Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il divenire della critica

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Dorfles, Gillo 9 occorrenze

Codesti artisti si sono arresi di fronte al fatto che è ormai necessario rinunciare alle «belle forme», al «buon impasto», si accontentano di creare degli oggetti che siano in sé compiuti, che abbiano quel rigore cui la macchina ci ha avvezzati (senza tuttavia essere di per sé «meccanici»), che rispondano quindi a certi requisiti d’ordine, di disciplina, che - nel caos dell’esistenza attuale - possa costituire una fonte di soddisfazione e di godimento.

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Sculture, ma non più gettate in bronzo, curate nella preziosità delle patine e del tocco manuale, e neppure sculture che abbiano pescato nei detriti della junk-culture (come a suo tempo quelle di Chamberlain o di César), ma plastiche che usano i materiali offerti dalla tecnologia attuale (alluminio, filo di ferro, lamiere verniciate a colori acrilici, acciaio inossidabile) e li impiegano per costruire delle «forme inutili» che ora echeggiano quelle di macchine e strumenti agricoli (Garelli), scientifici (Shinoda), ora quelle di semplici costruzioni geometriche (Caro), ora, addirittura, il mondo microscopico degli infusori e delle diatomee attraverso l’uso di spirali metalliche e ingranaggi d’orologeria (Haese).

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Analogon che potrà vertere piuttosto sul versante iconologico (ed ospitare quindi le figurazioni o gli eidola delle figurazioni che la civiltà dei consumi ci offre); o piuttosto sul versante architettonico-formale (ed allora verrà a costruire forme più o meno semplici con l’impiego di materiali nuovi e attuali, compiacendosi nell’uso autentico o paradossale di tali materiali e mirando solo alla creazione di archetipi formali che non abbiano alcun riferimento con gli aspetti del mondo esterno). Così inteso il linguaggio plastico odierno, anche la sua decodificabilità ci sembra quanto mai piana: siamo tutti già in possesso degli elementi primi, degli stoiheia, che possono valere alla costruzione e all’elaborazione dell’opera e alla sua decifrazione.

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Se, perciò, la crisi nell’ideazione degli oggetti di design è solo modesta e parziale, giacché è compito e dovere d’ogni onesto designer di soddisfare alle richieste del mercato mettendo a punto oggetti che abbiano alcuni requisiti tecnici ed estetici quanto più possibile inediti ma comunque limitati da ben precise esigenze economiche, nel caso dell’artista «puro», il telos del suo lavoro appare il più delle volte come dettato non dalla fantasia creatrice, dalla necessità espressiva, ma dalla volontà di raggiungere quella novità di formulazione che permetta all’opera di essere più facilmente smerciabile.

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Ma a questo si accompagnava un’ulteriore preoccupazione: mettere in evidenza alcune nuove (o ritenute tali) costanti estetico-percettive, che abbiano il loro punto di partenza non più soltanto nel colore, nella forma, nella composizione; ma, ad esempio, nel «peso», nella composizione chimica, nella trasformazione d’una forma in seguito ad agenti atmosferici, chimici, come nel caso del blocco di cera di Merz che si scioglie per effetto d’un tubo di neon acceso, come nel caso della stanga di ghiaccio di Calzolari, o come nel caso degli elementi chimici di Zorio che mutano colore...

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Ritengo che, tutto sommato, queste operazioni abbiano segnato un’importante svolta nell’indirizzo della nostra arte visuale. Infatti - dopo la parentesi informale che, in Italia e in Europa, aveva segnato un momento reazionario ed ambiguo - l’Italia aveva assistito ad un’esplosione di forme piuttosto provinciali di pop art evidentemente influenzate dalle più rigogliose e violente esperienze statunitensi, che si erano alternate alle esperienze di tipo op e cinetiche (Colombo, Boriani, Alviani, Mari) e a quelle di alcuni «oggettualisti» come Castellani, Bonalumi, Aricò, Verna, e di alcuni programmatori e «minimalisti» come Carrino. Ecco, invece, che con il movimento concettuale, nelle sue varie proliferazioni povere, comportamentali, ecc., l’Italia ritrovava un’autonomia espressiva assai lontana da quella di altri paesi dell’Occidente industrializzato.

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(posto che non possediamo né quello appartenente alle popolazioni dell’epoca, né quello che libri e documenti delle stesse ci abbiano tramandato).

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., abbiano partecipato, sia pur saltuariamente, alle iniziative del movimento milanese, è la miglior prova della vitalità e dell’efficacia dello stesso.

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Che le forme disegnate abbiano una qualche attinenza con figure umane o zoomorfe è evidente (gli stessi titoli lo denunciano: Il trionfo dell’astronauta, L’occupazione delle terre lunari, Il grande racconto della totale estinzione, ecc.); che, però, tali figure finiscano per acquistare il carattere di veri e propri geroglifici non ancora decifrati, è solo una gratuita apparenza. Quello che sorprende e stimola in questi dipinti (spesso notevoli anche per l’efficacia grafico-cromatica e compositiva) è la loro parentela con un linguaggio che oggi ci è assai familiare, quello appunto cotidianamente trasmesso dalle pagine di giornale, dai rotocalchi, dalle pubblicità a base di cartoni animati. Questo fatto permette di far rientrare l’odierna pittura di Perilli nel grande scompartimento degli artisti (come Lichtenstein, come Jim Dine e come, prima di loro, Rauschenberg e Johns) preoccupati di fissare l’elemento popolare dal rapido consumo, destinato alle masse, ma che diviene o sta divenendo materia prima per un consumo meno popolare e più sofisticato, per una presente o futura iconologia colta. Mentre, però, un Lichtenstein si vale della stessa iconologia di massa (il classico fumetto del quotidiano) dilatato e riprodotto sino a «diventar quadro», nel caso di Perilli l’elemento popolare è inventato; è solo in apparenza sussunto da elementi preesistenti, ed è, come tale, meno accettabile ad un primo esame. Non saprei dire se questa esperienza sia ripetibile a oltranza; ce lo diranno le prossime tappe dell’artista. Certo la pittura di Perilli costituisce assieme a quella (per citare due artisti che purtroppo mancano a questa Biennale) di Twombly e di Novelli, un esempio della volontà di trasferire, entro i «sacri recinti» dell’arte d’avanguardia, certi modi d’essere e certi modi di vedere - dunque certe situazioni percettive e fruitive - quali sono ormai consuetudinarie nei mass-media, conferendo alle stesse una diversa e più esclusiva dignità estetica.

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