Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Parlamento e politica

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Luigi Sturzo 8 occorrenze

Così impostata la battaglia, viene naturale rispondere al primo quesito se oggi sia matura una sintesi programmatica che interessi profondamente la nazione come cardine politico; questa sintesi è data da una compagine statale forte, coerente in sé, atta a superare le difficoltà interne ed esterne e resistere ai movimenti di disgregazione. Il bisogno ne è sentito da tutti, e tutti convengono che per ottenerlo è necessario in primo luogo il risanamento della finanza statale, il ripristino della forza della legge, la sicurezza dei rapporti con l’estero. Politica finanziaria, politica interna e politica estera sono tre cardini inscin¬dibili dello stato. Lo sforzo fatto dall’Italia dopo la guerra per superare la crisi che l’ha minata proprio al centro di questi tre cardini della politica statale, è stato eccezionale. Possiamo discutere se si poteva far meglio, se uomini e partiti abbiano bene assolto al loro cómpito, se i provvedimenti adottati siano stati completamente opportuni. Dobbiamo convenire che pur avendo passato tale periodo di sconquasso, a riguardarlo bene abbiamo noi stessi la impressione che ancora incomba il pericolo. Oggi la finanza statale è migliorata, il bilancio comincia a reggere, la fiducia ritorna; siamo agli inizi, occorre avere coraggio, affrontare la riforma della finanza dello stato, quella dei comuni e delle provincie, i cui progetti sono pronti, e insistere di fronte a tutti sulla tesi delle economie sino alle forme più audaci e più estreme, perché ogni sacrificio è giustificato per assicurare la vita alla collettività stessa di cui lo stato è organo e sintesi. Ma non vi potrà essere salda finanza se non vi è una politica interna forte che rimetta in primo piano la osservanza delle leggi, il rispetto all’autorità dello stato, la saldezza delle istituzioni, la sicurezza della economia privata, la garanzia del diritto. A ciò contribuisce sicuramente la fiducia generale che la crisi economica venga superata. Questo terzo elemento è dato principalmente dalla politica estera che investe, nel suo com¬plesso, i più gravi problemi dell’esistenza e dello sviluppo della nostra vita nazionale. È una vecchia tradizione del nostro regno che la politica estera sia subordinata alla politica interna; in¬vece, se subordinazione vi dovesse essere, sarebbe al contrario. La politica estera è e deve essere basata sulle ragioni economiche, morali e storiche del nostro paese; paese di emigrazione, abbiamo il dovere di fare una politica di valorizzazione dei nostri connazionali all’estero, di migliorare i nostri rapporti commerciali, di crearci una sfera di simpatie nel campo della economia, di stabilire quelle garanzie che valgano a rendere meno soggetta la nostra politica a gruppi finanziari e a stati egemonici. La politica del piede in due staffe, della amicizia da un lato e dell’alleanza dall’altro, dei protocolli che affermano e negano, dell’altruismo paesano che tradisce una debolezza e dell’infingimento che tende a far credere al successo, ormai è una politica sfruttata e assurda. Certo, le soluzioni avute nella politica estera da Vittorio Veneto ad oggi non sono in armonia coi nostri diritti, coi nostri interessi, con la nostra posizione futura. Tutta la serie dei trattati fino a quello di Rapallo segnano degli strappi; oggi però bisogna essere realisti e prendere quel che esiste ai nostri riguardi come punto di partenza per l’avvenire. Noi abbiamo bisogno di esportare mano d’opera e di importare materie prime; noi dobbiamo volgere le nostre attività verso Oriente; noi dobbiamo riprendere il nostro posto nel Mediterraneo. È una politica: farla o non farla; con serietà, con antiveggenza, creando una storia, uomini adatti, mezzi congrui. La politica estera è la più difficile per noi, per la posizione stessa della nostra patria, per il gioco degli interessi delle nazioni egemoniche, per la tradizione stessa della nostra politica e per la povertà economica che ci fa forzatamente tributari all’estero. In questo punto debole della nostra posizione nazionale, debbono convergere gli sforzi degli studiosi e degli uomini politici, su¬perando quella indifferenza ai problemi di politica estera, che per gran tempo ha segnato la caratteristica della nostra educazione nella vita pubblica.

E mentre gli uni credono che a rafforzare la compagine statale e darvi valore all’interno e all’estero devesi insistere ancora di più nella concezione dello stato centralizzatore, e aumentano ogni giorno la cerchia delle sue attività; altri, con noi, credono all’inverso che lo stato debba essere solamente organo politico attorno ai tre cardini della politica finanziaria, della politica interna e di quella estera e a quanto vi è inerente per la difesa del territorio, per la tutela della giustizia e del diritto e per il coordinamento e la integrazione delle altre attività pubbliche del paese. Da questa concezione noi deriviamo gran parte del nostro programma di ricostruzione pratica, in rapporto coi problemi più vivi e agitati che rispondono oggi alle esigenze im¬mediate e preparano il domani forte e risolutivo. I problemi fondamentali della nostra vita sono tre: uno economico, l’altro organico, il terzo spirituale. Il partito popolare italiano fin dal suo sorgere ha visto questi problemi nella loro ragione astratta e nella loro portata reale, e ha voluto precisare nel suo programma il punto di vista differenziale e fondamentale, quando ha riaffermato come punto di partenza e di arrivo la libertà. È il nostro motto: è stato il nostro grido, il fondamento del nostro appello. Parve strano, ci è stato negato che fosse necessario proclamarlo perché esisteva, hanno dovuto accorgersi, nel travaglio del dopo guerra, che la libertà in gran parte non esisteva più, era soffocata. Non la libertà economica, nelle costrizioni statali, negli inceppamenti formalistici e nelle ingiuste protezioni; non la libertà organica, nei privilegi particolaristici, nell’abolizione dell’autonomia, nell’accentramento burocratico; non la libertà morale, nella scuola monopolizzata, nella chiesa ancora sottoposta a vincoli esterni ed economici ed a proibizioni giuridiche, resti di vecchio giurisdizionalismo vuoto di senso. Lo stato e debole dove dovrebbe essere forte: nella tutela della legge, nel rispetto al diritto dei cittadini, nella garanzia allo sviluppo di tutte le libere energie; è invece forte dove non dovrebbe avere ingerenza diretta, ma solo coordinatrice e integratrice: nello sviluppo di tutta la vita che ferve alla periferia e che crea le energie produttrici del paese, morali, organiche ed economiche. Non noi solamente, molti furono anche gli uomini, studiosi e parlamentari, che all’indomani della guerra affermarono la necessità del ritorno alla libertà economica, per riprendere rapidamente il ritmo della produzione alterata e arrestata durante la guerra. Gli stessi uomini di governo vi aderirono; però, strano a ricordarsi, non vi fu periodo più rovinoso per la nostra economia di quello, per l’appunto, del dopo guerra. Istituti, consorzi, enti, gestioni fuori bilancio, monopoli si moltiplicarono in maniera incredibile; quelli creati durante la guerra furono conservati ed ampliati, soffocando ogni libera iniziativa, impedendo con leggi e decreti improvvidi la ripresa del ritmo economico, credendo che con semplici paraventi di cartone si potesse arrestare la forza dell’imperativo economico, legge ferrea della vita. Gli stessi favori economici e giuridici alle cooperative debbono essere inquadrati in una esatta visione di tali problemi, per non creare facili illusioni e formare una economia fittizia a danno della finanza dello stato. Debbono essere ridotte le protezioni allo stretto necessario per le esigenze dello stato, ed essere dirette a creare industrie indigene che si possano reggere da sé. Debbono perciò rivedersi le tariffe doganali, con un largo spirito di economia produttiva, senza tendere a sovrapporre le industrie all’agricoltura; debbono essere soppressi i regimi di sovvenzioni, e attenuarsi e ridursi secondo le esigenze reali della vita del paese le statizzazioni in materia economica e produttiva. È un audace colpo a tutta la congerie demagogica dello stato produttore, dello stato economo, dello stato protettore, dello stato assicuratore; è una audace rinunzia a tutto un bagaglio di parassitismo economico, che si è vestito tante volte di ragione sociale, per cui hanno peccato tutti in Italia, meno pochi, pochissimi ed inascoltati. Ma fino a che qualche po’ di denaro e di credito c’era, da poterlo anche sciupare tentando gli esperimenti (come, ahimè, falliti! A cominciare dalle poste di stato, per finire alle ferrovie dello stato, ed all’ormai defunto monopolio del caffè che ha avvelenato tanti stomaci italiani), era tollerabile che tutti i democratici d’Italia battessero le mani, e che gli increduli nell’avvento della economia associata fossero ritenuti della gente vieta e sorpassata. Ma quando la lira italiana oscilla a 20 centesimi, e abbiamo nel nostro territorio almeno due milioni di italiani in più di quelli che comporti la nostra potenzialità lavoratrice e produttiva, oggi non è lecito buttare allegramente il denaro dello stato, cioè della nazione, in sì tristi esperimenti. Bisogna assolutamente avere un programma di smobilitazione economica dello stato, senza quella perdita di tempo che tiene tuttora in vita dei consorzi di approvvigionamento già condannati, e che fa temere la sopravvivenza del monopolio del grano con l’annunzio di un miliardo di presunti utili, quando manca la ragione della sua esistenza per il pareggio di costo fra il grano prodotto e quello importato, le cui oscillazioni potrebbero correggersi con un razionale regime doganale. Occorre sopprimere quei dicasteri dove si annida la speculazione parassitaria, creata con arte attraverso leggi, e regolamenti nelle cui pieghe non sanno leggere gli stessi ministri che li controfirmarono. Tre quarti almeno della legislazione economica esistente si dovrà annullare, e per buon tempo è bene che i deputati — avvocati o medici — si astengano dal fare nuove leggi in materia. Le mie parole sono forti; i desideri sono radicali, e vorrei avere il tempo per dimostrare quali errori economici sono stati compiuti e quanto sia necessaria la libertà economica che tutti invochiamo, ma che non si ha il coraggio e la forza di restituire al paese; perché in Italia il governo, qualunque governo, è ormai prigioniero della burocrazia legata, anche senza malizia, a una nuova classe di affaristi di stato. Questo nostro grido di libertà economica non è però un grido di iconoclasti, né vuole abbattere quelle conquiste sociali che sono state invocate da gran tempo da tutte le scuole. Il regime delle assicurazioni operaie, la tutela del lavoro igienico e morale, le provvidenze atte ad agevolare le forme economiche del partecipazionismo non contraddicono al concetto di libertà economica nel senso già espresso in confronto alla pretesa eco¬nomica statale; solo limitano la ragione economica privata per una funzione sociale del capitale, e ne determinano certi rapporti col lavoratore come persona umana operante, non come cosa o strumento dell’opera. Ciò è ormai pacifico anche fra i partiti e fra i rappresentanti diretti degli interessi dei produttori. Quello che non è pacifico e attesta sempre il medesimo errore, è che il regime sociale associativo, mutuale, previdente del lavoro, lo si voglia far divenire servizio statale, monopolistico, meccanico; e che lo stato voglia creare attorno a tali istituti una classe, un partito, una burocrazia, una casta privilegiata e predominante.

Si è a lungo discusso se le elezioni generali politiche, così rapidamente affrettate, fossero, come suol dirsi, un salto nel buio, ovvero l’inizio della ripresa della vita nazionale. Nella politica il successo è molte volte prova e sanzione insieme; e l’insuccesso costituisce la ragione dell’avversario. Mutevoli come sempre i venti del favore popolare, ieri secondavano le correnti del disfacimento e della rivoluzione, oggi dànno la spinta al movimento antibolscevico e nazionale; per l’uno e per l’altro, un appello al paese può riuscire proficuo e vantaggioso, può essere invece un motivo di più aspri contrasti e di più violenti urti nel campo della vita politica ed economica. Noi non fummo tra coloro che reputavano assolutamente necessario un immediato mutamento di rappresentanza nazionale, né per la stessa ragione l’avversammo e ci ponemmo contro; l’abbiamo guardato come una delle fasi della nostra crisi che investe, insieme ad ogni altro istituto, la più alta espres¬sione del potere e della rappresentanza popolare. Varranno le presenti elezioni a far superare la crisi parlamentare italiana, che risale a prima della guerra, a ridare alla nazione un organo veramente vitale, centrale, fattivo, saldo, dal quale i governi attingano potere e autorità, che sia sintesi di forza morale e di ragione politica? Ovvero le elezioni del 1921 saranno altra prova generale, altro tentativo di approssimazione espressiva di un popolo, che sembra aver perduto l’unità mo¬rale e intellettuale nel significato di nazione, e che la ricerca nella mobilitazione di un voto; che {{163}}forse torna ad essere turbato dal cozzo di fazioni, nella sua origine e nella sua portata equivoco, e nelle sue finalità reazionario? Ecco l’esame che affronterò dal punto di vista generale, per arrivare a stabilire quale contributo ha dato e deve dare il partito popolare italiano, perché l’istituto parlamentare rappresenti genuinamente il pensiero collettivo della nazione, ne sia organo autorevole, e avvii l’azione governativa e direttiva del paese verso una politica di ricostruzione e di rinnovamento. La lealtà mostrata dal nostro partito, in due anni e più di esistenza, e l’azione intesa verso la soluzione della crismi che travaglia la nostra vita pubblica, sono garanzia della nostra azione futura.

Il partito popolare italiano che da due anni agita, attraverso varie e molteplici fasi, questi problemi, che a queste idee generali e a questi schemi ha fatto seguire una realtà vissuta, e nel campo delle libere organizzazioni e della propaganda, e coll’attività parlamentare e governativa, non perdendo la linea attraverso tutte le difficoltà della crisi generale, il nostro partito ha il cómpito di valorizzare politicamente un programma, che deve divenire aspirazione, coscienza e volontà del popolo italiano. I fatti minuti e quotidiani tante volte hanno un significato limitato e si perdono nel rapido succedersi di eventi; le parole cadono, dette dagli oratori o scritte sui giornali; sembra che il mondo sia fermo attorno a noi e che la rapidità dei consensi tenga dietro alla rapidità dei dissensi; oggi in auge, domani a terra, l’opinione pubblica fatta anch’essa di episodi si attarda attorno a quello che ha più vistosità nelle apparenze e linea più forte nei contrasti. Penetra però dentro alle coscienze e diviene abitudine, arriva nelle fibre di molti e diviene forza quel che due anni addietro era un nome. Ha cittadinanza quel che si ripudiava; odii e amori in contrasto dividono gli uomini; le mobilitazioni elettorali esercitano le passioni, ma le idee penetrano nel cuore, divengono atti di volontà individuale e collettiva, superano il fenomeno e attingono la loro esistenza nella sostanza delle cose. Come il partito liberale prima, quello socialista poi, rispondendo a stati d’animo hanno creato una loro letteratura, una legislazione, una organizzazione; così il partito popolare italiano ha superato lo stato di fenomeno transeunte, ha vinto molte difficoltà interne, ha espresso politicamente un suo pensiero ricostruttivo e tende a trovare su questo pensiero la rispondenza politica della pubblica opinione. Il partito popolare italiano e però partito di minoranza, la sua funzione di collaborazione o di opposizione è importante nell’ordine delle propulsioni e nel gioco delle alternative parlamentari, ma non è decisiva. Certo non basta un solo partito ad imporre un orientamento alla vita pubblica collettiva, né ad imporne la soluzione; però basta a creare stati d’animo adatti, punti di partenza e di riferimento, elementi di prova, ragioni di consensi; sì che la maturazione politica (dovuta spesso a forze imprevedute che balzano dai fatti della vita vissuta) arrivi fino alla soluzione dei grandi problemi. Sono rimasti, a saldo segno, i famosi nove punti che il gruppo parlamentare popolare affermò come base di collaborazione col secondo ministero Nitti e i patti di alleanza con i quali partecipò ai governi. E sono nostre le battaglie programmatiche combattute per la libertà della scuola, per la proporzionale amministrativa e politica, per la libertà dei sindacati e per la riforma agraria, e per il decentramento amministrativo. Non sono idee isolate; appartengono come fondo a molti partiti; gli studiosi attorno a tali problemi cercano soluzioni o illustrano questioni; nei congressi si discute e si battaglia. Però, perché un’idea dal campo speculativo passi a quello pratico e divenga ragion politica, occorre questo immenso lavorio dei partiti; fra i quali il nostro assume una vera posizione di battaglia in quella larga collaborazione parlamen¬tare che è ancora necessaria perché un parlamento come il nostro viva ed abbia la sua maggioranza. È questo un dovere dei partiti oggi in lotta: creare una salda maggioranza parlamentare. I blocchi, dove sono stati possibili, assolvono il cómpito di dare all’elettore un senso di unità e di resistenza; non dànno però una base programmatica: altrimenti non sarebbero blocchi. La unione negativa di difesa non basta all’opera. Le differenze create dalle altre liste più o meno ministeriali valgono quanto i blocchi stessi. Non si può dire che esista realmente una opposizione costituzionale e ciò è un male, non solo per la chiarificazione delle posizioni, ma anche per la saldezza della stessa maggioranza, alla quale certo non potranno partecipare coloro che credono di appoggiare blocchi e fasci e unioni per una politica di pura conservazione economica e di tutela capitalistica, perché falserebbero, fin dall’inizio, il significato della lotta e comprometterebbero le sorti della camera futura. Occorre avere un programma positivo, base della maggioranza, non nella confusione dei partiti ma nella specificazione di criteri, di metodi e di finalità, quando si tratta di salvare il paese. Questo noi abbiamo fatto nella XXV legislatura, cooperando al funzionamento del parlamento, alla costituzione della maggioranza e alla combinazione dei governi, quando era ben difficile superare ostacoli di diverso genere anche nel contatto con gli altri partiti; e, se sarà necessario, per il bene del paese e per la vitalità del parlamento, questo faremo domani, sulla base del nostro programma. Senza presumere e senza volerci imporre, noi crediamo che nella difficoltà di manovra dei partiti liberali e democratici ancora una volta il nostro dovrà essere il centro, il cemento, il fulcro, la forza di polarizzazione. Adempirà così ancora ad un suo cómpito, quello di concorrere con le sue forze verso un nuovo orientamento della vita politica del paese, verso una chiarificazione delle tendenze politiche, attorno ad un problema fondamentale di libertà e di elevazione dei valori morali della coscienza collettiva, attorno ai problemi del lavoro non agitati dall’odio di classe né sostenuti da una ragione politica sovver-siva, ma basati sui criteri di giustizia sociale. E nel momento che vengono a noi i fratelli delle terre redente e portano insieme alla esperienza politica l’attività intensa nel campo dell’organizzazione cristiana operaia e il geloso affetto alle loro autonomie, noi riaffermiamo, con loro, il programma veramente italiano del nostro partito, che trae il suo fondamento nella nostra storia guelfa, nella nostra civiltà latina, nel nostro fondo della coscienza religiosa e cattolica, che ha saputo nei secoli unire la genialità individualista della nostra razza con la vitalità degli organamenti locali e la concezione razionale del diritto di cui Roma è madre. Ora che la unità territoriale è compiuta con tanti sacrifici e con tante vittime; ora che abbiamo scossa la soggezione intellettuale ad una civiltà teutonica, che incombeva come elemento culturale delle nostre scuole e come concezione laica panteista del nostro stato, oggi dobbiamo tornare a rivivere un pensiero latino, dobbiamo lavorare per una civiltà latina, ritrovare nell’aspro cammino l’anima italiana, che riaffermiamo come valore della nostra civiltà, ragione della nostra bandiera, ove sta se¬gnata la croce dei comuni medievali e la parola «libertas» come la sintesi delle nostre battaglie. Avrà eco la nostra parola dal paese alla camera? Troverà ancora le tenaci resistenze di vecchie coalizioni di nuove preoccupazioni? Noi siamo sereni realizzatori, calmi lottatori, sicuri del nostro cammino, e perciò non tormentati da improvvisazioni né turbati dalle lotte. Noi speriamo che la nuova camera possa affrontare i problemi lasciati insoluti dalla vecchia, problemi di realtà e di vita. Noi vi coopereremo con tutta la nostra attività; faremo appello all’anima del popolo che ci segue; diremo la nostra parola a coloro che debbono operare nel parlamento e nel governo; perché vogliamo così contribuire alla salvezza della patria nostra, non solo come difesa da un pericolo interno, ma come rinnovamento delle sue forze economiche e come risveglio delle sue virtù morali, sulle quali fondiamo la nostra vita politica. Ed il 15 maggio, giorno assegnato per l’appello al paese, e per il partito popolare italiano un giorno sacro: è il giorno della democrazia cristiana, il ricordo trentennale dell’enciclica del papa degli operai sulla questione operaia. Dopo sei lustri torna come in visione quell’uomo diafano e quella parola solenne che era di salvezza morale e sociale; e tale è oggi quando alle masse scristianizzate e materializzate si è voluta imporre dalla Russia bolscevica la parola di Lenin, come parola di distruzione. Noi ai nostri fratelli, operai e lavoratori cristiani, ripetiamo quella che è parola di vita, nella fiducia che il lavoratore, rifatto cristiano, non sarà il nemico della patria nostra, ma colui che nelle invocate libertà tornerà col lavoro a riedificare le fortune della nostra Italia.

La crisi del parlamento italiano non è di oggi: ha molte cause remote e prossime, in parte simili a quelle che han determinato la crisi del parlamentarismo in genere, in parte di natura essenzialmente nostrana. Anzitutto è da rilevare (più a giustificazione che a critica del nostro parlamento) che esso è giovane quanto è giovane la nazione stessa; manca perciò di tradizioni che attraverso la storia traggano la propria forza dalla coscienza delle generazioni, nel loro sforzo di unificazione morale e politica, nel cozzo dinamico degli eventi. Che anzi parve più maturo, certo più glorioso e oggi venerando, il nostro parlamento del periodo del risorgimento fino alla caduta della storica destra; ma era solamente sforzo di pochi, rappresentanza di una scelta di persone, azione della borghesia che si affermava, nella generale rinascenza del pensiero e delle forme di libertà nel vivere civile. E a guardarle oggi, attraverso la storia, le fasi tormentose di quel periodo fatidico e audace, e il succedersi di gabinetti, il ripetersi di appelli al paese, e il crearsi di una legge trasformatrice — anche attraverso le irose polemiche e le profezie catastrofiche e le ingiuste persecuzioni ¬si vede chiaro che la vita nazionale, vissuta più che altro da una classe rappresentativa e fattiva, anzi da una aristocrazia di tale classe, aveva nel parlamento il campo aperto di lotta, la fucina delle leggi, l’ambiente di maturazione della vita politica. E di fatto i parlamenti costituzionali, nati in quell’epoca, rispondevano a una realtà vissuta, avevano una caratteristica pari alle conquiste di libertà, ragione del movimento rivoluzionario della prima metà del secolo decimonono. Allargata la base elettorale con diverse leggi, fino a quella del suffragio universale anche agli analfabeti (il passo verso il voto femminile è già moralmente fatto); aumentata, non la competenza, ma la cerchia di affari della vita amministrativa ed economica centralizzata nello stato; il parlamento, concepito sotto l’aspetto individualista, dovette subire due forze prementi che l’individualismo negano per loro natura. Alla periferia, le masse elet¬torali: esse non sono più la espressione limitata, scelta, di una classe a cui si appoggiano altre categorie di cittadini come numeri di uno stesso valore; sono l’espressione di molteplici interessi, non unificati, ma cozzanti fra loro; non determinati, ma determinabili attraverso libere costruzioni organiche, economiche e sindacali; non solidali, ma disgregati per regioni e per categorie; ciò nonostante tendenti a organizzarsi, a solidificarsi, a specificarsi attraverso non più forme e forze individuali, ma collettive. Al centro, una sovrastruttura statale: fatta dalla burocrazia, che già invade tutti i rami dell’attività pubblica e tutte le forme esterne dell’attività privata, e che tende sempre più a ingigantire a danno della nazione nei suoi organismi pubblici e nella stessa economia privata. Il processo è stato logico: aumentare le facoltà dell’amministrazione burocratica centralizzatrice, per paura della disgregazione statale prima, per necessità organica dopo; — assumere la rappresentanza di interessi sociali e crearne il monopolio di un partito (quello socialista) per opportunità organica prima, per paura politica dopo; ¬invadere il campo della economia privata sotto la pressione delle forze sociali organizzate dai socialisti, per demagogia prima, per esigenze di difesa pubblica dopo. Così il parlamento nostro cessò di essere l’organo di una maggioranza politica; fu svuotato di contenuto economico, e fu oberato di funzioni meccaniche e formalistiche, nella quotidiana fabbrica di numerose leggi, senza la possibilità di comprenderle e di elaborarle. Avrebbe per lo meno dovuto conservare un alto significato politico e il controllo effettivo sulla nuova organizzazione statale, che insensibilmente, ma con corso fatale, veniva creandosi. Questo invece non può dirsi: anche nei momenti più gravi della nostra vita politica, — dalla triplice alleanza alle diverse fasi della costituzione e dello sviluppo della colonia Eritrea; dalle ostilità con la Francia alla guerra libica; dalla settimana rossa alla guerra europea e ai trattati di pace; — il parlamento ha quasi sempre abdicato ai suoi poteri nelle mani dei vari governi che poi non ha sostenuto, liquidandoli sopra piccoli pretesti, senza significato politico che fosse come un ammonimento alla nazione. È evidente che tale crisi doveva aggravarsi con la guerra; tutti i mali vengono a maturazione; quando le cause agiscono al disopra del ritmo normale, tale maturazione è affrettata fino alla crisi, o catastrofica o salutare. Noi ci auguriamo che si tratti di crisi salutare; ma crisi è, e profonda, dell’istituto parlamentare. Durante la guerra, il nostro fu l’unico parlamento che funzionò poco o nulla, e non si può dire che in quel poco abbia funzionato in rispondenza al pensiero prevalente della nazione; anzi si cercò di tenerlo chiuso, temendo che la libera tribuna parlamentare dovesse turbare lo svolgersi della stessa guerra. Dopo l’armistizio, il resto della vita della XXIV legislatura fu fittizio; e in continua attesa della fine, non poté affrontare nessun problema di ricostruzione, né arrestare di un punto la fabbrica dei decreti-legge, la costruzione continua degli enti, dei consorzi, degli istituti di nuovo conio, fatti sotto la pres-sione degli avvenimenti, nella speranza di poter regolare un’eco¬nomia in sfacelo con il baraccamento della così detta «economia associata»; nulla che valesse a segnare una linea politica nell’ondeggiamento continuo fra la retorica e il disfattismo all’interno e all’estero. Uno dei difetti fondamentali del nostro parlamento, nell’ultimo trentennio, è stata la mancanza di partiti nel vero senso della parola. Tra gli ultimi esponenti del pensiero {{166}}borghese tradizionale liberale fu Crispi, figura oggi ingigantita dagli avvenimenti e dalla media statura dei suoi successori e dei suoi oppositori. La borghesia liberale piegò a sinistra fino al punto di non esservi più una destra o un centro nel nostro parlamento che possa dirsi un partito vivente e operante. Il partito radicale, che fu l’ala estrema di un tempo, ha invano, attraverso uomini e attraverso formule, tentato di avere un contenuto specifico differenziato dagli altri partiti: fu con i socialisti, quando il governo tentò una forma superficiale ed inefficace di reazione con Pelloux e Sonnino; fu al governo con gli altri, quando Giolitti, massimo esponente dell’adattamento parlamentare, trasportò i partiti dal terreno delle differenziazioni nominali sul terreno delle concentrazioni personali e parlamentari. Così venne meno la destra, fu scompaginata l’estrema sinistra; si confusero e si frammischiarono le democrazie costituzionali; rimasero sul terreno parlamentare (come gruppo organizzato) i socialisti, con le loro vecchie e nuove differenziazioni di riformisti, integralisti, sindacalisti, unitari e ufficiali, fermi all’opposizione, più che parlamentare, anticostituzionale. La guerra divise il parlamento e più che il parlamento il paese, in neutralisti ed interventisti; e questi in interventisti della prima e della seconda ora. Salandra capeggiò contro Giolitti, tentò la concentrazione liberale; l’episodio della sua caduta è più un fatto di politica interna che politica di guerra. L’unione sacra di Borselli e poi, dopo Caporetto, di Orlando, fu un atto opportuno; ma diede la nazione in ostaggio ai socialisti, che preparavano il loro avvento sfruttando la guerra, anche quando questa era stata conchiusa con la nostra vittoria militare. In quel momento i vecchi partiti democratici che tenevano il potere dovevano dire una parola vitale: s’incantarono nelle maglie della crisi, diplomatica prima, economica dopo, mancando loro l’anima di un partito vivo e operante, anche per il fatto che essi, errore che si ripete, confondono il loro partito con la nazione. Mentre il parlamento taceva, la diplomazia falliva a Parigi, l’economia falliva a Roma; l’unica parola era quella che veniva dalle masse agitate, turbolente e stanche, come un monito e come una forza. {{167}}Onde divenne più sensibile, dopo la guerra, il bisogno di organizzare i partiti anche parlamentarmente; e la proporzionale ebbe il significato della realtà e fu ragione di una grande riforma: essa tendeva a dare ai partiti operanti la loro adeguata espressione parlamentare e la loro legittima rappresentanza; e come tutte le leggi che sanzionano un fatto maturo nella coscienza nazionale e insieme determinano le forze ope¬ranti verso un termine di sviluppo e di valorizzazione, così la stessa legge avrebbe dovuto agevolare lo sviluppo dei partiti inorganici ed individualisti verso una qualsiasi forma anche elementare di organizzazione. È naturale il forte contrasto su questo terreno fra coloro che credono possibile e tentano attraverso lo schema dei partiti l’inquadramento delle forze popolari; e coloro che anche oggi tentano le coalizioni momentanee e le individualizzano attraverso gli esponenti della borghesia, non tanto dal punto di vista di un vero orientamento politico, quanto come una risultante d’interessi personalistici e locali. Poche volte è accaduto il fatto di un pubblico istituto, diffamato prima di essere creato; subìto al momento che la pubblica opinione lo imponeva; avversato proprio quando rendeva i primi frutti di chiarificazione politica nella vita nazionale. Le diverse lotte elettorali fatte sulla base del nuovo sistema, con tutti i difetti del resto emendabili che contiene, sono come le prove eliminatorie e di assestamento; la revisione dei programmi e delle organizzazioni, anche dei partiti liberali e democratici, è un effetto di chiarificazione assolutamente necessario; e persino la formazione di liste di coalizione, dette blocchi, arriva a far quasi superare il particolarismo paesano, che imperversava col collegio uninominale e che aveva stabilizzato quasi dappertutto, e specialmente nel mezzogiorno, le consor¬terie amministrative e le lotte delle piccole egemonie provinciali. E se la facilità di passaggio da una all’altra lista, di candidati impenitenti, per lo più sacri alla bocciatura, avviene ancora nella presente lotta, bisogna pensare che la proporzionale ha colto queste persone di là dal trentesimo anno, quando è difficile purtroppo una rieducazione politica. Il tentativo di organizzare i partiti ha avuto un effetto, sia pure schematico e formale, nel parlamento stesso con la riforma del regolamento, la costituzione degli uffici per partiti e gruppi; è stata data così una responsabilità permanente e continuativa ai dirigenti e ai rappresentanti politici, e una tal quale rispondenza verso il corpo elettorale, attraverso denominazioni che non possono restare vuote di senso. E se si arriverà nella prossima legislatura a dar vita ai consigli dell’istruzione, del lavoro, dell’agricoltura, delle industrie e dei comuni, come vere rappresentanze dirette e organiche di interessi collettivi, con funzioni delegate per i provvedimenti legislativi speciali e tecnici, sì da sgombrare l’enorme massa di lavoro meccanico delle commissioni e degli uffici delle due camere, la sensibilità politica del parlamento così organizzato si eleverà di molto e avrà vigoria e agilità. Molti hanno attribuito alla proporzionale la poca funzionalità della XXV legislatura, così repentinamente tolta... all’affetto dei deputati. È un errore grossolano, perché manca di fondatezza. Anche se fosse stata eletta sulla base del collegio uninominale, l’effetto sarebbe stato lo stesso; in tal caso, sarebbero andati a Montecitorio più di altri venti socialisti, sarebbero diminuiti i popolari e i combattenti, ma la risultante politica e morale sarebbe rimasta la stessa. I costituzionali di ogni partito avrebbero subito il ricatto e la prepotenza del socialismo in auge, senza doveri di responsabilità perché minoranza, ma te¬muto e favorito dalla stessa borghesia contro la quale combatte. La questione sostanziale, attorno alla quale si aggirano le fasi dell’istituto parlamentare (al di sopra dei metodi organizzativi dei quali si deve tener conto per la rispondenza della formula alla realtà), deve impostarsi sulla necessità della rispondenza vera, sostanziale, dell’istituto all’anima del popolo; nel suo contenuto programmatico, nelle sue salde forze, nella coscienza del divenire della nazione. Sono quindi due le questioni che occorre esaminare, alla vigilia delle elezioni politiche: a) se vi sia un vero contenuto programmatico sintetico che interessi profondamente la nazione come cardine politico; b) se la camera dei deputati, come sarà e come funzionerà, sarà capace di rappresentarlo e di realizzarlo. Un programma politico non si inventa, si vive; e per viverlo, si deve seguire nelle sue fasi evolutive, precorrerne le attuazioni, determinarne le soluzioni nel complesso ritmo sociale, attraverso i contrasti e le lotte, nell’audacia delle affermazioni, nella fermezza delle negazioni. E come gli eventi stessi, nella loro significazione reale, mettono in luce i lati positivi o manchevoli di quel che si è pensato e si è voluto, così sorge e si fa prepotente la necessità delle attenuazioni o delle smorzature, man mano che, nel complesso della vita civile, l’azione direttiva diviene decisiva e sostanziale. Di tanto in tanto una fase si sovrappone all’altra e diviene la fase storica, la fase sintetica, la espressione del pensiero dominante; ma non può essere avulsa dalla linea logica (di quella logica ferrea dei fatti che spesso è al di fuori dello stesso pensiero comune), che dà al fatto la sua naturale posizione e la sua reale giustificazione. La XXV legislatura si è chiusa quando si sentiva superato il pericolo, che per due anni ha intossicato il nostro paese, di un movimento rivoluzionario importato in Italia dall’estero, e imposto dall’estremismo socialista, come una fatale necessità, nello stato di non resistenza economica e politica della nazione. Gli ultimi fatti terroristici, la scoperta di complotti anarchici, l’eccitamento a violenze di ogni genere (i lugubri fatti di Toscana segnano il più triste episodio della barbarie) han dimostrato che il pericolo realmente esisteva; però l’infatuazione delle masse — anche le più calme e le meno avvelenate — verso una dittatura economica e politica del proletariato, dipende in gran parte da una crisi morale ed economica, che non è facile superare, e che le recenti fasi di lotta di fazioni acuiscono nell’odio e nella paura, da parte di quel proletariato, che le idee e la disciplina socialista concepisce, per diuturno lavoro di pro¬paganda, come una liberazione dal regime borghese oppressore, al quale semplicisticamente attribuisce tutti i mali che ci affliggono. L’azione antibolscevica in Italia, durante il periodo della XXV legislatura, ha tre movimenti ben determinati. Il movimento del partito popolare italiano, quello dell’azione governativa, e quello della reazione fascista: ognuno di questi movimenti e stato autonomo e qualche volta contrastante: è bene esaminarli sommariamente. Comincio dal movimento del partito popolare italiano, che fu il primo in ordine di tempo e razionalmente organico nel suo lavoro. Metodo fondamentale fu quello di creare un partito organizzato, che tentasse di levare ai socialisti il monopolio della rappresentanza diretta delle classi lavoratrici, che organizzasse queste in sindacati e in cooperative, sulla stessa, base di quadri nazionali, federali e confederali, e con le stesse rappre¬sentanze e organismi provinciali; che prendesse in mano le giuste cause dei lavoratori e ne fosse tutelatore e promotore, nelle difficili ore della trasformazione della nostra vita sociale, e nel campo legislativo e in quello pratico. Non fu necessario improvvisare né per i nuclei fondamentali — specialmente nel campo cooperativo coltivato da lungo tempo e con amore dall’azione cattolica — né per un programma cristiano-sociale, che fu, nelle sue linee morali, riassunto e prospettato autorevolmente da Leone XIII nella enciclica «Rerum Novarum», e propagandato con giovanile audacia dalla democrazia cristiana. Da quel programma, traiamo i due saldi fondamenti, dai quali mai può prescindere un qualsiasi movimento sociale, se non vuol cadere nel retorico, nel vano e nel falso: un fondamento morale, che ci pone in contrasto con i socialisti che lo negano per un materialismo fatalistico; e un fondamento economico, che contrasta con quello socialista, in quanto non sopprime, ma rafforza i diritti personali dell’uomo al lavoro, al risparmio, alla proprietà; che solo limita e corregge, in una legge morale e sociale di solidarietà, di armonia e di elevazione di classe. La nostra fatica era trasportare queste idee e queste organizzazioni dal puro ambito della iniziativa privata, assistita e protetta solo dall’azione religiosa, lanciarle nell’agone della vita pubblica, e darvi anima politica. Fatica improba per molte ragioni: anzitutto perché non solo non assistita, ma contrariata dalla pubblica opinione; che non vedeva e non vede ancora bene lo sforzo di liberazione delle masse dall’organismo socia¬lista, sforzo minuto, paziente, assiduo, fatto di mille sacrifici, misconosciuto anche da amici, turbato da apprezzamenti ecces¬sivi. In secondo luogo, tale sforzo è stato ostacolato, passo per passo, da tutta una rete d’interessi palesi e occulti, che ancora trovano protezione e vantaggi presso enti pubblici, banche, ministeri e burocrazie, nel servaggio trentennale ad un vero monopolio socialista, che solo oggi, per la forza della nostra organizzazione, comincia ad essere spezzato. Chi non ricorda l’episodio degli scioperi politici dei postelegrafonici e dei ferrovieri nel gennaio e febbraio del 1920? Per la resistenza dei bianchi gli scioperi fallirono; però mentre si raggiungeva lo scopo, e quando l’indomani in tutti gli uffici postelegrafonici si sarebbe ripreso servizio, meno che a Bologna; e quando il servizio ferroviario già andava avanti con circa duemila treni, il governo cede a discrezione, e, senza la menima solidarietà a nostro vantaggio della pubblica opinione, dà in olocausto ai rossi le nostre organizzazioni stesse; alle quali poscia fu negato anche quello che durante lo sciopero era stato promesso con impegni legali e con decreti-legge. La partita politica fu per noi in quel caso perduta; ma più che per noi, per lo stato. Ciò nonostante, il partito popolare italiano è riuscito a spezzare la coalizione nel campo della cooperazione e ad iniziare la sua partecipazione nel campo del lavoro e del collocamento; ad esistere come unità operante nella vita collettiva vicino al colosso socialista in tutta la politica del lavoro; a prendere posizione chiara, netta, precisa, nelle questioni agrarie, e promuovere leggi, decreti e provvedimenti; a discutere in commissioni e al parlamento, sicuro di rappresentare legittimi interessi di organizzazioni e di classi; a parlare a nome di esse, a contestare perfino al governo (come nel caso della occupazione delle fab¬briche e del controllo) l’obbligo di tener conto dei nostri isti¬tuti confederali, a costringere la pubblica opinione a fare atto di omaggio ai nostri amici parlamentari, che in questo campo specialmente hanno portato competenza ed iniziativa. La nostra parola, la nostra azione ora hanno diritto di cittadinanza; ma purtroppo ci son voluti due anni per arrivare al voto della pe¬nultima seduta della camera, che ci riconosceva la eguaglianza di diritto nel campo della cooperazione. Il metodo organizzativo della massa lavoratrice e la rappresentanza dei suoi interessi sindacali e cooperativi, mentre davano i risultati morali, e perciò duraturi, di una immunizzazione socialista, e di una percezione realistica dell’economia, sulla base dell’equità e della giustizia (e tralascio a questo punto tutte le accuse di episodi, o mal valutati per via di contrasti di interessi, ovvero dovuti a intemperanze o ad iniziative personali), ci impo¬nevano obblighi chiari, perché l’opera nostra non fosse confusa — sul terreno politico, nell’ámbito parlamentare e nella vitalità amministrativa — con tutta una rappresentanza di altri inte¬ressi legittimi, ma pur discordanti e anche contrastanti almeno fino a che le fasi delle attuali vertenze economiche non arri¬vino a completa soluzione. Oggi come ieri, la nostra forza organizzatrice, politica e morale sta nell’autonomia dei nostri movimenti, nella intransigenza della nostra tattica, nella libertà dei nostri atteggiamenti, nella fiducia che ciò risponda agli interessi ideali generali, ai quali sono coordinati e subordinati gli stessi interessi della nostra organizzazione. Così abbiamo serbata intatta — nonostante piccole defezioni locali — la compagine di partito, che ha nella sua caratteristica ed ha avuto nella sua azione, il compito di una vera difesa dell’ordine sociale e morale del nostro paese.

Lo strapotere di questi, nel campo del lavoro era volto principalmente a creare uno stato di crisi tale, da determinare la rivolta; questa la predicazione quotidiana alle masse; la data di quando dovesse scoppiare la rivoluzione veniva di tanto in tanto rimandata, come se si trattasse del risultato di un movimento anarcoide; ma lo stato d’animo generale era quello. L’assenteismo delle altre classi, al di fuori della nostra organizzazione e di piccoli nuclei di cittadini, non dava al governo, anche se ne avesse avuto la possibilità, un ambiente atto alla resistenza. E quindi l’azione gover¬nativa si limitava all’elementare tutela dell’ordine pubblico, al quale scopo Nitti creò il corpo delle guardie regie; però fu costretto a seguire o volle seguire un suo disegno nelle quotidiane transazioni con i socialisti nel campo della politica economica e delle schermaglie parlamentari; e ne rimase prigioniero al punto che quando volle fare un atto energico con il decreto sul prezzo del pane, fu dai partiti costituzionali lasciato in pasto all’accanimento socialista, al quale, per giunta, regalarono i sette miliardi che costò da luglio a marzo il ritardo della sistemazione della gestione dei cereali. L’on. Giolitti, entrato nel ministero, divenne alto come l’ombra di un salvatore: vecchio nocchiero parlamentare, inchiodò per un mese e mezzo i deputati ad approvare le leggi finanziarie ed economiche che nel loro semplicismo dovevano servire a fare impressione sulla pubblica opinione; ma si trovò all’inizio del movimento di aggiramento con l’occupazione delle fabbriche, con l’occupazione delle terre, con la svalutazione di ogni autorità statale; non aveva organi adatti, uomini pronti, parlamentari sicuri. Evitò con la commissione paritetica la soluzione tragica dell’occupazione delle fabbriche; col decreto Micheli cercò di fare argine all’occupazione delle terre; ed ebbe abile diversivo allo stato incombente di incertezze e di torbidi con le elezioni amministrative, nelle quali la borghesia si fece coraggio e tentò riprendere con i blocchi la sua posizione nelle grandi città. È il terzo elemento che entra in azione. La occupazione delle fabbriche aveva avuto episodi tragici e felini; la bestia umana riprende i suoi perversi istinti, quando cessano improvvisamente di operare i freni inibitori della società. Le bombe di Bologna e di Ferrara dànno il segnale ad una energica azione di resistenza sul terreno difficile e scabroso dell’esercizio del coraggio collettivo, di fronte alla violenza armata. Non era la lotta sul campo economico tra la borghesia e il proletariato, che aveva avuto bagliori di sangue, ma l’impostazione era data da un movimento di liberazione da un dominio, il dominio rosso, che dal semplice campo economico era trasportato a quello sociale e politico, e doveva preparare il crollo dell’attuale regime, auspice la Russia. Il fascismo può essere giudicato sotto diversi punti di vista: quello morale, quello economico e quello politico; non è e non può essere un partito, nel senso che possa avere una sottostruttura programmatica, che attinga ad una vita propria autonoma. È invece un fenomeno di difesa e di reazione, che attinge la forza nello spirito di conservazione delle condizioni e delle ragioni dell’ordinamento avito nazionale, contro coloro che ne¬gano la patria per l’internazionale, che negano il diritto degli altri per il monopolio di una classe. In questo spirito avrebbero consenzienti nelle provincie tutti coloro che non sono socialisti; ma quando arrivano a creare una organizzazione, a darsi un programma, ad assegnarsi una tattica, mancando il terreno positivo, restano alla superficie del fenomeno, non pervadono le fibre sociali, e si appoggiano in ogni regione d’Italia a tutte le frazioni democratiche e liberali che da anni sono gli esponenti della vita pubblica italiana. La balda giovinezza, che e stata attratta dal movimento con ardore e impeto e anche con le esagerazioni che sono naturali in simile azione, non si deve confondere con tutti quelli che fanno uso della violenza, e che al turbamento della nostra vita politica hanno aggiunto le dolorose esperienze della lotta fratricida e i tristi bagliori dell’incendio. Molti si sono domandati se, data la mancanza di senso di autorità da parte dello stato verso il prepotere socialista e comunista, era possibile ai cittadini riavere la loro libertà, il loro diritto di vivere, la loro posizione legale, in alcune provincie italiane, senza questo spirito di reazione coraggiosa e violenta insieme. La domanda non può avere una risposta adeguata, perché, mentre non è teoria morale quella del fine che giustifica i mezzi, non è teoria sociale quella che inverte i poteri pubblici, e passa ai semplici cittadini ciò che spetta agli organi punitivi e repressivi dello stato; né può confondersi lo stato anarcoide di alcune provincie con lo spirito e l’organismo della vita nazionale. La debolezza degli organi statali, specialmente nelle provincie rosse, faceva parte di un quadro di politica interna che non è solo colpa di un uomo, ma che è la risultante di cause molteplici e complesse. I partiti costituzionali che non seppero nel marzo 1920 unirsi con i popolari quando, dopo gli scioperi rossi, uscirono dal ministero Nitti e segnarono come primo dei nove punti famosi: «politica interna di rispetto alla libertà individuale e collettiva e di salda resistenza agli elementi di disgregazione anarchica della compagine sociale», debbono confessare di non avere aiutato sufficientemente i poteri pubblici, né creato una pubblica opinione e una coscienza antirivoluzionaria, non quando disertarono le urne, né quando resero inerte il parlamento ad affrontare e risolvere i problemi economici più impellenti, primo quello agrario, che avrebbe impedito tante dolorose agitazioni e tristi esperienze nel campo economico e sociale. La reazione non può essere un semplice fenomeno di forza bruta, né solo un esercizio di coraggio, né può tramutarsi in guerra civile. Per questo le elezioni generali oggi sono un punto di partenza e non un punto di arrivo. E il punto di partenza, come epilogo delle tormentose ore della XXV legislatura, è e deve essere questo: il ripristino della legalità, il ritorno all’autorità civile e politica dello stato, la eguaglianza di tutti i citta¬dini e la libertà per tutti. Questo deve essere riconosciuto nell’esperimento delle presenti elezioni generali, perché la XXVI legislatura non venga fuori originalmente viziata; la XXV legislatura fu figlia della paura e del disinteresse di una parte della borghesia assenteista, e diede quindi buon gioco ai socialisti a credersi essi i dominatori e a preparare il loro avvento anche violento; non deve la XXVI legislatura essere la figlia della violenza, sì che il responso delle urne prepari una reazione torbida e cieca nel cozzo di passioni più che nel legittimo contrasto di idee e di interessi. Per potere ottenere ciò, non basta il buon volere dei capi dei partiti, non sempre né dappertutto responsabili dell’andamento della lotta; né è sufficiente, benché sia notevole, l’ambientazione data dalla propaganda di coloro, che a masse eccitate in momenti passionali ricordino il celebre motto: sunt certi denique fines; vi è un limite! Le passioni elettorali tanto più soverchiano, quanto meno vivo è il senso della legge, quanto meno sensibili sono i freni morali e legali alle azioni umane, quanto più forte spingono gli interessi al prevalere e al prepotere delle fazioni. Occorre quindi l’autorità del governo e un ambiente {{176}}civile che la imponga; si deve arrivare a rettificare lo spirito pubblico e a orientarlo verso il senso civile della lotta e verso termini programmatici e sostanziali ai quali ispirare l’azione dei partiti. E noi popolari dobbiamo non solo augurare che sia così, ma cooperare a che la impostazione della nostra battaglia venga fatta su questo terreno, con metodi, con intendimenti, con azione essenzialmente civili.

Mancherebbe di accorgimento politico colui che credesse che basta un’aura di vento popolare a favore o contro, a modificare l’ambiente della vita pubblica; invece deve aver peso enorme ciò che è duraturo e arriva al profondo dello spirito che anima le istituzioni, che guida l’umanità nella vita individuale e collettiva. I problemi dello spirito vanno in prima linea, in una società civile quale è la nostra; tra questi, due sono assolutamente fondamentali e rispondono a due istituti della civiltà più progredita: la tutela dell’integrità della famiglia e della moralità pubblica, dell’assistenza minorile e della beneficenza da un lato, e quello della scuola e quindi dell’educazione delle novelle generazioni dall’altro. È tutto un problema unico, fondamentalmente morale, che ha la sua radice nella concezione spirituale, finalistica della vita, che viene, per la maggioranza degli italiani, irradiata dalla vivida luce della fede cattolica. Il problema merita un profondo esame, non una vista di scorcio; ma per il criterio di tracciare un programma realistico, immediato, nazionalmente sentito, rilevo solo la parte scolastica, la più dibattuta oggi nella discussione politica del paese, mentre ho fermo convincimento che non si ripeterà l’er¬rore dell’altra volta, che sul terreno scabroso del divorzio si unirono, sia pure per poche ore, socialisti e democratici. La questione scolastica è stata autorevolmente posta dal presidente del consiglio con abile parola, nella sua relazione al re per lo scioglimento della camera: «Nuovo indirizzo, egli ha detto, dovrà darsi al più alto coefficiente di civiltà, di grandezza morale, di prosperità per un popolo: alla scuola. Inve¬terate abitudini, inveterati pregiudizi, interessi particolari han¬no impedito finora qualsiasi seria riforma, quantunque la opi¬nione pubblica e gli insegnanti più competenti ne abbiano proclamato l’urgenza in tutti gli ordini di scuole, ma specialmente nelle scuole medie, in stridente contrasto con i bisogni della vita moderna. Per singolare fenomeno, uomini che in ogni altro campo invocano la libertà, nella scuola la combattono. Lo stato deve avere l’alta direzione dell’insegnamento e controllarlo con l’esame di stato, ma non deve sopprimere ogni legittima attività che nell’insegnamento apporti sicuri elementi di progresso. Il problema della scuola non fu mai seriamente affrontato dal parlamento. Auguriamo che il corpo elettorale ne imponga il serio studio alla nuova rappresentanza nazionale». La battaglia data dal partito popolare italiano sull’esame di stato resterà a ricordo dei nostri fasti, e fu battaglia santa. Qualcuno non comprende tanto il nostro fervore per una riforma soltanto tecnica e a portata limitata, quale è l’esame di stato. Per noi è l’inizio di una ben più alta rivendicazione, la libertà di insegnamento. L’Italia in questa materia è alla coda delle nazioni civili; ha negato le sue stesse origini per il vieto pregiu¬dizio anticlericale; per questo asservì la scuola di stato alle influenze massoniche e ne volle creare un monopolio. Sottopose la scienza ufficiale all’influenza protestantica della Germania. Tollerò nelle scuole secondarie che fosse falsata la storia per deprimere l’istituto del romano pontificato, e credette accorgimento politico creare la scuola neutra e bandire dalle scuole elementari l’insegnamento del catechismo con formalismi ostruzionistici. È storia dolorosa di un traviamento spirituale, sostenuto in nome della patria, ai cui danni invece preparò il terreno atto alle teorie materialistiche ed al pervertimento comunistico del nostro popolo. Noi vogliamo la scuola libera per lasciare il diritto alla famiglia di salvaguardare la fede, la coscienza, l’educazione delle tenere generazioni italiane, non solo nel culto del bello, nel sentimento verso la patria, ma anche nella virtù e nella bontà quali le concepiamo noi, nella libertà della nostra coscienza, nella tradizione delle nostre famiglie, nella storia della nostra Italia, che è tradizione e storia viva del cattolicismo. Ma pensiamo che la scuola di stato debba anch’essa modificarsi e migliorare, e pensiamo che la libertà interna della scuola, il contatto maggiore con le famiglie, il decentramento scolastico, l’autonomia delle scuole superiori e dei programmi gioveranno a ridarle il contatto con la realtà, per essere vivificata come il gigante Anteo che risorgeva in forze appena toccava la terra. Anche il monopolio della scuola deve essere spezzato; e noi che siamo contro il monopolio in materia economica, in materia organizzativa, lo siamo ancora di più in materia scolastica. La vecchia struttura dello stato era o doveva essere basata sulla libertà; però cominciò con opprimere la scuola creando il monopolio delle scuole di stato, asservito alle correnti delle sètte segrete, che fecero il loro nido presso la Minerva; quindi procedette a opprimere le organizzazioni libere, sottoponendole al monopolio socialista, annidatosi presso i ministeri economici; infine è arrivato col monopolio economico a combattere l’economia libera, sottoposta alla burocrazia statale; triplice catena che noi dobbiamo spezzare per il risanamento morale, organico ed economico del popolo italiano.

Proprio per questo noi invochiamo un secondo gruppo di provvedimenti, che si affermano come libertà organiche, di fronte allo stato panteista, che i demoliberali dall’una parte han creato e i socialisti dall’altra vogliono mantenere trasformandolo a loro profitto. Anche qui, strana coincidenza, dopo le prime affermazioni programmatiche del nostro partito, sorto nel gennaio 1919, tutti i diversi partiti della gamma democratica, nel rivedere il loro programma alla vigilia delle passate elezioni politiche, si affrettarono a rimettere a nuovo la regione, il decentramento amministrativo, le autonomie locali ed i sindacati, e ne hanno parlato tanto sia in parlamento che fuori. Un passo finora non si è fatto; anzi quando il partito popolare italiano aveva posto netto il problema regionale e sindacale col progetto sulle camere regionali di agricoltura, furono riprese le ostilità e le diffidenze contro la regionalità di tali organi, e il progetto si è arenato. Oggi, a proposito della riforma della amministrazione dello stato, la impostazione di un decentramento organico e regionale è stata ripetuta da tutti i partiti e l’ha riaffermata il governo nella sua relazione per lo scioglimento della camera; però nel modo e per la tonalità come la questione è stata impostata e per le incertezze delle varie correnti liberali e democratiche in proposito, non sembra che si sia veramente all’inizio di una fase risolutiva. Molti stimano trattarsi di un semplice problema di ordinamento; altri ne fa una questione di bilancio e fa i conti se il decentramento debba costare di più al contribuente. Il problema, invece, nella sua ampiezza è diverso. Si tratta della concezione organica dello stato, adatta allo sviluppo della sua economia, dei suoi istituti, della sua storia. Ora, come è già stata superata la economia pura, individualista, che sem¬brò una conquista, e lo fu, quando si trasformò l’industria piccola, di mestiere e artigiana, in industria grande, complessa e manifatturiera, a base di salariato; e quindi caddero le vecchie corporazioni che erano intristite a danno della economia stessa, e caddero quali enti politici privilegiati, allo stesso modo e per la stessa ragione per cui caddero i privilegi di casta ed i diritti dei nobili, dei militari e degli ecclesiastici; e venne la borghesia, il cittadino, l’elettore e il parlamentare insieme al salariato e alla grande azienda; come oggi il semplicismo organico del regime capitalistico e il salariato puro della grande industria si trasformano insieme alla trasformazione dello stato individualista accentratore, e tornano sotto altre forme organismi distrutti e pur sempre viventi, legalmente annullati ma spiritualmente reali, perché rispondenti all’intima natura della civiltà, della razza, della struttura fisico-etnica ed alle ragioni economiche e morali del nostro popolo; nascono alla loro vita organica il sindacato di arte, il comune libero, la regione autarchica. Distinti per caratteristiche e finalità diverse, sono raggruppamenti a criterio specifico, nuclei di vita sprigionantisi dal nesso collettivo popolare. Si teme che con i sindacati si soffochino la industria e i commerci e si paralizzi l’agricoltura, come si teme che col comune autonomo e con la regione autarchica si attenuino i poteri dello stato. Problema, questo, eminentemente politico, e perciò di equilibrio, nella visione delle forze che si {{183}}completano o che, si elidono, perché la risultante sia tale che elimini gli inconvenienti dell’attuale sistema e crei forze vive per l’evolu¬zione degli istituti atti alle nuove esigenze. La legge sanziona e riduce a ragione concreta quello che è maturato nella coscienza e nella economia, e ne previene per quanto è possibile gli inconvenienti; altrimenti la politica sarebbe fissità, osservazione cieca, reazione: e questo noi neghiamo. E poiché il problema oggi e posto ed è vivo, nessuno può rifiutarsi di risolverlo, chiudendo gli occhi per non vederlo. Il movimento sindacale è un fatto: sorto sotto la pressione del salariato della grande industria, come difesa dei diritti elementari della vita e del lavoro, assurse a carattere politico col socialismo, confondendo il regime economico produttivo con un regime politico rappresentativo, e teorizzò la lotta di classe, non solo come mezzo di conquista economica, ma come ragione di sopraffazione politica. Sul puro terreno parlamentare, con tutta la trasformazione e tutti gli adattamenti, i socialisti, da anticostituzionali e rivoluzionari, sono anche stati collaborazionisti, e sarebbero perfino arrivati a divenire ministeriali, come ci arrivarono, nel desiderio Enrico Ferri, e nel fatto Bissolati e Bonomi. Ma sul terreno sindacale ormai si è al bivio famoso: o avvantaggiare un partito, il socialista, e renderlo assoluto dominatore dei sindacati operai; ovvero ricostruire nel libero sindacato l’organizzazione giuridica della classe, l’ente esistente per sé nella sua legittima rappresentanza, nella sua portata economica, nella sua vera responsabilità giuridica. Non si concepisce che possano politicamente considerarsi inesistenti i sindacati e avulsi ufficialmente dalla vita, quando in questa vita operano ed agiscono e sono rappresentati. Né si creda che l’opposizione politica e la violenza della rappresaglia (che è il fenomeno passeggero dell’oggi) annulli trent’anni di costruzione nel campo operaio. Dall’altro lato, la coesistenza e la forza rappresentativa della confederazione industriale e di quella degli agricoltori dà ormai il senso sicuro, che sul terreno economico si è già molto avanti per una necessaria costruzione giuridica di enti saldamente concepiti, al di fuori del monopolio dei partiti, campo aperto e necessario alle affermazioni esplicite delle correnti eco¬nomiche del nostro paese. La vita nazionale ci guadagnerebbe anche perché il centro politico degli interessi economici viene spostato dai corridoi e dalle sale dei ministeri ove si congiura, e dalle chiuse rappresentanze senza base, scelte di ufficio dai pre¬fetti e dai ministri, e dalle circoscritte cerchie di persone che maneggiano, con fittizi titoli di rappresentanze che non hanno, minoranze audaci che si sono arrogate la tutela di delicati inte¬ressi, intrighi bancari che pervadono industrie e maestranze, forze occulte che assiderano iniziative private promettenti; e così trasporta questi interessi nella sede naturale dei sindacati e delle rappresentanze di tutte le classi del capitale e del lavoro legalmente organizzate e opportunamente decentrate, ove possano i contrasti di interesse e di partiti esistere, avere voci, potersi affrontare nella loro realtà, e sfatare quanto di finto e di illusorio portano i partiti, e quanto di illegittimo è sostenuto sul terreno politico a danno delle classi interessate. Il problema è maturo, non solo come organizzazione nazionale, ma come ragione di decentramento organico regionale. È sentito tanto più quanto più sono varii gli aspetti dei problemi economici distinti per regione. In modo speciale il problema è stato affermato nel campo dell’agricoltura, che è la fonte principale della nostra ricchezza e del nostro lavoro, e che varia da una regione all’altra per condizioni naturali profondamente diverse. Oggi il problema agrario tormenta il paese non solo come problema tecnico ed economico, ma come problema politico: guai a risolverlo allo stesso modo in tutte le regioni! Fin dal 1916 fu alzato il grido: «la terra ai contadini!»; e fu grido borghese, detto in trincea, e ne fu mallevadore lo stato. Però nulla si fece durante la guerra, perché in politica interna allora prevalevano la retorica e la imprevidenza; nulla fu fatto dopo la guerra, tranne il famoso decreto Visocchi, il quale, sotto la pressione dei socialisti romani che per il 22 agosto 1919 avevano decretato l’occupazione delle terre del Lazio, il 2 settembre successivo si affrettò a estendere il fenomeno a tutta l’Italia, con un decreto-legge che è restato tra i monumenti più insigni della incoscienza burocratica italiana, avallata dalla firma di un ministro latifondista. Vi era e vi è un vizio di origine, la impossibilità di regolamentare per legge una economia così varia e così vasta da un capo all’altro d’Italia; e questa impossibilità, mentre paralizzava il parlamento, rendeva più acuti e vivaci i problemi agrari, che impongono provvedimenti razionali assoluta¬mente necessari per l’addensamento demografico, senza più sfogo migratorio, per le esigenze economiche del costo della vita, per la regolamentazione del lavoro e dei patti annuali, per la sete della terra, che non viene assolutamente estinta né con gli espropri che fa d’autorità l’opera dei combattenti, né con le concessioni temporanee per motivi di occupazione. E la leggina sugli escomi e sui fitti, testé approvata come una transazione fra le diverse esigenze economiche delle regioni italiane, ha rimesso a nudo le enormi divergenze della nostra economia agraria e le difficoltà straordinarie nel regime vincolativo eguale per tutto il paese, facendo risaltare ancora una volta la necessità delle istituzioni delle camere regionali di agricoltura, validamente volute dal nostro partito; alle quali camere, oltre la regolamentazione dei patti agrari, verrebbero affidati anche i problemi della colonizzazione interna, del credito agrario, della formazione e dell’incremento della piccola proprietà domestica e lavoratrice, che è il programma agrario del partito popolare italiano. Sulla questione della terra ai contadini anche i fascisti hanno la loro formula: «giuriamo e proclamiamo i diritti e la volontà dei contadini di conquistare, con preparazione tecnica ed economica, attraverso ogni forma transitoria di compartecipazione, la proprietà reale, completa, definitiva della terra». Così in Campidoglio han giurato il 21 aprile, giorno del Natale di Roma. Non diranno gli agrari, che hanno creduto di avere i fascisti dalla loro parte, che si tratta di «bolscevichi tricolori», come dissero dei popolari quando li chiamarono «bolscevichi bianchi», allorché assistevano i contadini nelle gravi agitazioni agrarie incanalando le loro esigenze entro un reale programma tecnico ed economico. Per noi il problema ha caratteristiche locali diverse, dal latifondo siciliano alle grandi proprietà della Val Padana, e perciò abbiamo presentato progetti diversi. Non v’è rapporto di somiglianza, non vi è possibilità di uno schema legislativo attraverso un minimo comune denominatore. La realtà sfugge e, se legata da provvedimenti, è offesa nella rispondenza degli interessi reali delle popolazioni. Perché sottoporre l’agricoltura, la nostra principale fonte di ricchezza, al martirio di Procuste? Tutti a gran voce ormai reclamano il decentramento economico e sindacale insieme al decentramento amministrativo. Risorge ora la regione da secolare sonno, ingigantita nella sua figura, rifatta nella sua funzione, non negatrice dell’unità della patria, ma integratrice delle sue forze e delle sue attività, ampliata con il crescere del ritmo della vita economica e civile del nostro paese: non solo essa risorge come organo rappresentativo di interessi economici e sindacali e locali nel triplice nome di industria, agricoltura e commercio, non solo nella nuova sintesi con cui si concepisce il lavoro, oggi elevato a ragione morale dal cristianesimo e a ragione politica da un concetto di sana democrazia, ma anche risorge la regione come organo amministrativo di quel che è specifico carattere naturale per ogni circoscrizione territoriale, in una unità storica, che è anche sintesi di abitudini, di bisogni e di energie; mentre la amministrazione statale si sfronda del superfluo e tornerà ad essere una realtà vissuta. Il nostro consiglio nazionale, nella seduta del 10 marzo di quest’anno, affrontava il problema della regione con queste parole: «Ritenuto che una vera rinascita del nostro paese non può basarsi che sul rinvigorimento delle forze locali e sulle libertà organiche degli enti che rappresentano tali forze e le sintetizzano nel campo amministrativo ed economico; affermando quel centralismo statale dannoso alla stessa, compagine della vita na¬zionale ed al più completo ristabilimento dell’autorità statale, crede matura, ormai, la costituzione dell’ente regione autarchica e rappresentativa di interessi locali specialmente nel campo del¬l’agricoltura, dei lavori pubblici, dell’industria, del commercio, del lavoro e della scuola...». È un’affermazione che oggi diviene anche un impegno elettorale, ma e un logico corollario del nostro programma ove così si legge al capo terzo e al capo sesto: «riconoscimento giuridico e libertà di organizzazione di classe sindacale, rappresentanza di classe senza esclusione di parte negli organi pubblici del lavoro presso il comune, la provincia e lo stato» (capo terzo); «libertà e autonomia degli enti pubblici locali, riconoscimento delle funzioni proprie del comune, della provincia e della regione in relazione alle tradizioni della nazione ed alle necessità di sviluppo della vita locale. Largo decentramento amministra¬tivo, ottenuto anche a mezzo della collaborazione degli organismi industriali, agricoli e commerciali del capitale e del lavoro» (capo sesto). Oggi, alla vigilia della battaglia elettorale, riaffermiamo i due caposaldi del nostro programma nella sintesi delle libertà organiche e delle libertà economiche; riforme ormai mature per la vita nazionale.

Parlamento e politica

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Luigi Sturzo 8 occorrenze

Così impostata la battaglia, viene naturale rispondere al primo quesito se oggi sia matura una sintesi programmatica che interessi profondamente la nazione come cardine politico; questa sintesi è data da una compagine statale forte, coerente in sé, atta a superare le difficoltà interne ed esterne e resistere ai movimenti di disgregazione. Il bisogno ne è sentito da tutti, e tutti convengono che per ottenerlo è necessario in primo luogo il risanamento della finanza statale, il ripristino della forza della legge, la sicurezza dei rapporti con l’estero. Politica finanziaria, politica interna e politica estera sono tre cardini inscin¬dibili dello stato. Lo sforzo fatto dall’Italia dopo la guerra per superare la crisi che l’ha minata proprio al centro di questi tre cardini della politica statale, è stato eccezionale. Possiamo discutere se si poteva far meglio, se uomini e partiti abbiano bene assolto al loro cómpito, se i provvedimenti adottati siano stati completamente opportuni. Dobbiamo convenire che pur avendo passato tale periodo di sconquasso, a riguardarlo bene abbiamo noi stessi la impressione che ancora incomba il pericolo. Oggi la finanza statale è migliorata, il bilancio comincia a reggere, la fiducia ritorna; siamo agli inizi, occorre avere coraggio, affrontare la riforma della finanza dello stato, quella dei comuni e delle provincie, i cui progetti sono pronti, e insistere di fronte a tutti sulla tesi delle economie sino alle forme più audaci e più estreme, perché ogni sacrificio è giustificato per assicurare la vita alla collettività stessa di cui lo stato è organo e sintesi. Ma non vi potrà essere salda finanza se non vi è una politica interna forte che rimetta in primo piano la osservanza delle leggi, il rispetto all’autorità dello stato, la saldezza delle istituzioni, la sicurezza della economia privata, la garanzia del diritto. A ciò contribuisce sicuramente la fiducia generale che la crisi economica venga superata. Questo terzo elemento è dato principalmente dalla politica estera che investe, nel suo com¬plesso, i più gravi problemi dell’esistenza e dello sviluppo della nostra vita nazionale. È una vecchia tradizione del nostro regno che la politica estera sia subordinata alla politica interna; in¬vece, se subordinazione vi dovesse essere, sarebbe al contrario. La politica estera è e deve essere basata sulle ragioni economiche, morali e storiche del nostro paese; paese di emigrazione, abbiamo il dovere di fare una politica di valorizzazione dei nostri connazionali all’estero, di migliorare i nostri rapporti commerciali, di crearci una sfera di simpatie nel campo della economia, di stabilire quelle garanzie che valgano a rendere meno soggetta la nostra politica a gruppi finanziari e a stati egemonici. La politica del piede in due staffe, della amicizia da un lato e dell’alleanza dall’altro, dei protocolli che affermano e negano, dell’altruismo paesano che tradisce una debolezza e dell’infingimento che tende a far credere al successo, ormai è una politica sfruttata e assurda. Certo, le soluzioni avute nella politica estera da Vittorio Veneto ad oggi non sono in armonia coi nostri diritti, coi nostri interessi, con la nostra posizione futura. Tutta la serie dei trattati fino a quello di Rapallo segnano degli strappi; oggi però bisogna essere realisti e prendere quel che esiste ai nostri riguardi come punto di partenza per l’avvenire. Noi abbiamo bisogno di esportare mano d’opera e di importare materie prime; noi dobbiamo volgere le nostre attività verso Oriente; noi dobbiamo riprendere il nostro posto nel Mediterraneo. È una politica: farla o non farla; con serietà, con antiveggenza, creando una storia, uomini adatti, mezzi congrui. La politica estera è la più difficile per noi, per la posizione stessa della nostra patria, per il gioco degli interessi delle nazioni egemoniche, per la tradizione stessa della nostra politica e per la povertà economica che ci fa forzatamente tributari all’estero. In questo punto debole della nostra posizione nazionale, debbono convergere gli sforzi degli studiosi e degli uomini politici, su¬perando quella indifferenza ai problemi di politica estera, che per gran tempo ha segnato la caratteristica della nostra educazione nella vita pubblica.

E mentre gli uni credono che a rafforzare la compagine statale e darvi valore all’interno e all’estero devesi insistere ancora di più nella concezione dello stato centralizzatore, e aumentano ogni giorno la cerchia delle sue attività; altri, con noi, credono all’inverso che lo stato debba essere solamente organo politico attorno ai tre cardini della politica finanziaria, della politica interna e di quella estera e a quanto vi è inerente per la difesa del territorio, per la tutela della giustizia e del diritto e per il coordinamento e la integrazione delle altre attività pubbliche del paese. Da questa concezione noi deriviamo gran parte del nostro programma di ricostruzione pratica, in rapporto coi problemi più vivi e agitati che rispondono oggi alle esigenze im¬mediate e preparano il domani forte e risolutivo. I problemi fondamentali della nostra vita sono tre: uno economico, l’altro organico, il terzo spirituale. Il partito popolare italiano fin dal suo sorgere ha visto questi problemi nella loro ragione astratta e nella loro portata reale, e ha voluto precisare nel suo programma il punto di vista differenziale e fondamentale, quando ha riaffermato come punto di partenza e di arrivo la libertà. È il nostro motto: è stato il nostro grido, il fondamento del nostro appello. Parve strano, ci è stato negato che fosse necessario proclamarlo perché esisteva, hanno dovuto accorgersi, nel travaglio del dopo guerra, che la libertà in gran parte non esisteva più, era soffocata. Non la libertà economica, nelle costrizioni statali, negli inceppamenti formalistici e nelle ingiuste protezioni; non la libertà organica, nei privilegi particolaristici, nell’abolizione dell’autonomia, nell’accentramento burocratico; non la libertà morale, nella scuola monopolizzata, nella chiesa ancora sottoposta a vincoli esterni ed economici ed a proibizioni giuridiche, resti di vecchio giurisdizionalismo vuoto di senso. Lo stato e debole dove dovrebbe essere forte: nella tutela della legge, nel rispetto al diritto dei cittadini, nella garanzia allo sviluppo di tutte le libere energie; è invece forte dove non dovrebbe avere ingerenza diretta, ma solo coordinatrice e integratrice: nello sviluppo di tutta la vita che ferve alla periferia e che crea le energie produttrici del paese, morali, organiche ed economiche. Non noi solamente, molti furono anche gli uomini, studiosi e parlamentari, che all’indomani della guerra affermarono la necessità del ritorno alla libertà economica, per riprendere rapidamente il ritmo della produzione alterata e arrestata durante la guerra. Gli stessi uomini di governo vi aderirono; però, strano a ricordarsi, non vi fu periodo più rovinoso per la nostra economia di quello, per l’appunto, del dopo guerra. Istituti, consorzi, enti, gestioni fuori bilancio, monopoli si moltiplicarono in maniera incredibile; quelli creati durante la guerra furono conservati ed ampliati, soffocando ogni libera iniziativa, impedendo con leggi e decreti improvvidi la ripresa del ritmo economico, credendo che con semplici paraventi di cartone si potesse arrestare la forza dell’imperativo economico, legge ferrea della vita. Gli stessi favori economici e giuridici alle cooperative debbono essere inquadrati in una esatta visione di tali problemi, per non creare facili illusioni e formare una economia fittizia a danno della finanza dello stato. Debbono essere ridotte le protezioni allo stretto necessario per le esigenze dello stato, ed essere dirette a creare industrie indigene che si possano reggere da sé. Debbono perciò rivedersi le tariffe doganali, con un largo spirito di economia produttiva, senza tendere a sovrapporre le industrie all’agricoltura; debbono essere soppressi i regimi di sovvenzioni, e attenuarsi e ridursi secondo le esigenze reali della vita del paese le statizzazioni in materia economica e produttiva. È un audace colpo a tutta la congerie demagogica dello stato produttore, dello stato economo, dello stato protettore, dello stato assicuratore; è una audace rinunzia a tutto un bagaglio di parassitismo economico, che si è vestito tante volte di ragione sociale, per cui hanno peccato tutti in Italia, meno pochi, pochissimi ed inascoltati. Ma fino a che qualche po’ di denaro e di credito c’era, da poterlo anche sciupare tentando gli esperimenti (come, ahimè, falliti! A cominciare dalle poste di stato, per finire alle ferrovie dello stato, ed all’ormai defunto monopolio del caffè che ha avvelenato tanti stomaci italiani), era tollerabile che tutti i democratici d’Italia battessero le mani, e che gli increduli nell’avvento della economia associata fossero ritenuti della gente vieta e sorpassata. Ma quando la lira italiana oscilla a 20 centesimi, e abbiamo nel nostro territorio almeno due milioni di italiani in più di quelli che comporti la nostra potenzialità lavoratrice e produttiva, oggi non è lecito buttare allegramente il denaro dello stato, cioè della nazione, in sì tristi esperimenti. Bisogna assolutamente avere un programma di smobilitazione economica dello stato, senza quella perdita di tempo che tiene tuttora in vita dei consorzi di approvvigionamento già condannati, e che fa temere la sopravvivenza del monopolio del grano con l’annunzio di un miliardo di presunti utili, quando manca la ragione della sua esistenza per il pareggio di costo fra il grano prodotto e quello importato, le cui oscillazioni potrebbero correggersi con un razionale regime doganale. Occorre sopprimere quei dicasteri dove si annida la speculazione parassitaria, creata con arte attraverso leggi, e regolamenti nelle cui pieghe non sanno leggere gli stessi ministri che li controfirmarono. Tre quarti almeno della legislazione economica esistente si dovrà annullare, e per buon tempo è bene che i deputati — avvocati o medici — si astengano dal fare nuove leggi in materia. Le mie parole sono forti; i desideri sono radicali, e vorrei avere il tempo per dimostrare quali errori economici sono stati compiuti e quanto sia necessaria la libertà economica che tutti invochiamo, ma che non si ha il coraggio e la forza di restituire al paese; perché in Italia il governo, qualunque governo, è ormai prigioniero della burocrazia legata, anche senza malizia, a una nuova classe di affaristi di stato. Questo nostro grido di libertà economica non è però un grido di iconoclasti, né vuole abbattere quelle conquiste sociali che sono state invocate da gran tempo da tutte le scuole. Il regime delle assicurazioni operaie, la tutela del lavoro igienico e morale, le provvidenze atte ad agevolare le forme economiche del partecipazionismo non contraddicono al concetto di libertà economica nel senso già espresso in confronto alla pretesa eco¬nomica statale; solo limitano la ragione economica privata per una funzione sociale del capitale, e ne determinano certi rapporti col lavoratore come persona umana operante, non come cosa o strumento dell’opera. Ciò è ormai pacifico anche fra i partiti e fra i rappresentanti diretti degli interessi dei produttori. Quello che non è pacifico e attesta sempre il medesimo errore, è che il regime sociale associativo, mutuale, previdente del lavoro, lo si voglia far divenire servizio statale, monopolistico, meccanico; e che lo stato voglia creare attorno a tali istituti una classe, un partito, una burocrazia, una casta privilegiata e predominante.

Si è a lungo discusso se le elezioni generali politiche, così rapidamente affrettate, fossero, come suol dirsi, un salto nel buio, ovvero l’inizio della ripresa della vita nazionale. Nella politica il successo è molte volte prova e sanzione insieme; e l’insuccesso costituisce la ragione dell’avversario. Mutevoli come sempre i venti del favore popolare, ieri secondavano le correnti del disfacimento e della rivoluzione, oggi dànno la spinta al movimento antibolscevico e nazionale; per l’uno e per l’altro, un appello al paese può riuscire proficuo e vantaggioso, può essere invece un motivo di più aspri contrasti e di più violenti urti nel campo della vita politica ed economica. Noi non fummo tra coloro che reputavano assolutamente necessario un immediato mutamento di rappresentanza nazionale, né per la stessa ragione l’avversammo e ci ponemmo contro; l’abbiamo guardato come una delle fasi della nostra crisi che investe, insieme ad ogni altro istituto, la più alta espres¬sione del potere e della rappresentanza popolare. Varranno le presenti elezioni a far superare la crisi parlamentare italiana, che risale a prima della guerra, a ridare alla nazione un organo veramente vitale, centrale, fattivo, saldo, dal quale i governi attingano potere e autorità, che sia sintesi di forza morale e di ragione politica? Ovvero le elezioni del 1921 saranno altra prova generale, altro tentativo di approssimazione espressiva di un popolo, che sembra aver perduto l’unità mo¬rale e intellettuale nel significato di nazione, e che la ricerca nella mobilitazione di un voto; che {{163}}forse torna ad essere turbato dal cozzo di fazioni, nella sua origine e nella sua portata equivoco, e nelle sue finalità reazionario? Ecco l’esame che affronterò dal punto di vista generale, per arrivare a stabilire quale contributo ha dato e deve dare il partito popolare italiano, perché l’istituto parlamentare rappresenti genuinamente il pensiero collettivo della nazione, ne sia organo autorevole, e avvii l’azione governativa e direttiva del paese verso una politica di ricostruzione e di rinnovamento. La lealtà mostrata dal nostro partito, in due anni e più di esistenza, e l’azione intesa verso la soluzione della crismi che travaglia la nostra vita pubblica, sono garanzia della nostra azione futura.

Il partito popolare italiano che da due anni agita, attraverso varie e molteplici fasi, questi problemi, che a queste idee generali e a questi schemi ha fatto seguire una realtà vissuta, e nel campo delle libere organizzazioni e della propaganda, e coll’attività parlamentare e governativa, non perdendo la linea attraverso tutte le difficoltà della crisi generale, il nostro partito ha il cómpito di valorizzare politicamente un programma, che deve divenire aspirazione, coscienza e volontà del popolo italiano. I fatti minuti e quotidiani tante volte hanno un significato limitato e si perdono nel rapido succedersi di eventi; le parole cadono, dette dagli oratori o scritte sui giornali; sembra che il mondo sia fermo attorno a noi e che la rapidità dei consensi tenga dietro alla rapidità dei dissensi; oggi in auge, domani a terra, l’opinione pubblica fatta anch’essa di episodi si attarda attorno a quello che ha più vistosità nelle apparenze e linea più forte nei contrasti. Penetra però dentro alle coscienze e diviene abitudine, arriva nelle fibre di molti e diviene forza quel che due anni addietro era un nome. Ha cittadinanza quel che si ripudiava; odii e amori in contrasto dividono gli uomini; le mobilitazioni elettorali esercitano le passioni, ma le idee penetrano nel cuore, divengono atti di volontà individuale e collettiva, superano il fenomeno e attingono la loro esistenza nella sostanza delle cose. Come il partito liberale prima, quello socialista poi, rispondendo a stati d’animo hanno creato una loro letteratura, una legislazione, una organizzazione; così il partito popolare italiano ha superato lo stato di fenomeno transeunte, ha vinto molte difficoltà interne, ha espresso politicamente un suo pensiero ricostruttivo e tende a trovare su questo pensiero la rispondenza politica della pubblica opinione. Il partito popolare italiano e però partito di minoranza, la sua funzione di collaborazione o di opposizione è importante nell’ordine delle propulsioni e nel gioco delle alternative parlamentari, ma non è decisiva. Certo non basta un solo partito ad imporre un orientamento alla vita pubblica collettiva, né ad imporne la soluzione; però basta a creare stati d’animo adatti, punti di partenza e di riferimento, elementi di prova, ragioni di consensi; sì che la maturazione politica (dovuta spesso a forze imprevedute che balzano dai fatti della vita vissuta) arrivi fino alla soluzione dei grandi problemi. Sono rimasti, a saldo segno, i famosi nove punti che il gruppo parlamentare popolare affermò come base di collaborazione col secondo ministero Nitti e i patti di alleanza con i quali partecipò ai governi. E sono nostre le battaglie programmatiche combattute per la libertà della scuola, per la proporzionale amministrativa e politica, per la libertà dei sindacati e per la riforma agraria, e per il decentramento amministrativo. Non sono idee isolate; appartengono come fondo a molti partiti; gli studiosi attorno a tali problemi cercano soluzioni o illustrano questioni; nei congressi si discute e si battaglia. Però, perché un’idea dal campo speculativo passi a quello pratico e divenga ragion politica, occorre questo immenso lavorio dei partiti; fra i quali il nostro assume una vera posizione di battaglia in quella larga collaborazione parlamen¬tare che è ancora necessaria perché un parlamento come il nostro viva ed abbia la sua maggioranza. È questo un dovere dei partiti oggi in lotta: creare una salda maggioranza parlamentare. I blocchi, dove sono stati possibili, assolvono il cómpito di dare all’elettore un senso di unità e di resistenza; non dànno però una base programmatica: altrimenti non sarebbero blocchi. La unione negativa di difesa non basta all’opera. Le differenze create dalle altre liste più o meno ministeriali valgono quanto i blocchi stessi. Non si può dire che esista realmente una opposizione costituzionale e ciò è un male, non solo per la chiarificazione delle posizioni, ma anche per la saldezza della stessa maggioranza, alla quale certo non potranno partecipare coloro che credono di appoggiare blocchi e fasci e unioni per una politica di pura conservazione economica e di tutela capitalistica, perché falserebbero, fin dall’inizio, il significato della lotta e comprometterebbero le sorti della camera futura. Occorre avere un programma positivo, base della maggioranza, non nella confusione dei partiti ma nella specificazione di criteri, di metodi e di finalità, quando si tratta di salvare il paese. Questo noi abbiamo fatto nella XXV legislatura, cooperando al funzionamento del parlamento, alla costituzione della maggioranza e alla combinazione dei governi, quando era ben difficile superare ostacoli di diverso genere anche nel contatto con gli altri partiti; e, se sarà necessario, per il bene del paese e per la vitalità del parlamento, questo faremo domani, sulla base del nostro programma. Senza presumere e senza volerci imporre, noi crediamo che nella difficoltà di manovra dei partiti liberali e democratici ancora una volta il nostro dovrà essere il centro, il cemento, il fulcro, la forza di polarizzazione. Adempirà così ancora ad un suo cómpito, quello di concorrere con le sue forze verso un nuovo orientamento della vita politica del paese, verso una chiarificazione delle tendenze politiche, attorno ad un problema fondamentale di libertà e di elevazione dei valori morali della coscienza collettiva, attorno ai problemi del lavoro non agitati dall’odio di classe né sostenuti da una ragione politica sovver-siva, ma basati sui criteri di giustizia sociale. E nel momento che vengono a noi i fratelli delle terre redente e portano insieme alla esperienza politica l’attività intensa nel campo dell’organizzazione cristiana operaia e il geloso affetto alle loro autonomie, noi riaffermiamo, con loro, il programma veramente italiano del nostro partito, che trae il suo fondamento nella nostra storia guelfa, nella nostra civiltà latina, nel nostro fondo della coscienza religiosa e cattolica, che ha saputo nei secoli unire la genialità individualista della nostra razza con la vitalità degli organamenti locali e la concezione razionale del diritto di cui Roma è madre. Ora che la unità territoriale è compiuta con tanti sacrifici e con tante vittime; ora che abbiamo scossa la soggezione intellettuale ad una civiltà teutonica, che incombeva come elemento culturale delle nostre scuole e come concezione laica panteista del nostro stato, oggi dobbiamo tornare a rivivere un pensiero latino, dobbiamo lavorare per una civiltà latina, ritrovare nell’aspro cammino l’anima italiana, che riaffermiamo come valore della nostra civiltà, ragione della nostra bandiera, ove sta se¬gnata la croce dei comuni medievali e la parola «libertas» come la sintesi delle nostre battaglie. Avrà eco la nostra parola dal paese alla camera? Troverà ancora le tenaci resistenze di vecchie coalizioni di nuove preoccupazioni? Noi siamo sereni realizzatori, calmi lottatori, sicuri del nostro cammino, e perciò non tormentati da improvvisazioni né turbati dalle lotte. Noi speriamo che la nuova camera possa affrontare i problemi lasciati insoluti dalla vecchia, problemi di realtà e di vita. Noi vi coopereremo con tutta la nostra attività; faremo appello all’anima del popolo che ci segue; diremo la nostra parola a coloro che debbono operare nel parlamento e nel governo; perché vogliamo così contribuire alla salvezza della patria nostra, non solo come difesa da un pericolo interno, ma come rinnovamento delle sue forze economiche e come risveglio delle sue virtù morali, sulle quali fondiamo la nostra vita politica. Ed il 15 maggio, giorno assegnato per l’appello al paese, e per il partito popolare italiano un giorno sacro: è il giorno della democrazia cristiana, il ricordo trentennale dell’enciclica del papa degli operai sulla questione operaia. Dopo sei lustri torna come in visione quell’uomo diafano e quella parola solenne che era di salvezza morale e sociale; e tale è oggi quando alle masse scristianizzate e materializzate si è voluta imporre dalla Russia bolscevica la parola di Lenin, come parola di distruzione. Noi ai nostri fratelli, operai e lavoratori cristiani, ripetiamo quella che è parola di vita, nella fiducia che il lavoratore, rifatto cristiano, non sarà il nemico della patria nostra, ma colui che nelle invocate libertà tornerà col lavoro a riedificare le fortune della nostra Italia.

La crisi del parlamento italiano non è di oggi: ha molte cause remote e prossime, in parte simili a quelle che han determinato la crisi del parlamentarismo in genere, in parte di natura essenzialmente nostrana. Anzitutto è da rilevare (più a giustificazione che a critica del nostro parlamento) che esso è giovane quanto è giovane la nazione stessa; manca perciò di tradizioni che attraverso la storia traggano la propria forza dalla coscienza delle generazioni, nel loro sforzo di unificazione morale e politica, nel cozzo dinamico degli eventi. Che anzi parve più maturo, certo più glorioso e oggi venerando, il nostro parlamento del periodo del risorgimento fino alla caduta della storica destra; ma era solamente sforzo di pochi, rappresentanza di una scelta di persone, azione della borghesia che si affermava, nella generale rinascenza del pensiero e delle forme di libertà nel vivere civile. E a guardarle oggi, attraverso la storia, le fasi tormentose di quel periodo fatidico e audace, e il succedersi di gabinetti, il ripetersi di appelli al paese, e il crearsi di una legge trasformatrice — anche attraverso le irose polemiche e le profezie catastrofiche e le ingiuste persecuzioni ¬si vede chiaro che la vita nazionale, vissuta più che altro da una classe rappresentativa e fattiva, anzi da una aristocrazia di tale classe, aveva nel parlamento il campo aperto di lotta, la fucina delle leggi, l’ambiente di maturazione della vita politica. E di fatto i parlamenti costituzionali, nati in quell’epoca, rispondevano a una realtà vissuta, avevano una caratteristica pari alle conquiste di libertà, ragione del movimento rivoluzionario della prima metà del secolo decimonono. Allargata la base elettorale con diverse leggi, fino a quella del suffragio universale anche agli analfabeti (il passo verso il voto femminile è già moralmente fatto); aumentata, non la competenza, ma la cerchia di affari della vita amministrativa ed economica centralizzata nello stato; il parlamento, concepito sotto l’aspetto individualista, dovette subire due forze prementi che l’individualismo negano per loro natura. Alla periferia, le masse elet¬torali: esse non sono più la espressione limitata, scelta, di una classe a cui si appoggiano altre categorie di cittadini come numeri di uno stesso valore; sono l’espressione di molteplici interessi, non unificati, ma cozzanti fra loro; non determinati, ma determinabili attraverso libere costruzioni organiche, economiche e sindacali; non solidali, ma disgregati per regioni e per categorie; ciò nonostante tendenti a organizzarsi, a solidificarsi, a specificarsi attraverso non più forme e forze individuali, ma collettive. Al centro, una sovrastruttura statale: fatta dalla burocrazia, che già invade tutti i rami dell’attività pubblica e tutte le forme esterne dell’attività privata, e che tende sempre più a ingigantire a danno della nazione nei suoi organismi pubblici e nella stessa economia privata. Il processo è stato logico: aumentare le facoltà dell’amministrazione burocratica centralizzatrice, per paura della disgregazione statale prima, per necessità organica dopo; — assumere la rappresentanza di interessi sociali e crearne il monopolio di un partito (quello socialista) per opportunità organica prima, per paura politica dopo; ¬invadere il campo della economia privata sotto la pressione delle forze sociali organizzate dai socialisti, per demagogia prima, per esigenze di difesa pubblica dopo. Così il parlamento nostro cessò di essere l’organo di una maggioranza politica; fu svuotato di contenuto economico, e fu oberato di funzioni meccaniche e formalistiche, nella quotidiana fabbrica di numerose leggi, senza la possibilità di comprenderle e di elaborarle. Avrebbe per lo meno dovuto conservare un alto significato politico e il controllo effettivo sulla nuova organizzazione statale, che insensibilmente, ma con corso fatale, veniva creandosi. Questo invece non può dirsi: anche nei momenti più gravi della nostra vita politica, — dalla triplice alleanza alle diverse fasi della costituzione e dello sviluppo della colonia Eritrea; dalle ostilità con la Francia alla guerra libica; dalla settimana rossa alla guerra europea e ai trattati di pace; — il parlamento ha quasi sempre abdicato ai suoi poteri nelle mani dei vari governi che poi non ha sostenuto, liquidandoli sopra piccoli pretesti, senza significato politico che fosse come un ammonimento alla nazione. È evidente che tale crisi doveva aggravarsi con la guerra; tutti i mali vengono a maturazione; quando le cause agiscono al disopra del ritmo normale, tale maturazione è affrettata fino alla crisi, o catastrofica o salutare. Noi ci auguriamo che si tratti di crisi salutare; ma crisi è, e profonda, dell’istituto parlamentare. Durante la guerra, il nostro fu l’unico parlamento che funzionò poco o nulla, e non si può dire che in quel poco abbia funzionato in rispondenza al pensiero prevalente della nazione; anzi si cercò di tenerlo chiuso, temendo che la libera tribuna parlamentare dovesse turbare lo svolgersi della stessa guerra. Dopo l’armistizio, il resto della vita della XXIV legislatura fu fittizio; e in continua attesa della fine, non poté affrontare nessun problema di ricostruzione, né arrestare di un punto la fabbrica dei decreti-legge, la costruzione continua degli enti, dei consorzi, degli istituti di nuovo conio, fatti sotto la pres-sione degli avvenimenti, nella speranza di poter regolare un’eco¬nomia in sfacelo con il baraccamento della così detta «economia associata»; nulla che valesse a segnare una linea politica nell’ondeggiamento continuo fra la retorica e il disfattismo all’interno e all’estero. Uno dei difetti fondamentali del nostro parlamento, nell’ultimo trentennio, è stata la mancanza di partiti nel vero senso della parola. Tra gli ultimi esponenti del pensiero {{166}}borghese tradizionale liberale fu Crispi, figura oggi ingigantita dagli avvenimenti e dalla media statura dei suoi successori e dei suoi oppositori. La borghesia liberale piegò a sinistra fino al punto di non esservi più una destra o un centro nel nostro parlamento che possa dirsi un partito vivente e operante. Il partito radicale, che fu l’ala estrema di un tempo, ha invano, attraverso uomini e attraverso formule, tentato di avere un contenuto specifico differenziato dagli altri partiti: fu con i socialisti, quando il governo tentò una forma superficiale ed inefficace di reazione con Pelloux e Sonnino; fu al governo con gli altri, quando Giolitti, massimo esponente dell’adattamento parlamentare, trasportò i partiti dal terreno delle differenziazioni nominali sul terreno delle concentrazioni personali e parlamentari. Così venne meno la destra, fu scompaginata l’estrema sinistra; si confusero e si frammischiarono le democrazie costituzionali; rimasero sul terreno parlamentare (come gruppo organizzato) i socialisti, con le loro vecchie e nuove differenziazioni di riformisti, integralisti, sindacalisti, unitari e ufficiali, fermi all’opposizione, più che parlamentare, anticostituzionale. La guerra divise il parlamento e più che il parlamento il paese, in neutralisti ed interventisti; e questi in interventisti della prima e della seconda ora. Salandra capeggiò contro Giolitti, tentò la concentrazione liberale; l’episodio della sua caduta è più un fatto di politica interna che politica di guerra. L’unione sacra di Borselli e poi, dopo Caporetto, di Orlando, fu un atto opportuno; ma diede la nazione in ostaggio ai socialisti, che preparavano il loro avvento sfruttando la guerra, anche quando questa era stata conchiusa con la nostra vittoria militare. In quel momento i vecchi partiti democratici che tenevano il potere dovevano dire una parola vitale: s’incantarono nelle maglie della crisi, diplomatica prima, economica dopo, mancando loro l’anima di un partito vivo e operante, anche per il fatto che essi, errore che si ripete, confondono il loro partito con la nazione. Mentre il parlamento taceva, la diplomazia falliva a Parigi, l’economia falliva a Roma; l’unica parola era quella che veniva dalle masse agitate, turbolente e stanche, come un monito e come una forza. {{167}}Onde divenne più sensibile, dopo la guerra, il bisogno di organizzare i partiti anche parlamentarmente; e la proporzionale ebbe il significato della realtà e fu ragione di una grande riforma: essa tendeva a dare ai partiti operanti la loro adeguata espressione parlamentare e la loro legittima rappresentanza; e come tutte le leggi che sanzionano un fatto maturo nella coscienza nazionale e insieme determinano le forze ope¬ranti verso un termine di sviluppo e di valorizzazione, così la stessa legge avrebbe dovuto agevolare lo sviluppo dei partiti inorganici ed individualisti verso una qualsiasi forma anche elementare di organizzazione. È naturale il forte contrasto su questo terreno fra coloro che credono possibile e tentano attraverso lo schema dei partiti l’inquadramento delle forze popolari; e coloro che anche oggi tentano le coalizioni momentanee e le individualizzano attraverso gli esponenti della borghesia, non tanto dal punto di vista di un vero orientamento politico, quanto come una risultante d’interessi personalistici e locali. Poche volte è accaduto il fatto di un pubblico istituto, diffamato prima di essere creato; subìto al momento che la pubblica opinione lo imponeva; avversato proprio quando rendeva i primi frutti di chiarificazione politica nella vita nazionale. Le diverse lotte elettorali fatte sulla base del nuovo sistema, con tutti i difetti del resto emendabili che contiene, sono come le prove eliminatorie e di assestamento; la revisione dei programmi e delle organizzazioni, anche dei partiti liberali e democratici, è un effetto di chiarificazione assolutamente necessario; e persino la formazione di liste di coalizione, dette blocchi, arriva a far quasi superare il particolarismo paesano, che imperversava col collegio uninominale e che aveva stabilizzato quasi dappertutto, e specialmente nel mezzogiorno, le consor¬terie amministrative e le lotte delle piccole egemonie provinciali. E se la facilità di passaggio da una all’altra lista, di candidati impenitenti, per lo più sacri alla bocciatura, avviene ancora nella presente lotta, bisogna pensare che la proporzionale ha colto queste persone di là dal trentesimo anno, quando è difficile purtroppo una rieducazione politica. Il tentativo di organizzare i partiti ha avuto un effetto, sia pure schematico e formale, nel parlamento stesso con la riforma del regolamento, la costituzione degli uffici per partiti e gruppi; è stata data così una responsabilità permanente e continuativa ai dirigenti e ai rappresentanti politici, e una tal quale rispondenza verso il corpo elettorale, attraverso denominazioni che non possono restare vuote di senso. E se si arriverà nella prossima legislatura a dar vita ai consigli dell’istruzione, del lavoro, dell’agricoltura, delle industrie e dei comuni, come vere rappresentanze dirette e organiche di interessi collettivi, con funzioni delegate per i provvedimenti legislativi speciali e tecnici, sì da sgombrare l’enorme massa di lavoro meccanico delle commissioni e degli uffici delle due camere, la sensibilità politica del parlamento così organizzato si eleverà di molto e avrà vigoria e agilità. Molti hanno attribuito alla proporzionale la poca funzionalità della XXV legislatura, così repentinamente tolta... all’affetto dei deputati. È un errore grossolano, perché manca di fondatezza. Anche se fosse stata eletta sulla base del collegio uninominale, l’effetto sarebbe stato lo stesso; in tal caso, sarebbero andati a Montecitorio più di altri venti socialisti, sarebbero diminuiti i popolari e i combattenti, ma la risultante politica e morale sarebbe rimasta la stessa. I costituzionali di ogni partito avrebbero subito il ricatto e la prepotenza del socialismo in auge, senza doveri di responsabilità perché minoranza, ma te¬muto e favorito dalla stessa borghesia contro la quale combatte. La questione sostanziale, attorno alla quale si aggirano le fasi dell’istituto parlamentare (al di sopra dei metodi organizzativi dei quali si deve tener conto per la rispondenza della formula alla realtà), deve impostarsi sulla necessità della rispondenza vera, sostanziale, dell’istituto all’anima del popolo; nel suo contenuto programmatico, nelle sue salde forze, nella coscienza del divenire della nazione. Sono quindi due le questioni che occorre esaminare, alla vigilia delle elezioni politiche: a) se vi sia un vero contenuto programmatico sintetico che interessi profondamente la nazione come cardine politico; b) se la camera dei deputati, come sarà e come funzionerà, sarà capace di rappresentarlo e di realizzarlo. Un programma politico non si inventa, si vive; e per viverlo, si deve seguire nelle sue fasi evolutive, precorrerne le attuazioni, determinarne le soluzioni nel complesso ritmo sociale, attraverso i contrasti e le lotte, nell’audacia delle affermazioni, nella fermezza delle negazioni. E come gli eventi stessi, nella loro significazione reale, mettono in luce i lati positivi o manchevoli di quel che si è pensato e si è voluto, così sorge e si fa prepotente la necessità delle attenuazioni o delle smorzature, man mano che, nel complesso della vita civile, l’azione direttiva diviene decisiva e sostanziale. Di tanto in tanto una fase si sovrappone all’altra e diviene la fase storica, la fase sintetica, la espressione del pensiero dominante; ma non può essere avulsa dalla linea logica (di quella logica ferrea dei fatti che spesso è al di fuori dello stesso pensiero comune), che dà al fatto la sua naturale posizione e la sua reale giustificazione. La XXV legislatura si è chiusa quando si sentiva superato il pericolo, che per due anni ha intossicato il nostro paese, di un movimento rivoluzionario importato in Italia dall’estero, e imposto dall’estremismo socialista, come una fatale necessità, nello stato di non resistenza economica e politica della nazione. Gli ultimi fatti terroristici, la scoperta di complotti anarchici, l’eccitamento a violenze di ogni genere (i lugubri fatti di Toscana segnano il più triste episodio della barbarie) han dimostrato che il pericolo realmente esisteva; però l’infatuazione delle masse — anche le più calme e le meno avvelenate — verso una dittatura economica e politica del proletariato, dipende in gran parte da una crisi morale ed economica, che non è facile superare, e che le recenti fasi di lotta di fazioni acuiscono nell’odio e nella paura, da parte di quel proletariato, che le idee e la disciplina socialista concepisce, per diuturno lavoro di pro¬paganda, come una liberazione dal regime borghese oppressore, al quale semplicisticamente attribuisce tutti i mali che ci affliggono. L’azione antibolscevica in Italia, durante il periodo della XXV legislatura, ha tre movimenti ben determinati. Il movimento del partito popolare italiano, quello dell’azione governativa, e quello della reazione fascista: ognuno di questi movimenti e stato autonomo e qualche volta contrastante: è bene esaminarli sommariamente. Comincio dal movimento del partito popolare italiano, che fu il primo in ordine di tempo e razionalmente organico nel suo lavoro. Metodo fondamentale fu quello di creare un partito organizzato, che tentasse di levare ai socialisti il monopolio della rappresentanza diretta delle classi lavoratrici, che organizzasse queste in sindacati e in cooperative, sulla stessa, base di quadri nazionali, federali e confederali, e con le stesse rappre¬sentanze e organismi provinciali; che prendesse in mano le giuste cause dei lavoratori e ne fosse tutelatore e promotore, nelle difficili ore della trasformazione della nostra vita sociale, e nel campo legislativo e in quello pratico. Non fu necessario improvvisare né per i nuclei fondamentali — specialmente nel campo cooperativo coltivato da lungo tempo e con amore dall’azione cattolica — né per un programma cristiano-sociale, che fu, nelle sue linee morali, riassunto e prospettato autorevolmente da Leone XIII nella enciclica «Rerum Novarum», e propagandato con giovanile audacia dalla democrazia cristiana. Da quel programma, traiamo i due saldi fondamenti, dai quali mai può prescindere un qualsiasi movimento sociale, se non vuol cadere nel retorico, nel vano e nel falso: un fondamento morale, che ci pone in contrasto con i socialisti che lo negano per un materialismo fatalistico; e un fondamento economico, che contrasta con quello socialista, in quanto non sopprime, ma rafforza i diritti personali dell’uomo al lavoro, al risparmio, alla proprietà; che solo limita e corregge, in una legge morale e sociale di solidarietà, di armonia e di elevazione di classe. La nostra fatica era trasportare queste idee e queste organizzazioni dal puro ambito della iniziativa privata, assistita e protetta solo dall’azione religiosa, lanciarle nell’agone della vita pubblica, e darvi anima politica. Fatica improba per molte ragioni: anzitutto perché non solo non assistita, ma contrariata dalla pubblica opinione; che non vedeva e non vede ancora bene lo sforzo di liberazione delle masse dall’organismo socia¬lista, sforzo minuto, paziente, assiduo, fatto di mille sacrifici, misconosciuto anche da amici, turbato da apprezzamenti ecces¬sivi. In secondo luogo, tale sforzo è stato ostacolato, passo per passo, da tutta una rete d’interessi palesi e occulti, che ancora trovano protezione e vantaggi presso enti pubblici, banche, ministeri e burocrazie, nel servaggio trentennale ad un vero monopolio socialista, che solo oggi, per la forza della nostra organizzazione, comincia ad essere spezzato. Chi non ricorda l’episodio degli scioperi politici dei postelegrafonici e dei ferrovieri nel gennaio e febbraio del 1920? Per la resistenza dei bianchi gli scioperi fallirono; però mentre si raggiungeva lo scopo, e quando l’indomani in tutti gli uffici postelegrafonici si sarebbe ripreso servizio, meno che a Bologna; e quando il servizio ferroviario già andava avanti con circa duemila treni, il governo cede a discrezione, e, senza la menima solidarietà a nostro vantaggio della pubblica opinione, dà in olocausto ai rossi le nostre organizzazioni stesse; alle quali poscia fu negato anche quello che durante lo sciopero era stato promesso con impegni legali e con decreti-legge. La partita politica fu per noi in quel caso perduta; ma più che per noi, per lo stato. Ciò nonostante, il partito popolare italiano è riuscito a spezzare la coalizione nel campo della cooperazione e ad iniziare la sua partecipazione nel campo del lavoro e del collocamento; ad esistere come unità operante nella vita collettiva vicino al colosso socialista in tutta la politica del lavoro; a prendere posizione chiara, netta, precisa, nelle questioni agrarie, e promuovere leggi, decreti e provvedimenti; a discutere in commissioni e al parlamento, sicuro di rappresentare legittimi interessi di organizzazioni e di classi; a parlare a nome di esse, a contestare perfino al governo (come nel caso della occupazione delle fab¬briche e del controllo) l’obbligo di tener conto dei nostri isti¬tuti confederali, a costringere la pubblica opinione a fare atto di omaggio ai nostri amici parlamentari, che in questo campo specialmente hanno portato competenza ed iniziativa. La nostra parola, la nostra azione ora hanno diritto di cittadinanza; ma purtroppo ci son voluti due anni per arrivare al voto della pe¬nultima seduta della camera, che ci riconosceva la eguaglianza di diritto nel campo della cooperazione. Il metodo organizzativo della massa lavoratrice e la rappresentanza dei suoi interessi sindacali e cooperativi, mentre davano i risultati morali, e perciò duraturi, di una immunizzazione socialista, e di una percezione realistica dell’economia, sulla base dell’equità e della giustizia (e tralascio a questo punto tutte le accuse di episodi, o mal valutati per via di contrasti di interessi, ovvero dovuti a intemperanze o ad iniziative personali), ci impo¬nevano obblighi chiari, perché l’opera nostra non fosse confusa — sul terreno politico, nell’ámbito parlamentare e nella vitalità amministrativa — con tutta una rappresentanza di altri inte¬ressi legittimi, ma pur discordanti e anche contrastanti almeno fino a che le fasi delle attuali vertenze economiche non arri¬vino a completa soluzione. Oggi come ieri, la nostra forza organizzatrice, politica e morale sta nell’autonomia dei nostri movimenti, nella intransigenza della nostra tattica, nella libertà dei nostri atteggiamenti, nella fiducia che ciò risponda agli interessi ideali generali, ai quali sono coordinati e subordinati gli stessi interessi della nostra organizzazione. Così abbiamo serbata intatta — nonostante piccole defezioni locali — la compagine di partito, che ha nella sua caratteristica ed ha avuto nella sua azione, il compito di una vera difesa dell’ordine sociale e morale del nostro paese.

Lo strapotere di questi, nel campo del lavoro era volto principalmente a creare uno stato di crisi tale, da determinare la rivolta; questa la predicazione quotidiana alle masse; la data di quando dovesse scoppiare la rivoluzione veniva di tanto in tanto rimandata, come se si trattasse del risultato di un movimento anarcoide; ma lo stato d’animo generale era quello. L’assenteismo delle altre classi, al di fuori della nostra organizzazione e di piccoli nuclei di cittadini, non dava al governo, anche se ne avesse avuto la possibilità, un ambiente atto alla resistenza. E quindi l’azione gover¬nativa si limitava all’elementare tutela dell’ordine pubblico, al quale scopo Nitti creò il corpo delle guardie regie; però fu costretto a seguire o volle seguire un suo disegno nelle quotidiane transazioni con i socialisti nel campo della politica economica e delle schermaglie parlamentari; e ne rimase prigioniero al punto che quando volle fare un atto energico con il decreto sul prezzo del pane, fu dai partiti costituzionali lasciato in pasto all’accanimento socialista, al quale, per giunta, regalarono i sette miliardi che costò da luglio a marzo il ritardo della sistemazione della gestione dei cereali. L’on. Giolitti, entrato nel ministero, divenne alto come l’ombra di un salvatore: vecchio nocchiero parlamentare, inchiodò per un mese e mezzo i deputati ad approvare le leggi finanziarie ed economiche che nel loro semplicismo dovevano servire a fare impressione sulla pubblica opinione; ma si trovò all’inizio del movimento di aggiramento con l’occupazione delle fabbriche, con l’occupazione delle terre, con la svalutazione di ogni autorità statale; non aveva organi adatti, uomini pronti, parlamentari sicuri. Evitò con la commissione paritetica la soluzione tragica dell’occupazione delle fabbriche; col decreto Micheli cercò di fare argine all’occupazione delle terre; ed ebbe abile diversivo allo stato incombente di incertezze e di torbidi con le elezioni amministrative, nelle quali la borghesia si fece coraggio e tentò riprendere con i blocchi la sua posizione nelle grandi città. È il terzo elemento che entra in azione. La occupazione delle fabbriche aveva avuto episodi tragici e felini; la bestia umana riprende i suoi perversi istinti, quando cessano improvvisamente di operare i freni inibitori della società. Le bombe di Bologna e di Ferrara dànno il segnale ad una energica azione di resistenza sul terreno difficile e scabroso dell’esercizio del coraggio collettivo, di fronte alla violenza armata. Non era la lotta sul campo economico tra la borghesia e il proletariato, che aveva avuto bagliori di sangue, ma l’impostazione era data da un movimento di liberazione da un dominio, il dominio rosso, che dal semplice campo economico era trasportato a quello sociale e politico, e doveva preparare il crollo dell’attuale regime, auspice la Russia. Il fascismo può essere giudicato sotto diversi punti di vista: quello morale, quello economico e quello politico; non è e non può essere un partito, nel senso che possa avere una sottostruttura programmatica, che attinga ad una vita propria autonoma. È invece un fenomeno di difesa e di reazione, che attinge la forza nello spirito di conservazione delle condizioni e delle ragioni dell’ordinamento avito nazionale, contro coloro che ne¬gano la patria per l’internazionale, che negano il diritto degli altri per il monopolio di una classe. In questo spirito avrebbero consenzienti nelle provincie tutti coloro che non sono socialisti; ma quando arrivano a creare una organizzazione, a darsi un programma, ad assegnarsi una tattica, mancando il terreno positivo, restano alla superficie del fenomeno, non pervadono le fibre sociali, e si appoggiano in ogni regione d’Italia a tutte le frazioni democratiche e liberali che da anni sono gli esponenti della vita pubblica italiana. La balda giovinezza, che e stata attratta dal movimento con ardore e impeto e anche con le esagerazioni che sono naturali in simile azione, non si deve confondere con tutti quelli che fanno uso della violenza, e che al turbamento della nostra vita politica hanno aggiunto le dolorose esperienze della lotta fratricida e i tristi bagliori dell’incendio. Molti si sono domandati se, data la mancanza di senso di autorità da parte dello stato verso il prepotere socialista e comunista, era possibile ai cittadini riavere la loro libertà, il loro diritto di vivere, la loro posizione legale, in alcune provincie italiane, senza questo spirito di reazione coraggiosa e violenta insieme. La domanda non può avere una risposta adeguata, perché, mentre non è teoria morale quella del fine che giustifica i mezzi, non è teoria sociale quella che inverte i poteri pubblici, e passa ai semplici cittadini ciò che spetta agli organi punitivi e repressivi dello stato; né può confondersi lo stato anarcoide di alcune provincie con lo spirito e l’organismo della vita nazionale. La debolezza degli organi statali, specialmente nelle provincie rosse, faceva parte di un quadro di politica interna che non è solo colpa di un uomo, ma che è la risultante di cause molteplici e complesse. I partiti costituzionali che non seppero nel marzo 1920 unirsi con i popolari quando, dopo gli scioperi rossi, uscirono dal ministero Nitti e segnarono come primo dei nove punti famosi: «politica interna di rispetto alla libertà individuale e collettiva e di salda resistenza agli elementi di disgregazione anarchica della compagine sociale», debbono confessare di non avere aiutato sufficientemente i poteri pubblici, né creato una pubblica opinione e una coscienza antirivoluzionaria, non quando disertarono le urne, né quando resero inerte il parlamento ad affrontare e risolvere i problemi economici più impellenti, primo quello agrario, che avrebbe impedito tante dolorose agitazioni e tristi esperienze nel campo economico e sociale. La reazione non può essere un semplice fenomeno di forza bruta, né solo un esercizio di coraggio, né può tramutarsi in guerra civile. Per questo le elezioni generali oggi sono un punto di partenza e non un punto di arrivo. E il punto di partenza, come epilogo delle tormentose ore della XXV legislatura, è e deve essere questo: il ripristino della legalità, il ritorno all’autorità civile e politica dello stato, la eguaglianza di tutti i citta¬dini e la libertà per tutti. Questo deve essere riconosciuto nell’esperimento delle presenti elezioni generali, perché la XXVI legislatura non venga fuori originalmente viziata; la XXV legislatura fu figlia della paura e del disinteresse di una parte della borghesia assenteista, e diede quindi buon gioco ai socialisti a credersi essi i dominatori e a preparare il loro avvento anche violento; non deve la XXVI legislatura essere la figlia della violenza, sì che il responso delle urne prepari una reazione torbida e cieca nel cozzo di passioni più che nel legittimo contrasto di idee e di interessi. Per potere ottenere ciò, non basta il buon volere dei capi dei partiti, non sempre né dappertutto responsabili dell’andamento della lotta; né è sufficiente, benché sia notevole, l’ambientazione data dalla propaganda di coloro, che a masse eccitate in momenti passionali ricordino il celebre motto: sunt certi denique fines; vi è un limite! Le passioni elettorali tanto più soverchiano, quanto meno vivo è il senso della legge, quanto meno sensibili sono i freni morali e legali alle azioni umane, quanto più forte spingono gli interessi al prevalere e al prepotere delle fazioni. Occorre quindi l’autorità del governo e un ambiente {{176}}civile che la imponga; si deve arrivare a rettificare lo spirito pubblico e a orientarlo verso il senso civile della lotta e verso termini programmatici e sostanziali ai quali ispirare l’azione dei partiti. E noi popolari dobbiamo non solo augurare che sia così, ma cooperare a che la impostazione della nostra battaglia venga fatta su questo terreno, con metodi, con intendimenti, con azione essenzialmente civili.

Proprio per questo noi invochiamo un secondo gruppo di provvedimenti, che si affermano come libertà organiche, di fronte allo stato panteista, che i demoliberali dall’una parte han creato e i socialisti dall’altra vogliono mantenere trasformandolo a loro profitto. Anche qui, strana coincidenza, dopo le prime affermazioni programmatiche del nostro partito, sorto nel gennaio 1919, tutti i diversi partiti della gamma democratica, nel rivedere il loro programma alla vigilia delle passate elezioni politiche, si affrettarono a rimettere a nuovo la regione, il decentramento amministrativo, le autonomie locali ed i sindacati, e ne hanno parlato tanto sia in parlamento che fuori. Un passo finora non si è fatto; anzi quando il partito popolare italiano aveva posto netto il problema regionale e sindacale col progetto sulle camere regionali di agricoltura, furono riprese le ostilità e le diffidenze contro la regionalità di tali organi, e il progetto si è arenato. Oggi, a proposito della riforma della amministrazione dello stato, la impostazione di un decentramento organico e regionale è stata ripetuta da tutti i partiti e l’ha riaffermata il governo nella sua relazione per lo scioglimento della camera; però nel modo e per la tonalità come la questione è stata impostata e per le incertezze delle varie correnti liberali e democratiche in proposito, non sembra che si sia veramente all’inizio di una fase risolutiva. Molti stimano trattarsi di un semplice problema di ordinamento; altri ne fa una questione di bilancio e fa i conti se il decentramento debba costare di più al contribuente. Il problema, invece, nella sua ampiezza è diverso. Si tratta della concezione organica dello stato, adatta allo sviluppo della sua economia, dei suoi istituti, della sua storia. Ora, come è già stata superata la economia pura, individualista, che sem¬brò una conquista, e lo fu, quando si trasformò l’industria piccola, di mestiere e artigiana, in industria grande, complessa e manifatturiera, a base di salariato; e quindi caddero le vecchie corporazioni che erano intristite a danno della economia stessa, e caddero quali enti politici privilegiati, allo stesso modo e per la stessa ragione per cui caddero i privilegi di casta ed i diritti dei nobili, dei militari e degli ecclesiastici; e venne la borghesia, il cittadino, l’elettore e il parlamentare insieme al salariato e alla grande azienda; come oggi il semplicismo organico del regime capitalistico e il salariato puro della grande industria si trasformano insieme alla trasformazione dello stato individualista accentratore, e tornano sotto altre forme organismi distrutti e pur sempre viventi, legalmente annullati ma spiritualmente reali, perché rispondenti all’intima natura della civiltà, della razza, della struttura fisico-etnica ed alle ragioni economiche e morali del nostro popolo; nascono alla loro vita organica il sindacato di arte, il comune libero, la regione autarchica. Distinti per caratteristiche e finalità diverse, sono raggruppamenti a criterio specifico, nuclei di vita sprigionantisi dal nesso collettivo popolare. Si teme che con i sindacati si soffochino la industria e i commerci e si paralizzi l’agricoltura, come si teme che col comune autonomo e con la regione autarchica si attenuino i poteri dello stato. Problema, questo, eminentemente politico, e perciò di equilibrio, nella visione delle forze che si {{183}}completano o che, si elidono, perché la risultante sia tale che elimini gli inconvenienti dell’attuale sistema e crei forze vive per l’evolu¬zione degli istituti atti alle nuove esigenze. La legge sanziona e riduce a ragione concreta quello che è maturato nella coscienza e nella economia, e ne previene per quanto è possibile gli inconvenienti; altrimenti la politica sarebbe fissità, osservazione cieca, reazione: e questo noi neghiamo. E poiché il problema oggi e posto ed è vivo, nessuno può rifiutarsi di risolverlo, chiudendo gli occhi per non vederlo. Il movimento sindacale è un fatto: sorto sotto la pressione del salariato della grande industria, come difesa dei diritti elementari della vita e del lavoro, assurse a carattere politico col socialismo, confondendo il regime economico produttivo con un regime politico rappresentativo, e teorizzò la lotta di classe, non solo come mezzo di conquista economica, ma come ragione di sopraffazione politica. Sul puro terreno parlamentare, con tutta la trasformazione e tutti gli adattamenti, i socialisti, da anticostituzionali e rivoluzionari, sono anche stati collaborazionisti, e sarebbero perfino arrivati a divenire ministeriali, come ci arrivarono, nel desiderio Enrico Ferri, e nel fatto Bissolati e Bonomi. Ma sul terreno sindacale ormai si è al bivio famoso: o avvantaggiare un partito, il socialista, e renderlo assoluto dominatore dei sindacati operai; ovvero ricostruire nel libero sindacato l’organizzazione giuridica della classe, l’ente esistente per sé nella sua legittima rappresentanza, nella sua portata economica, nella sua vera responsabilità giuridica. Non si concepisce che possano politicamente considerarsi inesistenti i sindacati e avulsi ufficialmente dalla vita, quando in questa vita operano ed agiscono e sono rappresentati. Né si creda che l’opposizione politica e la violenza della rappresaglia (che è il fenomeno passeggero dell’oggi) annulli trent’anni di costruzione nel campo operaio. Dall’altro lato, la coesistenza e la forza rappresentativa della confederazione industriale e di quella degli agricoltori dà ormai il senso sicuro, che sul terreno economico si è già molto avanti per una necessaria costruzione giuridica di enti saldamente concepiti, al di fuori del monopolio dei partiti, campo aperto e necessario alle affermazioni esplicite delle correnti eco¬nomiche del nostro paese. La vita nazionale ci guadagnerebbe anche perché il centro politico degli interessi economici viene spostato dai corridoi e dalle sale dei ministeri ove si congiura, e dalle chiuse rappresentanze senza base, scelte di ufficio dai pre¬fetti e dai ministri, e dalle circoscritte cerchie di persone che maneggiano, con fittizi titoli di rappresentanze che non hanno, minoranze audaci che si sono arrogate la tutela di delicati inte¬ressi, intrighi bancari che pervadono industrie e maestranze, forze occulte che assiderano iniziative private promettenti; e così trasporta questi interessi nella sede naturale dei sindacati e delle rappresentanze di tutte le classi del capitale e del lavoro legalmente organizzate e opportunamente decentrate, ove possano i contrasti di interesse e di partiti esistere, avere voci, potersi affrontare nella loro realtà, e sfatare quanto di finto e di illusorio portano i partiti, e quanto di illegittimo è sostenuto sul terreno politico a danno delle classi interessate. Il problema è maturo, non solo come organizzazione nazionale, ma come ragione di decentramento organico regionale. È sentito tanto più quanto più sono varii gli aspetti dei problemi economici distinti per regione. In modo speciale il problema è stato affermato nel campo dell’agricoltura, che è la fonte principale della nostra ricchezza e del nostro lavoro, e che varia da una regione all’altra per condizioni naturali profondamente diverse. Oggi il problema agrario tormenta il paese non solo come problema tecnico ed economico, ma come problema politico: guai a risolverlo allo stesso modo in tutte le regioni! Fin dal 1916 fu alzato il grido: «la terra ai contadini!»; e fu grido borghese, detto in trincea, e ne fu mallevadore lo stato. Però nulla si fece durante la guerra, perché in politica interna allora prevalevano la retorica e la imprevidenza; nulla fu fatto dopo la guerra, tranne il famoso decreto Visocchi, il quale, sotto la pressione dei socialisti romani che per il 22 agosto 1919 avevano decretato l’occupazione delle terre del Lazio, il 2 settembre successivo si affrettò a estendere il fenomeno a tutta l’Italia, con un decreto-legge che è restato tra i monumenti più insigni della incoscienza burocratica italiana, avallata dalla firma di un ministro latifondista. Vi era e vi è un vizio di origine, la impossibilità di regolamentare per legge una economia così varia e così vasta da un capo all’altro d’Italia; e questa impossibilità, mentre paralizzava il parlamento, rendeva più acuti e vivaci i problemi agrari, che impongono provvedimenti razionali assoluta¬mente necessari per l’addensamento demografico, senza più sfogo migratorio, per le esigenze economiche del costo della vita, per la regolamentazione del lavoro e dei patti annuali, per la sete della terra, che non viene assolutamente estinta né con gli espropri che fa d’autorità l’opera dei combattenti, né con le concessioni temporanee per motivi di occupazione. E la leggina sugli escomi e sui fitti, testé approvata come una transazione fra le diverse esigenze economiche delle regioni italiane, ha rimesso a nudo le enormi divergenze della nostra economia agraria e le difficoltà straordinarie nel regime vincolativo eguale per tutto il paese, facendo risaltare ancora una volta la necessità delle istituzioni delle camere regionali di agricoltura, validamente volute dal nostro partito; alle quali camere, oltre la regolamentazione dei patti agrari, verrebbero affidati anche i problemi della colonizzazione interna, del credito agrario, della formazione e dell’incremento della piccola proprietà domestica e lavoratrice, che è il programma agrario del partito popolare italiano. Sulla questione della terra ai contadini anche i fascisti hanno la loro formula: «giuriamo e proclamiamo i diritti e la volontà dei contadini di conquistare, con preparazione tecnica ed economica, attraverso ogni forma transitoria di compartecipazione, la proprietà reale, completa, definitiva della terra». Così in Campidoglio han giurato il 21 aprile, giorno del Natale di Roma. Non diranno gli agrari, che hanno creduto di avere i fascisti dalla loro parte, che si tratta di «bolscevichi tricolori», come dissero dei popolari quando li chiamarono «bolscevichi bianchi», allorché assistevano i contadini nelle gravi agitazioni agrarie incanalando le loro esigenze entro un reale programma tecnico ed economico. Per noi il problema ha caratteristiche locali diverse, dal latifondo siciliano alle grandi proprietà della Val Padana, e perciò abbiamo presentato progetti diversi. Non v’è rapporto di somiglianza, non vi è possibilità di uno schema legislativo attraverso un minimo comune denominatore. La realtà sfugge e, se legata da provvedimenti, è offesa nella rispondenza degli interessi reali delle popolazioni. Perché sottoporre l’agricoltura, la nostra principale fonte di ricchezza, al martirio di Procuste? Tutti a gran voce ormai reclamano il decentramento economico e sindacale insieme al decentramento amministrativo. Risorge ora la regione da secolare sonno, ingigantita nella sua figura, rifatta nella sua funzione, non negatrice dell’unità della patria, ma integratrice delle sue forze e delle sue attività, ampliata con il crescere del ritmo della vita economica e civile del nostro paese: non solo essa risorge come organo rappresentativo di interessi economici e sindacali e locali nel triplice nome di industria, agricoltura e commercio, non solo nella nuova sintesi con cui si concepisce il lavoro, oggi elevato a ragione morale dal cristianesimo e a ragione politica da un concetto di sana democrazia, ma anche risorge la regione come organo amministrativo di quel che è specifico carattere naturale per ogni circoscrizione territoriale, in una unità storica, che è anche sintesi di abitudini, di bisogni e di energie; mentre la amministrazione statale si sfronda del superfluo e tornerà ad essere una realtà vissuta. Il nostro consiglio nazionale, nella seduta del 10 marzo di quest’anno, affrontava il problema della regione con queste parole: «Ritenuto che una vera rinascita del nostro paese non può basarsi che sul rinvigorimento delle forze locali e sulle libertà organiche degli enti che rappresentano tali forze e le sintetizzano nel campo amministrativo ed economico; affermando quel centralismo statale dannoso alla stessa, compagine della vita na¬zionale ed al più completo ristabilimento dell’autorità statale, crede matura, ormai, la costituzione dell’ente regione autarchica e rappresentativa di interessi locali specialmente nel campo del¬l’agricoltura, dei lavori pubblici, dell’industria, del commercio, del lavoro e della scuola...». È un’affermazione che oggi diviene anche un impegno elettorale, ma e un logico corollario del nostro programma ove così si legge al capo terzo e al capo sesto: «riconoscimento giuridico e libertà di organizzazione di classe sindacale, rappresentanza di classe senza esclusione di parte negli organi pubblici del lavoro presso il comune, la provincia e lo stato» (capo terzo); «libertà e autonomia degli enti pubblici locali, riconoscimento delle funzioni proprie del comune, della provincia e della regione in relazione alle tradizioni della nazione ed alle necessità di sviluppo della vita locale. Largo decentramento amministra¬tivo, ottenuto anche a mezzo della collaborazione degli organismi industriali, agricoli e commerciali del capitale e del lavoro» (capo sesto). Oggi, alla vigilia della battaglia elettorale, riaffermiamo i due caposaldi del nostro programma nella sintesi delle libertà organiche e delle libertà economiche; riforme ormai mature per la vita nazionale.

Mancherebbe di accorgimento politico colui che credesse che basta un’aura di vento popolare a favore o contro, a modificare l’ambiente della vita pubblica; invece deve aver peso enorme ciò che è duraturo e arriva al profondo dello spirito che anima le istituzioni, che guida l’umanità nella vita individuale e collettiva. I problemi dello spirito vanno in prima linea, in una società civile quale è la nostra; tra questi, due sono assolutamente fondamentali e rispondono a due istituti della civiltà più progredita: la tutela dell’integrità della famiglia e della moralità pubblica, dell’assistenza minorile e della beneficenza da un lato, e quello della scuola e quindi dell’educazione delle novelle generazioni dall’altro. È tutto un problema unico, fondamentalmente morale, che ha la sua radice nella concezione spirituale, finalistica della vita, che viene, per la maggioranza degli italiani, irradiata dalla vivida luce della fede cattolica. Il problema merita un profondo esame, non una vista di scorcio; ma per il criterio di tracciare un programma realistico, immediato, nazionalmente sentito, rilevo solo la parte scolastica, la più dibattuta oggi nella discussione politica del paese, mentre ho fermo convincimento che non si ripeterà l’er¬rore dell’altra volta, che sul terreno scabroso del divorzio si unirono, sia pure per poche ore, socialisti e democratici. La questione scolastica è stata autorevolmente posta dal presidente del consiglio con abile parola, nella sua relazione al re per lo scioglimento della camera: «Nuovo indirizzo, egli ha detto, dovrà darsi al più alto coefficiente di civiltà, di grandezza morale, di prosperità per un popolo: alla scuola. Inve¬terate abitudini, inveterati pregiudizi, interessi particolari han¬no impedito finora qualsiasi seria riforma, quantunque la opi¬nione pubblica e gli insegnanti più competenti ne abbiano proclamato l’urgenza in tutti gli ordini di scuole, ma specialmente nelle scuole medie, in stridente contrasto con i bisogni della vita moderna. Per singolare fenomeno, uomini che in ogni altro campo invocano la libertà, nella scuola la combattono. Lo stato deve avere l’alta direzione dell’insegnamento e controllarlo con l’esame di stato, ma non deve sopprimere ogni legittima attività che nell’insegnamento apporti sicuri elementi di progresso. Il problema della scuola non fu mai seriamente affrontato dal parlamento. Auguriamo che il corpo elettorale ne imponga il serio studio alla nuova rappresentanza nazionale». La battaglia data dal partito popolare italiano sull’esame di stato resterà a ricordo dei nostri fasti, e fu battaglia santa. Qualcuno non comprende tanto il nostro fervore per una riforma soltanto tecnica e a portata limitata, quale è l’esame di stato. Per noi è l’inizio di una ben più alta rivendicazione, la libertà di insegnamento. L’Italia in questa materia è alla coda delle nazioni civili; ha negato le sue stesse origini per il vieto pregiu¬dizio anticlericale; per questo asservì la scuola di stato alle influenze massoniche e ne volle creare un monopolio. Sottopose la scienza ufficiale all’influenza protestantica della Germania. Tollerò nelle scuole secondarie che fosse falsata la storia per deprimere l’istituto del romano pontificato, e credette accorgimento politico creare la scuola neutra e bandire dalle scuole elementari l’insegnamento del catechismo con formalismi ostruzionistici. È storia dolorosa di un traviamento spirituale, sostenuto in nome della patria, ai cui danni invece preparò il terreno atto alle teorie materialistiche ed al pervertimento comunistico del nostro popolo. Noi vogliamo la scuola libera per lasciare il diritto alla famiglia di salvaguardare la fede, la coscienza, l’educazione delle tenere generazioni italiane, non solo nel culto del bello, nel sentimento verso la patria, ma anche nella virtù e nella bontà quali le concepiamo noi, nella libertà della nostra coscienza, nella tradizione delle nostre famiglie, nella storia della nostra Italia, che è tradizione e storia viva del cattolicismo. Ma pensiamo che la scuola di stato debba anch’essa modificarsi e migliorare, e pensiamo che la libertà interna della scuola, il contatto maggiore con le famiglie, il decentramento scolastico, l’autonomia delle scuole superiori e dei programmi gioveranno a ridarle il contatto con la realtà, per essere vivificata come il gigante Anteo che risorgeva in forze appena toccava la terra. Anche il monopolio della scuola deve essere spezzato; e noi che siamo contro il monopolio in materia economica, in materia organizzativa, lo siamo ancora di più in materia scolastica. La vecchia struttura dello stato era o doveva essere basata sulla libertà; però cominciò con opprimere la scuola creando il monopolio delle scuole di stato, asservito alle correnti delle sètte segrete, che fecero il loro nido presso la Minerva; quindi procedette a opprimere le organizzazioni libere, sottoponendole al monopolio socialista, annidatosi presso i ministeri economici; infine è arrivato col monopolio economico a combattere l’economia libera, sottoposta alla burocrazia statale; triplice catena che noi dobbiamo spezzare per il risanamento morale, organico ed economico del popolo italiano.

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