perle di una collana allentata; manoni, piedoni, infilati di fianco, a forbice, nei corpi perpetuamente mossi; due nasi, un occhio in mezzo alla fronte
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chiaroscuri, dentro l’assurdo, il plausibile, che rende all’occhio, non ingannabile per antonomasia, strumento della intelligenza, l’inganno più
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la coda dell’occhio che c’è l’arco di Tito mentre insegue le farfalle, poi mette l’arco nel quadro, al più come un’ombra fra azzurra e grigia.
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Se Mafai ha dipinto paesaggi romani guardando con la coda dell’occhio gli schemi astratti — ma nel modo meno scaltrito che potesse, quasi come per un
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braccio fasciato, c’è chi tira su una bimbetta, quasi a farla entrare nel campo dell’obbiettivo, — l’occhio di Levi — chi travalica quasi il fuoco
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«danzatrice», e si troverà in questa ninfa dall’occhio semichiuso un personaggio fazziniano inconfondibile, tutto preso dal parossismo di un movimento, che
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incupito nell’occhio sinistro, non può non appartenere, in qualità di zio giovane e scapolo, ad una vasta, molto onorevole e patriottica famiglia di
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si osserva. Ogni linea libera costringe l’occhio a seguirla indefinitivamente, mentre al contrario il contorno di un oggetto materiale cessa, per dir
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