, quel caposervizio aveva ragione. Aveva quasi ragione. Era vero che su quel lavoro c' erano delle difficoltà, che non si trovava il materiale, che il commendatore, sì, quello dei salami, invece di darmi una mano mi faceva perdere tempo. Era anche vero che non c' era uno dei manovali che valesse due soldi; ma se il lavoro veniva avanti malamente, e con tutti quei ritardi, la colpa era anche un po' mia. Anzi, era di una ragazza". Lui, veramente, aveva detto "'na fija", ed infatti, in bocca sua, il termine "ragazza" avrebbe suonato come una forzatura, ma altrettanto forzato e manierato suonerebbe "figlia" nella presente trascrizione. La notizia, comunque, era sorprendente: in tutti gli altri suoi racconti Faussone aveva posto il suo vanto nel presentarsi come un refrattario, un uomo dagli scarsi interessi sentimentali, uno, appunto, "che non corre appresso alle figlie", ed a cui le figlie invece corrono dietro, ma lui non se ne cura, si prende questa o quella senza darle peso, se la tiene finché dura il cantiere e poi la saluta e parte. Mi sono fatto attento e teso. "Sa, sulle ragazze di quelle terre si raccontano un mucchio di storie, che sono piccole, grasse, gelose, e buone solo a fare dei figli. Quella ragazza che le dicevo era alta come me, coi capelli castani che erano quasi rossi, dritta come un fuso e ardita come ne ho viste poche. Portava il carrello a forche, anzi, è proprio così che ci siamo incontrati. Accosto al nastro che io stavo montando c' era la pista per i carrelli: ce ne passavano due giusti giusti. Vedo venire giù un carrello guidato da una ragazza, con un carico di profilati che sporgeva un poco, e in su venire un altro carrello vuoto, anche quello guidato da una ragazza: chiaro che incrociarsi non potevano, bisognava che uno dei due facesse marcia indietro fino a uno slargo, oppure che la ragazza dei profilati posasse il carico e lo sistemasse meglio. Niente: si piantano lì tutte e due e cominciano a dirsene di tutte le tinte. Io ho capito subito che fra di loro ci doveva essere della ruggine vecchia, e mi sono messo lì con pazienza a aspettare che avessero finito: perché anch' io dovevo passare, avevo uno di quei carrellini che si guidano dal timone, carico dei famosi cuscinetti, che Dio liberi se avesse dato il giro e il mio caposervizio lo avesse saputo. Basta, aspetto cinque minuti, poi dieci, niente, quelle continuavano come se fossero state in piazza. Litigavano nel loro dialetto, ma si capiva quasi tutto. A un certo punto io mi sono fatto sotto, e gli ho chiesto se per piacere mi facevano passare: quella più grande, che era poi la ragazza che le dicevo prima, si volta e mi fa tutta tranquilla: "Aspettate un momento, non abbiamo ancora finito"; poi si gira verso quell' altra, e così, a sangue freddo, gliene tira giù una che non mi oso di ripetergliela, ma le giuro che mi ha fatto venire i capelli all' umberta. "Ecco", mi fa "ora passate pure", e dicendo così se ne parte a marcia indietro a tutta velocità, facendo la barba alle colonne, e anche ai montanti del mio nastro, che io mi sentivo venire freddo. Arrivata che è stata al corridoio di testa, ha preso la curva che neanche Nichi Lauda, sempre a marcia indietro, e invece di guardarsi dietro mi guardava me. "Cristo", penso io tra di me, "questa è un diavolo scatenato": ma l' avevo già bell' e capito che tutto quel cine lo faceva per me, e poco tempo dopo ho anche capito che lo faceva apposta, a fare tanto la malgraziosa, perché era diversi giorni che mi stava lì a guardare mentre che io mettevo le mensole in bolla d' aria ...". L' espressione mi suonava strana, ed ho chiesto un chiarimento. Faussone, impermalito, mi ha spiegato in poche parole dense che la bolla d' aria è solo una livella, che appunto ha dentro un liquido con una bolla d' aria. Quando questa coincide con il contorno di riferimento, la livella è orizzontale, e lo è anche il piano su cui la livella appoggia. "Noi diciamo soltanto per esempio "metti quel supporto in bolla d' aria", e ci capiamo fra di noi; ma mi lasci andare avanti, perché la storia della ragazza è più importante. Insomma, lei aveva capito me, cioè che a me mi va la gente decisa e che sa fare il suo mestiere, e io avevo capito che lei, alla sua maniera, mi stava dietro e cercava di attaccare discorso. Poi l' abbiamo attaccato, il discorso, non c' è stata nessuna difficoltà, voglio dire che siamo andati a letto insieme, tutto regolare, niente di speciale; ma ecco, una cosa gliela volevo dire: che il momento più bello, quello che uno si dice "questo non me lo dimentico mai più, finché vengo vecchio, finché tiro gli ultimi", e vorrebbe che il tempo si fermasse lì come quando un motore s' ingrippa: bene, non è stato quando siamo andati a letto, ma prima. È stato alla mensa della fabbrica del commendatore: ci eravamo seduti vicini, avevamo finito di mangiare, parlavamo del più e del meno, anzi, mi ricordo perfino che io le stavo raccontando del mio caposervizio e della sua maniera di aprire le porte, e ho tastato la panca alla mia destra, e c' era la sua mano, e io l' ho toccata con la mia, e la sua non se n' è andata e si lasciava carezzare come un gatto. Parola, tutto il resto che è venuto dopo è stato anche abbastanza bello, ma conta di meno". "E adesso?" "Ma insomma, lei vuole proprio sapere tutto", mi ha risposto Faussone, come se a chiedergli di raccontare la storia della carrellista fossi stato io. "Cosa vuole bene che le dica: è un tira e molla. Sposarla, non la sposo: primo per il mio mestiere, secondo perché ... sì, insomma, prima di maritarsi uno bisogna che ci pensi sopra quattro volte, e prendersi una ragazza come quella, brava, poco da dire, ma furba come una strega, bene, non so se mi spiego. Ma neanche a metterci una pietra sopra e a non pensarci più non sono buono. Ogni tanto vado dal mio direttore e mi faccio mandare in trasferta in quel paese, con la scusa delle revisioni. Una volta è piombata qui a Torino, in ferie, con addosso i blugins tutti stinti sui ginocchi, in compagnia di un ragazzo di quelli con la barba fino negli occhi, e me l' ha presentato senza fare una piega: e neanche io l' ho fatta, una piega; sentivo come una specie di bruciacuore, qui alla bocca dello stomaco, ma non le ho detto niente perché i patti erano quelli. Però lo sa che lei è un bel tipo a farmi contare queste storie, che fuorivia di lei non le avevo mai contate a nessuno?"

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"Sa, fosse stato il lago di Avigliana forse avrebbe anche ragione lei, ma quello era il Pacifico, e non so proprio perché quegli esploratori lo abbiano chiamato così, dato che onde ne ha sempre, anche quando è calmo: o almeno, tutte le volte che l' ho visto. E un arnese lungo come quello, anche se è d' acciaio, basta poco per farlo flettere, perché non era calcolato per lavorare da coricato; un po' come noi, se uno ci pensa bene, che per dormire abbiamo bisogno che il letto sia piano. Insomma i pontoni ci volevano, se no c' era pericolo che con le onde si deformasse. Le dicevo allora che eravamo su uno dei rimorchiatori, e che io in principio avevo un po' di paura; ma poi mi è passata, perché mi sono convinto che pericoli non ce n' erano. Sono delle gran belle macchine, i rimorchiatori; comodi no, non sono fatti per farci le crociere, ma solidi, pensati bene, senza un bullone di troppo, e a starci sopra lei ha subito l' impressione che hanno una forza straordinaria, e infatti servono per rimorchiare delle navi molto più grosse di loro, e non c' è burrasca che li possa fermare. Dopo un po' di tempo che si navigava fra un canale e l' altro, mi sono stufato di stare lì a guardare il paesaggio, che era sempre uguale, sono sceso sotto coperta e nella sala macchine per rendermi conto, e devo dire che mi sono divertito, anche se chiamarla sala è esagerato, perché c' è appena lo spazio per girarsi: ma quelle bielle, e più che tutto l' albero dell' elica, non me li dimentico più; e neanche la cucina, dove tutti i padellini sono imbullonati alla parete, e il cuoco per fare da mangiare non ha neanche bisogno di muoversi perché ha tutto a portata di mano. Del resto, quando è venuto notte ci siamo fermati e ci hanno dato il rancio come sotto la naia, ma non era niente male; solo che per frutta ci hanno dato i gamberi con la marmellata. Poi, a dormire anche noi nelle cuccette; non si ballava neanche tanto, anzi giusto quello che va bene per addormentarsi. Al mattino siamo usciti da quell' intrico di canali, e io ho tirato il fiato. C' era solo più da fare una dozzina di miglia per trovare il posto, dove c' era già una boa con un fanale e con la radio, per trovarla anche se c' era la nebbia; e la nebbia c' era proprio. Siamo arrivati alla boa che era mezzogiorno. Lì abbiamo attaccato il derrick a delle altre boe, perché non andasse a spasso durante la manovra, e abbiamo aperto le vie d' aria dei pontoni, per farli affondare un poco e poi rimorchiarli via: dico abbiamo, ma per dire la verità io sono rimasto sul ponte, e sui pontoni c' è andato il pellerossa, che di tutti era quello che il mare gli dava meno soggezione, ma del resto è stata la questione di un momento; si è solo sentito un gran soffio, come se respirassero di sollievo, e i due pontoni si sono staccati dal derrick e i rimorchiatori li hanno portati via. A questo punto, poco da fare, ero io di scena. Fortuna che il mare era quasi calmo: ho messo su la più bella grinta che sono riuscito a inventare, e poi io coi miei quattro uomini siamo saliti su una barchetta e ci siamo arrampicati su per le scalette del derrick. Si trattava di fare le verifiche, e poi di togliere le sicurezze dalle valvole delle gambe di galleggiamento: sa bene come va quando uno gli tocca di fare una cosa che non gli piace, ma si fa forza, perché quando è da fare si fa; specie poi se deve farla fare anche dagli altri, e se uno degli altri ha il mal di mare, o magari se lo fa venire apposta, perché ho avuto il sospetto. Le verifiche è stato un lavoro lungo, ma andavano bene, non c' era nessuna deformazione più grossa di quelle previste. Per le sicurezze, non so se mi sono fatto capire: si immagini il mio derrick come una piramide tronca, eccola qui, che sta a galla su una delle facce, che è fatta di tre gambe allineate che sono i tubi di galleggiamento. Bene, bisognava appesantire la parte bassa di queste gambe, in modo che loro affondassero e la piramide desse il giro e si mettesse a piombo. Per appesantire le gambe bisognava farci entrare l' acqua del mare: erano divise in segmenti con paratie stagne, e ogni segmento aveva delle valvole per fare uscire l' aria e entrare l' acqua al momento giusto. Le valvole erano radiocomandate, ma avevano delle sicurezze, e quelle andavano tolte a mano, voglio dire a colpi di martello. Ecco, è stato proprio in questo momento che io mi sono accorto che tutto il traliccio si stava muovendo. Era strano: il mare sembrava fermo, onde non se ne vedevano, e invece il traliccio si muoveva: su e giù, su e giù, piano piano, come una cuna per i bambini, e io ho cominciato a sentirmi lo stomaco come se mi fosse salito fin qui. Ho cercato di resistere, e forse ci sarei anche riuscito, se non mi fosse cascato l' occhio su Di Staso, attaccato a due controventature come Cristo sulla croce, che dava di stomaco dentro l' Oceano Pacifico da otto metri di altezza, e allora addio. Il lavoro l' abbiamo fatto lo stesso, ma sa, io di regola ci terrei a fare le mie cose con un po' di stile, e invece, le risparmio i particolari, ma invece che a dei gatti somigliavamo a quelle bestie che non mi ricordo più come si chiamano, che si vedono allo zoo, hanno la faccia da cretino che ride sempre, le zampe che finiscono come con dei rampini e camminano piano piano appese ai rami degli alberi con la testa in giù: ecco, fuori del pellerossa noialtri quattro facevamo quell' effetto lì, e di fatti io vedevo quei bastardi sul rimorchiatore che invece di farci coraggio ridevano, ci facevano tutti i gesti della scimmia, e si battevano le mani sulle cosce. Ma dal suo punto di vista dovevano aver ragione: vedere lo specialista venuto apposta da capo al mondo, con la chiave a stella appesa alla vita, perché quella è per noi come la spada per i cavalieri di una volta, che viceversa fa i gattini come un bambino piccolo, doveva essere un bello spettacolo. Fortuna che quel lavoro io lo avevo preparato bene, e ai quattro gli avevo fatto fare le esercitazioni; insomma, a parte l' eleganza, abbiamo finito con solo un quarto d' ora di ritardo sul tempo del libretto, siamo rimontati sul rimorchiatore, e a me il mal di mare è passato subito. In cabina di comando c' era l' ingegnere col binocolo e il cronometro, davanti ai comandi radio, e lì è incominciata la cerimonia. Sembrava di essere davanti alla televisione quando si toglie l' audio. Lui schiacciava i bottoni uno per uno, come dei campanelli, ma non si sentiva niente, solo noi che respiravamo, e respiravamo come in punta di piedi. E a un certo punto si è visto il derrick che cominciava a pendere, come un bastimento quando sta per andare a fondo: anche di lontano si vedevano i vortici che facevano i piedi affondando nell' acqua, e le onde arrivavano fino a noi e scuotevano il rimorchiatore, ma rumori non se ne sentivano. Pendeva sempre di più, la piattaforma di sopra si sollevava, finché facendo una gran schiuma si è messo in piedi, è disceso ancora un poco e si è fermato netto, come un' isola, ma era un' isola che l' avevamo fatta noi; e io non so gli altri, magari non pensavano a niente, ma io ho pensato al Padreterno quando ha fatto il mondo, dato che sia stato proprio lui, e quando ha separato il mare dall' asciutto, anche se non c' entrava poi tanto. Allora abbiamo ripreso la barca, sono arrivati anche quelli dell' altro rimorchiatore, e ci siamo arrampicati tutti sulla piattaforma; abbiamo rotto una bottiglia e abbiamo fatto un po' di baldoria, perché costuma così. E adesso non vada a dirlo in giro, ma a quel momento mi è venuto come da piangere. Non per via del derrick, ma per via di mio padre; voglio dire, quel sacramento di ferro piantato in mezzo al mare mi ha fatto venire in mente un monumento balordo che una volta aveva fatto mio padre con dei suoi amici, un pezzo per volta, di domenica dopo le bocce, tutti vecchiotti, e tutti un po' strambi e un po' bevuti. Avevano tutti fatto la guerra, chi in Russia, chi in Africa, chi non so dove altro, e ne avevano basta; così, essendo che erano tutti più o meno del mestiere, uno sapeva saldare, uno tirava la lima, uno batteva la lastra e così via, avevano combinato di fare un monumento e di regalarlo al paese, ma doveva essere un monumento all' incontrario. Di ferro invece che di bronzo, e invece che tutte le aquile e le corone di gloria e il soldato che viene avanti con la baionetta, volevano fare la statua del panettiere ignoto: sì, di quello che ha inventato la maniera di fare le pagnotte; e farla di ferro, appunto, in lamiera nera da venti decimi, saldata e imbullonata. L' hanno anche fatta, e niente da dire era bella robusta, ma come estetica non è riuscita tanto bene. Così il sindaco e il parroco non l' hanno voluta, e invece che in mezzo alla piazza, sta in una cantina a far la ruggine, in mezzo alle bottiglie di vino buono".

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Le prime volte era una morte, lo dico sul serio, mi sembrava di morire; non so se ce lo abbiano tutti, ma io avevo come un meccanismo automatico, appena avevo la testa dentro mi si chiudevano tutte le serracinesche qui nella gola, mi sentivo entrare l' acqua dentro le orecchie e mi pareva che colasse per quei due canalini fin dentro il naso, giù nel collo e nei polmoni, e mi facesse annegare. Così ero obbligato a alzarmi, e mi veniva quasi voglia di ringraziare il Padreterno perché ha separato l' acqua dall' asciutto, come è scritto nella Bibbia. Non era neanche una paura, era un orrore, come quando uno vede un morto all' improvviso e gli si drizzano tutti i peli: ma non anticipiamo, e insomma mi sono abituato. Stare a galla, poi, ho visto che era una faccenda a due indritti. Avevo visto diverse volte come fanno gli altri, quando si mettono a fare il morto: ho provato anch' io, e galleggiavo, niente da dire, solo che per galleggiare mi dovevo riempire i polmoni d' aria, come quei cassoni dell' Alasca che le ho raccontato; e uno non può mica stare sempre con i polmoni pieni, viene un momento che li deve pure vuotare, e allora mi sentivo affondare come i cassoni quando è stata l' ora di rimorchiarli via, e ero obbligato a tirare calci nell' acqua più presto che potevo, sempre con il fiato sospeso, finché sentivo la terra sotto i piedi; allora mi mettevo dritto respirando fitto fitto come un cane, e mi veniva voglia di piantare lì. Ma sa come succede quando uno incontra una difficoltà e allora gli pare come se avesse fatto una scommessa e gli spiace di perderla: a me capitava così, e del resto mi succede anche sul lavoro, magari pianto lì un lavoro facile ma non uno difficile. Tutto il guaio viene dal fatto che abbiamo le condotte dell' aria dalla parte sbagliata: i cani, e ancora meglio le foche, che le hanno dalla parte giusta, nuotano fin da piccoli senza fare storie e senza che nessuno gli insegni. Così mi sono rassegnato, per quella prima volta, a imparare a nuotare sulla schiena: mi sarei contentato, anche se non mi sembrava tanto naturale, ma se uno sta in acqua sulla schiena ha il naso fuori, e allora teoricamente respira. Da principio respiravo piccolo, in modo da non vuotare troppo i cassoni, poi ho aumentato la corsa poco per volta, finché mi sono convinto che si poteva anche respirare senza affondare, o almeno senza affondare il naso che è il più importante. Però bastava che arrivasse un' ondina alta così che mi riprendeva la paura e perdevo la bussola. Facevo tutti i miei esperimenti, e quando mi sentivo stanco o senza fiato andavo a riva e mi stendevo a prendere il sole vicino al pilone dell' autostrada; ci avevo anche piantato un chiodo per appenderci i vestiti, se no si riempivano di formiche. Gliel' ho detto, erano piloni alti una cinquantina di metri, o forse anche di più: erano di cemento nudo, con ancora lo stampo delle casseforme. A un due metri da terra c' era una macchia, e le prime volte non ci ho fatto neanche caso; una notte ha piovuto, e la macchia è venuta fuori più scura, ma anche quella volta non ci ho fatto caso. Certo che era una macchia strana: c' era solo quella, tutto il resto del pilone era pulito, e anche gli altri piloni. Era lunga un metro, quasi divisa in due pezzi, uno lungo e uno corto, come un punto esclamativo, solo un poco di sbieco". Ha taciuto a lungo, strofinando le mani come se le lavasse. Si sentiva distinto il battito del motore, e già si distingueva in lontananza la stazione fluviale. "Senta, non mi piace dire le bugie. Esagerare un poco sì, specie quando racconto del mio lavoro, e credo che non sia peccato, perché tanto chi sta a sentire si accorge subito. Bene, un giorno mi sono accorto che per traverso della macchia c' era una crepa, e una processione di formiche che entravano e uscivano. Mi è venuta la curiosità, ho battuto con un sasso e ho sentito che suonava cavo. Ho battuto più forte, e il cemento era solo spesso un dito e si è sfondato; e dentro c' era una testa di morto. Mi è sembrato che mi avessero sparato negli occhi, tanto che ho perso l' equilibrio, ma era proprio lì, e mi guardava. Subito dopo mi è venuta una malattia strana, mi sono uscite delle croste qui sulla vita, che mi smangiavano, cadevano e venivano fuori delle altre: ma io sono stato quasi contento perché avevo la scusa di piantare lì tutto e tornare a casa. Così a nuotare non ho imparato, né allora né dopo, perché tutte le volte che mi mettevo in acqua, fosse mare, o fiume, o lago, mi venivano dei brutti pensieri".

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La malizia di quel lavoro di tendere i fili è che i fili bisogna che abbiano tutti la stessa tensione: e su una lunghezza come quella non è tanto facile. Facevamo due turni di sei ore, dall' alba al tramonto, ma poi abbiamo dovuto organizzare una squadra speciale che montava di notte, prima che venisse il sole, perché di giorno capita sempre che ci sono dei fili al sole, che scaldano e dilatano, e degli altri all' ombra, e allora la registrazione bisogna farla a quell' ora lì, perché tutti i fili hanno la stessa caloria: e questa registrazione poco da fare mi è sempre toccato di farla a me. Siamo andati avanti così per sessanta giorni, sempre con la puleggia folle che andava avanti e indietro, e la ragnatela cresceva, bella tesa e simmetrica, e dava già l' idea della sagoma che il ponte avrebbe avuto dopo. Faceva caldo, gliel' ho già detto, anzi, le avevo anche detto che non glielo avrei più detto, ma insomma faceva caldo; quando calava giù il sole era un sollievo, anche perché allora potevo rientrare in baracca e bere un bicchiere e cambiare parola con Peraldo. Peraldo aveva cominciato da manovale, poi era diventato muratore e poi cementista; era stato un po' dappertutto, e anche quattro anni in Congo a fare una diga, e da raccontare ne aveva, ma se mi metto a raccontarle anche le storie degli altri in più delle mie finisce che non finisco più. Quando la tesatura è stata terminata, a guardare da lontano si vedevano i due cavi che andavano da una sponda all' altra coi loro quattro festoni, fini e leggeri appunto come fili di ragno: ma a guardarli da vicino erano due fasci da far paura, spessi settanta centimetri; e li abbiamo compattati con una macchina speciale, come un torchio fatto a anello che viaggia lungo il cavo e lo stringe con una forza di cento tonnellate, ma in questo io non ci ho messo mano. Era una macchina americana, l' avevano spedita fin laggiù col suo specialista americano che guardava tutti di traverso, non parlava con nessuno e non lasciava che nessuno si avvicinasse, si vede che aveva paura che gli portassero via il segreto. A questo punto il difficile sembrava che fosse fatto; le funi verticali di sospensione le abbiamo tirate su in pochi giorni, le pescavamo coi paranchi dai pontoni che stavano sotto, e sembrava proprio di pescare delle anguille, ma erano anguille che pesavano quindici quintali l' una; e finalmente è stata l' ora di cominciare a piazzare la carreggiata, e nessuno lo poteva indovinare, ma è stato proprio lì che è cominciata l' avventura. Bisogna che le dica che, dopo il guaio di quella piena improvvisa che le ho detto, avevano fatto finta di niente ma il mio consiglio l' avevano pure seguito: mentre io ero a Calcutta avevano fatto arrivare un finimondo di camion carichi di pietroni, e come l' acqua è scesa, gli argini li hanno consolidati ben bene. Ma sa com' è la storia di quel gatto scottato, che dopo aveva paura dell' acqua fredda: per tutto il montaggio, da in cima del mio passo del gatto io l' acqua la tenevo d' occhio, e avevo anche ottenuto dall' ingegnere che mi mettesse un telefono volante a disposizione, perché pensavo che se aveva da venire un' altra piena era meglio arrivare prima; e non pensavo che il pericolo veniva da un' altra parte, e a giudicare da come sono andate le cose, non ci pensava nessuno, e neanche non ci avevano pensato i progettisti. Io quei progettisti non li ho mai visti in faccia, non so neppure di che razza fossero, però ne ho conosciuti degli altri, e tanti, e so che ce n' è di diverse maniere. C' è il progettista elefante, quello che sta sempre dalla parte della ragione, che non guarda né l' eleganza né l' economia, che non vuole grane e mette quattro dove basta uno: e in genere è un progettista già un po' vecchiotto, e se lei ci ragiona sopra vede che è una faccenda triste. C' è il tipo rancino, invece, che sembra che ogni rivetto lo deva pagare di tasca sua. C' è il progettista pappagallo, che i progetti invece di studiarci su tira a copiarli come si fa a scuola, e non si accorge che si fa ridere dietro. C' è il progettista lumaca, voglio dire il tipo burocrate, che va piano piano, e appena lo tocchi si tira subito indietro e si nasconde dentro al suo guscio che è fatto di regolamenti: e io, senza offendere, lo chiamerei anche il progettista balengo. E alla fine c' è il progettista farfalla, e io credo proprio che i progettisti di quel ponte fossero di questo tipo qui: e è il tipo più pericoloso, perché sono giovani, arditi e te la dànno a intendere, se gli parli di soldi e di sicurezza ti guardano come uno sputo, e tutto il loro pensiero è per la novità e per la bellezza: senza pensare che, quando un' opera è studiata bene, viene bella per conto suo. Mi scusi se mi sono sfogato, ma quando uno su un lavoro ci mette tutti i suoi sentimenti, e poi finisce come quel ponte che le sto raccontando, ebbene, dispiace. Dispiace per tanti motivi: perché uno ha perso tanto tempo, perché dopo succede sempre un putiferio con gli avvocati e il codice e i settemila accidenti, perché uno anche se non c' entra niente finisce sempre che si sente un po' di colpa; ma più che tutto, vedere venire giù un' opera come quella, e il modo poi come è venuta giù, un pezzo per volta, come se patisse, come se resistesse, faceva male al cuore come quando muore una persona. E proprio come quando muore una persona, che dopo tutti dicono che loro l' avevano visto, da come respirava, da come girava gli occhi, così anche quella volta, dopo il disastro, tutti volevano dire la sua, perfino l' indiano dell' operazione: che si vedeva benissimo, che le sospensioni erano scarse, che l' acciaio aveva delle soffiature grosse come dei fagioli, i saldatori dicevano che i montatori non sapevano montare, i gruisti dicevano che i saldatori non sapevano saldare, e tutti insieme se la prendevano con l' ingegnere e gli leggevano la vita, che dormiva in piedi e batteva la calabria e non aveva saputo organizzare il lavoro. E forse avevano ragione un po' tutti, o magari nessuno, perché anche qui è un po' come per le persone, a me è già successo tante volte, un traliccio per esempio, collaudato e stracollaudato che sembra che debba stare lì un secolo, e comincia a cioccare dopo un mese; un altro che non scommetteresti quattro soldi, niente, non fa una ruga. E se lei si mette nelle mani dei periti fa un bell' affare, ne vengono tre e dànno tre ragioni diverse, mai visto un perito che cavasse il ragno dal buco. Si capisce che se uno muore, o una struttura si sfascia, una ragione ci deve pur essere, ma non è detto che sia una sola, o se sì, che sia possibile trovarla. Ma andiamo con ordine. Le ho detto che per tutto questo lavoro aveva sempre fatto caldo, tutti i giorni, un caldo bagnato che era difficile abituarsi, io però verso la fine mi ero abituato. Bene, a lavoro finito, che c' erano già i verniciatori arrampicati un po' dappertutto e sembravano moscerini su una ragnatela, mi sono accorto che tutto d' un colpo aveva smesso di fare caldo: il sole era già spuntato, ma invece di fare caldo come al solito, il sudore asciugava addosso e si sentiva fresco. Ero anch' io sul ponte, a metà della prima campata, e oltre al fresco ho sentito due altre cose che mi hanno fatto restare lì bloccato come un cane da caccia quando punta: ho sentito il ponte che mi vibrava sotto i piedi, e ho sentito come una musica, ma non si capiva da che parte venisse: una musica, voglio dire un suono, profondo e lontano, come quando provano l' organo in chiesa, perché da piccolo io in chiesa ci andavo; e mi sono reso conto che tutto veniva dal vento. Era il primo vento che sentivo da quando ero atterrato in India, e non era un gran vento, però era costante, come il vento che uno sente quando va in auto piano piano e tiene la mano fuori dal finestrino. Mi sono sentito inquieto, non so perché, e mi sono incamminato verso la testata: forse sarà anche questo un effetto del nostro mestiere, ma le cose che vibrano a noi ci piacciono poco. Sono arrivato al pilone di testa, mi sono voltato indietro, e mi sono sentito drizzare tutti i peli. No, non è un modo di dire, si drizzano proprio, uno per uno e tutti insieme, come se si svegliassero e volessero scappare: perché da dove ero io si vedeva tutto il ponte d' infilata, e capitava una cosa da non crederci. Era come se, sotto quel fiato di vento, anche il ponte si stesse svegliando. Sì, come uno che ha sentito un rumore, si sveglia, si scrolla un po' , e si prepara a saltare giù dal letto. Tutto il ponte si scuoteva: la carreggiata scodinzolava a destra e a sinistra, e poi ha incominciato a muoversi anche nel piano verticale, si vedevano delle onde che correvano dal mio capo all' altro, come quando si scuote una corda lenta; ma non erano più vibrazioni, erano onde alte uno o due metri, perché ho visto uno dei verniciatori che aveva piantato lì il suo lavoro e si era messo a correre verso di me, e un po' lo vedevo e un po' non lo vedevo, come una barca nel mare quando le onde sono grosse. Tutti sono scappati via dal ponte, anche gli indiani andavano un po' più in fretta del solito, e c' è stato un gran gridare e un gran disordine: nessuno sapeva che cosa fare. Anche i cavi di sospensione si erano messi in movimento. Sa come succede in quei momenti, che uno dice una cosa e un altro un' altra; ma dopo qualche minuto si è visto che il ponte, non che si fosse fermato, ma le onde si erano come stabilizzate, andavano e rimbalzavano da un capo all' altro sempre con la stessa cadenza. Non so chi abbia dato l' ordine, o forse è qualcuno che si è presa l' iniziativa, ma ho visto uno dei trattori del cantiere che infilava la carreggiata del ponte rabastandosi dietro due cavi da tre pollici: forse volevano tirarli in diagonale per frenare le oscillazioni, certo chi lo ha fatto ha avuto un bel coraggio, o meglio una bella incoscienza, perché io non credo proprio che con quei due cavi, anche se fossero riusciti a fissarli, si potesse fermare una struttura come quella, pensi che la carreggiata era larga otto metri e alta uno e mezzo, faccia un po' il conto delle tonnellate che erano lì in giostra. Ogni modo, non hanno fatto a tempo a fare niente, perché di lì in poi le cose sono precipitate. Forse il vento si era rinforzato, non saprei dire, ma verso le dieci le onde verticali erano alte quattro o cinque metri, e si sentiva tremare la terra, e il fracasso delle sospensioni verticali che si allentavano e si tendevano. Il trattorista ha visto la mala parata, ha mollato lì il trattore e è scappato a riva: e ha fatto bene, perché subito dopo la carreggiata ha cominciato a torcersi come se fosse stata di gomma, il trattore sbandava a destra e a manca, e a un certo punto ha scavalcato il parapetto, o forse lo ha sfondato, e è finito nel fiume. Uno dopo l' altro, si sono sentiti come dei colpi di cannone, li ho contati, erano sei, erano le sospensioni verticali che si strappavano: si strappavano netto, a livello della carreggiata, e i monconi per il contraccolpo volavano verso il cielo. Insieme, anche la carreggiata ha cominciato a svirgolarsi, a dissaldarsi, e cadeva a pezzi nel fiume; degli altri pezzi, invece, rimanevano appesi ai travi come degli stracci. Poi è finito tutto: tutto è rimasto lì fermo, come dopo un bombardamento, e io non so che faccia avessi, ma uno lì vicino a me tremava tutto e aveva la faccia verdolina, ben che era uno di quegli indiani col turbante e la pelle scura. A conti fatti, erano andate giù due campate della carreggiata, quasi intere, e una dozzina delle sospensioni verticali; invece, i cavi principali erano a posto. Tutto era fermo come in una fotografia, salvo il fiume che continuava a correre come se niente fosse stato: eppure il vento non era caduto, anzi era più forte di prima. Era come se qualcuno avesse voluto fare quel danno, e poi si fosse accontentato. E a me è venuta in mente un' idea stupida: ho letto in un libro che, nei tempi dei tempi, quando incominciavano un ponte ammazzavano un cristiano, anzi non un cristiano perché allora non c' erano ancora, ma insomma un uomo, e lo mettevano dentro alle fondazioni; e più tardi invece ammazzavano una bestia; e allora il ponte non crollava. Ma appunto, era un' idea stupida. Io poi me ne sono venuto via, tanto i cavi grossi avevano resistito, e il mio lavoro non era da rifare. Ho saputo che dopo hanno cominciato a discutere sul perché e sul percome, e che non si sono messi d' accordo, e discutono ancora adesso. Io, per conto mio, quando ho visto il piano della carreggiata che incominciava a battere su e giù, ho subito pensato a quell' atterraggio a Calcutta, e alle ali del Boeing che battevano come quelle di un uccello, e mi avevano fatto passare un brutto momento, anche se ho volato tante volte; ma insomma non saprei dire. Certo il vento c' entrava: e infatti mi hanno detto che adesso il ponte lo stanno rifacendo, ma con delle aperture nella carreggiata, per non che il vento incontri troppa resistenza. No, di ponti sospesi non ne ho montati più. Me ne sono venuto via, non ho salutato nessuno, solo Peraldo. Non è stata una bella storia. È stato come quando vuoi bene a una ragazza, e lei ti pianta da un giorno all' altro e tu non sai perché, e soffri, non solo perché hai perso la ragazza, ma anche la fiducia. Bene, mi passi la bottiglia che beviamo ancora una volta: tanto stasera pago io. Sì, sono tornato a Torino, e c' è calato poco che non mi mettessi nelle curve con una di quelle ragazze delle mie zie che le dicevo al principio, perché ero giù di morale e non facevo resistenza: ma questa è un' altra storia. Poi mi sono fatto una ragione".

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Avevo anzi l' impressione che quell' episodio fosse in qualche modo una displuviale, un punto singolare del mio itinerario terreno: e del resto, un curioso destino vuole che in quel paese grande e strano abbiano luogo le svolte della mia vita. Poiché la veste di accusato è scomoda, sarebbe stata quella la mia ultima avventura di chimico. Poi basta: con nostalgia, ma senza ripensamenti, avrei scelto l' altra strada, dal momento che ne avevo la facoltà ed ancora me ne sentivo la forza; la strada del narratore di storie. Storie mie finché ne avevo nel sacco, poi storie d' altri, rubate, rapinate, estorte o avute in dono, per esempio appunto le sue; o anche storie di tutti e di nessuno, storie per aria, dipinte su un velo, purché un senso ce l' avessero per me, o potessero regalare al lettore un momento di stupore o di riso. C' è chi ha detto che la vita comincia a quarant' anni: bene, per me sarebbe cominciata, o ricominciata, a cinquantacinque. Del resto, non è detto che l' aver trascorso più di trent' anni nel mestiere di cucire insieme lunghe molecole presumibilmente utili al prossimo, e nel mestiere parallelo di convincere il prossimo che le mie molecole gli erano effettivamente utili, non insegni nulla sul modo di cucire insieme parole e idee, o sulle proprietà generali e speciali dei tuoi colleghi uomini. Dopo qualche esitazione, e dietro mia rinnovata richiesta, Faussone mi ha dichiarato libero di raccontare le sue storie, ed è così che questo libro è nato. Quanto alla perizia di Sverdlovsk, mi ha guardato con cauta curiosità: "Così, è qui per una grana. Non se la prenda; voglio dire, non se la prenda troppo, se no non riesce a combinare niente. Capita anche nelle migliori famiglie, di fare una topica, o di dover arrangiare la topica di qualchedun altro; e poi, un mestiere senza grane io non so neanche immaginarmelo. Cioè sì, ci sono anche quelli, ma non sono mestieri, sono come le vacche alla pastura, ma quelle almeno fanno il latte, e del resto poi le ammazzano. O come i vecchietti che giocano alle bocce in piazza d' armi e che parlano da per loro. Me la racconti, la sua grana; stavolta tocca a lei, visto che io delle mie gliene ho già raccontate diverse: così faccio il confronto. E poi, a sentire le rogne degli altri uno si dimentica le sue". Io gli ho detto: "Il mio mestiere vero, quello che ho studiato a scuola e che mi ha dato da vivere fino ad oggi, è il mestiere del chimico. Non so se lei ne ha un' idea chiara, ma assomiglia un poco al suo: solo che noi montiamo e smontiamo delle costruzioni molto piccole. Ci dividiamo in due rami principali, quelli che montano e quelli che smontano, e gli uni e gli altri siamo come dei ciechi con le dita sensibili. Dico come dei ciechi, perché appunto, le cose che noi manipoliamo sono troppo piccole per essere viste, anche coi microscopi più potenti; e allora abbiamo inventato diversi trucchi intelligenti per riconoscerle senza vederle. Qui bisogna che lei pensi una cosa, che per esempio un cieco non ha difficoltà a dirle quanti mattoni ci sono su una tavola, in che posizione sono e a che distanza fra loro; ma se invece di mattoni fossero dei grani di riso, o peggio ancora delle sfere da cuscinetti, lei capisce che il cieco sarebbe imbarazzato a dire dove sono, perché appena li tocca si spostano: ecco, noi siamo così. Tante volte, poi, noi abbiamo l' impressione di essere non solo dei ciechi, ma degli elefanti ciechi davanti al banchetto di un orologiaio, perché le nostre dita sono troppo grossolane di fronte a quei cosetti che dobbiamo attaccare o staccare. Quelli che smontano, cioè i chimici analisti, devono essere capaci di smontare una struttura pezzo per pezzo senza danneggiarla, o almeno senza danneggiarla troppo; di allineare i pezzi smontati sul bancone, sempre senza vederli, di riconoscerli uno per uno, e poi di dire in che ordine erano attaccati insieme. Oggigiorno hanno dei begli strumenti che gli abbreviano il lavoro, ma una volta si faceva tutto a mano, e ci voleva una pazienza da non credere. Io però ho sempre fatto il chimico montatore, uno di quelli che fanno le sintesi, ossia che costruiscono delle strutture su misura. Mi dànno un modellino, come fosse questo". Qui, come più volte aveva fatto Faussone per spiegarmi i suoi tralicci, ho preso anch' io un tovagliolo di carta, e ho scarabocchiato un disegno press' a poco così: " ... oppure qualche volta me lo faccio io stesso, e poi mi devo arrangiare. Con un po' di esperienza, è facile distinguere fin dal principio le strutture che possono stare in piedi da quelle che cascano o che vanno subito a pezzi, o da quelle altre che sono possibili solo sulla carta. Ma siamo sempre dei ciechi, anche nel caso migliore, cioè che la struttura sia semplice e stabile: ciechi, e non abbiamo quelle pinzette che sovente ci capita di sognare di notte, come uno che ha sete sogna le sorgenti, e che ci permetterebbero di prendere un segmento, di tenerlo ben stretto e diritto, e di incollarlo nel verso giusto sul segmento che è già montato. Se quelle pinzette le avessimo (e non è detto che un giorno non le avremo) saremmo già riusciti a fare delle cose graziose che fin adesso le ha solo fatte il Padreterno, per esempio a montare non dico un ranocchio o una libellula, ma almeno un microbo o il semino di una muffa. Ma per adesso non le abbiamo, e in conclusione siamo dei montatori primitivi. Siamo, appunto, come degli elefanti a cui venga consegnata una scatoletta chiusa con dentro tutti i pezzi di un orologio; noi siamo molto forti e pazienti, e scuotiamo la scatoletta in tutti i sensi e con tutte le nostre forze: magari la scaldiamo anche, perché scaldare è un altro modo di scuotere. Bene, qualche volta, se l' orologio non è di un modello troppo complicato, a furia di scuotere, a montarlo si riesce; ma lei capisce che è più ragionevole arrivarci a poco per volta, montando prima due pezzi solo, poi il terzo e così via. Ci va più pazienza, ma di fatto si arriva prima: il più delle volte facciamo appunto così. Come vede, siete più fortunati voialtri, che le vostre strutture ve le vedete crescere sotto le mani e sotto gli occhi, verificandole a mano a mano che vengono su: e se sbagliate ci va poco a correggere. È vero che noi abbiamo un vantaggio: ogni nostro montaggio non porta a un traliccio solo, ma a tanti in una volta. Proprio tanti, un numero che lei non se lo può immaginare, un numero di venticinque o ventisei cifre. Se non fosse così, chiaro che ..." "Chiaro che potreste andare a cantare in un altro cortile, _ ha completato Faussone. _ Vada avanti, che se ne impara sempre una nuova". "Potremmo andare a cantare in un altro cortile, e delle volte, infatti, ci andiamo: per esempio, quando le cose vanno storte, e i nostri minuscoli tralicci non vengono tutti uguali; o magari tutti uguali, ma con un dettaglio non previsto dal modello, e noi non ce ne accorgiamo subito, perché siamo ciechi. Se ne accorge prima il cliente. Ecco, è proprio per questo che io sono qui: non per scrivere delle storie. Le storie, caso mai, sono un sottoprodotto, almeno per adesso. Sono qui con in tasca una lettera di protesta per fornitura di merce non conforme a quanto pattuito. Se abbiamo ragione noi, tutto bene, e mi pagano perfino il viaggio; se hanno ragione loro, sono seicento tonnellate che dobbiamo sostituirgli, più i danni, perché sarà colpa nostra se una certa fabbrica non riuscirà a raggiungere la quota prevista dal piano. Io sono un chimico montatore, questo gliel' ho già detto, ma non le ho detto che sono specialista di vernici. Non è una specialità che me la sia scelta io, per qualche motivo personale: è solo che dopo la guerra avevo bisogno di lavorare, bisogno urgente, ho trovato posto in una fabbrica di vernici, e ho pensato "fai che ti basti"; ma poi il lavoro non mi dispiaceva, ho finito con lo specializzarmi, e in definitiva ci sono rimasto. Mi sono accorto abbastanza presto che fare vernici è un mestiere strano: in sostanza, vuol dire fabbricare delle pellicole, cioè delle pelli artificiali, che però devono avere molte delle qualità della nostra pelle naturale, e guardi che non è poco, perché la pelle è un prodotto pregiato. Anche le nostre pelli chimiche devono avere delle qualità che fanno contrasto: devono essere flessibili e insieme resistere alle ferite; devono aderire alla carne, cioè al fondo, ma la sporcizia non deve aderirci su; devono avere dei bei colori delicati e insieme resistere alla luce; devono essere allo stesso tempo permeabili all' acqua e impermeabili, e questo appunto è talmente contraddittorio che neanche la nostra pelle è soddisfacente, nel senso che in effetti resiste abbastanza bene alla pioggia e all' acqua del mare, cioè non si restringe, non gonfia e non ci si scioglie dentro, però se uno insiste gli vengono i reumatismi: è segno che un po' d' acqua passa pure attraverso, e del resto almeno il sudore deve passare per forza, ma solo da dentro verso fuori. Vede che non è semplice. Mi avevano incaricato di progettare una vernice per l' interno delle scatole di conserva, da esportare (la vernice, non le scatole) in questo paese. Come pelle, le garantisco che avrebbe dovuto essere una pelle eccellente: doveva aderire alla lamiera stagnata, resistere alla sterilizzazione a 120äC, piegarsi senza screpolare su un mandrino così e così, resistere all' abrasione se provata con un apparecchio che non sto a descriverle; ma soprattutto, doveva resistere a tutta una serie di aggressivi che di solito nei nostri laboratori non si vedono, e cioè alle acciughe, all' aceto, al sugo di limone, ai pomodori (non doveva assorbire il colorante rosso), alla salamoia, all' olio e così via. Non doveva assumere gli odori di queste mercanzie, e non cedergli nessun odore: ma per accettare queste caratteristiche ci si accontentava del naso del collaudatore. Finalmente, doveva potersi applicare con certe macchine continue, dove da una parte entra il foglio di lamiera svolgendosi dal rotolo, riceve la vernice da una specie di rullo inchiostratore, passa in forno per la cottura, e si avvolge sul rotolo di spedizione; in queste condizioni, doveva dare un rivestimento liscio e lucido, di un color giallo oro compreso fra due campioni di colore allegati al capitolato di fornitura. Mi segue?" "Si capisce", ha risposto Faussone in tono quasi offeso. Può essere che invece non mi segua il lettore, qui ed altrove, dove è questione di mandrini, di molecole, di cuscinetti a sfere e di capicorda; bene, non so che farci, mi scuso ma sinonimi non ce n' è. Se, come è probabile, ha accettato a suo tempo i libri di mare dell' Ottocento, avrà pure digerito i bompressi e i palischermi: dunque si faccia animo, lavori di fantasia o consulti un dizionario. Gli potrà venire utile, dato che viviamo in un mondo di molecole e di cuscinetti. "Le dico subito che non mi si chiedeva di fare un' invenzione: di vernici così ne esiste già un bel numero, ma bisognava curare i dettagli perché il prodotto passasse tutte le prove previste, in specie per il tempo di cottura, che doveva essere piuttosto corto. In sostanza, si trattava di progettare una specie di cerotto a base di un tessuto di media compattezza, con le maglie non troppo serrate perché conservasse una certa elasticità, ma neanche troppo aperte, se no le acciughe e il pomodoro avrebbero potuto attraversarle. Doveva poi avere molti gancetti robusti per infeltrirsi con se stesso e per abbarbicarsi alla lamiera durante la cottura, ma perderli dopo la cottura stessa, perché se no avrebbero potuto trattenere colori, odori o sapori. Va da sé che non avrebbe dovuto contenere componenti tossici. Vede, è così che noi chimici ragioniamo: cerchiamo di farvi il verso, come quel suo aiutante scimmiotto. Ci costruiamo in mente un modellino meccanico, pur sapendo che è grossolano e puerile, e lo seguiamo fin che si può, ma sempre con una vecchia invidia per voialtri uomini dei cinque sensi, che combattete fra cielo e terra contro vecchi nemici, e lavorate sui centimetri e sui metri invece che sulle nostre salsiccette e reticelle invisibili. La nostra stanchezza è diversa dalla vostra. Non sta nel filo della schiena, ma più in su; non viene dopo una giornata faticosa, ma quando uno ha cercato di capire e non è riuscito. Di solito non guarisce col sonno. Sì, ce l' ho addosso stasera; per questo gliene parlo. Dunque, tutto andava bene; abbiamo mandato il campione all' Ente Statale, abbiamo aspettato sette mesi e la risposta è stata positiva. Abbiamo mandato un fusto di prova qui allo stabilimento, abbiamo aspettato altri nove mesi, ed è arrivata la lettera di accettazione, l' omologazione e un ordine di trecento tonnellate; subito dopo, chissà perché, un altro ordine, con una firma diversa, per altre trecento, quest' ultimo urgentissimo. Probabilmente non era che un duplicato del primo, nato da qualche pasticcio burocratico; ad ogni modo era regolare, ed era proprio quello che ci voleva per tirare su il fatturato dell' anno. Eravamo tutti diventati molto gentili, e per i corridoi e i capannoni della fabbrica non si vedeva altro che dei gran sorrisi: seicento tonnellate di una vernice non difficile da produrre, tutta della stessa qualità, e con un prezzo niente male. Noi siamo gente coscienziosa: di ogni lotto prelevavamo religiosamente un campione e lo collaudavamo in laboratorio, per essere sicuri che i provini resistessero a tutti gli articoli che le ho detto. Il nostro laboratorio si era riempito di odori nuovi e gradevoli, e il bancone dei collaudi sembrava la bottega di un droghiere. Tutto andava bene, noi ci sentivamo in una botte di ferro, e ogni venerdì, quando partiva la flotta dei camion che portava i fusti a Genova per l' imbarco, facevamo una piccola festa, utilizzando anche i viveri destinati al collaudo "perché non andassero a male". Poi c' è stato il primo allarme: un telex cortese, in cui ci invitavano a ripetere la prova della resistenza alle acciughe su un certo lotto già imbarcato. La ragazza dei collaudi ha fatto una risatina e mi ha detto che avrebbe ripetuto la prova immediatamente, ma che era sicurissima dei suoi risultati, quella vernice avrebbe resistito anche ai pescicani; io però sapevo come vanno queste cose, e ho cominciato a sentire dei crampi allo stomaco". La faccia di Faussone si è increspata in un inaspettato sorriso triste: "Eh già: a me invece viene male qui a destra, credo che sia il fegato. Ma per me un uomo che non abbia mai avuto un collaudo negativo non è un uomo, è come se fosse rimasto alla prima comunione. Poco da dire, sono degli affari che io li conosco bene; lì sul momento fanno star male, ma se uno non li prova non matura. È un po' come i quattro presi a scuola". "Io lo sapevo, come vanno queste cose. Due giorni, poi è arrivato un altro telex, e questo non era gentile per niente. Quel lotto non resisteva alle acciughe, e neppure quelli successivi che erano arrivati nel frattempo; dovevamo mandare subito, per via aerea, mille chili di vernice sicura, se no, blocco dei pagamenti e citazione per danni. Qui la febbre ha cominciato a salire, e il laboratorio a riempirsi di acciughe: italiane, grosse e piccole, spagnole, portoghesi, norvegesi; e due etti li abbiamo lasciati andare a male apposta, per vedere che effetto facevano sulla lamiera verniciata. Lei capisce che eravamo tutti abbastanza bravi in fatto di vernici, ma nessuno di noi era uno specialista in acciughe. Preparavamo provini su provini, come dei matti, centinaia di provini al giorno, li mettevamo a contatto con acciughe di tutti i mari, ma non capitava niente, da noi tutto andava bene. Poi ci è venuto in mente che forse le acciughe sovietiche erano più aggressive di quelle nostrane. Abbiamo subito fatto un telex, e dopo sette giorni il campione era sul banco: avevano fatto le cose in grande, era una latta di trenta chili mentre invece trenta grammi sarebbero bastati, forse era una confezione per i collegi o per le forze armate. E devo dire che erano ottime, perché le abbiamo anche assaggiate: ma niente, neanche loro, nessun effetto su nessuno dei provini, neppure su quelli preparati nei modi più maligni in modo da riprodurre le condizioni più sfavorevoli, poco cotti, a spessore scarso, piegati prima del collaudo. Intanto era arrivata la perizia di Sverdlovsk, quella che le dicevo prima. Ce l' ho di sopra, in camera mia, nel cassetto del tavolino, e parola mia mi sembra che puzzi. No, non di acciughe: che puzzi fuori dal cassetto, che ammorbi l' aria, specie di notte, perché di notte faccio dei sogni strani. Forse è colpa mia, che me la prendo troppo ..." Faussone si è mostrato comprensivo. Mi ha interrotto per ordinare due vodche alla ragazza che sonnecchiava dietro il bancone: mi ha spiegato che era vodca speciale, distillata di contrabbando, e infatti aveva un aroma insolito, non sgradevole, su cui ho preferito non indagare. "Beva, che le fa bene. Si capisce che lei se la prende: è naturale. Quando uno mette la sua firma su qualche cosa, non importa se è una cambiale o una gru o un' acciuga ... mi scusi, volevo dire una vernice, bisogna bene che ne risponda. Beva, che così dorme bene stanotte, non sogna i provini, e domani vedrà che si sveglia senza il mal di testa: questa è roba di borsa nera, però è genuina. Intanto mi racconti come è finita". "Non è finita, e neanche io me la sento di dire come finisce e quando finisce. Sono qui da dodici giorni, e non so quanto ci resterò; tutte le mattine mi mandano a prendere, delle volte con una macchina di rappresentanza, delle volte con una Pobieda; mi portano nel laboratorio e poi non capita niente. Viene l' interprete e si scusa, o manca il tecnologo, o manca la corrente, o tutto il personale è convocato per una riunione. Non che siano sgarbati con me, ma sembra che si dimentichino che io ci sono. Col tecnologo fino adesso non ho parlato per più di mezz' ora: mi ha fatto vedere i loro provini, e mi ci sto rompendo la testa, perché non hanno niente a che fare con i nostri; i nostri sono lisci e puliti, questi invece hanno tanti piccoli grumi. È chiaro che è successo qualche cosa durante il viaggio, ma non riesco a immaginare che cosa; oppure c' è qualche cosa che non va nei loro collaudi, ma sa bene che dare la colpa agli altri, e specialmente ai clienti, è cattiva politica. Ho detto al tecnologo che vorrei assistere al ciclo completo, alla preparazione dei provini, dal principio alla fine; mi è sembrato contrariato, mi ha detto che andava bene, però poi non si è fatto più vedere. Invece del tecnologo, mi tocca parlare con una donna terribile. La signora Kondratova è piccola, grassa, anziana, con una faccia distrutta, e non c' è verso di tenerla sull' argomento. Invece che di vernici, mi ha parlato tutto il tempo della sua storia, è una storia tremenda, era a Leningrado durante l' assedio, le sono morti al fronte il marito e due figli, e lei lavorava in fabbrica a tornire proiettili, con dieci gradi sotto zero. Mi fa molta pena, ma anche rabbia, perché fra quattro giorni mi scade il visto, e come faccio a tornare in Italia senza aver concluso niente, e soprattutto senza aver capito niente?" "Lei glielo ha detto, a quella donna, che le scade il visto?" mi ha chiesto Faussone. "No, non credo che lei abbia niente a che fare, col mio visto". "Mi dia da mente, glielo dica. Da come lei me lo racconta, deve essere una abbastanza importante, e quando scade un visto, questi qui si dànno subito da fare, perché se no sono loro che restano nelle curve. Provi: provare non fa peccato, e lei non rischia niente". Aveva ragione. Al solo annuncio della prossima scadenza del mio visto di soggiorno, è avvenuto intorno a me un mutamento sorprendente, come nel finale delle comiche di un tempo. Tutti, e la Kondratova per prima, hanno bruscamente accelerato le loro mosse e le loro parole, si sono fatti comprensivi e collaborativi, il laboratorio mi ha aperto le porte, ed il preparatore dei provini si è messo a mia piena disposizione. Il tempo che mi rimaneva non era molto, ed ho chiesto prima di tutto di esaminare il contenuto degli ultimi fusti arrivati. Non è stato facile identificarli, ma in mezza giornata ci sono riuscito; abbiamo preparato i provini con tutte le cure del caso, sono risultati lisci e lucenti, e dopo la notte passata in connubio con le acciughe il loro aspetto non era cambiato. Si poteva concludere che: o la vernice si alterava nelle condizioni locali di magazzinaggio, oppure che capitava qualcosa nel corso del prelievo fatto dai russi. Il mattino della partenza ho ancora fatto in tempo ad esaminare uno dei fusti più anziani: venivano fuori dei provini sospetti, striati e granulosi, ma ormai mancava il tempo di approfondire. La mia richiesta di proroga era stata respinta: Faussone è venuto a salutarmi alla stazione, e ci siamo lasciati con la promessa reciproca di ritrovarci, sul posto o a Torino; ma più probabilmente sul posto. Infatti, lui ne aveva ancora per diversi mesi: insieme con un gruppo di montatori russi, stava mettendo a punto uno di quei loro escavatori colossali, alti come una casa di tre piani, che si spostano su qualunque terreno camminando su quattro enormi zampe come sauri preistorici; e io dovevo sistemare due o tre faccende in fabbrica, ma senza dubbio sarei ritornato entro un mese al massimo. La Kondratova mi aveva detto che per un mese, bene o male, sarebbero andati avanti lo stesso: proprio quel giorno aveva avuto comunicazione che, in un' altra fabbrica di scatolame, si stava usando una vernice tedesca, che a quanto pare non dava inconvenienti; mentre si cercava di chiarire l' incidente, ne avrebbero fatto arrivare urgentemente un quantitativo. Tuttavia con una inconseguenza che mi ha sorpreso, ha insistito perché io tornassi al più presto possibile: "tutto compreso", la nostra vernice era preferibile. Da parte sua, avrebbe fatto tutto quanto poteva per farmi avere un nuovo visto prorogabile a piacere. Faussone mi ha pregato, già che andavo a Torino, di consegnare alle sue zie un pacco e una lettera, facendogli le sue scuse: lui avrebbe passato i Santi sul posto. Il pacco era leggero ma voluminoso, la lettera non era che un biglietto, e portava segnato l' indirizzo nella grafia chiara, meticolosa e leggermente sofisticata di chi ha studiato il disegno. Mi ha raccomandato di non perdere il documento valutario relativo al contenuto del pacco, e ci siamo lasciati.

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Non so se lei li conosce, gli scienziati gli vogliono bene perché hanno i cromosomi molto grossi; anzi, pare che quasi tutto quello che si sa oggi sull' eredità, i biologi lo abbiano imparato sulla loro pelle, facendoli incrociare fra di loro in tutte le maniere possibili, tagliuzzandoli, iniettandoli, affamandoli e dandogli da mangiare delle cose strane: dove si vede che tante volte mettersi in vista è pericoloso. Li hanno chiamati Drosofile, e anche loro sono belli, con gli occhi rossi, non più lunghi di tre millimetri, e non fanno male a nessuno, anzi, magari contro voglia ci hanno fatto del bene. A queste bestioline piace l' aceto, non saprei dirle perché; per essere precisi, gli piace l' acido acetico che sta dentro l' aceto. Sentono il suo odore a distanze da non crederci, arrivano da tutte le parti come una nuvola, per esempio sul mosto, che infatti qualche traccia d' acido acetico la contiene; se poi trovano dell' aceto scoperto sembrano ubriachi, volano in cerchio fitto fitto tutto intorno, e tante volte ci vanno a finire dentro e annegano". "Eh già: tanto va la gatta al lardo ..." ha commentato Faussone. "Come naso ... si fa per dire, perché il naso non ce l' hanno, e gli odori li sentono con le antenne. Come naso, dicevo, ci battono come niente, e battono anche i cani, perché sentono l' acido anche quando è combinato, per esempio nell' acetato di etile o di butile, che sono solventi delle vernici alla nitro. Bene, avevamo una nitro per unghie di un colore fuori serie, ci avevamo messo due giorni per metterla a tinta, e la stavamo passando al mulino a tre cilindri; non saprei dire come mai, forse era la loro stagione, o avevano più fame del solito, o si erano passati la parola: ma sono arrivati a sciami, si andavano a posare sui cilindri mentre giravano e rimanevano macinati anche loro dentro alla vernice. Ce ne siamo accorti solo alla fine della macinazione, non c' è stato verso di filtrarla, e per non buttarla via l' abbiamo dovuta recuperare in un' antiruggine, che così è venuta fuori di un bel colore rosé. Bene, scusi se ho perso un po' il filo. In conclusione, a questo punto io mi sentivo in piena rimonta. Ho esposto al tecnologo la mia supposizione, che nel mio cuore era ormai una certezza, tanto che avrei addirittura chiesto il permesso di telefonare la notizia alla fabbrica in Italia. Ma il tecnologo non cedeva: aveva visto lui con i suoi occhi diversi campioni di vernice, appena prelevati dai fusti, che scendevano dal viscosimetro a guizzi. Come avrebbero avuto il tempo di catturare per aria i filamenti degli stracci? Per lui era chiaro: i filamenti potevano entrarci o non entrarci, ma i grumi c' erano già nei fusti di fornitura. Bisognava dimostrargli (e anche dimostrare a me stesso) che non era vero, e che in ogni grumo c' era un filamento. Avevano un microscopio? Ce l' avevano, uno da esercitazioni con solo duecento ingrandimenti, ma per quello che volevo fare io bastavano; aveva anche il polarizzatore e l' analizzatore". Faussone mi ha interrotto. "Momento. Finché sono stato io a raccontarle le storie del mio mestiere, lei lo deve ammettere, io non ho mai profittato. Capisco che oggi lei è contento, ma anche lei non deve approfittarsene. Deve raccontare le cose in una maniera che si capiscano, se no non è più gioco. O non è che lei è già dall' altra parte, di quelli che scrivono e poi quello che legge si arrangia, tanto ormai il libro lo ha già comprato?" Aveva ragione, e io mi ero lasciato trascinare. D' altra parte, avevo fretta di concludere il mio racconto, perché Vjera Filìppovna era già venuta fra i passeggeri ad annunciare che, secondo lei, saremmo atterrati a Mosca entro venti o trenta minuti. Così mi sono limitato a spiegargli che ci sono molecole lunghe e molecole corte; che solo con le molecole lunghe, sia la natura sia l' uomo, riescono a costruire dei filamenti tenaci; che in questi filamenti, di lana, o di cotone, o di nailon, o di seta e così via, le molecole sono orientate per il lungo, e grossolanamente parallele; e che il polarizzatore e l' analizzatore sono appunto strumenti che permettono di rivelare questo parallelismo, anche su un pezzetto di filamento appena visibile al microscopio. Se le molecole sono orientate, cioè se si tratta di una fibra, si vedono dei bei colori; se sono disposte alla rinfusa non si vede niente. Faussone ha fatto un grugnito, a indicare che potevo continuare. "Ho anche trovato in un cassetto dei bei cucchiaini di vetro, di quelli che si usano per le pesate di precisione: volevo dimostrare al tecnologo che dentro ogni grumo che usciva dal viscosimetro c' era un filamento, e che dove non c' erano filamenti anche i grumi non c' erano. Ho fatto fare pulizia dappertutto con degli stracci bagnati, ho fatto eliminare il cassone, e nel pomeriggio ho incominciato la mia caccia: dovevo acchiappare al volo il grumo col cucchiaino mentre scendeva dal viscosimetro, e portarlo sotto il microscopio. Credo che potrebbe diventare uno sport, una specie di tiro al piattello che si può fare anche in casa; ma non era divertente esercitarmi sotto quattro o cinque paia di occhi diffidenti. Per dieci o venti minuti non ho concluso niente; arrivavo sempre troppo tardi, quando il grumo era già passato; oppure, spinto dal nervosismo, facevo scattare il cucchiaino addosso a un grumo immaginario. Poi ho imparato che era importante mettersi seduti comodi, avere una illuminazione forte, e tenere il cucchiaio molto vicino al filo di vernice. Ho portato sotto il microscopio il primo grumo che sono riuscito a catturare, e il filamento c' era; l' ho confrontato con un altro filamento che avevo staccato apposta dalle bende: benissimo, erano identici, cotone uno e cotone l' altro. Il giorno dopo, che sarebbe ieri, ero diventato bravo, e avevo anche insegnato il trucco a una delle ragazze; non c' erano più dubbi, ogni grumo conteneva un filamento. Che poi i filamenti facessero da quinta colonna per l' attacco delle acciughe sulla vernice, si spiegava abbastanza bene, perché le fibre di cotone sono porose, e potevano ben funzionare come un canaletto: ma i russi non mi hanno chiesto altro, hanno firmato il mio protocollo liberatorio, e mi hanno congedato con un nuovo ordine di vernice in tasca. Tra parentesi: anche senza sapere tanto il russo, ho capito che, con un pretesto o un altro, l' ordine me lo avrebbero dato comunque, perché la vernice tedesca di cui mi aveva parlato la Kondratova il mese prima era chiaro che, quanto a grumi e acciughe, si comportava come la nostra. E la scoperta del tecnologo, quella che mi aveva tanto preoccupato, è venuto poi fuori che aveva una causa addirittura ridicola: fra una misura e l' altra, invece di lavare il viscosimetro con solvente e poi asciugarlo, lo pulivano direttamente con le filacce del cassone, di modo che, in fatto di grumi, il viscosimetro stesso era il peggior focolaio d' infezione". Siamo atterrati a Mosca, abbiamo recuperato i bagagli e siamo saliti sull' autobus che ci doveva portare all' albergo in città. Ero piuttosto deluso dal mio tentativo di ritorsione: Faussone aveva seguito il mio racconto col suo solito viso inespressivo, senza quasi interrompermi e senza fare domande. Ma doveva seguire un suo filo di pensiero, perché dopo un lungo silenzio mi ha detto: "Così lei vuole proprio chiudere bottega? Io, scusi sa, ma al suo posto ci penserei su bene. Guardi che fare delle cose che si toccano con le mani è un vantaggio; uno fa i confronti e capisce quanto vale. Sbaglia, si corregge, e la volta dopo non sbaglia più. Ma lei è più anziano di me, e forse nella vita ne ha già viste abbastanza".

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