Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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I ragazzi della via Pal

208192
Molnar, Ferencz 7 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Anche se qualcuno di loro è stato qui, la sera del cartello, non credo he abbia potuto riconoscermi. — Perciò domani potrai andare fra loro tranquillamente? — Tranquillamente. — E non sospetteranno di nulla? — Di nulla. E se anche sospettassero qualcosa, nessuno oserebbe parlarmene perchè tutti hanno paura. Tra loro non c'è nessuno che abbia del coraggio. Una voce acuta lo interruppe: — Ce ne sono parecchi! Tutti si guardarono attorno. Franco Ats chiese stupito: — Ma chi ha parlato? Nessuno rispose; ma la voce acuta — Sì, ce ne sono parecchi! Ora capivano distintamente che la voce proveniva dalla cima di un grande albero. E poco dopo i rami scricchiolarono, qualcosa frusciava tra le foglie e un biondino scivolò giù lungo il tronco. Dopo essere saltato dall'ultimo ramo in terra, si pulì il vestito, si raddrizzò e si mise a guardare ostilmente l'adunata delle Camicie Rosse. Nessuno parlava, sbalorditi com'erano tutti da questo inatteso visitatore piovuto dall'alto. Ghereb impallidì: — Nemeciech! — disse terrificato. E il biondino rispose: — Sì, Nemeciech. Sono io. Ed è inutile cercare chi abbia preso lo stendardo nell'arsenale, perchè sono stato io. Eccolo qui. E sono io che ho il piede più piccolo di quello di Vendauer. E avrei potuto non parlare e rimanere in cima all'albero finchè tutti fossero andati via, poichè ci stavo già dalle tre e mezza. Ma quando Ghereb ha detto che tra di noi non c'è nessuno che abbia del coraggio, allora ho pensato: aspetta che to lo mostrerò io se tra quelli della via Pal ce n'è che abbiano del coraggio, se non altri Nemeciech, soldato semplice! Eccomi qui, ho sentito tutto, ho preso lo stendardo; eccomi: fate di me quello che volete, picchiatemi, strappatemi lo stendardo perchè da solo non lo consegnerò mai! Su, coraggio! Io sono solo e voi siete dieci! Arrossì, così dicendo, e stese le braccia. In una mano stringeva la piccola bandiera. Le Camicie Rosse non potevano ancora riaversi dallo stupore e fissavano immobili il piccolo biondino caduto dal cielo che aveva il coraggio di gridare in faccia a tutti, a quel modo, come se fosse forte abbastanza da battere tutti, Franco Ats compreso. I primi a riprendersi furono i fratelli Pastor. Si accostarono al piccolo Nemeciech e lo presero per i polsi, uno a destra, l'altro a sinistra. Il minore dei due aveva preso la mano di Nemeciech che teneva lo stendardo ed era pronto a torcergliela quando si udì Franco Ats dire: — Fermi! Non fategli male! I due pastor guardarono stupiti il loro comandante. — Non fategli male! Questo ragazzo mi piace! Sei coraggioso, Nameciech o come ti chiami! Eccoti la mia mano. Fatti Camicia Rossa! Nemeciech scosse la testa negando. — Io no! — disse fieramente. La sua vocina tremava, ma non di paura, di furore. Era pallido, lo sguardo cupo e ripetè: — Io no! Franco Ats sorrise. Disse: — Se non vieni con noi, per me fa lo stesso. Io non ho mai detto a nessuno di venire con noi. Tutti quelli che son presenti han sempre chiesto loro di venire ammessi. Tu sei il primo che abbia invitato io. Ma se non vuoi venire, resta... E gli voltò le spalle. — Che ne facciamo? — chiesero i due Pastor. II comandante fece un cenno del capo. Il maggiore dei Pastor strappò con una 9 storta la bandiera rossa e verde dalla mano del piccino. La storta faceva male; i Pastor avevano i pugni terribilmente duri, ma il biondino strinse i denti e non lasciò sfuggire neanche un lamento. — Fatto! — annunciò Pastor. Tutti erano ansiosi di sapere quel che sarebbe capitato ora, quale tremenda punizione avrebbe inventata il feroce Ats! Nemeciech se ne stava fiero ed immobile, le labbra serrate. Franco Ats si rivolse a lui, fece un cenno ai due Pastor: — E'troppo debole — disse —. Non conviene picchiarlo. Fategli fare un piccolo bagno... Le Camicie Rosse scoppiarono in una grande risata. Rideva anche Franco Ats, anche i due Pastor. Sèbeni gettò in aria il berretto e Vendauer si mise a saltellare come un matto e in tanta allegria un solo viso rimase serio, quello di Nemeciech. Era raffreddato e tossiva già da vari giorni. La mamma gli aveva proibito di uscire, ma il biondino non aveva obbedito. Alle tre era scappato e dalle tre e mezzo fino a sera era rimasto accoccolato in mezzo ai rami in cima ad un albero sull'isola. Doveva forse dire di essere raffreddato? L'avrebbero deriso anche di più e forse anche Ghereb l'avrebbe schernito come già stava facendo: gli si vedevano tutti i denti mentre spalancava la bocca per sghignazzare! Tra le risa generali fu condotto alla riva dell'isola e i due Pastor lo immersero nel lago, dov'era poco profondo. Erano tremendi quei due Pastor! Uno lo teneva per le mani, l'altro per la testa! Lo spinsero nell'acqua fino al collo, e in quel momento tutti esultavano sull'isoletta. Le Camicie Rosse ballavano sulla riva una danza d'allegria, e gettavano in aria i berretti gridando a squarciagola: — Uja op! Uja op! Era il loro grido. E i molti gridi di «Uja op!» si mescolarono alle grandi risate, tutto uno schiamazzo che turbò il silenzio serale dell'isola e della riva. Con occhi tristi Nemeciech guardò dall'acqua Ghereb che sulla riva se ne stava con le gambe allargate, ghignando e tentennando il capo verso il biondino. Poi i due Pastor lasciarono andare Nemeciech e questi uscì dall'acqua, ed ora l'allegrezza generale divenne frenetica alla vista del vestito gocciolante e infangato. Dalla giacchettina l'acqua colava e quando scosse il braccio zampillò fuori un getto come da una grondaia. Tutti si scostarono quando egli si scrollò come un cagnolino bagnato; e parole beffarde volarono verso di lui. — Ranocchia! — Hai bevuto? — Perchè non ti sei messo a nuotare? Non rispose. Sorrideva amaramente accarezzandosi la giacca inzuppata. Ma quando Ghereb gli si parò davanti e facendogli le boccacce gli chiese se il bagno gli fosse piaciuto, Nemeciech sollevò verso di lui i grandi occhi celesti e rispose: — Sì. Mi è piaciuto di più, molto di più che non starmene sulla riva a sbeffeggiare! Preferirei starmene nell'acqua fino al nuovo anno piuttosto che mettermi d'accordo con i nemici dei miei amici. Non m'importa niente che m'abbiate fatto fare un bagno. Già una volta ero caduto in quest'acqua, per caso allora, ma anche allora t'avevo visto qui, fra i nemici. Ma in quanto a me, potete invitarmi, darmi regali quanti volete, non mi farebbe niente lo stesso. E anche se mi metteste in acqua un'altra volta, e poi ancora cento e mille volte, ebbene io verrei qui sempre, ancora domani e dopodomani. E mi nasconderò dove non mi potrete vedere, perchè io non ho paura di nessuno di voi! E se volete venire in via Pal per usurpare il nostro campo, ci saremo noi! E vedrete che quando siamo in dieci anche noi, sarete trattati come si deve! Bella bravura vincermi! Chi è più forte, vince! I Pastor mi hanno rubato le biglie nel Giardino del Museo perchè erano i più forti. E ora mi avete buttato in acqua perchè siete i più forti! E' facile in dieci battere uno! Ma a me non importa! Potete anche picchiarmi, se volete! Bastava che io volessi ed avrei evitato d'andare in acqua e tutto! Ma io non ho voluto passare dalla vostra parte. Affogatemi pure o picchiatemi a morte, io non sarò mai un traditore come quello lì. Tese il braccio e indicò Ghereb al quale il riso s'illividiva in faccia. La luce della lampadina cadde sulla bella testolina bionda di Nemeciech e sul vestito luccicante d'umidità. Egli fissava coraggioso e fiero e col cuore gonfio gli occhi di Ghereb e Ghereb sentì l'anima diventargli pesante sotto quello sguardo. Si fece grave ed abbassò il viso. Tutti tacevano ed il silenzio era tale che pareva d'essere in chiesa e si sentivano cadere in terra, le goccie d'acqua dal vestito di Nemeciech. Nemeciech gridò, nel grande silenzio: — Posso andarmene? Nessuno rispose. Chiese di nuovo: — Non mi picchiate a morte, allora? Posso andarmene? E poichè nessuno gli rispose neanche adesso, egli si avviò lentamente verso il ponte. Nessuna mano si alzò: nessun ragazzo fiatava. Tutti sentivano che quel piccino biondo era un vero eroe, un vero uomo che meritava d'essere grande... Le guardie del ponte che erano state ad ascoltare quel che accadeva, lo fissarono senza osare di toccarlo. E quando Nemeciech salì sul ponticello, la voce profonda di Franco Ats risuonò imperiosa: — Attenti! Le due guardie s'irrigidirono, sollevando nell'aria le lancie con le cuspidi inargentate. E tutti i ragazzi sollevarono le loro lancie e batterono i tacchi. Nessuno parlò: il chiaro di luna risplendeva sulle punte delle lancie. I passi di Nemeciech risuonarono sul ponte mentre egli si allontanava. Poi si udì soltanto il tonfo di due scarpe piene d'acqua. Poi più niente. Sull'isoletta le Camicie Rosse si guardavano impacciate. Franco Ats era in mezzo alla radura, a testa bassa. Allora Ghereb gli si avvicinò ed era bianco come la calce. Balbettò: — Devi sapere... Ma Franco Ats gli voltò le spalle. Allora Ghereb si volse ai ragazzi che erano presenti; si fermò davanti al maggiore dei Pastor: — Devi... sapere... — balbettò. Ma Pastor seguì l'esempio del suo comandante, ed anch'egli voltò le spalle a Ghereb che rimase immobile e perplesso. Non sapeva che cosa fare. Poi disse con voce strozzata: — Mi pare che posso andarmene... Nessuno rispose. E s'avviò lui ora per la strada che poco prima aveva preso il piccolo Nemeciech. Ma nessuno lo salutava. Le guardie si appoggiarono al parapetto e si misero a fissare l'acqua. I passi di Ghereb si smorzarono nel silenzio dell'Orto Botanico.. Quando le Camicie Rosse furono sole, Franco Ats venne davanti al maggiore dei Pastor. E gli stava così vicino che il suo viso quasi toccava il viso del Pastor. Gli chiese sottovoce: — Sei stato tu a prendere le biglie a quel ragazzo nel Giardino del Museo? — Sì — rispose piano il Pastor. — C'era anche tuo fratello? — Sì. — Avete fatto «einstandt»? — Sì. — Non avevo proibito alle Camicie Rosse di rubare le biglie ai ragazzi più deboli? I Pastor tacevano. Nessuno osava contraddire Franco Ats. Il comandante li squadrò severo, poi disse con voce implacabile ma calma: — Prendete un bagno! I Pastor lo fissarono sbalorditi. — Non mi avete capito? Così, come siete: vestiti! Ora bagnatevi voi! — E quando s'accorse che qualcuno sorrideva, avvertì: — E chi ride, prenderà un bagno alla sua volta! Questo fece scomparire a tutti la voglia di ridere. Ats fissò i due Pastor e disse: — Su, bagnatevi! Fino al collo! Avanti! — E rivolgendosi alla truppa: — E voi, dietro front! Nessuno guardi! Le Camicie Rosse fecero un giro sui propri tacchi e voltarono le spalle al lago. Nemmeno Franco Ats guardò come i Pastor mettevano in esecuzione la pena su sè stessi. I Pastor s'incamminarono, avviliti e in silenzio fino al lago dove s'immersero fino al collo. I ragazzi non guardavano: udivano soltanto il loro diguazzare. Franco Ats si voltò, vide che i due avevano eseguiti gli ordini, ed allora disse: — Giù le armi! Partenza! E guidò la truppa via dall'isola. Le guardie spensero la lampadina e si accodarono alla truppa che passò con passi cadenzati per il ponte e si perdette nell'oscurità dell'Orto Botanico. I due Pastor uscirono allora dall'acqua. Si guardarono l'un l'altro, poi, come facevano sempre, si misero le mani in tasca e s'avviarono alla lor volta. Non dissero una parola ed erano molto vergognosi. L'isoletta rimase deserta nel plenilunio silenzioso della sera primaverile.

E' proprio necessario che io abbia sempre sotto i denti questa pasta attaccaticcia? Nemeciech voleva parlare. — Domando la parola — disse al presidente. — Il segretario chiede la parola — annunciò Vais con gravità; e suonò il campanellino da sedici soldi. Ma a Nemeciech, che nella Società dello Stucco occupava la carica di segretario, s'era strozzata la parola in bocca. Accanto ad una delle cataste di legna aveva intravisto Ghereb. Nessun altro sapeva di Ghereb quel che sapeva lui, quel che aveva veduto lui nella sera dell'impresa memorabile... Ghereb s'aggirava solitario tra le cataste di legname, poi si diresse verso la capanna dove abitava il cecoslovacco col suo cane. Nemeciech comprese che suo dovere era di tenere d'occhio il traditore, di stare attento ad ogni suo passo: egli aveva promesso di non dir nulla a nessuno, finchè Boka non fosse venuto al campo, che Ghereb era stato visto seduto insieme alle Camicie Rosse attorno al fuoco. Ma Ghereb ora era qui, si aggirava intorno a lui; Nemeciech doveva informarsi perchè mai fosse andato dal cecoslovacco. Per questo Nemeciech, ottenuta la parola, si limitò a dire: — Tante grazie, signor presidente, ma terrò il mio discorso un'altra volta. Mi sono ricordato d'avere altro da fare. Vais tornò a suonare il campanellino ed annunziò in forma solenne: . — Il signor segretario rimanda il suo discorso. II signor segretario intanto s'era messo a correre. Ma correva non per inseguire Ghereb, bensì per andargli incontro; infatti era uscito in via Pal e facendo il giro stava per entrare dalla porta della segheria in via Maria. Poco mancò che un enorme carro uscendo proprio allora dal cancello non lo investisse. Il piccolo fumaiolo di legno sbuffò emettendo del vapore bianco e le seghe nella casupola stridevano con voce dolorosa come se volessero dire: «Atteento! Atteento!» — Sicuro che sto attento — rispose Nemeciech e, passando accanto alla casupola, si diresse verso la capanna dello slovacco. Il tetto della capanna era in pendìo e vicinissimo ad una delle cataste. Nemeciech s'arrampicò in cima alla catasta e si mise carponi: spiava attraverso le fessure per vedere che sarebbe avvenuto. Che mai poteva volere Ghereb dallo slovacco? Era questo uno stratagemma delle Camicie Rosse? Decise di ascoltare questo colloquio a qualunque costo! Sarebbe stato fierissimo, dopo, di avere scoperto questo nuovo tradimento! Nell'attesa, guardava intorno a sè; ad un tratto vide Ghereb che si avvicinava cauto alla capanna voltandosi continuamente indietro per paura d'essere seguito. E soltanto quando parve ben sicuro che nessuno fosse sulle sue piste filò verso la meta. Lo slovacco se ne stava seduto tranquillamente sulla panchina davanti alla capanna e fumava dentro la pipa le cicche che i ragazzi gli portavano; poichè tutti provvedevano cicche a Giovanni. Il cane che era accovacciato ai suoi piedi sobbalzò: mugolò due o tre volte, ma quando vide che si trattava di uno dei ragazzi, tornò a sdraiarsi ed a chiuder gli occhi. Ghereb si accostò a Giovanni, ed ora il tetto della capanna li copriva entrambi agli occhi di Nemeciech; ma il biondino s'era fatto ardito. Il più piano che gli fosse possibile cominciò a strisciare sul tetto della capanna per raggiungere la sporgenza del tetto e poter metter fuori la testa. Varie volte le assi scricchiolarono sotto il suo peso: Nemeciech sentì gelarsi il sangue nelle vene... Ma continuò a strisciare e se Ghereb o lo slovacco avessero pensato a guardare in alto si sarebbero molto stupiti di vedere a un tratto sporgere la testolina bionda di Nemeciech con i suoi occhi spalancati ad osservare tutto quanto accadeva davanti alla capanna. Ghereb s'era avvicinato allo slovacco e gli aveva detto con cortesia: — Buon giorno, Giovanni! — Buongiorno! — aveva risposto lo slovacco senza cavarsi di bocca la pipa. Ghereb gli si avvicinò ancora di più e mormorò: — Vi ho portato dei sigari, Giovanni! A queste parole lo slovacco si decise a togliersi di bocca la pipa: i suoi occhi brillavano, poichè poche volte gli era capitato di vedere un sigaro intero. I sigari giungevano a lui quando altri ne aveva incenerito la parte migliore. Ghereb cavò di tasca tre sigari e li mise in mano a Giovanni. — Guarda, guarda! — disse tra sè Nemeciech — Ho fatto bene ad arrampicarmi quassù. Certo Ghereb ha bisogno di qualcosa dallo slovacco se incomincia con i sigari! E, tendendo l'orecchio, udì Ghereb che sussurrava allo slovacco: — Giovanni, entriamo dentro la capanna... Non voglio parlare qui fuori. Non vorrei che mi vedessero. Si tratta d'una cosa urgente. E si possono avere anche altri sigari, se volete! E trasse di tasca un pugno di sigari. Nemeciech, di lassù, scrollò la testa. — Se ha portato tanti sigari, la vigliaccheria dev'essere molto grande! Lo slovacco entrò nella capanna con aria soddisfatta e Ghereb lo seguì: ultimo venne il cane. — Non sentirò nulla di quanta diranno borbottò stizzito Nemeciech —. Tutto il mio piano e andato in fumo! E invidiò il cane che s'era potuto introdurre nella capanna prima che la porta fosse rinchiusa. Nemeciech ricordò quei racconti nei quali c'è una strega che trasforma il giovane principe in cane nero, ed in quel momento avrebbe sinceramente dato dieci o anche venti biglie di vetro perchè qualche brutta strega lo trasformasse in cane nero per qualche minuto, mettendo Ettore al posto del biondo Nemeciech. In fondo, erano soldati semplici tutti e due... Ma in vece d'una strega gli venne in aiuto un piccolo insetto... II povero tarlo che aveva bucato un asse del tetto e s'era saziato a suo tempo con tutta la sua famiglia di quel buon legno soffice certamente non poteva immaginare di rendere un giorno un grande servigio ai ragazzi della via Pal. Proprio nel punto rosicchiato dal tarlo il legno era sottile e Nemeciech potè applicarvi l'orecchio ed origliare. Le voci giungevano attutite ma le parole si distinguevano benissimo. Nemeciech gongolava. Ghereb parlava sottovoce come se avesse paura d'essere udito anche in quel luogo nascosto. Diceva: — Giovanni, siate pratico. Da me potrete avere quanti sigari vorrete. Ma bisogna far qualcosa per guadagnarli. E Giovanni chiedeva con un brontolìo: — Che cosa bisogna fare? — Bisogna scacciare i ragazzi dal campo. Non bisogna permettere loro di giocare alle palle e di ficcarsi tra il legname. Per qualche istante non si sentì più niente. Nemeciech immaginava che lo slovacco stesse riflettendo. Poi si sentì ancora la voce dello slovacco: — Scacciarli? — Sì. — Perchè? — Perchè vogliono venirci altri ragazzi, i quali sono tutti ragazzi ricchi. Ci saranno molti sigari, quanti ne volete... E ci sarà anche del danaro... Questo fece effetto. — Anche del denaro? — Sì. Biglietti. La parola biglietti decise lo slovacco. — Sta bene! — concluse — Li scacceremo. 8 La maniglia stridè, la porta scricchiolò. Ghereb uscì dalla capanna. Ma Nemeciech non era già più sul tetto; era scivolato giù, s'era alzato, agile come un gatto, e via, era già corso tra le cataste di legname verso il campo. Il biondino era molto agitato e capiva che in quel momento il destino di tutti i ragazzi, l'avvenire del loro campo era nelle sue mani. Quando rivide il gruppo da lontano chiamò: — Boka! Ma nessuno rispose. Tornò a chiamare: — Boka! Signor presidente! Una voce disse: — Non è ancora venuto! Nemeciech si precipitò, di furia come la burrasca. Bisognava informare immediatamente Boka. Bisognava agire subito prima che avvenisse l'irreparabile, prima che fossero stati scacciati dal loro dominio. Quando egli passò accanto all'ultima catasta di legname s'accorse che i Soci della Società dello Stucco tenevano ancora seduta: Vais fungeva sempre da presidente con un viso seriissimo, e quando il biondino passò accanto all'assemblea, gli gridò: — Ehu! Signor segretario! Nemeciech correndo accennò che non poteva fermarsi. Vais allora, agitando il campanellino, urlò con maggior severità: — Signor segretario! — Non ho tempo! — rispose Nemeciech e proseguì per raggiungere Boka a casa sua. Vais allora si servì dell'ultima sua arma. Con voce stridula intimò: — Soldato! Alt! A quest'ordine bisognava ubbidire perchè Vais era tenente. Il biondino fremeva di rabbia, ma bisognava obbedire se Vais faceva appello al proprio grado. — Comandi, signor tenente! E si mise sull'attenti. — Riposo! — disse il presidente della Società per la Raccolta dello Stucco — Abbiamo deliberato proprio ora che la Società dello Stucco d'ora in poi sarà continuata come associazione segreta. Abbiamo anche eletto il nuovo presidente. E i ragazzi gridarono entusiasti il nome del nuovo presidente: — Evviva Colnai! Soltanto Barabas, ghignando, si dichiarò all'opposizione: — Abbasso Colnai! II presidente allora continuò: — Se il signor segretario vuol mantenere la carica di segretario deve fare con noi il giuramento dell'impegno segreto perchè se il professore Raz viene a sapere che... A questo punto Nemeciech s'accorse di Ghereb che stava aggirandosi fra le cataste di legname. «Quando Ghereb se ne sarà andato, pensò, tutto sarà finito... Finite le fortezze, finito il campo... Ma se Boka riuscisse a commuoverlo chissà che non abbia a pentirsi...» II biondino quasi piangeva di rabbia e si permise di interrompere il presidente: — Signor presidente, io non ho tempo. Devo andarmene. Vais allora gli domandò severo: — Il segretario avrebbe forse paura? II segretario teme forse che se veniamo scoperti, anch'egli sarà punito? Ma Nemeciech non lo ascoltava più. Era tutto intento a spiare Ghereb il quale appiattato dietro il legname aspettava il momento propizio per andarsene... Nemeciech allora senza rispondere una parola piantò in asso l'assemblea, strinse la giacca e via per il campo fino alla porticina. L'assemblea ammutolì. E nel silenzio sepolcrale il presidente disse con voce cupa: — I signori soci han tutti veduto il contegno di Ernesto Nemeciech! Io dichiaro Ernesto Nemeciech vigliacco! — Approvato! — disse in coro l'assemblea. Colnai anzi ribattè: — Traditore! Richter chiese agitato la parola: — Propongo che il vile traditore il quale lascia la società nel momento del pericolo, sia espulso e nel protocollo segreto venga qualificato come traditore! — Approvato! — dissero in coro i presenti. E il presidente emanò la sua sentenza nel silenzio generale: — L'assemblea dichiara Ernesto Nemeciech vigliacco e traditore, lo destituisce dalla carica di segretario e lo espelle dalla società! Signor conservatore del protocollo! — Presente! — rispose Lesik, — Segni nel protocollo che l'assemblea ha dichiarato traditore Ernesto Nemeciech scrivendo il suo nome tutto in lettere minuscole. Un mormorio corse fra gli intervenuti. Questa era, per statuto, la pena più grave che si potesse infliggere. Molti si raggrupparono attorno a Lesik che sedette in terra appoggiando il quaderno da dieci soldi sulle ginocchia: quel quaderno era il protocollo della società, e con enormi scarabocchi vi scrisse: «ernesto nemeciech è traditore». Così la Società dello Stucco ha privato del suo onore Ernesto Nemeciech. E intanto Ernesto Nemeciech, o se preferite, ernesto nemeciech, correva in via Chinorsi dove abitava Boka in un modesto appartamento a pianterreno. Entrò di galoppo sotto il portone e s'incontrò con Boka. — Oh, bella! — esclamò Boka — Che vieni a fare qui? Nemeciech raccontò ansimando quel che aveva scoperto e tirava Boka per la giacca perchè si affrettasse. E corsero entrambi al campo. — Hai visto e sentito tutto quanto mi racconti? — chiese Boka mentre correvano. — Visto e sentito. — E Ghereb c'è ancora? — Se facciamo presto, lo troviamo, spero. Vicino alle Cliniche dovettero fermarsi perchè Nemeciech prese a tossire. — Vai tu — disse —, vacci da solo... lo... devo tossire... E tossiva forte. — Sono raffreddato — disse a Boka che non si moveva —. Mi sono raffreddato al- l'Orto Botanico. Sono cascato nel lago, ma non sarebbe stato niente. Era l'acqua della piscina che era fredda. Mi sono gelato fino alle ossa. Svoltarono in via Pal e proprio allora la porticina si apriva e Ghereb ne usciva in fretta. Nemeciech afferrò Boka: — Eccolo! Boka fece portavoce della mano e gridò con voce squillante che rimbombò nella pace della viuzza: — Ghereb! Ghereb si fermò, voltandosi. Quando riconobbe Boka rise a lungo. E se la svignò, sempre ridendo. Tra le case di via Pal la risata risuonò stridula: Ghereb si beffava di loro. I due ragazzi rimasero come inchiodati. Ghereb era scomparso ed essi sentivano che tutto era perduto. Non dissero più una parola e s'avviarono verso la porticina del campo. Dal di dentro giungeva il frastuono allegro dei giocatori che si scambiavano le palle e l'evviva dei soci al nuovo presidente della Società dello Stucco! Nessuno lì dentro sospettava di non essere più in casa propria, nel proprio territorio. Quel breve tratto arido e scabro di terreno di Pest, quello spiazzo rinchiuso tra due case d'affitto, significava per la loro anima infantile la libertà, lo sconfinato, a mezzogiorno prateria americana; nel pomeriggio pianura magiara; sotto la pioggia, oceano; d'inverno, polo nord, insomma l'amico loro compiacente che si trasformava in quel che volevano per divertirli! — Vedi — disse Nemeciech —. Non sanno niente! Boka abbassò il capo e mormorò: — Non sanno niente! Nemeciech si fidava di Boka. Non disperava vedendosi vicino l'amico intelligente e prudente. Ma si spaventò quando scorse la prima lagrima negli occhi di Boka e quando sentì che il presidente, lo stesso presidente gli diceva con profonda tristezza e con voce esitante: — Ed ora che si fa?

Sembrerebbe che il signor presidente abbia paura. — Di te forse? — Non di me, ma dell'assemblea! Esigiamo che l'assemblea sia convocata oggi stesso. Colnai stava per rispondere quando dalla porticina si sentì la parola d'ordine dei ragazzi della via Pal: — Ahò o! Ahò o! Tutti si voltarono. Boka entrava. Lo seguiva Nemeciech con una gran sciarpa rossa intorno al collo. L'arrivo del presidente interruppe le discussioni. Colnai si arrese subito: — Sta bene. Convoco l'assemblea per oggi. Ma prima ascoltiamo Boka! — D'accordo — rispose Barabas; ed i soci della Società dello Stucco già si erano accalcati intorno a Boka e lo investivano di mille domande. Boka fece un cenno di silenzio; poi disse fra la più grande attenzione: — Ragazzi! Forse avrete già letto nel proclama quale pericolo ci minacci. Le nostre spie erano nel campo nemico e son venute a sapere che l'assalto avrà luogo domani. Grande mormorio. Nessuno si aspettava che la guerra fosse tanto vicina. — Domani! — continuò Boka — E da oggi proclamo lo stato d'assedio. Ognuno deve devozione assoluta al proprio superiore e gli ufficiali devono tutti obbedire a me. Non ci aspetta un giuoco facile! Le Camicie Rosse sono forti e numerose. La lotta sarà accanita. Ma non vogliamo forzare nessuno. Per questo avverto fin d'ora che chi non vuole partecipare alla lotta può farsi avanti. Si fece un gran silenzio. Nessuno si mosse. Boka ripetè l'invito: — Chi non vuole partecipare alla lotta, si faccia avanti. Nessuno? Tutti gridarono insieme: — Nessuno! — Allora ognuno deve darmi la sua parola d'onore di trovarsi qui domani alle due! Uno per uno tutti sfilarono davanti a Boka e Boka volle da ognuno la parola d'onore. Dopo avere stretto la mano di tutti, disse ad alta voce: — Chi non viene domani è un disertore e gli consiglio di non farsi più vedere perchè sarebbe scacciato a bastonate. Lesik si fece avanti: — Signor presidente — disse —, ci siamo tutti. Manca il solo Ghereb. Si fece un silenzio mortale. Tutti volevano sapere quel che fosse accaduto di Ghereb. Ma Boka non era un ragazzo che si possa facilmente distrarre dal proprio piano. Egli non voleva denunciare Ghereb altro che quando lo avesse acciuffato. Molti chiesero: — Che ne è di Ghereb? — Nulla — disse Boka —. Ne parleremo un'altra volta. Ora bisogna pensare a vincere la battaglia. Ma prima di distribuire gli ordini debbo comunicarvi qualcosa. Se ci fossero dei rancori tra di voi, bisogna che finiscano una volta per sempre. Chi è in lite deve far la pace. Soltanto cosi si può far la guerra sul serio. Si fece silenzio. — Ebbene? — chiese il presidente Nessun rancore? — Per quel che so io... — disse timidamente Vais. — Avanti! — Colnai e Barabas! — E' vero? Barabas diventò rosso; poi: — Sì — disse —. Colnai... E Colnai disse: — Sì. Barabas... — Riconciliatevi subito! — ordinò Boka — Altrimenti vi scaravento fuori tutti e due. Si può combattere soltanto se si è buoni amici. I due avversari s'avvicinarono a Boka e si strinsero le mani a malincuore. Non avevano ancora staccate le mani che Barabas disse: — Signor presidente! — Cosa vuoi? — Avrei una riserva da fare! — Ebbene? — Che se le Camicie Rosse per caso non ci facessero guerra, allora mi sia permesso di tenere il broncio di nuovo con Colnai perchè... Boka lo fissò come se volesse trafiggerlo con lo sguardo e disse: — Taci! Barabas tacque; ma sbuffò tra sè ed avrebbe pagato qualcosa poter dare una ogmitata a Colnai che sorrideva divertito... — E ora... — disse Boka — milite, datemi l'ordine di combattimento! Nemeciech affondò premuroso la mano in tasca e ne cavò fuori un cartello che era 10 il piano di combattimento ideato da Boka in mattinata. Il piano di combattimento era questo:

. — Signor professore, è forse giusto e bello che Barabas abbia tradifo la bandiera? diceva furioso Colnai. E Barabas si giustificava: — Sempre con me se la prende! Se non avevamo più timbro, la società era sciolta egualmente! — Silenzio! — intimò il professore, troncando la disputa — Ora vi aggiusto io. Dichiaro sciolta la società e non voglio mai più sentire che vi siete immischiati in faccende simili. Avrete tutti una nota di biasimo in condotta morale ed il Vais avrà una nota anche più grave perchè era il presidente. — Scusi — osservo con modestia Vais — Io ero presidente proprio oggi per l'ultimo giorno, perchè oggi doveva esserci l'assemblea dei soci ed era proposto candidato un altro per questo mese! — Il candidato era Colnai — disse con una smorfia di sarcasmo Barabas. — Non m'interessa — rispose il professore —. Domani resterete in classe fino alle due. Ve lo do io lo stucco! Ed ora via, filate! — Ossequi! — dissero in coro e si mossero. Vais cercò di approfittare di questo momento di confusione per allungare la mano verso la palla di stucco che era rimasta sulla tavola; ma il professore se n'era accorto. — Lo vuoi lasciar stare sì o no? Vais fece una faccia compunta. — Lo stucco non ci verrà restituito? — No. Anzi chi ne avesse ancora, deve darmelo subito. Se vengo a sapere che qualcuno non me l'ha consegnato, prendo dei provvedimenti severissimi contro di lui! A queste parole Lessi, che s'era taciuto fino allora come un pesciolino, fece un passo avanti e si cavò di bocca una pallottola di stucco che appiccicò al capitale sociale sequestrato: lo fece con un sospiro e con mano sudicia. — Ce n'è ancora? Invece di rispondere Lessi spalancò la bocca e mostrò che non ne aveva più. II professore prese il cappello. — E ch'io non senta mai più che avete fondato una società! Ora su, filate a casa! I ragazzi filarono in silenzio per la porta; uno solo disse piano: — Ossequi! Era Lessi che non aveva potuto salutare prima perchè aveva lo stucco in bocca. Il professore se n'andò e la Società dello Stucco disciolta rimase sola. I ragazzi si guardarono rattristati. Colnai raccontò a Boka, che aspettava, la scena dell'interrogatorio. Boka respirò sollevato. — Mi sono spaventato molto — disse perchè temevo che qualcuno avesse tradito il campo... Nemeciech intanto s'era messo nel centro del gruppo e sussurrò: — Guardate! Mentre vi interrogava io ero vicino alla finestra nuova e... — mostrò il pezzo di stucco che aveva grattato dalla finestra. Gli altri lo fissarono con trasporto. Gli occhi di Vais sfavillarono: — Se c'è dello stucco, la società non è morta. Sul campo terremo l'assemblea! — Sul campo! Sul campo! — gridarono anche gli altri. E tutti si misero a correre verso casa. Le scale echeggiavano dei loro gridi di guerra: — Ahò, oò! Ahò, oò! Tutti filarono via per il portone. Boka soltanto camminava solo, adagio adagio: non era allegro. Pensava a Ghereb, a Ghereb traditore, a Ghereb che aveva portato il fanalino nell'isoletta dell'Orto Botanico. E si diresse verso casa sempre rimuginando i suoi pensieri amari...

Ma non perchè abbia paura. Io non ho paura. Ma non voglio per il berretto. E te lo dimostro anche perché, se ci tieni, io ci butto volentieri il tuo berretto! Non si può dire una cosa simile a Ghereb: è quasi un'offesa. E Ghereb si risentì e disse: — Se si tratta del mio berretto, lo butto da me. Questi è uno strozzino. E se tu hai paura, scappa! — E con un gesto che in lui significava intenzioni aggressive, si tolse il berretto pronto a far schizzare in tutte le direzioni i dolciumi allineati in bell'ordine sulla panchetta del turco. Ma da dietro qualcuno gli afferrò il polso. E una voce seria, quasi d'uomo, gli chiese: — Cosa fai? Ghereb si volse. Boka era dietro a lui. — Cosa fai? Boka lo fissava serio ma mite. Ghereb brontolò come un leone quando fissa la pupilla del domatore. Diventò piccolo. Rimise il berretto in testa e scrollò le spalle. Boka gli disse: — Lascia stare quell'uomo. A me piace il coraggio; ma questa sarebbe una sciocchezza. Andiamo! E gli porse la mano, una mano sporca di macchie d'inchiostro. Il calamaio tascabile aveva fatto colare il suo sangue blu scuro e Boka aveva messo, senza sospetto, la mano in tasca! Ma nessuno se ne preoccupò: Boka sfregò la mano contro il muro, per cui anche il muro divenne sporco d'inchiostro e la mano non divenne per questo più pulita, ma la faccenda dell'inchiostro con ciò era conclusa. Boka prese Ghereb sottobraccio e s'incamminarono lasciando dietro di loro Ciele, il quale con voce strozzata, con la voce avvilita del rivoluzionario sconfitto e rassegnato, diceva al turco: — Se d'ora in poi tutto costa dieci soldi, ebbene mi dia del torrone per dieci soldi! E aperse il suo bel borsellino di pelle verde. Il turco sorrideva e pensava forse a quel che potrebbe accadere se da domani tutto costasse quindici soldi. Ma non era che un sogno, come quando uno sogna che uno scudo vale cento franchi! Spaccò dall'alto in basso il torrone e mise la scheggia spaccata su un piccolo pezzo di carta. Ciele lo guardò avvilito. — Ma questo è meno di prima! II successo commerciale aveva reso il turco insolente. Disse: — Ora è più caro appunto perchè è meno! E si volse a un nuovo cliente che, ammaestrato dall'esempio, teneva già pronti in mano i dieci soldi. E si mise ad assalire il torrone col suo coltello facendo gesti strambi come se fosse un gigantesco carnefice medievale che decapitasse uomini bianchi dalle testoline color nocciola. Compiva un eccidio nel torrone. — Vergogna! — disse Ciele al cliente sopraggiunto — Non comperate niente! E' uno strozzino! E con un sol colpo si ficcò in bocca tutt'il torrone; e la carta rimase appiccicata alle labbra. 2 — Aspettate! — gridò allora verso Boka e si mise a correre per raggiungerlo. Boka aveva quattordici anni e sul suo viso c'erano pochi tratti dell'adulto. Ma quando apriva bocca, subito aumentava di qualche anno. La sua voce era profonda, mite, seria. E quel ch'egli diceva era un po' come la sua voce. Diceva raramente delle sciocchezze e non amava le biricchinate. Non interveniva mai nelle piccole questioncelle; e se lo chiamavano a far da arbitro, non accettava. Sapeva che dopo la sentenza, una delle due parti restava insoddisfatta e conservava rancore all'arbitro. Ma quando la lite s'inaspriva e il bisticcio cominciava a diventar pericoloso tanto da richiedere l'intervento di qualche autorità, allora Boka s'intrometteva per rappacificare. E chi cerca soltanto di far rifare la pace non corre pericolo di inimicarsi i litiganti. Insomma Boka pareva un ragazzo intelligente e aveva l'aria — se anche non fosse certo che la sua carriera futura sarebbe stata brillante per questo — aveva l'aria di essere una persona per bene. La piccola strada tranquilla era riscaldata da un dolce sole di primavera e la manifattura tabacchi che si allungava da un lato rombava piano. C'erano soltanto due passanti, due ragazzi, che in mezzo alla strada aspettavano. Uno era Cionacos, il forte Cionacos, e l'altro il piccolo biondo Nemeciech. Quando Cionacos s'accorse dei tre compagni che s'avvicinavano, mise due dita fra le labbra e fischiò come una locomotiva. Era la sua specialità, fischiare! In quinta nessuno sapeva fischiare come lui, anzi in tutto il ginnasio pochi avrebbero saputo imitare questo fischio da cocchiere. Sì, c'era Scinder, il presidente del Circolo di Letteratura, che sapeva fischiare così; ma Scinder fischiava soltanto prima d'essere eletto presidente del Circolo. Da quel giorno non aveva mai più messo le dita in bocca: non era conveniente per ii Presidente di un Circolo Letterario! Cionacos fischiò dunque e i tre sopraggiunti gli si accostarono; i ragazzi formarono un gruppo in mezzo alla strada. Volgendosi verso il biondo Nemeciech, Cionacos domandò: — A loro l'hai detto? — No — rispose Nemeciech. — Che cosa? — domandarono i tre ad una voce. Invece del biondino parLò Cionacos ed annunziò: — Ieri neL giardino del museo hanno Fatto ancora «einstandt». — Chi? — I Pastor. I due fratelli Pastor. Si fece un gran silenzio. Ma per capire bisogna sapere che cosa sia einstandt. Questa è una parola tutta speciale dei ragazzi di Budapest. Se un ragazzo più forte vede uno più debole che sta giocando coi birilli o coi pennini o con i semi e vuole prendergli il gioco, dice: einstandt. Questa brutta parola tedesca significa che il ragazzo più forte dichiara il gioco bottino di guerra e chi osa resistergli dovrà subire la sua violenza.Einstandt è perciò anche dichiarazione di guerra: è la formula breve ma efficace della violenza, del diritto del più forte e del brigantaggio. Ciele fu il primo a parlare, il fine ed elegante Ciele che esclamò inorridito: — Hanno fatto einstandt? — Sì — disse il piccolo Nemeciech, prendendo coraggio al vedere che la sua comunicazione suscitava interesse. — Non si può andare avanti così! — proruppe a dire Ghereb. — E' un pezzo che io dico che bisogna fare qualcosa, ma Boka storce sempre la bocca. Se non facciamo qualcosa finiremo con l'essere picchiati! Cionacos mise ancora le dita in bocca e si preparava a fischiare d'allegria per dimostrare che approvava con entusiasmo qualunque proposta rivoluzionaria, ma Boka lo afferrò al polso. — Non assordarci! — intimò. E rivolgendosi al bambino: — Com'è andata? — chiese. — L'einstandt? — Sì. Quand'è stato? — Ieri, nel pomeriggio. — Dove? — Al museo. — Racconta com'è accaduto. Ma dì la verità, con esattezza, perchè noi dobbiamo essere informati se dobbiamo decidere qualcosa... Nemeciech era agitatissimo perchè sentiva d'essere diventato il centro dell'interesse, il che gli capitava di rado... Nemeciech era per tutti un ragazzo insignificante; nessuno si curava di lui. Si mise a parlare e i ragazzi accostarono i visi: — Ecco, — disse — è stato che dopo colazione siamo andati nel giardino del museo, Vais e io e Richter e Colnai e Barabàs. E prima volevamo giocare a palla con il tamburello, ma la palla era di quelli del liceo e non ce la volevano dare. E allora il Barabàs dice: «Andiamo a giocare alle biglie sotto il muro». E siamo andati tutti in giardino a giocare alle biglie sott'il muro. E si giocava che ognuno deve tirare una biglia e chi riesce a pigliare una di quelle che sono giù, prende tutte le biglie già giocate. E facevamo correre le biglie e ce n'erano già una quindicina per terra e due anche di vetro, quando il Richter si mette a gridare: «E' finita! Ci sono i Pastor!» E sull'angolo c'erano i Pastor con le mani in tasca e con la testa bassa che venivano avanti così adagio che tutti abbiamo avuto molta paura. Va bene che noi eravamo in cinque e loro in due, ma è come se non fossimo in cinque perchè al primo pasticcio Colnai scappa e Barabàs anche, quindi era come se fossimo in tre. E poi forse scappo anch'io, e allora era come se fossero stati in due. E se anche poi si scappa tutti e cinque, non serve, perchè i Pastor corrono di più e ci pigliano subito, e sono sempre più forti. Allora i Pastor vengono sempre più vicini e guardano le biglie. Io dico piano a Colnai: «Stanno a guardare... Arnano le biglie!» Ma il più intelligente era ancora Vais che ha subito detto: «Vedrete! Ci sarà un grande einstandt!» Ma io pensavo che non ci avrebbero fatto niente perchè noi non li abbiamo mai disturbati. E infatti non facevano nulla; stavano soltanto a guardare il gioco. E il Colnai mi dice: «Ora Basta. Andiamo via!» Ma io gli rispondo: «Bravo! Proprio adesso perchè tu hai sbagliato il colpo! Ora tocca a me! Se vinco, ce n'andiamo...» E prima di me toccava a Richter, ma gli tremava la mano dalla paura e a forza di guardare i Pastor di traverso ha preso male la mira. Ma i Pastor non si muovevano, erano lì, in piedi, con le mani in tasca. Tocca a me: piglio giusto. Vinco tutte le biglie. Faccio per raccoglierle, erano una trentina, e il più piccolo Pastor interviene e mi grida: «Einstandt!» Mi volto e vedo che Colnai e Barabàs già filano a tutta corsa, Vais è appoggiato al muro, bianco di paura, e Richter è li che ci pensa su se andarsene o no. Io ho tentato con gentilezza di dire: «Scusate. Non avete diritto di prendermele!» Ma il Pastor grande stava già mettendosi le biglie in tasca; e il piccolo mi prende per il bavero gridando: «Non hai sentito l'einstandt?» E allora, si capisce, non ho fiatato più. Vais piangeva contro il muro. Colnai e Barabàs spiavano di lontano quello che stava capitando. I Pastor presero tutte le biglie, non dissero più una parola e se ne andarono. Questo è tutto. — Inaudito! — disse indignato Ghereb. — Un vero furto! — aggiunse Ciele. Cionacos fischiò per far comprendere che c'era in aria odor di polvere. Boka stava silenzioso e rifletteva: tutti fissavano lui. Tutti erano curiosi e ansiosi di quel che avrebbe detto Boka di questa faccenda della quale tutti si lamentavano da mesi, ma che Boka non aveva mai preso sul serio. Ma questa volta, l'ingiustizia clamorosa di quel ch'era accaduto commosse anche Boka. Parlò piano: — Ora andiamo a far colazione. Nel pomeriggio ci vedremo sul campo. Discuteremo lì la questione. Dico anch'io che la cosa è inaudita! Tutti furong contenti di questa dichiarazione. Boka, in quel momento, divenne simpaticissimo a tutti. I ragazzi fissavano con affetto la sua testa intelligente, i suoi occhi neri scintillanti che mandavano lampi battaglieri. E tutti avrebbero voluto abbracciare Boka perchè anche lui si era finalmente indignato. S'avviarono verso casa. Grandi avvenimenti maturavano. In ognuno divampava l'energia e l'ansia di sapere quel che ora si sarebbe fatto di certo. Andavano, camminando adagio, lungo il viale. Cionacos rimase indietro con Nemeciech. Quando Boka si rivolse verso di loro, i due erano fermi, vicini a una finestrina della cantina della manifattura tabacchi sul cui davanzale si depositava in grossi strati gialli la fine polvere di tabacco. — Tabacco da naso! — gridò allegro Cionacos. Fischiò e si ficcò nelle narici un po' di povere. Il piccolo Nemeciech rise di cuore. Ne pigliò anche lui e di sulla punta delle sue dita sottili aspirò un poco. Attraversarono, starnutendo, la strada, ed erano tutti felici della loro scoperta. Cionacos starnutiva a gran colpi tuonanti come di cannone. II biondino sbuffava come un coniglio seccato. Soffiarono, tossirono, corsero, risero e in quel momento erano così contenti che dimenticavano anche la grande ingiustizia, quella che Boka, che lo stesso Boka, il tranquillo e serio Boka qualificava inaudita!

, ma mi duole molto che mi abbia detto «malgrado tutto sei un bravo ragazzo»... Boka sorrise: — Non è colpa mia. Ma tua. Ma non fare il permaloso, ora. Dietro front! March! Torna al tuo posto! Ghereb s'incamminò e si ficcò con gioia nella trincea: incominciò subito la fabbricazione delle bombe di sabbia umida. Dalla trincea saltò fuori Barabas, tutto sudicio, che gridò a Boka: — Gliel'hai permesso? — Sì — rispose il generalissimo. In generale non prestavano troppa fede a Ghereb: il che capita, sempre agli spergiuri. Vengono controllati anche quando dicono la verità. Ma la parola del generalissimo aveva fatto sparire i dubbi. Barabas s'arrampicò sulla fortezza d'angolo e dal basso si patè vederlo quando fece il saluto militare di lassù al comandante della fortezza; ma poi entrambi sparirono perchè s'erano messi a lavorare. Ammucchiavano in piramidi le bombe di sabbia. Così passarono alcuni minuti, minuti che ai ragazzi sembrarono ore, tanto che si sentivano frasi come queste: — Che abbiano cambiato idea? — Che si siano spaventati? — Preparano qualche sorpresa! — Non verranno! Qualche minuto dopo le quattordici l'aiutante di campo caracollò lungo le posizioni dando ordine di cessare ogni schiamazzo e di mettersi tutti sull'attenti perchè il generalissimo intendeva passare l'ultima rivista alle truppe. E mentre l'aiutante di campo faceva questo annuncio ecco in fondo comparire Boka, muto, severo. Passò davanti prima all'armata di via Maria: tutto in ordine. I due battaglioni di copertura stavano irrigiditi a destra ed a sinistra della grande porta. I comandanti si fecero avanti. — Sta bene — disse Boka —. Sapete il vostro dovere? — Sappiamo. Fingere la fuga. — E poi attaccare alle spalle! — Sì, signor generale! Visitò quindi la capanna. Aperse la porta, mise la chiave nella toppa dal di fuori: provò anche se funzionava la serratura. Poi visitò le tre fortezze della fronte. Due o tre ragazzi stavano in ciascuna fortezza. Le bombe di sabbia erano pronte, in piramide. La fortezza numero tre aveva il triplo delle bombe delle altre, perchè era la fortezza principale. Tre artiglieri si misero sull'attenti quando il generalissimo comparve. Nelle fortezze 4, 5 e 6 v'erano bombe di riserva. — Queste non le toccate — disse Boka — perchè la sabbia di riserva serve per far fuoco se faccio passare qui gli artiglieri delle altre fortezze. — Sì, signor generale. Nella fortezza 5 l'agitazione era così forte che quando il generale vi giunse l'artigliere troppo zelante gli gridò in faccia: — Va al tuo posto che qui c'è da fare! Il compagno gli diede una gomitata e Boka lo redarguì: — Non riconosci il tuo generale, asino? Ed aggiunse: — Un soldato così, sarebbe meglio fucilarlo! L'artigliere si spaventò a morte perchè non pensava che era improbabile venisse fucilato davvero. Nè ci aveva pensato Boka il quale questa volta - e gli accadeva di rado - aveva detto una sciocchezza. Continuando giunse alla trincea. Dentro la fossa erano accovacciati due battaglioni; e Ghereb era tra essi, felice. Boka si mise sullo spalto della trincea. — Ragazzi... — gridò entusiasmato — da voi dipende l'esito della battaglia. Se riuscite a trattenere il nemico fino a che sia finita l'azione di via Maria, la giornata è nostra! Pensateci bene! Un urlo rispose dalla trincea... — Silenzio! — ordinò il generalissimo. E andò nel centro del campo. Ciele lo stava aspettando con la tromba in mano. — Aiutante di campo! — Comandi! — Noi dobbiamo metterci in un punto dal quale possiamo vedere tutta la battaglia. Di solito i generali seguono i combattimenti dall'alto di una collina. Noi possiamo arrampicarci in cima alla casupola. E vi si recarono. II sole brillava sulla trombetta di Ciele e questo dava un aspetto oltremodo marziale all'aiutante di campo. Gli artiglieri delle fortezze se lo indicarono l'un l'altro: — Lo vedi? Ed allora Boka cavò di tasca il binoccolo da teatro che era già stato adoperato durante l'azione dell'Orto Botanico. Se lo appese ad armacollo con una cinghia ed in questo momento non differiva dal grande Napoleone se non per qualche particolare di secondaria importanza. Egli era un comandante d'esercito: questo è certo. Ed aspettava. Per l'esattezza storica bisogna avvertire che dopo sei minuti precisi risuonò lo squillo di una trombetta dalla parte di via Pal. A questo suono i battaglioni cominciarono ad agitarsi. - Vengono! Ma non era che una trombetta estranea. Alcuni momenti dopo le due sentinelle balzarono dallo steccato e si diressero correndo verso la casupola in cima alla quale era il generalissimo. Si soffermarono, salutarono e dissero: — II nemico! — Ai vostri posti! — gridò Boka — Ora si decide il destino del nostro regno! Le due sentinelle corsero ai loro posti, uno dentro la trincea, l'altro fra le truppe di via Maria. Boka puntò il binoccolo e disse piano a Colnai: — Pronto con la tromba! Poi Boka abbassò il binoccolo; era infiammato in volto e disse con voce tremante: — Suona! E il segnale di tromba squillò. Alle porte, alle frontiere del regno, le Camicie Rosse sostarono. Sulle punte inargentate delle loro lancie risplendeva il sole: e le camicie ed i berretti rossi li facevano sembrare diavoletti. Anche le loro trombe suonarono all'assalto e l'aria fu piena di squilli di tromba eccitanti. Colnai soffiava senza tregua, senza cessare. Boka cercò col binoccolo Franco Ats. — Eccolo! E' con quelli di via Pal. Anche Sèbeni è con lui. Ha la nostra bandiera. L'armata di via Pal dovrà sostenere un urto violento. Quei di via Maria erano capitanati dal maggiore dei Pastor. Sventolavano una bandiera rossa. E le trombe squillavano senza tregua. Le Camicie Rosse sostavano sulle porte in ordine serrato. — Preparano qualcosa — disse Boka. Di colpo le trombe delle Camicie Rosse tacquero. L'esercito di via Maria eruppe in un tremendo grido di guerra: — Uja op! Uja op! E si precipitarono attraverso la porta. I nostri fecero mostra di opporsi un istante ma subito dopo scapparono come prescriveva l'ordine di battaglia. — Bravi! — gridò Boka. Poi di colpo guardò verso via Pal. L'armata di Franco Ats non era entrata. Se ne stava immobile davanti alla porticina, aperta. — Che è questo? — Un'insidia! — disse tremante Ciele. E di nuovo guardarono a destra. I nostri correvano e i nemici li inseguivano urlando. Boka che aveva guardato finora intimidito e pensoso la passività dell'armata di Franco Ats, d'un tratto fece quello che non si ricorda avesse mai fatto: buttò per aria il suo berretto e si mise a danzare come impazzito sul tetto della capanna. — Siamo salvi! — gridava. Balzò su Ciele, lo abbracciò, lo baciò. Poi si mise a ballare con lui. L'aiutante non ne capiva nulla. Gli chiese preoccupato: — Che c'è? Che c'è? Boka indicò verso la direzione di Franco Ats. — Non vedi? — Sì. — Ebbene, non capisci? — No! — Che sciocco! Siamo salvi! Abbiamo vinto! Non capisci? — No! — Non vedi che stanno fermi? — Lo vedo! — Non entrano! Aspettano! — Lo vedo! — Ma perchè aspettano? Aspettano che l'armata di Pastor abbia sgomberato il fronte di via Pal. Ed essi attaccano dopo. L'ho capito non appena ho veduto che non attaccavano contemporaneamente! La nostra fortuna è ch'essi abbiano ideato un piano di battaglia eguale al nostro. Hanno pensato di cacciare con l'armata Pastor metà del nostro esercito fuori dalla via Maria e allora l'altra metà sarebbe stata attaccata su due fronti. Ma noi non beviamo! Vieni! E si mise a strisciare giù. — Dove? — Vieni con me. Non c'è più nulla da guardare. Quelli non si muoveranno. Andiamo ad aiutare l'armata di via Maria. L'armata di via Maria eseguiva mirabilmente i propri compiti. Correva su e giù davanti alla segheria, attorno ai gelsi. E per fare i furbi gridavano: — Ahimè! Ahimè! — Siamo perduti! — Siamo finiti! Le Camicie Rosse li inseguivano urlando. Boka stava osservando se riuscissero a farli cadere in trappola. D'un tratto i nostri erano scomparsi dietro la segheria. Metà dell'armata era corsa nella rimessa, l'altra metà nella casupola. Pastor gridò l'ordine: — Inseguiteli! Catturateli! — E i rossi corsero loro dietro. — Tromba! — ordinò Boka. E la tromba segnalò alle fortezze ch'era giunto il momento d'iniziare il bombardamento. E l'urlo di guerra dei ragazzi giunse dalla prime tre fortezze impegnate. Si udirono tonfi sordi: le bombe di sabbia volavano. Boka era rosso in viso e tremava tutto. — Aiutante! — gridò. — Presente! — Corri alla trincea e dì che aspettino. Attacchino soltanto quando io faccio suonare l'assalto. E anche le fortezze di via Pal aspettino! L'aiutante si precipitò giù, ma giunto in prossimità della trincea si mise bocconi e 14 proseguì strisciando perchè il nemico non lo potesse scorgere: comunicò l'ordine sussurrandolo al più vicino e tornò com'era venuto. — Fatto! — comunicò. Dietro la segheria l'aria fremeva di urla. Le Camicie Rosse credevano d'aver vinto. Le tre fortezze bombardavano con intensità e questo impediva loro di dare la scalata alle cataste di legname. Nella fortezza d'angolo, numero tre, Barabas in maniche di Camicia combatteva da leone. Prendeva sempre di mira il maggiore dei Pastor; ed una dopo l'altra le bombe di sabbia scoppiavano sulla sua testa. E ad ogni colpo Barabas esclamava: — Per te, figlio mio! — La sabbia si spargeva sul viso e nella bocca del Pastor che sbuffava furiosamente. — Aspetta che vengo io! — urlò fuori di sè. — Vieni pure! — rispose Barabas. Mirò e tirò. II collo della Camicia Rossa si gonfiò di sabbia. Un grande urrà rispose da tutte le fortezze! — Mangia sabbia! — gridò invasato Barabas; e gettò bombe con entrambe le mani verso il Pastor. E anche gli altri due non dormivano. La fortezza d'angolo lavorava furiosamente. La fanteria era rannicchiata silenziosamente nella rimessa in attesa dell'ordine di marciare all'assalto. Le Camicie Rosse erano già ai piedi delle fortezze e stavano combattendo una dura battaglia. Pastor rinnovò l'ordine: — Su! Scaliamo le fortezze! — Bum! — esclamò Barabas colpendo il capo sul naso. — Bum! — ripeterono le altre fortezze scaraventando una grandinata di sabbia sulla testa dei più arditi avversari. Boka afferrò il braccio di Ciele. — La sabbia comincia ad esaurirsi. Lo vedo di qui. Anche Barabas lavora con un braccio solo sebbene nella fortezza d'angolo le munizioni fossero state triplicate... Il fuoco infatti sembrava rallentare. — E che cosa accadrà? — chiese Colnai. Boka oramai era più calmo. — Vinceremo! Intanto la fortezza numero due aveva sospeso il fuoco. La sabbia doveva essere finita. — Questo è il momento! — gridò Boka — Corri alla rimessa. Bisogna marciare all'assalto! Alla casupola si recò egli stesso: spalancò la porta e gridò: — All'assalto! I due battaglioni si precipitarono fuori contemporaneamente: uno dalla rimessa, l'altro dalla capanna. Giunsero al momento giusto: Pastor stava già arrampicandosi sulla seconda fortezza. Si aggrapparono a lui, lo tirarono giù. Le Camicie Rosse cominciarono a scompligiarsi. Credevano che la truppa fuggita si fosse ritirata dietro le cataste di legname e che queste servissero ad impedire l'avanzata degli inseguitori verso i fuggitivi; ed ecco erano attaccati alle spalle da coloro che poco prima erano scappati. I corrispondenti di guerra più seri dicono che il maggior pericolo della guerra sia lo scompiglio. I generali temono meno cento bocche di cannone che non il minimo turbamento che in pochi minuti provoca un trambusto generale. E se un piccolo scompiglio turba una vera armata con fucili e cannoni, che non poteva fare di alcuni piccoli fanti vestiti di camicia rossa? Non riuscivano a capire. Dapprima non avevano nemmeno compreso che questi erano gli stessi fuggiti poco prima davanti a loro. La credettero una nuova armata di rinforzo. Soltanto dopo averne riconosciuti alcuni compresero di trovarsi di fronte agli stessi. — Da che inferno son venuti fuori? — gridò Pastor mentre due forti braccia lo afferravano per le gambe e lo tiravano giù. Ora anche Boka combatteva. Si era scelta una Camicia Rossa e combatteva. Lottando lo sospingeva verso la capanna. La Camicia Rossa vedendo di non riuscire a spuntarla contro Boka gli diede lo sgambetto. Dalle fortezze partirono grida di protesta: — Vergogna! — Ha dato lo sgambetto! Boka era caduto in seguito allo sgambetto, ma era subito rimbalzato in piedi. — Hai dato lo sgambetto! Questo non è nelle regole! Fece un cenno a Ciele ed in pochi momenti sospinsero la Camicia Rossa dentro la capanna che Boka rinchiuse a chiave. — Ha fatto lo stupido — disse —. Se avesse combattuto lealmente non sarei riuscito a vincerlo. In questo modo è stato lecito attaccarlo in due. E corse di nuovo sulla linea del fuoco dove oramai si lottava a coppie. La poca sabbia rimasta nelle fortezze 1 e 2 veniva adoperata dagli artiglieri per spargerla sul nemico impegnato. Ma le fortezze di via Pal tacevano. Aspettavano. Ciele già aveva affrontato un avversario quando Boka gli ordinò: — Non lottare! Porta l'ordine alle guarnigioni delle fortezze 1 e 2 di portarsi nelle fortezze 4 e 5. Ciele s'infiltrò tra i combattenti e corse a portare gli ordini. Presto dalle due fortezze scomparvero le bandiere perchè i ragazzi le avevano portate con sè nella nuova linea di combattimento. Un grido di vittoria seguiva all'altro. Ma il più forte risuonò quando Pastor, il terribile ed invincibile Pastor fu sollevato di peso da Cionacos e portato verso la capanna. Dopo un istante Pastor percoteva furiosamente il muro della capanna, ma dall'interno! Un urlo tremendo si levò allora: le Camicie Rosse sentivano d'essere perdute. E persero completamente la testa quando il loro capo scomparve di mezzo. Speravano soltanto in Franco Ats che riuscisse a mutare le sorti della battaglia. Una Camicia Rossa dopo l'altra veniva portata nella capanna, tra gridi di vittoria sempre rinnovati, i quali giungevano fino all'armata immobile sulla soglia della porticina di via Pal. Franco Ats che camminava su e giù davanti alla frontiera, disse con sorriso fiero: — Sentite? Presto avremo il segnale! Le Camicie Rosse erano rimaste d'accordo che quando Pastor avesse finita la propria operazione in via Maria avrebbe dato un segnale di tromba e allora Pastor e Franco Ats avrebbero attaccato contemporaneamente. Ma in quel momento il piccolo Vendauer, trombettiere del gruppo Pastor, stava bussando con tutte le forze contro la porta della capanna e la sua tromba piena di sabbia giaceva nella fortezza numero 3 tra il bottino di guerra... Mentre questo accadeva tra la segheria e la capanna, Franco Ats incoraggiava calmo i suoi uomini. — Abbiate pazienza. Quando sentiamo il segnale di tromba, allora avanti! Ma il segnale di tromba ardentemente aspettato non veniva. Lo schiamazzo, l'urlìo s'attutiva sempre più, anzi proveniva da un luogo chiuso, a quel che sembrava. E quando i due battaglioni col berretto verde-rosso ebbero finito di spingere anche l'ultima delle Camicie Rosse dentro la capanna e quando il grido di vittoria eruppe più potente che mai, nel gruppo di Franco Ats cominciò a serpeggiare un'inquietudine nervosa. Il minore dei Pastor si staccò dalla fila e disse: — Mi pare che sia capitato qualche guaio! — Perchè? — Perchè questa non è la loro voce. Queste sono voci nemiche. Franco Ats si protese. Veramente anche a lui pareva che questo clamore non fosse dei suoi compagni. Però fingeva d'essere tranquillo. — Ai nostri non è capitato nulla — disse —. Combattono in silenzio. I ragazzi di via Pal gridano perchè sono in difficoltà. Ma in questo momento, quasi per smentire le sue parole, un evviva chiarissimo risuonò dalla via Maria. — Diamine! — esclamò Franco Ats. Questo è un grido di evviva! II minore dei Pastor disse agitato: — Chi è in difficolta non grida evviva! Forse non bisognava fidarsi tanto della vittoria di mio fratello. E Franco Ats, ch'era un ragazzo intelligente, oramai comprese che il suo calcolo era stato sbagliato. Anzi capì che la battaglia era compromessa perchè toccava a lui solo oramai affrontare tutto l'esercito dei ragazzi di via Pal. L'ultima sua speranza, l'atteso segnale di tromba, non squillò. Squillò invece un altro segnale. La voce d'una tromba sconosciuta, che annunciava qualcosa all'armata di Boka. Questo voleva dire che le truppe di Pastor erano state catturate fino all'ultimo uomo e che ora si doveva iniziare l'offensiva dal lato del campo. Ed infatti al segnale di tromba l'armata di via Maria si divise in due ed una parte comparve accanto alla casupola, l'altra parte accanto alla fortezza 6, ed avevano l'uniforme in disordine ma gli occhi lucidi, l'entusiasmo di chi ha vinto una battaglia. Franco Ats capì che la colonna di Pastor era stata vinta. Per pochi minuti fissò in cagnesco i nuovi venuti, poi si volse verso il minore dei Pastor: — Se li hanno vinti, dove sono allora? Se sono stati ricacciati in istrada perchè non vengono verso di noi? Sèbeni allora corse fino in via Maria. Nessuno, nè qui, nè là. — Non c'è nessuno! — annunciò disperato Sèbeni. — Ma allora dove sono? E ricordò ad un tratto la capanna. — Li hanno rinchiusi — gridò fuori di sè dall'ira. Li hanno vinti e rinchiusi nella capanna! E in direzione della capanna giungeva infatti un rimbombo sordo: erano i prigionieri che pestavano le assi. Invano. La capanna questa volta parteggiava per i ragazzi di via Pal. Non lasciava sfondare nè le pareti, nè la porticina. Resisteva. E i prigionieri allora facevano uno schiamazzo infernale. Volevano attirare l'attenzione delle truppe di Franco Ats. Vendauer, al quale avevano tolto la tromba, si fece portavoce delle mani e urlò, invocando soccorso. Franco Ats si rivolse ai suoi: — Ragazzi! — disse — Pastor ha perso la battaglia! Tocca a noi salvare l'onore delle Camicie Rosse! Avanti! E così com'erano disposti, in lunga fila, entrarono nel campo e mossero all'assalto, di corsa. Ma Boka era tornato con Ciele sul tetto della capanna e coprendo con la propria voce il frastuono ululante e scalpitante del prigionieri rinchiusi sotto, comandò: — Dà il segnale! All'assalto! Fortezze, aprite il fuoco! E le Camicie Rosse che si precipitavano verso la trincea si fermarono di botto. Quattro fortezze li bombardavano insieme. Erano tutti avvolti da una nuvola di sabbia e non ci vedevano più. — Riserva, avanti! — gridò Boka. La riserva corse al contrattacco, nella nuvola di polvere. Intanto la fanteria della trincea rimaneva immobile, aspettando il suo turno. E dalle fortezze volavano e scoppiavano bombe una dopo l'altra e non poche cadevano sulle schiene dei ragazzi stessi di via Pal. — Non fa niente — gridavano —. Avanti! Quando in una fortezza le bombe furono esaurite, la sabbia venne gettata a manciate. Nel mezzo del campo, a meno di venti metri dalla trincea le due armate turbinavano, s'azzuffavano, scompigliate e in mezzo alla nuvola di sabbia emergeva soltanto ora una camicia rossa ora un berretto rosso-verde. La riserva era stanca, mentre le truppe di Franco Ats erano entrate in combattimen- con forze fresche. Per un momento parve che i combattenti si avvicinassero alla trincea il che significava che i nostri non erano in grado di fermare i rossi. Ma più si avvicinavano alle fortezze, meglio colpivano le bombe. Barabas mirò di nuovo al capo. Bombardava Franco Ats. — Non è niente! — diceva — Soltanto sabbia! Mangiala! Stava in cima alla fortezza come un diavolo instancabile: urlava mentre si curvava a prendere le nuove bombe. La truppa di Franco Ats aveva portato con sè della sabbia in sacchetti, ma non era possibile usarla perchè gli uomini occorrevano tutti sulla linea del fuoco. Per ciò i sacchetti furono gettati. E intanto le due trombe squillavano incitanti: quella di Ciele dal tetto della capanna, e quella del minore Pastor dal folto della mischia. Ora la trincea era a dieci passi. — Su, Ciele! — gridò Boka — Corri alla trincea, non badare alla bomba, e quando sei dentro suona l'assalto. La trincea deve aprire il fuoco e appena ha esaurito le bombe deve marciare all'attacco. — Ao! 0! — gridò Ciele; e scese dal tetto della capanna. Ora non avanzava più carponi ma correva a testa alta verso la trincea. Boka gli disse qualcos'altro ma il fracasso della rivolta sotto i suoi piedi e dello strombettìo dell'armata di Ats coperse la sua voce; lo seguì pertanto con lo sguardo per vedere se riusciva a portare l'ordine alla trincea prima che le Camicie Rosse s'avvedessero che la trincea era occupata. Un'alta figura si staccò dai combattenti e balzò incontro a Ciele. Era finita! Ciele non avrebbe potuto trasmettere l'ordine. — Ci vado io! — gridò disperato Boka; e scese dal tetto, avviandosi di corsa verso la trincea. — Fermati! — gridò verso di lui Franco Ats. Avrebbe voluto impegnare la lotta col capo avversario, ma con questo avrebbe compromesso tutto; perciò continuò a correre verso la trincea. Franco Ats lo inseguì. — Vigliacco! — gridava — Scappa pure ma ti prendo! E lo raggiunse proprio quando Boka balzava nella trincea ed aveva avuto il tempo soltanto di gridare: — Fuoco! E Franco Ats che sopravveniva si prese una diecina di bombe sulla camicia rossa, sul berretto rosso e sul viso rosso. — Siete dei diavoli! — gridò — Tirate da una fossa? Ma allora l'attacco d'artiglieria proruppe su tutta la fronte: le fortezze bombardavano dal di sopra, le trincee dal di sotto. La sabbia si frantumava e alle voci dei combattenti si unirono finalmente anche quelle dei soldati della trincea che erano stati costretti finora a tacere. Boka vide maturo il momento per l'assalto finale. Si mise in capo alla trincea dove alla distanza di due passi Colnai stava lottando con un rosso. Estrasse una bandiera rossa e verde e diede il comando finale: — All'assalto! Tutti avanti! Ed allora dalla terra sbucò fuori una nuova armata. Attaccavano su un fronte serrato e stavano ben attenti di non impegnarsi in lotte individuali. Procedevano compatti contro i rossi e li allontanavano dalla trincea. Barabas gridò dalla fortezza: — Non c'è sabbia! — Venite giù! All'assalto! E sui muri delle fortezze comparvero i piedi e poi le mani dell'artiglieria che scendeva e formò la seconda ondata d'attacco. Il combattimento era furioso. Le Camicie Rosse sentendosi in difficoltà non badavano più alle regole. Le regole erano buone per essi fin tanto che potevano credere di vincere in lotta regolare. Ma oramai non badavano più alle formalità. E riuscivano a fronteggiare, pur essendo in numero molto inferiore, i ragazzi della via Pal. — Alla capanna! — urlò Franco Ats — Andiamo a liberare gli altri. E tutto il turbine, mutando direzione, si gettò verso la capanna. A questo le truppe di via Pal non erano preparate. L'armata rossa era sfuggita alla loro stretta. Franco Ats in testa, con la speranza della vittoria, gridava: — Seguitemi! Ma ad un tratto, come se gli avessero messo un bastone fra le gambe, si fermò. E dietro a lui tutta l'ondata rifluì. Un ragazzino era di fronte a Franco Ats, un ragazzino minore di lui, un biondino striminzito che sollevò in alto le due mani con un gesto di divieto ed esclamò con una povera piccola voce: — Fermati! La truppa di via Pal che già s'era scompigliata per l'inatteso svolgimento delle cose, riprese animo e gridò: — Nemeciech! E il biondo bambino striminzito e malato in quel momento sollevò il grosso Franco Ats e con uno sforzo tremendo, per il quale soltanto la sua febbre, la sua febbre ardente e il suo parossismo potevano prestargli la forza, scaraventò a terra il capo avversario, secondo tutte le regole. Poi gli cadde addosso, svenuto. In quel momento tutta la disciplina delle Camicie Rosse si spezzò. Fu come se fossero state decapitate del loro capo: il loro destino fu segnato. Quei di via Pal approfittarono del trambusto per prendersi per le mani e formare una grande catena la quale sospinse gli avversari perplessi. Franco Ats si rialzò e si guardò attorno col viso infiammato di furore. Si toglieva la polvere dal vestito e vide d'essere rimasto solo. Il suo esercito si accalcava oramai verso la porticina, sospinto dai vittoriosi ragazzi di via Pal ed egli era rimasto solo. Accanto a lui giaceva per terra Nemeciech. E quando anche l'ultima Camicia Rossa fu cacciata fuori e la porticina fu chiusa col catenaccio, l'ebbrezza della vittoria illuminò i loro volti. Gli evviva e gli urrà risuonavano frenetici. Boka giunse di corsa dalla segheria con lo slovacco: portavano dell'acqua. Tutti si raccolsero attorno al piccolo Nemeciech disteso in terra; ed un silenzio mortale seguì i fragorosi gridi di evviva. Franco Ats se ne stava in disparte e guardava truce i vincitori. Nella capanna i prigionieri bussavano sempre: ma chi badava a loro? Giovanni sollevò cautamente Nemeciech di terra e lo adagiò su un terrapieno. Poi gli lavarono gli occhi, la fronte, il viso. Dopo pochi minuti Nemeciech aperse gli occhi. Si guardò attorno con un sorriso smorto. Tutti tacevano. — Che c'è? — chiese piano. Ma tutti erano così preoccupati che nessuno sapeva cosa rispondergli. Lo fissavano senza capire. — Che c'è? — ripetè mettendosi a sedere sul terrapieno. Boka gli si avvicinò. — Stai meglio? — Sì. — Non ti fa male niente? — Niente. Sorrise. Poi domandò: — Abbiamo vinto? A questa domanda non tacquero più, ma tutti risposero con un grido solo: — Abbiamo vinto! E nessuno si curava di Franco Ats che era rimasto presso una catasta di legna e se ne stava serio a contemplare con tristezza irosa la scena famigliare dei ragazzi di via Pal. — Abbiamo vinto — disse Boka —, ma se verso la fine non ci è capitata una disgrazia dobbiamo ringraziare te. Se non apparivi all'improvviso fra noi e non scompigliavi Ats e i suoi, certamente sarebbero riusciti a liberare i prigionieri della capanna e quello 15 che sarebbe accaduto non lo so nemmeno io. Il biondino sembrava poco persuaso. — Non è vero — disse —. Dite così per farmi piacere e perchè sono malato! E si passò la mano sulla fronte. Ora che il sangue era tornato, il suo viso era ancora rosso e si vedeva che la febbre lo ardeva, lo consumava. — Ora — disse Boka — ti portiamo subito a casa. E' stata un'imprudenza grande di venire qui. Non so come i tuoi genitori t'abbiano lasciato. — Non m'hanno lasciato. Sono venuto da solo. — Ma come? — Il papà era uscito per portare un abito da provare. La mamma era andata da una vicina per scaldare la mia zuppa di semolino, e non aveva chiusa la porta dicendo che se m'occorreva qualcosa chiamassi. E io ero rimasto solo. Mi son messo a sedere sul letto e ad ascoltare. Non sentivo niente, ma mi pareva di sentire qualche cosa: cavalli che scalpitavano, trombe che squillavano, voci che chiamavano. Udivo Ciele che diceva: «Vieni, Nemeciech, siamo minacciati!» Poi ho sentito che tu mi gridavi: «Non venire, Nemeciech, non abbiamo bisogno di te perchè tu sei ammalato... Venivi quando si trattava di divertirsi, di giuocare alle biglie, ma ora quando lottiamo e stiamo per perdere la battaglia, tu non vieni». M'hai detto questo, Boka. Io sentivo che mi parlavi così. Allora mi sono alzato dal letto e son caduto perchè sono a letto da tanto tempo e sono debole. Ma mi sono alzato ed ho preso i vestiti dall'armadio, e le scarpe, e mi son vestito. Ed ero già vestito quando la mamma è tornata; allora, appena ho udito i suoi passi, son tornato a letto vestito com'ero ed ho tirato la coperta fino alla bocca perchè essa non vedesse che ero vestito. La mamma mi disse: «Sono venuta a vedere se avevi bisogno di qualche cosa». Ed io: «Di nulla, grazie». Lei uscì, ed io sono scappato di casa. Ma non sono un eroe, sono venuto soltanto per combattere con gli altri, ma quando ho visto Franco Ats ed ho ricordato che io non avevo preso parte alla guerra solo perchè lui mi aveva fatto prendere un bagno, allora mi sono sentito infiammare. «0 ora o mai più», mi son detto. Ho chiuso gli occhi e mi sono buttato su di lui... II biondino aveva parlato con tanto fervore che ne rimase estenuato; ricominciò a tossire. Non parlare più — gli disse Boka —. Ce lo racconterai più tardi. Ora ti porteremo a casa. Con l'aiuto di Giovanni fecero uscire a uno a uno i prigionieri dalla capanna. E chi aveva delle armi ancora, venne disarmato. S'allontanarono tristi, uno dopo l'altro, per la via Maria. E lo snello fumaiolo sembrava sbuffare e sputacchiare ironico. Ed anche la segheria irrideva loro come se anch'essa parteggiasse per quei di via Pal. Ultimo rimase Franco Ats: era sempre immobile ai piedi di una catasta, e guardava per terra. Colnai e Ciele gli si accostarono per disarmarlo; ma Boka li fermò: — Lasciate stare il comandante! Poi si rivolse al vinto e disse: — Signor comandante, ella ha pugnato da prode! La camicia rossa lo guardò triste come per dire: «E che m'importa oramai del tuo elogio?» Boka si voltò e ordinò: — A... ttenti! Tutte le chiacchiere della truppa di via Pal cessarono. Tutti si irrigidirono e portarono la mano al berretto. Anche Boka tenne la mano ferma alla visiera del berretto; ed anche Nemeciech volle tornare soldato. Si alzò in piedi a stento, come poteva: si mise sull'attenti e salutò. Salutò colui che era causa della sua malattia. E Franco Ats, dopo aver ricambiato il saluto, si allontanò: portava con sè la propria arma. Egli fu il solo che potè farlo. Le altre armi, le celebri lancie dalle punte inargentate, i molti tomawahk giacevano ammucchiate alla rinfusa davanti alla porta della capanna. E in cima alla fortezza numero 3 era issata la bandiera riconquistata. Ghereb l'aveva ripresa a Sébeni durante il vivo della battaglia. — Ghereb è qui? — chiese Nemeciech con gli occhi sbarrati di stupore. — Sì — rispose Ghereb facendosi avanti. Il biondino fissò interrogativamente Boka, che rispose: — E' qui ed ha espiato la propria colpa. In quest'occasione io gli restituisco il suo grado di tenente. Ghereb arrossì. — Grazie! — disse; poi aggiunse sottovoce: — Ma... — Che ma? — So che non ho il diritto — disse Ghereb imbarazzato —, perchè questo dipende dal generale, ma... io penso che... io so che Nemeciech è ancora soldato semplice. Si fece un gran silenzio. Ghereb aveva ragione. Nella grande agitazione tutti s'erano dimenticati che colui al quale tutti dovevano tutto per la terza volta era ancora e sempre soldato semplice. — Hai ragione, Ghereb — disse Boka Rimedieremo subito. Promuovo... Ma Nemeciech lo interruppe. — Non voglio che tu mi promuova... Non l'ho fatto per questo... Non sono venuto per questo... Boka ebbe l'aria severa. — Il motivo non importa. Importa quello che hai fatto venendo qui. Io promuovo Ernesto Nemeciech capitano! — Evviva! E questo evviva fu gridato da tutti ad una voce. E tutti salutarono il nuovo capitano, anche i tenenti e i sottotenenti ma in ispecie il generalissimo il quale portò con tanto rispetto la mano alla visiera che sembrava essere diventato lui soldato semplice e il biondino generalissimo. Ed ecco, s'accorsero di una donnina poveramente vestita che aveva attraversato frettolosa il campo e veniva loro incontro. — Gesù! — gridò — Sei dunque qui? Ho immaginato che saresti venuto qui! Era la mamma di Nemeciech, e piangeva, poverina, perchè aveva cercato dappertutto il figliuolo malato ed era venuta anche al campo per chiedere notizie. Lo prese in braccio, gli ravvolse le spalle con uno scialle e se lo portò verso casa. — Accompagniamola! — esclamò Vais che finora non aveva detto una parola. E quest'idea piacque a tutti. — Accompagniamola! — gridarono tutti; e si apprestarono. Le armi del bottino furono gettate di premura nella capanna e tutta la schiera si mise a seguire in corteo la povera donnina che stringeva al cuore il suo figliuolo per dargli un poco del proprio tepore e se lo portava verso casa. Lungo la via Pal sfilò il corteo. Oramai il tramonto declinava verso la sera. Nei negozi si accendevano le lampade e questa luce si riverberava violenta sui passanti. La gente che se ne andava per gli affari propri, si soffermò un attimo in istrada quando vide passare quello strano corteo: una donna bionda, striminzita, che se n'andava con gli occhi rossi di pianto, stringendosi al collo un bambino ravvolto in uno scialle rosso e dal quale non usciva che il naso; e dietro, a passi cadenzati, e disposti per quattro, una truppa di ragazzi che portavano tutti dei berretti rosso e verde. Alcuni sorridevano. Uno anche rise forte. Ma nessuno badava. Lo stesso Cionacos che di solito riduceva bruscamente al silenzio queste risate irriverenti con metodi persuasivi, ora camminava tranquillo inquadrato con gli altri. Questa marcia era per essi una cosa seria e santa, e non poteva essere turbata da nessuna risata al mondo. Ma la mamma di Nemeciech aveva ben altro da pensare che curarsi del corteo. Sotto la porta di via Racos però essa dovette fermarsi perchè il figliuolo s'era impuntato e non c'era verso di farlo passare. S'era svincolato dalle braccia materne e s'era messo davanti ai ragazzi. — Addio a tutti — disse. Uno dopo l'altro i ragazzi gli strinsero la mano: era una mano che bruciava. Poi Nemeciech scomparve con la mamma sotto il portico buffo. Sentirono sbattere una porta nel cortile; poi ad una finestra s'accese la luce. Nient'altro più. I ragazzi s'accorsero d'essere immobili. Nessuno parlava; guardavano soltanto, guardavano nel cortile, verso la finestrina illuminata dietro la quale c'era il piccolo eroe che andava a coricarsi. Uno di essi sospirò a lungo. Ciele mormorò: — Che accadrà? Nessuno rispose. Due o tre s'avviarono verso il viale Ulloi. Tutti erano stanchi, estenuati per la battaglia. Un vento freddo spirava per le strade, vento primaverile che porta con sè l'alito freddo di nevi che si sciolgono in cima alle montagne. Un altro gruppo si diresse al quartiere Francesco. Alla fine davanti alla porta non rimasero che Boka e Cionacos. Cionacos aspettava che Boka si movesse; ma poichè Boka non si moveva, disse esitando: — Vieni? — No! — rispose Boka, secco. — Rimani? — Sì. — Allora... ciao... E se n'andò, a sua volta, adagio adagio, ciabattando. Boka lo seguì con lo sguardo e vide che ogni tanto si voltava. Poi scomparve all'angolo. E la piccola via Racos che si tiene modesta in disparte, poco lontana dal viale Ulloi rumoroso di tram, ora se ne stava silenziosa nell'oscurità. Solo il vento vi mugolava urtando i vetri dei fanali. Dopo una folata più forte essi tinnirono uno dopo l'altro come se le ondeggianti e vacillanti fiammelle a gas volessero comunicarsi segnalazioni segrete. E non c'era altri che il generalissimo Giovanni Boka. E quando Giovanni Boka, generalissimo, si guardò attorno e vide d'esser solo, gli si strinse il cuore così dolorosamente che Giovanni Boka, generalissimo, s'appoggiò contro il muro e si mise a piangere disperato. Egli sentiva quello che tutti avevano sentito e nessuno aveva osato formulare: il povero soldatino si consumava. Era la fine. E non gli importava più d'essere generalissimo e vittorioso, non gli importava più d'essere grave e virile: il bambino risorgeva in lui e piangeva solo continuando a dire: — Piccolo amico mio... Caro amico buono... Mio piccolo caro capitano... Un uomo che passava gli disse: — Perchè piangi, bambino? Boka non rispose, e l'uomo scrollò le spalle e tirò via. Poi passò una donnina, con una gran cesta: anch'essa si fermò, ma non disse niente. Stette un po' a guardarlo, poi se n'andò. Infine venne un omettino che entrò, sotto il portone e lo riconobbe: — Sei tu, Giovanni Boka? — gli chiese. — Sono io, signor Nemeciech. Era il sarto, col vestito sotto il braccio; il sarto che tornava da Buda e come vide Boka piangere non domandò altro, prese la testolina intelligente del ragazzo, se la strinse a sè, e si mise a piangere anche lui; e questo pianto ridestò in Boka il generale. — Signor Nemeciech, non pianga! — gli disse. II sarto si asciugò gli occhi col dorso della mano e fece un cenno vago come per dire: «Oramai che importa? Almeno lasciatemi piangere!» — Addio, caro... — disse al generale — Va a casa! Ed entrò. Boka si asciugò le lagrime a sua voila e sospirò a lungo. Guardò davanti a sè, lungo la strada e fece per rincasare. Ma pareva che qualcuno lo trattenesse. Sapeva di non poter essere di nessun giovamento, ma il suo dovere sacro era questo, di rimanere e di far da sentinella davanti alla casa del soldatino morente. Si mise a camminare, poi passò, dall'altra parte della strada e guardò la casupola. Passi risuonarono nel silenzio della stradina abbandonata. «Qualche operaio che rincasa», pensò Boka tra sè, e continuò a passeggiare sul marciapiede di fronte. Aveva la testa colma di pensieri strani; la vita e la morte e cose del genere in mezzo alle quali non riusciva a raccapezzarsi. I passi risuonarono più vicini; ma ora sembrava che il sopravvenuto avesse rallentato. Un'ombra nera camminava lungo le case e si fermò davanti alla porta di casa di Nemeciech. Entrò un istante sotto il portone poi tornò ad uscire. E si fermò. Poi si mise a camminare in su e in giù, e quando giunse sotto un fanale il vento gli schiuse un'ala del mantello. Boka guardò: sotto il mantello c'era una camicia rossa. Era Franco Ats. I due comandanti avversari si fissarono cupi. Per la prima volta, nella vita, erano di fronte a quattr'occhi. S'erano incontrati, così, davanti alla triste casupola, l'uno guidato dal proprio cuore, l'altro dal proprio rimorso. Non dissero niente. Si fissarono soltanto. Poi Franco Ats s'avviò e si mise a camminare su e giù davanti alla casa. Camminò a lungo, molto a lungo. Finchè il portinaio non venne dal fondo del cortile a chiudere la porta. Allora Franco Ats gli si avvicinò, si tolse il cappello e gli chiese piano qualcosa. Anche Boka intese la risposta del portinaio. Aveva risposto: — Male!... E sbattè la grande porta pesante. Questo rumore ruppe il silenzio della strada, poi si spense come il tuono tra le montagne. Franco Ats s'incamminò adagio. Andava verso destra. E anche Boka doveva ormai tornarsene. Spirava un vento gelido; e uno dei generali andò a destra, l'atro a sinistra. Ma neanche ora si dissero una parola. E la viuzza s'addormentò definitivamente nella notte pungente di primavera, nella quale oramai dominava il vento scotendo il vetri dei fanali, staffilando le cime delle fiamme gialle del gas e facendo stridere qualche bandieruola arrugginita. Soffiò per tutte le fessure e penetrò anche nella stanzetta dove alla tavola stava seduto un povero sarto davanti a una magra cena, anche presso il letto dove ansava un capitano con le gote ardenti e gli occhi lucidi. Scrollava la finestra, il vento, e fece vacillare la fiamma della lampadetta a petrolio. La mamma ricoperse il figliuolo. — Tira vento, piccolo mio. E il capitano rispose con un sorriso triste, appena percettibile, sussurrando: — Viene dal campo. Dal dolce campo...

— Perchè vuoi che abbia paura? — Potresti aver paura che io morissi proprio quando tu sei seduto sul mio letto. Ma quando devo morire, te lo dico prima. Boka sedette vicino a lui. — Che vuoi? Il malato abbracciò Boka e gli chiese all'orecchio come se gli domandasse un gran segreto: — Che è accaduto delle Camicie Rosse? — Le abbiamo vinte. — E poi? — Son tornati all'Orto Botanico ed hanno tenuto consiglio. Hanno aspettato fino a sera, ma Franco Ats non c'è andato. Allora si sono seccati d'aspettare e se ne sono tornati a casa. — Ma perchè Franco Ats non c'è andato? — Perchè aveva vergogna. E lo faranno dimettere da presidente perchè ha perduto la battaglia. Oggi dopo colazione hanno tenuto un'altra assemblea. A questa è intervenuto ùanche Franco Ats. Ieri sera l'ho visto qui, davanti a casa tua. — Qui? — E' venuto a chiedere al portinaio se stavi meglio. Di questo Nemeciech fu molto orgoglioso. Non osava credere: — Lui in persona? — In persona! — Come t'ho detto hanno tenuto consiglio sull'isola; ed hanno fatto molto baccano, perchè tutti pretendevano le dimissioni di Franco Ats e due soltanto lo difendevano, il Vendauer e Sèbeni. Ed anche i Pastor erano all'opposizione perchè il maggiore dei Pastor voleva essere presidente. Ed è finito che hanno destituito Franco Ats ed hanno eletto il maggiore dei Pastor a capo. Ma sai quel che è successo dopo? — Che è successo? — Quando finalmente si sono calmati e iI nuovo capo risultò eletto, capitò sull'isola il guardiano dell'Orto Botanico a dire che il direttore non tollerava più questo fracasso e vietava a tutti loro l'ingresso all'Orto; e l'isoletta è stata chiusa. Hanno messo una porticina sul ponte, con una serratura. Il capitano allora rise di cuore. — E tu come lo sai? — chiese. — Me l'ha raccontato Colnai. L'ho incontrato poco fa, venendo qui. Andava al campo perchè la Società dello Stucco ha un'altra assemblea. Il ragazzino fece una smorfia a queste parole. — Non mi place quella gente: ha scritto il mio nome a lettere minuscole. Boka si affrettò a calmarlo. — E' già stato corretto. Non soltanto corretto, ma il tuo nome è stato scritto sul registro tutto a lettere maiuscole. Nemeciech scosse il capo. — Non è vero. Me lo dici perchè sono malato e vuoi consolarmi! — Non te lo dico per questo; te lo dico perchè è vero. Parola d'onore che è vero! Il biondino alzò il suo dito magro e ammonì: — Ed ora impegni anche la tua parola per una bugia! — Ma... — Ssst! Gli aveva ordinato di tacere, lui, capitano, al generale! Il che, sul campo, sarebbe stato peccato capitale; ma qui non lo era. Boka sopportò sorridendo. — Va bene — disse —. Se non credi, lo vedrai presto con i tuoi occhi. Hanno compilato un diploma d'onore speciale per te e verranno presto a portartelo. Verrà tutta la società. Ma il biondino diffidava: — Crederò quando vedrò! Boka scrollò le spalle e pensava: «Meglio così. Avrà una gioia più grande quando vedrà!» Ma questo ricordo aveva turbato il malato: l'ingiustizia commessa contro di lui lo accorava profondamente. — Vedi — diceva come a sè stesso — Hanno commesso una cosa brutta! Boka non osava parlare, temendo di inquietarlo ancora di più; anzi quando gli chiese: — Vero che ho ragione io? — Hai ragione tu — rispose. — Però — disse Nemeciech; e tornò a sedere sul cuscino — io ho combattuto per essi come per tutti gli altri affinchè il campo resti anche loro, mentre so bene di non aver combattuto per me, perchè io non rivedrò mai più il campo. Tacque. Questo era il pensiero terribile che gli torturava il cervello: non poter rivedere il campo. Era un bambino. E avrebbe abbandonato tutto volentieri, su questa terra; soltanto il campo, il dolce campo gli doleva troppo abbandonare per sempre! E, cosa che non gli era mai accaduta durante tutta la malattia, a questo pensiero le lagrime gli sgorgarono dagli occhi: ma non era la tristezza che lo faceva piangere, ma il furore impotente di non poter vincere l'avversità che gli impediva di andar ancora in via Pal, sotto le fortezze, accanto alla capanna. Ricordava la segheria, la rimessa, i due gelsi dai quali coglieva le foglie per portarle a Ciele che aveva uno stabilimento di bachi-coltura ed ai bachi occorrevano le foglie dei gelsi, ma Ciele era tutto accurato ed aveva paura di sciuparsi il suo bel vestito arrampicandosi sull'albero ed allora Ciele ordinava a lui di arrampicarsi perchè egli era l'unico soldato semplice. Pensava allo snello comignolo che sbuffava vispo emettendo sull'azzurro del cielo nuvolette di fumo bianchissimo, che si scioglievano subito nel nulla. E gli pareva di sentire ancora lo stridere della sega quando intacca i legni per ridurli a tavole sottili. Il viso gli si accese; gli occhi brillarono. Esclamò: — Voglio andare sul campo! E poichè nessuno rispondeva a questa sua richiesta, si ostinò e con voce risoluta chiese: — Voglio andare sul campo! Boka gli prese la mano: — Verrai la settimana ventura, quando sarai guarito... — No, no! — ribattè — Voglio andarci ora! Adesso! Subito! Datemi il mio vestito! Metterò il berretto di via Pal! Mise la mano sotto il cuscino e ne cavò fuori, trionfante, il berretto rosso e verde dal quale non aveva voluto staccarsi neppure un minuto. Se lo mise in testa. — Il vestito! Triste il padre gli disse: — Quando sarai guarito! Ma non era possibile persuaderlo. Gridò con quanto fiato potevano i suoi polmoni malati: — Non guarirò! E poichè parlava con tono decisamente imperativo, nessuno lo contraddisse. — Non guarirò! — diceva — Voi mentite! Io so che morirò e voglio morire dove voglio! Voglio andare sul campo! Discutere non si poteva. Tutti accorsero per persuaderlo, per chetarlo, per spiegargli. — Ora non si può... — Il tempo è cattivo... — La settimana ventura... E continuavano a dirgli le parole che quasi non osavano ripetere di fronte ai suoi occhi intelligenti: — Quando sarai guarito... Tutto li smentiva. Quando accennavano al tempo cattivo, ecco il sole inondare col suo raggio il piccolo cortile, il sole di primavera forte e rigeneratore, il sole che infonde vita a tutti, meno che ad Ernesto Nemeciech. La febbre invase il ragazzo con tutto il proprio furore. Annaspava come pazzo; le narici gli si allargavano. — Il campo — disse — è tutto un regno! Voi non potete saperlo perchè non avete mai combattuto per la patria. Bussarono. La donnina uscì. — Cienechi — disse rientrando al marito — cerca te! Il sarto andò in cucina. Questo Cienechi era un impiegato municipale che si faceva fare i vestiti da Nemeciech; e gli chiese: — E il mio vestito marrone a doppio petto? Di dentro giungeva la voce che affermava: 17 — Squilla la tromba... II campo è pieno di polvere... Avanti! Avanti! — Scusi tanto — diceva il sarto —; se il signore vuole provare, ma bisogna provare qui in cucina perchè di là c'è mio figlio molto malato... — Avanti! Avanti! — ripeteva la voce rauca del bambino. Seguitemi tutti all'assalto! Ecco le Camicie Rosse con alla testa Franco Ats con la lancia inargentata... Ora mi butteranno in acqua... Il signor Cienechi porse l'orecchio. — Che c'è? — E' lui che grida! — Ma se è malato, perchè grida? Il sarto scrollò le spalle. — Non grida. Delira. E' fuori di sè... E andò a prendere la giacca marrone a doppio petto, che era cucita con un'imbastitura bianca. Quando la porta s'aperse, si udì: — Silenzio in trincea! Attenti! Ora vengono! Ci sono! Trombettiere, la tromba! Fece portavoce della mano: — Taratatà! Taratatà! E ordinò a Boka: — Suona anche tu! E Boka fu costretto a fare anch'egli delle sue mani portavoce ed ora imitavano la tromba in due: una vocina stanca, rauca, debole, ed un'altra sana ma che sonava triste anch'essa. A Boka la commozione strozzava la gola, ma resistette; sopportò da uomo e fingeva d'essere felice di potere imitare il suono della tromba. — Mi spiace — disse il signor Cienechi — ma questo vestito mi occorre subito! — Taratatà! Taratatà! — si sentiva venire dalla stanza. Il sarto lo aiutò ad infilare la giacca. E si misero a parlare sottovoce. — Mi stringe sotto le ascelle! — Sissignore! — Taratatà! Taratatà! — Questo bottone è troppo in alto. E la stiratura, mi raccomando... — Sissignore! — Assalto generale! Avanti! — Mi pare che la manica sia un po' corta! — Non credo, signore! — Ma guardi bene! Il guaio è che voi mi fate sempre le maniche un po' corte! — Non è questo il guaio, creda a me! — pensava il sarto; e segnava con il gesso le maniche della giacca. Di dentro lo schiamazzo cresceva sempre. — Ah! Ah! — gridava la voce del bambino — Sei qui? Sei di fronte a me! Finalmente ti posso afferrare. Ora vedremo chi è il più forte! — Ci metta dell'ovatta — diceva Cienechi —. Un po' sotto le spalle, un po' sul petto, a destra ed a sinistra... — Bum! Sei per terra! Il signor Cienechi si tolse la giacca marrone ed il sarto l'aiutò ad infilarsi quella di prima. — Quando sarà pronta? — Dopodomani. — Mi raccomando. Non vorrei che tardasse! Ha altro da fare? — Eh! Se non fosse malato il bambino... Il signor Cienechi scosse il capo: — E' spiacevole, ma ho proprio bisogno del vestito, d'urgenza. Si metta subito al lavoro. Il sarto sospirò: — Mi ci metto. — Buongiorno! — esclamò Cienechi; e si allontanò allegro. Ma di sulla porta si voltò un'ultima volta per ripetere: — Subito al lavoro, mi raccomando! Il sarto prese il vestito marrone e pensò a quel che gli aveva detto il dottore: che bisognava provvedere a quello che occorre in simili casi. Dunque bisognava lavorare! A che avrebbe servito il danaro che gli avrebbero dato per il vestito marrone? Forse sarebbe andato al falegname... Ed il signor Cienechi sarebbe andato a passeggiare vanitoso col suo abito nuovo sul Corso! Tornò in stanza e si mise a cucire. Non osservava nemmeno il letto, ma aveva preso ago e filo per terminare al più presto il lavoro, che in ogni modo era urgente. Cienechi ne aveva bisogno; ed il falegname anche ne aveva bisogno. Il piccolo non si calmava più. Sembrava che le forze gli fossero ritornate. Si era alzato in piedi sul letto: la camicia da notte gli giungeva fino alle calcagna. Aveva il berretto rosso e verde di traverso. Fece il saluto militare. E parlava rantolando con lo sguardo perduto nel nulla: — Signor capitano, debbo riferire che ho buttato a terra il capo delle Camicie Rosse e chiedo d'essere promosso! Guardatemi! Sono capitano! Ho combattuto per la patria e sono morto per la patria! Tromba, Ciele! Taratatà! Con una mano s'aggrappò alla spalliera del letto. — Bombardate, fortezze! Ecco Giovanni! Sarai capitano anche tu, Giovanni! E il nome con lettere minuscole, no! Siete cattivi! Vi fa rabbia che il generale voglia bene a me! La Società dello Stucco è una stupidità! Do le dimissioni! Do le dimissioni! Poi aggiunse sottovoce: — Scrivete sul registro. E il povero sarto, accanto alla tavola bassa, non vedeva, non sentiva più nulla. Le sue dita magre agucchiavano sulla stoffa: il ditale ogni tanto dava un bagliore. Egli non avrebbe guardato il letto a nessun costo. Aveva paura che, se avesse guardato, gli sarebbe mancata la voglia di lavorare, avrebbe gettato per terra il vestito di Cienechi e si sarebbe messo in ginocchio vicino al letto del suo figliuolo. Il capitano sedette sul letto e si mise a fissare taciturno la coperta. Boka gli chiese piano: — Sei stanco? Non rispose. Boka lo ricoperse. La madre gli aggiustò il guanciale sotto la testa. — Sta tranquillo! Riposa! Fissava Boka ma si capiva che il suo sguardo non vedeva. Disse: — Papà... — No, no — disse con voce strozzata il generale —. Io non sono il papà. Sono Giovanni Boka... E il malato con voce stanca e confusa ripetè: — Io sono... Giovanni Boka... Cadde un lungo silenzio. Il ragazzo chiuse gli occhi e sospirò a lungo e profondamente come se tutti i dolori degli uomini infelici si fossero dati convegno dentro la sua piccola anima. Silenzio. — Forse s'addormenta — sussurrò la donna bionda che appena si reggeva in piedi a forza di vegliare. — Lasciamolo! — rispose con un soffio Boka. Sedettero in disparte sopra uno sdrucito divano verde. Anche il sarto aveva smesso di lavorare: aveva posato sulle ginocchia la giacca marrone ed aveva chinato il capo sopra la tavola. Nel silenzio profondo si sarebbe potuto sentir volare un moscerino. Dalla finestra filtrarono voci di ragazzi, come se fossero in molti nel cortile e parlassero tranquillamente fra di loro. Ed ecco una voce conosciuta giunse all'orecchio di Boka; ed un nome sussurrato da un'altra: — Barabas... S'alzò. Uscì dalla stanza in punta di piedi. Quando aperse la vetrata della cucina e fu in cortile, vide visi amici: uno sciame di ragazzi di via Pal se ne stava lì, accanto alla porta. — Siete voi? — Sì — sussurrò Vais —. Tutta la Società dello Stucco è qui. — Che volete? — Gli abbiamo portato un diploma d'onore sul quale abbiamo scritto in inchiostro rosso che la Società dello Stucco chiede perdono e gli annuncia che sul registro il suo nome è stato scritto tutto a lettere maiuscole. Abbiamo anche il registro. Siamo in deputazione. Boka scrollò il capo. — E non potevate venir prima? — Perchè? — Perchè ora sta dormendo. I membri della deputazione si guardarono. — Non abbiamo potuto venir prima perchè c'è stata una grande discussione per stabilire chi dovesse essere il presidente della deputazione, ed è durata mezz'ora. E poi è stato eletto Vais. La donnina comparve sulla soglia. — Non dorme — disse —. Vaneggia. I ragazzi s'irrigidirono. Erano atterriti. — Entrate, figliuoli — disse la madre —. Chissà che non torni in sè al vedervi. Ed aperse la porta. Entrarono uno alla volta, impacciati, reverenti come se passassero la porta d'una chiesa. Si tolsero i cappelli prima di varcare la soglia. E, quando, dietro l'ultimo, la porta si rinchiuse, rimasero tutti nello strombo della porta, silenziosi, rispettosi, con gli occhi sbarrati. Fissavano il sarto e il letto. Il sarto non sollevò la testa nemmeno a questo: la teneva reclinata contro il gomito, ma non piangeva. Era molto stanco. Il capitano giaceva con gli occhi spalancati nel suo letto, respirava raucamente ed a fatica: aveva la bocca spalancata. Non riconobbe nessuno. Forse i suoi occhi vedevano già cose che i nostri occhi terreni non possono vedere. La donna spinse avanti i ragazzi: — Andate da lui! S'avviarono adagio adagio verso il letto. Ma camminavano esitanti. Uno incoraggiava l'altro: — Va avanti tu! — No, tu! Barabas disse: — II presidente della deputazione sei tu! Vais s'accostò al letto: e gli altri gli eran dietro. Ma il ragazzo non li guardava nemmeno. — Parla — suggeri Barabas. E Vais con voce tremante cominciò: — Tu... Nemeciech... Ma Nemeciech non udiva. Ansava e guardava fisso la parete. — Nemeciech... — ripetè Vais; e il pianto gli serrava la gola. Barabas gli sussurrò: — Non strillare. — Non strillo — rispose Vais; ed era soddisfatto di poter dire quache parola senza piangere. Poi si riprese: — Signor capitano illustrissimo! — cominciò cavando di tasca una pagina scritta — Quando noi siamo comparsi qui... io come presidente... in rappresentanza della Società... noi... ecco ci siamo sbagliati... e tutti ti chiediamo perdono... con questo diploma d'onore... vi è scritto tutto... Si voltò. Due lagrime spuntavano nei suoi occhi. — Signor cancelliere... — sussurrò — Mi dia il registro sociale! Lesik glie lo porse premuroso. Vais lo depose timido sul canto del letto e sfogliando trovò la pagina dell'annotazione. — Guarda qui... — disse al malato — c'è questo! Ma gli occhi del malato adagio adagio si richiusero. Aspettarono. Poi Vais disse: — Guarda! Non rispose. Tutti s'avvicinarono al letto. La madre si fece strada in mezzo ai ragazzi, tremando. Si chinò sul figliuolo. — Tu! — disse poi al marito con una voce strana, nuova —. Non respira. Gli posò la testa suI petto. — Tu! — ripetè forte, gridando — Non respira più! I ragazzi si ritirarono. Si misero in un angolo della stanza, uno vicino all'altro. Il registro della Società cadde per terra aperto come l'aveva lasciato Vais. E la donna gridava: — Ha la mano gelata! E nel grande silenzio che seguì si intesero i singhiozzi del sarto che fino allora era rimasto immobile sullo sgabello, con la testa sul braccio; ma erano singhiozzi soffocati, contenuti. E le spalle gli si scotevano tutte. Ma ancora faceva attenzione alla giacca di Cienechi, la faceva scivolare di sul ginocchio perchè le lagrime non la bagnassero. La donna baciava, stringeva a sè il bambino, poi s'inginocchiò accanto al letto, affondò il viso nella coperta e si mise a piangere anche lei. Ernesto Nemeciech, segretario della Società dello Stucco, capitano per merito sul campo di via Pal, giaceva muto per sempre, pallido, gli occhi chiusi; ed era certo che oramai non vedeva nè sentiva più niente di quel che gli succedeva attorno, perchè vista e udito del capitano Nemeciech erano stati presi dagli angeli e portati là dove non si sentono che musiche soavi e non vi sono che luci divine; là dove non esistono altri esseri se non simili al capitano Nemeciech. — Sono venuti troppo tardi! — sussurrò il sarto. Boka era nel centro della stanza, ed abbassò il capo. Poco prima era riuscito a stento a trattenere il pianto; ed ora era meravigliato che le lagrime non gli sgorgassero dagli occhi, meravigliato di non poter piangere. Si guardò attorno: i ragazzi erano ammassati nell'angolo. Davanti a tutti, Vais col suo diploma d'onore in mano, il diploma che Nemeciech non aveva potuto vedere. S'accostò ad essi: — Andate a casa. E i disgraziati quasi si rallegrarono di poter lasciare quella stanza sconosciuta dove il loro compagno giaceva sul letto, morto. Strisciarono uno alla volta in cucina, e dalla cucina sulla strada piena di sole. Ultimo era rimasto Lesik. Era rimasto ultimo volontariamente. Quando tutti furono usciti, in punta di piedi s'avvicinò al letto e raccattò il registro della Società; guardò il letto e il capitano silenzioso, poi uscì anche lui, dietro gli altri; nel cortile pieno di sole, gli uccelli cinguettavano sugli alberi striminziti. I ragazzi fissavano gli uccelli e non capivano. Il loro camerata era morto, ma non ne capivano il significato. Si guardavano l'un l'altro, stupiti, come chi rimane incerto davanti a una cosa incomprensibile, strana, incontrata per la prima volta nella vita. Verso sera Boka uscì di casa: bisognava che studiasse perchè l'indomani sarebbe stata una giornata grave: esame di latino. Ed era certo che il professor Raz l'avrebbe interrogato. Ma non aveva voglia di studiare. Mise da parte libro e dizionario ed uscì. Girò per le strade senza meta; evitava le vicinanze della via Pal. Non voleva rivedere il campo in quella giornata triste. Ma dovunque andasse qualcosa gli ricordava Nemeciech. Viale Ulloi: c'erano passati in tre, con Cionacos, quando s'erano recati per la prima volta all'Orto Botanico... Via Costelech: una volta, a mezzogiorno, dopo scuola, s'erano fermati proprio lì, in mezzo alla strada, e Nemeciech aveva raccontato con gravità come i due Pastor gli avessero prese le biglie di vetro nel giardino del Museo... I dintorni del Museo... Sentiva che più egli schivava il campo e più se ne allontanava, tanto più lo attirava lì un sentimento doloroso. E quando si decise a recarcisi, senza raggiri, direttamente, coraggiosamente, allora un senso di leggerezza sollevò la sua anima. S'affrettò per arrivarci il più presto possibile. E quanto più s'avvicinava al suo «regno» tanto più nel suo cuore entrava la pacatezza. Quando, nel tramonto che scendeva, vide il grigio steccato ben noto, il suo cuore palpitò forte. Dovette fermarsi. Non c'era più da aver fretta; era arrivato. S'avvicinò con passi lenti al campo, la porticina del quale era aperta. Davanti alla porticina, con la schiena appoggiata allo steccato, Giovanni stava fumando la pipa. Appena vide Boka gli disse, festoso: — Glie le abbiamo date! — Sì — disse piano il generale. E Giovanni s'entusiasmò: — Le hanno prese. Li abbiamo spazzati via! Pulizia! Giovanni indugiò davanti allo slovacco, tacque un istante, poi disse: — Sapete, Giovanni, che cosa è accaduto? — Che cosa? — Nemeciech è morto! Lo slovacco si tolse la pipa di bocca. — Qual'era Nemeciech? — Il biondino... — Ah! — disse lo slovacco. E rimise la pipa in bocca — Poveraccio! Boka entrò dalla porticina. Si stendeva silenzioso ai suoi piedi quel gran pezzo di terra cittadina che era stato testimone di tante ore gaie. Lo attraversò adagio e giunse alla trincea. Qui si vedevano ancora i segni della battaglia. La sabbia portava ancora le orme dei combattenti. I baluardi della trincea erano un po' demoliti: erano stati i ragazzi a disfarli quando s'erano arrampicati per l'assalto. E cupe, una accanto all'altra, nereggiavano le cataste di legna. Il generalissimo si appoggiò al terrapieno, il mento contro il gomito. II campo era silenzioso. Il fumaiolo taceva ed aspettava il mattino quando mani laboriose gli avrebbero acceso sotto il fuoco. Anche la segheria riposava e la casupola tra la fiorente vigna selvatica dormiva. Di lontano, come attraverso un sogno, giungeva il fracasso della via. Le carrozze risuonano sull'asfalto, la gente vocia, e dalla finestra d'un cortile, forse dalla finestra d'una cucina dove il lume già acceso, giunge una gaia canzone. Forse una serva. Boka si alzò. Si diresse verso la casupola. Si fermò sul posto dove Nemeciech aveva atterrato Franco Ats come una volta Davide Golia. Si curvò per cercare le orme: ma la terra era smossa e non si vedevano orme. Eppure avrebbe riconosciuto l'orma del piede di Nemeciech che era tanto piccolo che anche le Camicie Rosse se n'erano stupite quando avevano trovato l'impronta delle sue scarpe sulla sabbia dell'Orto Botanico, quel giorno memorabile... Continuò sospirando. Giunse alla fortezza numero 3. II generale era stanco: l'anima ed il corpo erano estenuati dalla giornata passata. Barcollava come se avesse bevuto un vino forte. S'arrampicò a stento sulla fortezza numero 2 e vi si accoccolò. Almeno qui nessuno lo vedeva, nessuno lo disturbava, poteva riflettere, pensare ai propri ricordi, si sarebbe anche sfogato a piangere, se gli fosse riuscito. La brezza gli portò delle voci. Guardò giù dalla fortezza e vide due piccole ombre davanti alla capanna. Non poteva riconoscerli, ma prestò orecchio alle voci. I due ragazzi parlavano piano: — Eccoci, Barabas... — diceva uno — eccoci dove il povero Nemeciech ha salvato la patria. Silenzio. Poi la voce riprese: — Facciamo la pace, qui, ma sul serio e per sempre. E' stupido litigare fra di noi. — Va bene — diceva commosso Barabas —. Sono venuto per questo. Facciamo la pace. Nuovo silenzio. Stavano muti uno di fronte all'altro. Poi Colnai disse: — Allora, ciao! E Barabas rispose: — Ciao! Si strinsero le mani; e rimasero a lungo, mano in mano. E non si dissero altro, ma si abbracciarono. E' accaduto anche questo. E' accaduto anche questo miracolo. Boka li guardò dall'alto, dalla fortezza, ma non si fece vedere: egli voleva restar solo. E poi, a che scopo disturbarli? I due ragazzi s'avviarono quindi verso via Pal conversando piano. — Per domani c'è molto latino — diceva Barabas. — Sì — rispondeva Colnai. — Per te è facile — sospirò Barabas —. Sei stato interrogato ieri, ma io non sono stato chiamato da molto tempo e mi toccherà certo uno di questi giorni. — Fa attenzione. Dal verso 1al 23 del secondo capitolo c'è un taglio. L'hai segnato? — No. — Quello è inutile studiarlo! Vengo io da te e ti segno il taglio sul libro. — Grazie. Ecco: quei due già pensano alla lezione. Dimenticano presto. Se Nemeciech è morto, il professor Raz è vivo e con lui la lezione di latino. Se n'andarono, scomparvero nell'oscurità. Ed ora Boka era solo. Ma non rimase nella fortezza. E poi era tardi. Dalla chiesa veniva uno scampanio mesto... Scese e si fermò davanti alla capanna. Giovanni stava tornando: Ettore, il cane, gli scodinzolava accanto. — Ebbene... — disse lo slovacco — II signorino non rincasa? — Sì, me ne vado — rispose Boka. Lo slovacco sorrideva. — A casa, cena calda... — Cena calda... — ripeteva macchinalmente Boka e pensava che in via Racos due infelici sedevano a cena, il sarto e la moglie. E nella stanza erano accese le candele. Per caso guardò dentro la capanna; s'accorse di strani strumenti appoggiati contro la parete. Un disco tondo di latta dipinto di rosso e bianco come le targhe dei passaggi a livello quando passa il direttissimo. Pali dipinti di bianco, un cavalletto a tre piedi con un tubo d'ottone in cima. — Che c'è? — domandò. — Roba dell'ingegnere. — Di quale ingegnere? — Dell'architetto. Il cuore di Boka palpitò selvaggio. — Architetto? E che viene a fare qui? Giovanni soffiò una boccata dalla pipa, poi disse: — Costruiscono una casa. — Qui? — Sì. Lunedì vengono gli operai, scaveranno il campo, costruiranno le fondamenta... — Come? — gridò Boka — Costruiscono una casa qui? — Una casa... — disse indifferentemente lo slovacco — A tre piani. Il padrone del campo fa costruire. Ed entrò nella capanna. A Boka pareva che la terra gli mancasse sotto i piedi. Le lagrime gli spuntavano. S'incamminò verso la porticina in fretta. Fuggiva. Fuggiva dalla terra infedele ch'essi avevano difeso con tanto dolore, con tanto eroismo e che ora li abbandonava per prendersi sulle spalle una gran casa d'affitto, per sempre. Si rivolse ancora, dalla porticina, come chi lascia la patria per sempre. E nel grande dolore che gli serrava il cuore si mescolò una goccia, una goccia sola di conforto. Se il povero Nemeciech non ha potuto vivere fino ad ascoltare la deputazione della Società dello Stucco che gli domandava perdono, almeno non aveva saputo neanche che la patria per la quale egli era morto gli sarebbe stata tolta. E il giorno dopo, quando tutta la classe era seduta in silenzio, il professor Raz salì a passi lenti e gravi sulla cattedra e parlò con parole semplici e commosse, di Ernesto Nemeciech e invitò tutta la classe a volersi trovare l'indomani alle 15 in via Racos, vestiti tutti di nero o almeno di scuro. Giovanni Boka guardò cupo davanti a sè e per la prima volta cominciò ad albeggiare nella sua semplice anima di fanciullo un vago sentore di quel che possa veramente essere la vita, della quale tutti noi siamo schiavi ora tristi ora gai.

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