Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Psicologia Vol. I

640351
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

E` singolare a vedere come le due parole Filosofia e Metafisica non abbiano ancora ricevuto nell' uso un costante significato. Abbiamo anzi, poco fa, uditi dei filosofi francesi sostenere che tali voci non si possono definire. Il che se vero fosse, si dovrebbero sbandire dall' umano linguaggio. Ma posciacchè elle si usano, certo è che gli uomini vi annettono qualche valore, benchè non costante. Della quale incostanza non sarà inutile che vediamo qui la ragione. Filosofia è vocabolo inventato dal fondatore della scuola italica. Cicerone racconta che Leonte, re dei Fliasi, domandando a Pitagora in quale arte facesse consistere il suo valore, n' ebbe a risposta, « sè non sapere alcun' arte, ma esser filosofo »(1); dal qual tempo gli uomini, dati alla ricerca delle più importanti verità, non più sapienti , «sophoi», come per lo addietro, si chiamarono, ma filosofi, «philosophoi», cioè amatori e cercatori di sapienza. Il quale di Pitagora fu un nobilissimo detto morale, di cui si sentì universalmente l' intima verità. Imperocchè, chi è quell' uomo che possa dirsi sapiente? Quante non sono le tenebre che circondano l' umano intelletto! Quanta l' ignoranza che rimane al mortale, anche dopo avere spesa tutta la vita in meditando! Di che lunghe fatiche, di quali e quanti tentativi frustrati, sovente di quanti errori, non è il frutto una minima particella di verità discoperta? A Dio solo adunque il titolo di sapiente; ed è una menzogna, una superbia il darlo all' uomo. Laonde Pitagora, collo svelare questa menzogna, col ribassare questa superbia, pose la solida base all' investigazione del vero, la quale altra non è che l' umiltà filosofica. Ma se questi nomi di filosofia e di filosofi diedero un migliore indirizzo alla scienza ed ai suoi amatori, non determinarono però la materia delle loro ricerche, e però rimase sempre, rispetto a questa, vago e fluttuante il significato di quei vocaboli. Andronico Rodio, ordinando le opere di Aristotele, collocò i libri, che trattavano dell' Ente, dopo i fisici, e da tale collocazione sembra venuto il vocabolo di Metafisica (da «meta» e «physis»), che vale dopo la Fisica . Questa parola adunque, al pari di quella di Filosofia, non fu istituita a significare alcuna materia, d' intorno alla quale si adoperi la mente, ma ad indicare solamente il posto assegnato nella collezione delle Opere aristoteliche ai libri ontologici. Questa origine delle due parole Filosofia e Metafisica abbastanza dimostra che nella loro prima istituzione non furono volte a significare il soggetto determinato di qualche disciplina. Indi, allorchè si adoperarono quali nomi di scienze, rimase libero il campo, a chi li usava, di attribuirli a scienze diverse; e così accadde che ricevessero diversi significati. Ma ora, nè si possono rifiutare vocaboli tanto in uso e tanto solenni, nè può esser desiderato da persona di buon senno che essi continuino a girar così liberi e senza legge, quasi vagabondi peregrini, di cui, dovunque arrivino, s' ignora il nome e il costume. D' altra parte, non avendo essi ricevuta l' istituzione loro dai volghi, ma dalle scuole filosofiche, ai filosofi soli appartiene il determinarne il senso; e il popolo è presto ad accettarne la legge, se essi pervengono a mettersi sul loro uso d' accordo. Mossi da queste considerazioni, noi abbiamo procacciato di fissare il vocabolo Filosofia , definendolo « la scienza delle ragioni ultime » (1). Abbiamo sentito il bisogno di determinare il valore di questa parola, tostochè contemplammo l' unità della sapienza, di cui la filosofia è studio ed amore. Perocchè è impossibile il vagheggiare coll' animo la sapienza nella sua sublime unità, senza intendere che ella, appunto perchè una, è suscettibile di un' unica definizione; nè senza questa, ella potrebbe essere giammai scritta con metodo e forma scientifica. Ma come fisseremo poi il valore della parola Metafisica ? Conviene che esso sia tale, che il pubblico ad accettarlo non debba di molto scostarsi dai concetti che egli vi aggiunge, che sia un cotal mezzo fra gli opposti di essi, per modo che, rimovendosi il vago e l' incerto uso della parola collo stabilirne uno fisso e immutabile, le rimanga quel significato medio, intorno al quale, quanti l' adoperano, si vanno per così dire, aggirando. Nei tempi andati si usò talora la parola Metafisica a sinonimo della stessa Filosofia; altri la presero come equivalente di Ontologia. Più tardi, essendosi trovata la parola Ideologia a indicare la dottrina delle idee, parve che questa scienza venisse così separata dal corpo della Metafisica, e con essa insieme la Logica, che è quasi un corollario e un' appendice di quella. Onde si videro molti trattati scolastici portare in fronte il titolo di Elementi di Logica e di Metafisica , questa a quella contrapponendo. Nè noi vogliamo metterci per altra via. E poichè l' Ideologia (alla quale riduciamo pure la Logica ) è la scienza dell' essere ideale, quindi la Metafisica , alleggerita di questa parte che versa intorno le idee, ci rimarrà un vocabolo acconcissimo a significare quel gruppo di scienze, le quali trattano filosoficamente della dottrina degli enti reali. Così si avrebbero due gruppi di scienze filosofiche ben distinti, quello delle scienze ideologiche , e quello delle scienze metafisiche . Ma su questa definizione è mestieri più cose considerare. Primieramente è a notarsi la differenza che passa fra la Metafisica e la Fisica, la quale tratta pure di enti reali. La Fisica si ripone impropriamente fra le scienze filosofiche; vi si ripone a cagione del vago significato della parola Filosofia. Ma tostochè il significato di questa parola è fermato a significare « la dottrina delle ragioni ultime », rimangono escluse da essa la Fisica e la Matematica, e in generale tutte quelle scienze che si dicono naturali, le quali raccolgono i fenomeni e le leggi degli enti reali, non investigano le ultime ragioni. Oltre di che, queste scienze non si estendono più in là degli enti reali corporei. All' incontro la Metafisica non può cercare le ragioni ultime degli enti reali, siccome deve fare perchè parte della Filosofia, se non considera gli enti reali in tutta la loro universalità e nel loro intero compimento, perciò se non ascende a quei principŒ supremi, a quelle prime cause, che abbracciano gli enti reali tutti; chè le ragioni delle cose non sono ultime, se non sono universalissime ed assolute. Onde all' unità della Filosofia aggiungesi l' altra dote nobilissima della universalità (1). In secondo luogo si deve guardarsi bene dal credere che, quando noi definiamo la Metafisica « la dottrina filosofica dell' ente reale e completo », ossia « la dottrina delle ragioni ultime dell' ente reale », vogliamo fare intendere che la Metafisica abbia per oggetto la sola realità; perocchè la sola realità, precisa dall' idea, non è oggetto di scienza, nè di cognizione, come abbiamo altrove mostrato (2); anzi ella non è ancora ente, ma in via ad esser ente, «me on»; nè ella contiene ragione alcuna di sè in sè medesima. Perocchè la ragione delle cose è sempre un' idea (1); onde le cose reali diventano oggetto del sapere solo allora che in relazione all' idea, per l' idea e nell' idea si apprendono, o si considerano. La realità nuda è solo percepita dal sentimento, e non può essere dall' intelligenza; non è dunque per sè oggetto al sapere (2). Ora le definizioni, per noi stabilite, della Filosofia e della Metafisica potrebbero ad alcuni parere contraddizioni. Se la Filosofia, si dirà, è la scienza delle ragioni ultime, e se le ragioni sono sempre esseri ideali, come si può dire che una parte della Filosofia, cioè quella che si chiama Metafisica, abbracci i reali? Rispondiamo che la Metafisica non abbraccia punto i reali (che sono termini del sentimento), ma la dottrina filosofica dei reali. La Filosofia è la scienza delle ragioni ultime; ora appunto sotto questo aspetto le bisogna trattare dei reali. Conciossiachè è necessario parlare dei reali nella dottrina delle ultime ragioni. Primieramente, perchè ragione è parola che ha un significato relativo a ciò, di cui si cerca la ragione; e ciò, di cui si cerca la ragione, sono appunto i reali. Qui si vede che i reali, come tali, non costituiscono il proprio oggetto della Filosofia, ma solamente l' occasione e la condizione; la Filosofia tratta di essi, perchè tratta delle loro possibilità e delle ultime loro ragioni sufficienti. In secondo luogo, perchè la ragione prima esige un reale coessenziale ad essa, come fu già da noi dimostrato (3), e però ella non si può conoscere a pieno, senza la dottrina di quella prima realità che la costituisce non come ragione, ma come ente completo ed assoluto, che contiene la ragione delle cose tutte nel suo seno. Ora di questa assoluta realità e sussistenza, la Filosofia deve trattare come del suo proprio oggetto, come del compimento di questo oggetto. Dopo di che, noi possiamo sottoporre alla critica tre delle principali definizioni, date fin qui della Filosofia. Alcuni non sanno uscire dalla realità, e a questa sono legati necessariamente i materialisti, pei quali non vi è veramente Filosofia se non negativa, o più veramente distruzione della Filosofia. E qui riesce la definizione di Hobbes, che fa consistere la Filosofia nella cognizione degli effetti e dei fenomeni per mezzo delle cause e della generazione; e nella cognizione delle cause e della generazione per mezzo degli effetti e dei fenomeni. Ora, poichè dai soli fenomeni e dai soli effetti, senza l' argomento che parte dall' oggetto ideale, non si possono conoscere che le cause prossime, o più veramente le leggi , secondo cui le cose sensibili si mutano, quindi la Filosofia con questa definizione è distrutta, e rimangono solo la Fisica e le scienze naturali, che usurpano il nome di Filosofia. La seconda definizione erronea è quella dei soggettivisti, i quali, riducendo ogni oggetto ideale ad essere una modificazione dello spirito umano, senza più definiscono la Filosofia « la scienza del pensiero umano ». Tale è la definizione di Galluppi (1). Ma il pensiero umano non è che lo strumento, col quale la Filosofia trova e contempla i suoi oggetti; nè questi, fra i quali Dio è il massimo, si possono menomamente ridurre al pensiero; e sarebbe manifestissimo assurdo il dire che la scienza di Dio, che appartiene certamente alla Filosofia, d' altro non tratta che del pensiero umano. La terza definizione erronea, che pecca nell' eccesso contrario alle due prime, è quella dei Platonici, i quali fanno le sole idee esser l' oggetto della Filosofia, e ripongono l' officio del filosofo unicamente in contemplare l' idea dell' ente , «he tu ontos idea» (2), quando anzi l' idea dell' ente deve scorgere la mente umana a trovare l' ente realissimo ed assoluto, in questo terminando ogni sua speculazione, non per via d' idea, ma per via di affermazione e d' intuizione. Alla quale definizione platonica si riduce la definizione wolfiana; perocchè Wolfio dice la Filosofia essere « la scienza dei possibili »; e quindi per ottenere che Iddio diventi anch' esso oggetto della Filosofia, si riduce a sostenere che la Filosofia tratta della possibilità intrinseca di Dio, quando certamente ella tratta dell' essere divino, e non della sua mera possibilità. Senza di che le possibilità non costituiscono affatto le ragioni delle cose per intero, ma sono un elemento di esse ragioni; giacchè le cose contingenti, poniamo, non esistono solamente perchè possibili, ma sì perchè, essendo possibili, una prima causa reale le ha create. Torniamo ora alla Metafisica. Fissato il valore che noi intendiamo dare a questa parola, vediamo in quali scienze speciali essa si divide. Le scienze filosofiche si possono ordinare in varie guise, secondo gli aspetti nei quali esse si considerano, e dai quali si prende la norma della loro distribuzione; e noi stessi abbiamo recati esempi di diverse maniere, in cui la Filosofia può comodamente partirsi (1). Una delle partizioni, da noi presentate, fu quella che distingue tre gruppi di scienze filosofiche, che chiamammo scienze d' intuizione, scienze di percezione e scienze di ragionamento (2). Non è già che in alcuna scienza filosofica manchi il ragionamento; ma quella denominazione è tratta dall' atto dello spirito, col quale la scienza riceve il suo oggetto. Conciossiachè ad alcune scienze filosofiche viene somministrato l' oggetto dalla sola intuizione, ad altre viene somministrato dalla percezione intellettiva, ad altre finalmente dal ragionamento. Ora le prime, quelle che non abbisognano d' altro atto dello spirito per avere il loro oggetto che dell' intuizione , sono le ideologiche. Rimane adunque che la Metafisica appartenga alle scienze di percezione e di ragionamento. Ma le abbraccia ella tutte? No; perocchè se la Metafisica è la dottrina filosofica dell' ente reale, ella non può abbracciare che il ramo delle scienze ontologiche, che trattano dell' ente reale quale egli è, non quello delle scienze deontologiche ( «to deon», il conveniente, il necessario), che trattano dell' ente reale, quale deve essere. Quindi, non senza buona ragione, da alcuni si piglia la parola Metafisica siccome sinonimo di Ontologia (3). Tuttavia la relazione della Metafisica colle scienze deontologiche è oltremodo intima; giacchè la dottrina che dimostra quale sia l' ente, è il fondamento di quella che indaga quale deve essere l' ente acciocchè sia perfetto. L' apice poi della Deontologia è l' Etica, o Diceosina, od Osiologia, o con altro nome si chiami, perocchè l' ente reale non è completo, se non tiene nel proprio seno la forma morale, che è completrice e perfezionatrice dell' ente (1), e però la scienza, che dimostra quale deve essere l' ente morale, l' Etica, è l' ultima parola della Deontologia; e però ella è fra tutte sommamente filosofica. Dal che noi possiamo raccogliere più distintamente quale sia quel gruppo di scienze, che colla parola Metafisica denotiamo, e contro a quali altri gruppi ella si parta. Perocchè, da quanto osservammo, la Filosofia intera si può anche distribuire in tre gruppi così: scienze ideologiche, scienze metafisiche, scienze deontologiche . Nella quale distribuzione le ideologiche sono quelle che hanno dall' intuizione sola il loro oggetto; le metafisiche abbracciano le scienze di percezione e il primo ramo di quelle di ragionamento, cioè le ontologiche; finalmente il gruppo delle scienze deontologiche comprende l' altro ramo delle scienze di ragionamento. E qui apparisce chiaramente quale posto occupi la Metafisica nell' ampia regione della Filosofia; ed altresì in quali sue membra ella decorosamente si distingua. Perocchè noi abbiamo detto che le scienze di percezione sono la Psicologia e la Cosmologia , e che il primo ramo delle scienze di ragionamento abbraccia l' Ontologia in senso stretto , e la Teologia naturale . Queste adunque sono quelle quattro, che costituiscono il gruppo delle scienze Metafisiche. La quale divisione, quantunque sembri naturale ed elegante, tuttavia noi abbiamo creduto più confacente all' intento nostro di allontanarcene alquanto, riducendo le tre ultime in una sola scienza, che abbiamo intitolata Teosofia . Credemmo con ciò di aiutar meglio l' intelligenza degli studiosi, di rendere più complesso e magnifico l' argomento, risparmiando alle loro menti o agevolando la fatica delle astrazioni, alla quale vedemmo coll' esperienza venir meno molti intelletti. Nè questa grande sintesi è per avventura arbitraria, ma ci è somministrata dalla natura della cosa. Perocchè, se si considera la Cosmologia, che è la dottrina del mondo, ella può essere trattata in due modi: cioè fisicamente e metafisicamente; i quali due modi si confusero fin qui da quelli che la esposero. E veramente la descrizione del mondo fenomenale e delle sue leggi costanti appartiene al gruppo delle scienze fisiche, e non a quello delle filosofiche. Acciocchè a queste appartenga la dottrina del mondo, conviene considerarlo nelle sue ragioni ultime, le quali si possono, o cercare in lui stesso, o nella sua causa, che è Iddio creatore. Considerato il mondo in sè stesso, noi lo vediamo composto di materia, di anime sensitive e di intelligenze. Ma la materia altro non è che il termine dell' anima sensitiva, dalla quale non si può dividere realmente, senza annullarla. Acciocchè dunque si possa pur concepire la materia per quello che essa è, conviene considerarla congiunta all' anima che la sente; e questo già si fa nella Psicologia. Poichè, come la materia ha bisogno di un principio senziente, a cui sia termine, senza di che ne perisce il concetto, così l' anima senziente ha bisogno della materia, di cui sia il principio, senza di che ne perisce pure il concetto. Onde l' anima sensitiva non è un ente, se non a condizione che l' atto suo termini nella estensione materiale, ovvero corporea; e però la Psicologia così la considera. Che se si volesse distaccare al tutto la materia dal sentimento, a cui si riferisce, che mai ce ne rimarrebbe se non una pura astrazione, un ente incipiente che non sussiste, e, come acconciamente la chiamarono già gli antichi, un non7ente? Ed è questo che apparirà manifesto nella trattazione della Psicologia. La dottrina del mondo, adunque, in quanto investiga l' ultima ragione della esistenza di lui in lui stesso, la ragione cioè che lo costituisce un ente concepibile, procede indivisibilmente unita colla scienza dell' anima. In quanto poi ella investiga l' ultima ragione del mondo nella sua causa dal mondo diversa, manifestamente appartiene alla scienza che tratta di Dio, unica causa del creato. Lasciata dunque al fisico, al quale appartiene, quella parte di Cosmologia, che descrive i fenomeni offerti ai sensi dalla materia e le loro leggi, rimane che l' altra parte, che cerca le ragioni dell' universo, e che sola è veramente filosofica, quindi sia ripetuta a sè dalla Psicologia, quinci sia a sè rivendicata dalla Teologia Naturale. Ma che avverrà poi della Ontologia propriamente detta? Ella tratta dell' ente nel suo complesso e nel suo compimento. Ma intorno all' ente, pigliato in questa universalità, la mente umana può speculare in due guise, cioè per via di astrazione, e per via di ragionamento ideale7negativo. Il ragionamento ideale7negativo la conduce all' Essere supremo, all' assoluto, realissimo e completissimo essere. Il ragionamento astratto all' opposto, le fa trovare una teoria astratta dell' essere, applicabile ad ogni ente, sia contingente, sia necessario; perocchè quest' opera dell' astrazione mira a conseguire questo intento, di sapere le condizioni, le qualità, le doti comuni ad ogni ente, senza le quali niuna cosa può ricevere il nome ed il concetto di ente, ed ogni cosa tanto meno quel nome e quel concetto riceve, quanto più ha di esso difetto. Ora questa dottrina così astratta non ha veramente per oggetto un ente reale, e però non può costituire alcuna scienza metafisica, secondo la data definizione. D' altra parte qual' è il valore di una tale dottrina? quale l' utile scopo? Non altro che quello di far la via all' intendimento, ond' egli possa salire a conoscere quale finalmente sia l' ente assoluto, cioè quello in cui tutte le condizioni dell' ente e pienamente e compiutamente si avverano, distinguendo da esso gli enti relativi, che di quelle condizioni partecipano, e solo di alcune, non avendone in proprio nessuna. In una parola l' Ontologia, così considerata, altro non è che una grande prefazione al trattato di Dio. Perciò a questo noi intendiamo congiungerla, dal quale solo riceve la sua pienezza, e pel quale solo giunge al suo scopo. Rimangono in tale guisa due enti reali, e secondo la loro condizione da noi conosciuti, ad oggetti della Metafisica; e questi sono lo spirito finito e lo Spirito infinito , i quali danno materia a due scienze filosofiche, che furono denominate Pneumatologia e Teologia Naturale . Esporremo noi dunque la Pneumatologia in tutta la sua estensione? Questa parola, esprimendo la scienza degli spiriti in generale, estende la trattazione a tutte le maniere di spiriti creati, e però abbraccia l' anima umana non meno che le intelligenze separate. Ma noi ci limitiamo a trattare dell' anima, ad esporre la Psicologia, e ciò per le seguenti ragioni. Niuno spirito cade sotto la nostra naturale esperienza se non l' umano. Il filosofo dunque non può trattare degli angeli se non per via di mero ragionamento, sfornito della percezione. Con un tale ragionamento egli può proporre a sè stesso tre questioni: se vi sono intelligenze separate, onde procedono, quale è la loro natura; l' esistenza dunque, la causa, l' essenza conoscibile sono le tre parti dell' Angelologia . Ma l' esistenza non può provarsi che argomentando dalla loro convenienza cogli attributi del Creatore, cioè della loro causa. L' essenza conoscibile non può indursi che per analogia di quanto si conosce dell' anima, che solo cade nell' esperienza; e però non si può parlare della natura delle intelligenze separate, se non dopo aver conosciuto quanto l' esperienza ci somministra dello spirito umano, cioè dopo avere esposta la Psicologia. Riputiamo adunque che la dottrina degli angeli non possa costituire da sè sola una compiuta scienza filosofica, e però noi la esporremo insieme colla dottrina del mondo, di cui gli angeli sono una parte, parlando dell' Essere supremo. In tal maniera questa dottrina dell' Essere supremo presenta tre trattazioni, o parti ben distinte, ma intimamente connesse: la prima è una cotale amplissima introduzione, e ragiona dell' essere in universale, a quel modo che lo concepisce l' umana mente per via d' astrazione, e risponde a quella scienza, che si suole chiamare Ontologia ; la seconda tratta dell' Essere assoluto per via di ragionamento ideale7negativo, e risponde alla Teologia Naturale ; la terza è una cotale appendice, che disputa delle produzioni dell' Essere assoluto, e risponde alla Cosmologia . Al complesso di tutta questa dottrina noi diamo il titolo di Teosofia . Ma non vogliamo tampoco obbligarci a tenere rigorosamente separate quelle tre parti; anzi, seguendo il metodo didattico più che altro, ci proponiamo di distribuire le notizie in quel modo, che meglio le renda agevoli ad ogni lettore, premettendo quelle che diano lume alle susseguenti, senza punto attendere se elle poi siano ontologiche, o teologiche, o cosmologiche. Di che anche la scienza ritrarrà unità maggiore. Finalmente, a corona e quasi a fastigio di tutta la Metafisica, noi aggiungeremo un trattato separato dell' ottimo e sapientissimo governo del mondo, che sarà inscritto Teodicea ; il quale trattato è anello, che congiunge intimamente le scienze filosofiche colla scienza della verità rivelata, e particolarmente coll' Antropologia soprannaturale . La mente umana divide anche ciò che nell' entità è indiviso, poichè ella cogli atti suoi non costituisce l' entità, ma solo la conosce; e la conosce in quella parte, o da quel solo lato, a cui ella limita il suo sguardo, la sua attenzione . Le leggi dell' attenzione umana sono adunque quelle che spezzano e limitano l' ente, in quanto si fa oggetto di lei, ma non ispezzano e non limitano perciò l' ente in sè stesso; il quale, perduta la sua unità, già più non sarebbe. Quindi gli oggetti dell' attenzione così limitati, i quali si dicono anche enti mentali , sono bensì porzione dell' oggetto di una scienza, ma non sono il compiuto suo oggetto. L' oggetto di una scienza deve essere dunque un ente intelligibile (1) nella sua unità; e uno dei maggiori fonti degli errori si deve ripetere dall' essersi divise le scienze secondo gli enti mentali (1), non avuto riguardo all' unità degli enti in sè stessi, dandosi così corpo ad astrazioni, ponendo divisione nella natura delle cose, dove ella non è, creandosi una quantità di chimere; poichè, ogniqualvolta si piglia un essere mentale per un essere compiuto, la mente s' è fabbricata una chimera. Si distinguano adunque le scienze complete dalle scienze incomplete ; le prime hanno per loro oggetto un ente intero, considerato nella sua specie, e però si dividono come si dividono gli enti stessi; le altre hanno per loro oggetti le speciali maniere di veder l' ente, ossia altrettanti enti mentali . Alla prima divisione delle scienze appartiene quella grande sintesizzazione del sapere, di cui si sente il bisogno da molti, senza trovare la via di soddisfarvi. Alla seconda spetta più propriamente quell' analisi, che aggiunge tanta luce alle cognizioni umane, anatomizzandole; ma che diviene facilmente pericolosa, perchè gli ingegni che la seguono esclusivamente, trascurano la sintesi; e così fanno in brani il corpo vivo dello scibile, gli tolgono la vita, e poscia nelle morte membra veggono coll' immaginazione altrettanti corpi perfetti, oggetti ognuno di essi d' una scienza a loro giudizio perfetta, ma veramente mozza e cadaverica. Certo, di questo male non ha colpa alcuna l' analisi , ma il suo abuso; come non ha colpa la sintesi , ma il suo abuso, dell' oscurità e spesso ancora della confusione d' idee, che s' incontra nelle trattazioni di quei filosofi, che, ignari del metodo analitico, o ad esso avversi per sistema, parlano in un modo così intero e complicato, che il loro discorso è come un terreno sodo, non rotto mai da vomero o zappa (2). Laonde ogni pericolo sarà evitato nella classificazione delle scienze, se le scienze incomplete si riguarderanno costantemente per quel che sono, cioè per altrettante membra delle complete ; di guisa che colui, che tratta una di quelle, non pretenda svolgere tutta intera una scienza, ma solo lavorarne una parte; e così lavorandola, avrà l' occhio all' intero corpo della scienza (3). L' uomo è uno, e però la scienza dell' uomo è pure una. Ma quest' uomo fu spezzato dall' astrazione, e se ne fecero molte scienze. Se quelli che le trattarono, le avessero riconosciute incomplete, ed avessero tenuto innanzi agli occhi l' unità dell' uomo, niun danno ne sarebbe riuscito; purchè non fosse poi mancato colui, che avesse raggiunte le membra ed illustrata l' unità umana, porgendo la teoria della scienza completa dell' uomo. Ma questo io non veggo che sia stato ancor fatto, almeno dai moderni. I fisiologi (1) ed i psicologi si sono bipartito l' uomo senza pietà; e ognuno credette d' averlo tutto; quindi i primi l' hanno sovente fatto un bruto, i secondi un angelo. Noi vogliamo riunire quest' uomo, così miseramente ammezzato. Non parlo degli anatomici. L' anatomia non è una scienza dell' uomo, neppure incompleta, perchè il cadavere non è parte dell' uomo; essa appartiene a tutt' altro gruppo di scienze, e non può aspirare che ad essere sussidiaria alle scienze, che hanno per oggetto l' uomo. La Storia dell' umanità non è propriamente scienza; ella è storia; tuttavia somministra una quantità di fatti preziosi alla teoria della natura umana. Anch' essa dunque appartiene alle scienze sussidiarie della scienza dell' uomo. Ma quale sarà il nome più conveniente da darsi alla scienza dell' uomo? Noi l' abbiamo già nominata « Antropologia »; l' etimologia della parola giustifica questa denominazione. Ma che scienza sarà in questo caso la Psicologia ? Secondo l' etimologia, questa parola suona scienza dell' anima . Ora l' anima non è tutto l' uomo, se per uomo s' intende la natura umana, o se si considera l' anima divisa dal corpo. In tal caso la Psicologia è una di quelle scienze, che abbiamo detto incomplete; e perciò in qualche luogo noi stessi asserimmo la Psicologia dover essere una parte dell' Antropologia, a quel modo come l' anima è una parte dell' uomo. Tuttavia se l' anima si considera unita al corpo, se si considera in tutte le sue relazioni col corpo, e se si prende la parola uomo a significare il soggetto umano , in tal caso si può dire che l' anima sia tutto l' uomo, poichè ella è il soggetto. Si può dire poi in ogni senso che nell' anima unita al corpo tutto l' uomo si contiene; poichè nel sentimento dell' uomo (e il sentimento appartiene all' anima) cade anche l' estensione (1), come suo termine e sua materia; sicchè è impossibile parlare compiutamente dell' anima, principio del sentimento, senza parlare di tutto intero l' uomo. Ciò che è fuori intieramente dell' anima è fuori dell' uomo, e se il corpo appartiene all' uomo è solo in quanto egli è nell' anima (2). Laonde la distinzione fra la Psicologia e l' Antropologia sembra priva di scientifica utilità. Non dubiteremo noi dunque di assegnare lo stesso posto alla Psicologia ed all' Antropologia nell' albero delle scienze filosofiche, considerando questi come due nomi della stessa scienza dell' uomo, anzichè come nomi di scienze diverse. Laonde il presente trattato, benchè inscritto del titolo di « Psicologia », non sarà che una cotale continuazione dell' « Antropologia » già pubblicata, nella quale lasciammo avvertitamente molte lacune, volendo allora esporre solamente quelle notizie antropologiche o psicologiche, che al servizio delle scienze morali ci sembravano necessarie. Ma qual' è la relazione della Psicologia e dell' Ideologia? I rudimenti di tutte le cognizioni umane sono il sentimento e l' essere intuìto . Sotto la denominazione di primi rudimenti intendo ciò che in qualsivoglia cognizione umana si trova, coll' attenzione della mente, essere di tal indole, che non viene dedotto da altra notizia precedente per via di raziocinio, ma è dato immediatamente dalla natura. Ora, dati immediatamente dalla natura sono il sentimento e l' idea. Il sentimento è dato nella natura dell' uomo; non è dedotto, nè deducibile per opera di raziocinio da alcuna cognizione precedente; anzi esso neppure è cognizione, ma diventa materia di cognizione, allorquando l' intendimento voltosi a lui, col suo atto intellettivo lo coglie, e così lo rende suo oggetto. L' idea , cioè l' essere in quanto è oggetto dell' intuizione mentale, è parimenti dato all' uomo da natura, non potendosi dedurre da nessun raziocinio, nè da nessuna astrazione, perocchè ogni raziocinio ed ogni atto d' astrazione lo suppone. Il sentimento ha natura soggettiva, l' essere intuìto è essenzialmente oggetto; perciò non può essere dato a niun soggetto che come oggetto , altrimenti cesserebbe d' essere quello che è, non sarebbe più l' essere intuìto. Essere dato ad un soggetto (per esempio, al soggetto umano) come oggetto, equivale appunto ad essere intuìto; e con tale intuizione è creata l' intelligenza; perocchè l' intelligenza non è altro che l' intuizione dell' essere, l' unione dell' oggetto al soggetto , nella quale quello rimane necessariamente distinto da questo (1). Di che consegue che ciò che è oggetto per essenza (2), l' essere, è la forma di ogni intelligenza, la prima cognizione, la parte formale della cognizione. E` per questo appunto che noi dicemmo che tutto lo scibile umano parte da due postulati , i quali sono: che « « sia noto l' essere » », e che « « sia data l' esperienza del sentimento, di cui si ragiona »(1) ». Di che seguita, parimenti, che tutto quello che sa o che può saper l' uomo, si divide in due parti: 1 in ciò che è dato all' uomo da natura; 2 e in ciò che l' uomo trae, e deduce col raziocinio, da ciò che gli è dato da natura. Il raziocinio infatti, di cui l' uomo fa uso, non può applicarsi a quanto sta fuori al tutto dell' uomo, ma solo a quanto è nell' uomo; e niente è nell' uomo se non, di nuovo, per raziocinio o per natura. Rimane che il raziocinio non trae finalmente le sue conseguenze da altro, se non da ciò che è dato all' uomo da natura. Ora non è dato all' uomo da natura se non il sentimento e l' intuizione dell' essere . Tutte le cognizioni adunque non sono che lo svolgimento di questi due principŒ: questi sono i soli materiali, con cui si fabbrica l' edifizio dello scibile. Ciò che in quei principŒ non fosse, non si potrebbe svolgere da essi; essi contengono adunque in germe tutte affatto le cognizioni umane; le contengono indistinte; il raziocinio non fa che distinguerle; il distinguerle pare un crearle dinnanzi agli occhi della mente. L' essere adunque, in quanto è oggetto della mente, ed il sentimento sono i due rudimenti di tutte affatto le umane cognizioni. Ora l' Ideologia tratta dell' essere, oggetto della mente; la Psicologia tratta dell' anima, che è il principio del sentimento umano. Queste due scienze sono adunque quelle che somministrano i rudimenti di tutte le altre. Tutte le altre si risolvono finalmente in queste due. Quando si domanda all' uomo: « onde affermate la tal cosa, onde la conoscete voi? »; egli potrà rispondere: « l' affermo, la conosco, perchè la ho dedotta col raziocinio da quest' altra »; incalzato: « onde conoscete quest' altra? », potrà dire ancora: « per raziocinio da un' altra », e così via, fino a tanto che sarà pur costretto di pervenire ai primi dati della natura; cioè l' ultima cosa nota, a cui egli si riferirà, sarà necessariamente l' essere intuìto dalla mente, o il sentimento; giunto a tali estremi, non v' è più deduzione possibile; alla domanda: « Onde conoscete l' essere? », ovvero: « Onde avete il sentimento? », egli non può rispondere altro se non: « io intuisco l' essere, e non lo deduco; io sento, e questo sentire non è conseguenza d' alcun raziocinio, anzi neppure d' alcuna cognizione ». Ed è perciò che in questi due ultimi rudimenti di tutte le umane notizie, è uopo cercarsi ancora la loro giustificazione, la loro propria certezza; e se quei primi dati sono certi, le altre notizie, che in quelli si trovano per raziocinio, sono pure certe, contenendosi i principŒ stessi del raziocinio nell' idea. Quindi noi abbiamo dimostrata la certezza di tutto il resto dello scibile umano, dalla certezza di quei due suoi inconcussi fondamenti; abbiamo anzi dimostrato che non può cadere in essi errore alcuno; che l' uomo è rispetto ad essi infallibile, perchè non dipendono dalla sua volontà, ma dalla sua natura (1). Se fosse vero quello che mi dite, l' uomo non potrebbe più conoscere cosa alcuna delle cose reali, che non cadono sotto i sensi, perchè le cose reali non sono comprese nell' essere intuìto dalla mente, e colla supposizione nostra neppure si trovano nel sentimento. - Rispondo distinguendo l' essenza (2) delle cose reali dalla loro realità . Quanto alla loro essenza, tutte le cose reali, anche quelle che non cadono sotto i sensi, convengono nell' entità , perocchè se non fossero in qualche modo enti, se non avessero alcuna entità, sarebbero nulla, e non cose, nè cose reali. Conoscendo dunque noi per natura che cosa sia essere, attingiamo dall' essere qualche notizia dell' essenza di tutte le cose, appunto perchè l' essenza dell' essere è in qualche grado e in qualche modo comune a tutte. Ma non possiamo certo conoscere una cosa reale, non possiamo cioè affermare che una cosa sussista, se non abbiamo qualche indizio che ce l' attesti, per esempio la testimonianza di persona, che vide o sentì quella cosa sussistente. Ora la detta testimonianza non può essere comunicata ad un uomo se non per via d' un sentimento, come sarebbe per la parola, o, se si vuol ricorrere ad un miracolo, per una rivelazione interiore di Dio, che ancora si riduce in un sentimento. Ma lasciando la rivelazione interna (a cui si può per altro applicare un ragionamento simile), e attenendoci all' esempio della parola, colla quale una persona ci attesta l' esistenza d' un ente che non cade sotto i nostri sensi; la sensazione della voce, che riceviamo coll' organo dell' udito, non è per vero un sentimento della cosa reale, di che ci si fa conoscere la sussistenza, ma ella è tuttavia un sentimento , il quale ci assicura che la persona che parla, sa che quella cosa esiste; la cognizione poi che noi abbiamo della veracità di essa, ci è sicura prova che è vero quanto ella ci dice, e però che la cosa da lei affermata sussiste. Ora poi la cognizione stessa della detta veracità, noi l' abbiamo per via di altri sentimenti, cioè per via di esperienze, che caddero sotto i sensi nostri, o immediatamente, o mediante altri segni ed indizi. Sicchè finalmente è da concludersi che noi possiamo conoscere ben anche la sussistenza d' un ente, che non cade sotto i nostri sensi; ma non possiamo però conoscerla senza avere un qualche sentimento, che ci dia indizio e prova di sua sussistenza. Io non vi domanderò come si possano dare indizi o segni di cose, perocchè so quello che mi rispondereste: cioè che le cose sono connesse fra loro, e che nell' essere stesso l' uomo già intende i nessi delle cose; mediante la qual cognizione a lui naturale, perchè la trae dall' essere, egli integra le sue cognizioni, aggiungendo a ciò che sa ciò che ancora non sa, come necessaria condizione di ciò che sa (1). Lascio da parte questa dottrina, che io vi concedo; vi concedo cioè spiegato il modo, onde l' uomo può servirsi d' una cosa nota, o d' una sensazione, a segno ed indizio che lo conduca ad un' altra. Tanto più che, quand' anche io non intendessi la spiegazione che voi ne date, non potrei tuttavia negarvi il fatto, non potrei negarvi che l' uomo usa veramente dei segni ed indizi, giungendo con essi a conoscere che sussistono delle entità, che i suoi sensi non gli rivelano. Ma io fo al vostro detto un' altra opposizione. Dico che un segno, un indizio sensibile, vi avverte che sussiste un ente, ma non vi dice però che sia. Eppure, anche degli enti che non sono mai caduti sotto i miei sensi, io so bene che cosa sono; e talora li conosco altrettanto e meglio che i veduti e sentiti da me stesso. A ragion d' esempio, io non fui mai a Costantinopoli; eppure tanto ne udii parlare e ne lessi, che meglio la conosco di Roma, la quale cadde sotto i miei sensi, ma solo di passaggio. Dunque ci deve essere fuori dei sensi qualche altra via da conoscere gli oggetti delle umane cognizioni; e non può essere che tutte si riducano a quei due rudimenti, che avete stabilito, il sensibile e l' essere noto all' uomo per natura. - Affine di prevenire appunto questa vostra difficoltà, io vi distinsi a principio fra il conoscere l' essenza della cosa , e il conoscerne la sussistenza o realità. Ora voi mi accordate che affine di conoscere la sussistenza (s' ella non mi è nota per natura, o da ciò che mi è noto per natura non posso indurla), mi bisogna un sentimento, almeno un segno sensibile che me la indichi; il qual segno, in quanto è sensibile, lo dà la natura, e non il raziocinio. La difficoltà vostra cade dunque sulla cognizione dell' essenza della cosa . Distinguete dunque fra cose, delle quali altre simili ci caddero già sotto i sensi, come sarebbe appunto la città di Costantinopoli, da voi recata in esempio, e cose che non caddero mai nel nostro senso, nè esterno, nè interno, come per un cieco nato sono i colori. Se trattasi di cose, di cui altre simili caddero sotto i nostri sensi, ne conosciamo l' essenza, applicando loro la cognizione delle cose altra volta percepite, e perciò ricorriamo al sentimento datoci dalla natura. Così accade che, avendo voi vedute altre città e tutto ciò che in una città si contiene, quando vi si narra di una città da voi non veduta, trasportiate colla vostra immaginazione queste notizie a vestire la sussistenza di quella, e vi componete nella mente la città, poniamo, di Costantinopoli, guidato dalle relazioni che ve ne danno i viaggiatori, colle specie di quelle città, che avete già percepite coi sensi, o su quel modello formate coll' immaginazione. Non è dunque in tal caso al sentimento che voi domandate i materiali della cognizione vostra di Costantinopoli? Che se poi trattasi di cose, le cui specie non sono mai cadute nel nostro sentimento, come è il caso dei colori rispetto al cieco nato, vi rispondo come da prima: « Altra cognizione dell' essenza della cosa, di cui vi è attestata la sussistenza, voi aver non potrete, se non quella che traete col pensiero dall' entità comune, nota a voi per natura; e dalla sussistenza indicatavi dalla testimonianza, e dalle relazioni fra la sussistenza e l' entità, e gli altri esseri noti per sentimento, sia che queste relazioni vi vengano date nella testimonianza, o le caviate colla riflessione ». Ecco tutta la cognizione che vi è possibile. Ma, avvertite, questa cognizione non è poi sì povera, come pare, perocchè la testimonianza, che v' è data di quella cosa, può farvene conoscere: 1 la sussistenza; 2 la determinazione, la limitazione, ed altre relazioni ontologiche di essa coll' essere, e con altre cose note, quale si è la relazione di causa ecc.; 3 finalmente, ciò che essa non è. Allorquando adunque coll' intendimento nostro, noi riferiamo all' essere, intuìto dalla mente, le varie cose reali percepite, facilmente veniamo a conoscere: Che alcune proprietà eguali debbono indispensabilmente trovarsi anche negli enti, che non cadono nel nostro sentimento, e la cui sussistenza ci è solo testificata; la quale indispensabile necessità ci si rende nota per la notizia a noi naturale dell' ente , perocchè, sapendo noi che cosa vuol dire ente , incontanente intendiamo che le cose attestateci non potrebbero essere, non sarebbero enti, se non avessero quelle proprietà. E queste proprietà comuni agli enti a noi cogniti per sentimento, ed a quelli altresì che a noi sono attestati, costituiscono il fondamento dell' analogia . Noi conosciamo adunque le cose da noi non percepite, per l' analogia che hanno con quelle che abbiamo percepite. Che alcune proprietà, che sono negli enti da noi percepiti col sentimento, debbono assolutamente escludersi dagli enti da noi non percepiti; e questo aggiunge una cotal cognizione negativa di essi per esclusione . Se a queste due vie aggiungiamo le altre due, quella della sussistenza per attestazione, e quella delle relazioni ontologiche attestateci, e da noi dedotte, potremo conchiudere: Che noi ci componiamo l' essenza a noi conoscibile degli enti, che non cadono nel nostro sentimento, e di cui non caddero nemmeno altri somiglianti: a ) per sensibili testimonianze altrui, che ce ne additano la sussistenza, o anche ci additano certe relazioni ontologiche cogli enti a noi noti per sentimento, certe analogie, e ciò che essi non sono; b ) per relazioni ontologiche , da noi stessi trovate coi detti enti mediante la riflessione; c ) per analogie cogli enti medesimi da noi trovate; d ) per esclusione , pure da noi trovata mediante la riflessione. Pigliamo l' esempio di questa specie di cognizione delle cose, a cui il sentimento nostro non giunge, dalla dottrina che possiamo avere di Dio per via di ragione. Noi ne conosciamo la sussistenza mediante relazioni ontologiche con ciò che conosciamo per sentimento, cioè col mondo, accorgendoci che il mondo deve avere una causa, perchè egli è, e non sarebbe, se non l' avesse. Ci dice tutto ciò l' essere a noi noto per natura, a cui riferiamo il mondo datoci dal sentimento (1). Relazioni ontologiche della causa del mondo sono del pari l' infinità , la necessità , la semplicità , ecc.. La causa del mondo sussiste; ma non potrebbe sussistere senza queste sue determinazioni; dunque ella le ha. Che non potrebbe sussistere come tale, cioè non potrebbe esser ente , noi lo sappiamo da ciò appunto, che sappiamo che cosa sia ente; e quindi che cosa si esiga per esser ente, e tale ente. Qual' è il concetto d' un ente infinito? Certo quello che abbia tutti i gradi dell' essere, quindi che non sia morto, ma abbia sentimento e intelligenza in sommo grado. Ma come conosciamo noi l' essenza del sentimento e dell' intelligenza? Noi la conosciamo per esperienza di ciò che accade in noi stessi, pel sentimento nostro proprio. Come possiamo dunque conoscere il sentimento e l' intelligenza di Dio? Non altrimenti che per analogia di ciò che deve essere in lui, col sentimento e coll' intelligenza che è in noi. Per analogia del pari dell' Essere supremo con tutti gli enti, raffrontati all' essere a noi noto per natura, rileviamo che a lui non deve mancare nè realità , nè idealità , nè moralità . Ma il concetto di Essere infinito ed assoluto, mediante le dette analogie già illustrato, riferito all' idea dell' essere che abbiamo per natura, ci si trasforma nell' Essere stesso, che nelle tre forme indiviso sussiste; perchè intendiamo (conoscendo noi l' essere) che non sarebbe essere assoluto, se non fosse l' essere stesso nelle sue tre forme; il che parmi il più alto concetto, che l' intelligenza umana possa farsi di Dio, dove si lasci a parte quello che ce ne dice la rivelazione. Or ecco come tutta la teologia naturale si riduca finalmente, come ai suoi primi rudimenti, all' essere noto per natura, e al sentimento . Dell' essere noto per natura tratta l' Ideologia, a cui si continua la Logica; del sentimento tratta la Psicologia. E` dunque necessario che tutte le scienze domandino a queste due prime i loro materiali; in queste due riducano tutto ciò che danno come cognizione positiva , cioè cognizione degli enti reali; da queste due ripetano la loro origine, e nella loro origine la loro certezza altresì; perocchè sono certe le loro dottrine, se si riducono, quasi mediante un' equazione matematica, ad altre dottrine certe per sè, senza bisogno di ragionata dimostrazione. Rimane ancora una difficoltà. La scienza del mondo non è anch' ella figliuola della percezione e dell' osservazione? Non somministra anch' ella dei primi dati, e però dei rudimenti dello scibile? La scienza del mondo, ossia la Cosmologia, è indubbiamente scienza di percezione e di osservazione; e se per mondo s' intenda tutto il creato, la stessa Psicologia diviene una parte materiale della Cosmologia, perocchè l' uomo è finalmente un membro del mondo. Ma altro è considerarsi le scienze secondo la materia che contengono, altro secondo il fonte da cui derivano. Se la Cosmologia si considera dalla parte del fonte, onde l' uomo la si produce, noi ci accorgeremo facilmente ch' ella scaturisce dalla stessa Psicologia, e ciò appunto perchè è scienza di percezione e di osservazione. E veramente chi percepisce le cose esterne, che compongono il mondo, è l' uomo, è l' anima. Nel sentimento dell' anima vi è una dualità: vi è un elemento soggettivo, e un elemento extra7soggettivo, che colla riflessione si cangia in un me , e in un non7me . In tutte le percezioni delle cose corporee noi distinguiamo questi due elementi, noi li sentiamo e li percepiamo contemporaneamente, e l' uno, quale opposizione e quasi limite dell' altro. Ora l' elemento soggettivo, ossia il me è l' anima, l' extra7soggettivo, il non7me , è il mondo corporeo. Dunque è il sentimento dell' anima, che ci fa conoscere la parte corporea dell' universo; questo universo si percepisce solo in quanto cade nel sentimento, come un eterogeneo; ed è perciò, lo diremo di nuovo, che il corpo è nell' anima, e non viceversa. Ora, se il mondo tanto si percepisce, quanto è ricevuto nel sentimento, dunque la cognizione, che noi abbiamo del mondo, benchè certa, è parte fenomenale, parte assoluta; cioè il mondo corporeo, quale noi l' abbiamo nella percezione, è un composto di elementi che poniamo noi stessi, e di elementi che ci son dati; e lo scernere questi da quelli è poi l' opera del ragionamento; pel qual solo noi troviamo quale sia la parte extra7soggettiva e indipendente da noi. Tale è la cognizione positiva, che noi possiamo avere delle essenze delle cose (1). Ma il mondo non consta di soli corpi, sì anche di spiriti. Ebbene, anche per questi si deve far ricorso alla Psicologia, perocchè l' uomo non può formarsi alcuna cognizione positiva di altri spiriti, se non partendo dal sentimento di sè stesso; conciossiachè lo spirito è sentimento. Parte dunque l' uomo dal sentimento di sè, e con questa cognizione positiva concepisce altri sentimenti, altri spiriti; e solo col ragionamento variamente se li compone. Anche alla Cosmologia dunque la Psicologia somministra i primi rudimenti; la Cosmologia nasce veramente nel seno della Psicologia, come il mondo conosciuto è nel seno dell' anima (2). Ora dal sapere che la Psicologia è quella scienza, che somministra a tutte le altre il rudimento reale delle umane cognizioni, come l' Ideologia è quella che somministra a tutte le altre il rudimento ideale , possiamo dedurre quale metodo a tali primitive scienze convenga. Esso non può essere che un metodo d' osservazione . Trattasi di rilevare dei fatti con esattezza, di distinguerne le parti, di paragonarli, di dedurre finalmente da essi delle conclusioni. In tutto ciò l' occhio della mente deve stare continuamente fisso sul fatto per vederlo bene, senza che l' immaginazione, durante l' osservazione, aggiunga, oscuri, o detragga nulla, per poterlo poscia attestare colla massima fedeltà, precisione, sagacità; facendone una descrizione rispondente in tutto alla verità della cosa. Ma che è da dirsi della divisione, che fece Cristiano Wolfio della Psicologia, in due scienze, chiamata l' una empirica , l' altra razionale ; la prima delle quali procede per via d' osservazione, l' altra per via di ragionamento? Questa divisione wolfiana, abbracciata con mirabile consenso dalla Germania, e tuttavia seguitata religiosamente dai filosofi di quella nazione, non solo ci sembra arbitraria, ma di più suggerita da alcune opinioni erronee, specialmente intorno alla natura dell' osservazione e del ragionamento . Si credette cioè di poter dividere al tutto l' osservazione dal ragionamento , quasichè fosse quella una via di conoscere separata affatto, e questo un' altra via di conoscere, che niun bisogno avesse di quella. Di più, a queste due maniere di conoscere supposte separabili ed indipendenti, si attribuì un diverso grado di certezza; e per lo più si pretese che l' osservazione inducesse una certezza piena e indeclinabile, e non così il ragionamento. Laonde lo stesso Wolfio avverte di avere separata la Psicologia empirica dalla razionale , affine di stabilire su quella, la quale contiene dottrine dimostrate coll' esperienza e però non controverse, le morali verità e le politiche (1). Sono questi, entrambi, errori sensisti, e il mantenersi così a lungo nella filosofia tedesca dimostra che il vizio di questa filosofia, che ha una veste sì speculativa, sì astratta, o piuttosto sì misteriosa, è nell' occulto sensismo, ch' ella tiene pur nei suoi visceri, e glieli corrode (2). Infatti i soli sensisti possono credere che si dia un' osservazione, che ci faccia conoscere qualche verità per via di sensazione, senza bisogno di adoperarvi la ragione; e molto più che le verità, venuteci da una osservazione di tal natura, sieno le sole sicure e fuori di controversia. Ma il fatto si è che non v' è osservazione, nè esperienza di sorta, che non abbia seco mescolata l' operazione della ragione, benchè sia difficile talora il discernervela. Lo stesso Condillac già s' era accorto che fra le nostre sensazioni si mettono dei giudizi inavvertiti (ed è la più bella cosa ch' egli abbia detto); e da lui fino alla recente operetta di lord Brougham sulla Teologia naturale (3), i filosofi sono venuti sempre più accorgendosi della moltiplicità di quei giudizi e raziocini, che, mettendosi fra le sensazioni nostre, ci somministrano la cognizione di molte verità, che noi poi erroneamente attribuiamo alle sole sensazioni. Che se, continuandosi su questa via, si fosse pervenuto fino ad avvertire e notar bene tutti questi giudizi celeri e furtivi, che accompagnano i sentimenti, il sensismo sarebbe caduto da sè stesso. Questo è ciò che ci siamo studiati di far noi, e il risultato delle nostre ricerche si fu la sicurezza che non si dà niuna osservazione meramente sensibile; ossia che, se la sensazione si spoglia da ogni atto d' intendimento che l' accompagna, nulla affatto ci fa conoscere, è un fatto che finisce in sè stesso, di cui non abbiamo neppur coscienza; perocchè la coscienza stessa della sensazione richiede una conversione dell' attenzione nostra intellettiva a ciò che passa nel nostro sentimento, ed un' affermazione conseguente, per la quale diciamo a noi stessi: « adesso sosteniamo la tal passione, il tal sentimento »; il che è un giudizio. Ma questo giudizio noi lo facciamo così spontaneo, così continuato al sentimento, che egli ci scappa al tutto inavvertito; non calendo punto a noi di conoscer lui, ma solo di conoscere per lui il sentimento, del quale ci formiamo così la coscienza. Ed è questo giudizio strettamente unito al sentimento, che costituisce la percezione intellettiva della sensazione (1), che è quanto a dire la conoscenza. Ora poi, che cosa è che giustifica questa parola interiore, che noi diciamo a noi stessi in occasione delle sensazioni: « Noi sofferiamo, noi sentiamo così e così »? Che cos' è che ne dimostra la certezza? Certo che la persuasione della certezza d' una tal parola ci è naturale, nè il più degli uomini ha bisogno d' altro per non dubitarne; ma quando si voglia una dimostrazione che quella persuasione non c' inganna, allora è uopo analizzarla, e vedere onde si forma, a che s' appoggia. Quell' analisi ci conduce all' essere , che noi intuiamo per natura, dove ogni ragionamento si fa evidente. Perocchè, avverato che noi nella cognizione possediamo l' ente, cioè per dirlo in altre parole, « sappiamo che ciò che affermiamo E` », in tal caso non possiamo più dubitare della verità, poichè « se è ciò che affermiamo », dunque è vero, non significando altro essere vero, che essere ciò che affermiamo (2). Dalle quali cose si trae che la certezza e la dimostrazione delle nostre osservazioni sensibili non giace altrove che nella forza di quel segreto ragionamento, che in esse sempre facciamo. Laonde conviene in tutte egualmente le scienze ricorrere all' autorità della ragione, ossia dell' idea dell' essere, ultima sede dell' evidenza, sia per accertare le verità di osservazione, sia per accertare quelle d' induzione e di conseguenza; il ragionamento è poi, in ogni caso, organo col quale componiamo le scienze; da lui non possiamo menomamente prescindere. Non si può dunque assegnare una differenza specifica di metodo fra la Psicologia empirica e la razionale, ma solo di grado; in quanto che ciò che si toglie a dimostrare nella prima è il frutto di un ragionamento meno lungo, e ciò che si toglie a dimostrare nella seconda è il frutto dello stesso ragionamento, che si continua al primo, deducendo nuove verità dalle precedenti. Ora poi questa differenza di grado non può dar luogo a due scienze, meglio che lo possa la divisione che fa Euclide in vari libri della sua geometria; i quali libri non sono certo altrettante scienze, ma solo gradi della scienza medesima. Ma da questo vero, che « il ragionamento è sempre l' organo, onde noi componiamo le scienze, sì d' osservazione che d' induzione »(1), noi vogliamo qui cavare una conseguenza importante, a chiarimento del metodo che è uopo seguire nella esposizione e distribuzione delle scienze filosofiche. Il semplice sentire non è osservare . L' osservare importa un atto della mente, che toglie a proprio oggetto un sentimento e si risolve in un giudizio. Questo atto della mente, giudizio o raziocinio, non è in fine che l' applicazione dell' essere ideale al sentimento, su cui ella colloca la sua attenzione. Ogni ragionamento adunque racchiude necessariamente due elementi: 1 l' essere ideale; 2 il sentimento, a cui si applica. La notizia dunque che si ha per via di ragionamento di una di queste due cose, non si può avere senza la notizia dell' altra; le due notizie dunque si pongono in noi contemporaneamente; questo è quello che noi chiamiamo sintesismo . E veramente, queste notizie, che noi ci vogliamo procacciare coll' opera del ragionamento (col quale solo nasce in noi la coscienza, e si compilano le scienze), non possono da principio avere che tre oggetti: 1 i sentimenti nostri corporei, o i loro termini corporei; 2 noi stessi, cioè i nostri sentimenti interiori; 3 l' idea dell' essere. Se sono i due primi gli oggetti del ragionamento, è chiaro che esso si compone di sentimenti e dell' idea dell' essere ad un tempo, perocchè quelli non potrebbero essere oggetti del pensiero senza di questa. Se poi si suppone che l' oggetto del ragionamento sia la sola idea dell' essere, in tal caso, o la supposizione si prende a tutto rigore, ed è assurda; o non si prende a rigore, ed entra un sentimento a rendere possibile il raziocinio. Dico che è assurdo il supporre un ragionamento colla sola idea dell' essere, senza niun altro elemento sensibile; perocchè l' uomo che dice qualche cosa intorno ad essa, o predica qualche cosa di essa stessa, o predica qualche cosa dell' intuizione che egli ha di essa, per esempio affermando appunto di averne la intuizione; se predica qualche cosa intorno alla intuizione di essa, il sentimento di sè stesso diventa un elemento del suo giudizio, o del suo ragionamento. Conciossiachè egli non può dire: « Io ho l' intuizione dell' essere », se non conosce già quell' Io, che nomina, e che è un sentimento sostanziale, un complesso di sentimenti elaborati, dirò così, dallo stesso intendimento. Se poi non parla dell' intuizione , ma dell' essere da lui intuìto, allora niente gli rimane a dire di esso, se non a condizione che lo paragoni prima colle cose sussistenti, e da questo paragone induca che da queste egli è diverso, ed inventi forse la parola ideale per contrassegnare questa sua diversità. Ora tutto ciò suppone la notizia di sentimenti. Conciossiachè egli non può già dire che « l' essere intuìto sia ideale »prima d' un tal paragone; chè la parola ideale niente altro fa, se non escludere la realità delle sostanze o cause efficienti. Nè può manco per avventura dire a sè stesso « l' essere è », perchè questa non è una parola interiore, ma una frase di lingua, che niente affatto significa, nulla aggiungendo il supposto predicato all' essere . Può ben la lingua costruire così dei giudizi, dove si trovi un predicato apparente; ma non può farlo la mente. Dunque il sintesismo è inerente ad ogni ragionamento. Dal che veniamo a conchiudere, che i due elementi del ragionamento che sintesizzano, cioè si tengono indisgiungibilmente insieme, non possono costituire due scienze esattamente e interamente separate fra loro; ma l' una e l' altra debbono costruirsi ad un tempo, spiegarsi a vicenda, intendersi con un medesimo atto dello spirito. Le scienze, che trattano dei due primi elementi del ragionamento, abbiamo detto essere l' Ideologia e la Psicologia . L' una dunque di queste ha bisogno dell' altra. La teoria dell' idea (essendo dottrina riflessa e di ragionamento) non si può intendere senza la teoria dell' anima, che viene dall' idea informata; e la teoria dell' anima è del pari incognita, se la teoria dell' idea non le si congiunge a illustrarla. Quindi nell' Ideologia ponemmo assai cose appartenenti alla Psicologia, come nella Psicologia dovremo di continuo far uso di notizie ideologiche. Ma qui insorgeranno non pochi dubbi, ci si rivolgeranno non poche questioni. Se l' una delle due cose non si può intendere senza l' altra, quale direte voi la prima? E si possono esse dire due cose ad un tempo? E dovendo dimostrare la verità di entrambe, da quale comincerete? Come potrete dimostrare la verità d' una di esse, quando non è ancora dimostrata la verità dell' altra, che pure vi è gioco forza introdurre nel vostro ragionamento? Non dissimulo l' importanza di queste questioni, e la difficoltà di rispondervi adeguatamente; ma il lettore già sa che io riguardo come un avanzamento della scienza ogni difficoltà che viene proposta, la quale se è grave e in apparenza insolubile, contiene sempre un segreto prezioso. E tali mi sembrano essere quelle ora proposte. Rispondo, adunque, che vi sono certamente delle cose, delle quali non si può intendere l' una senza l' altra, come avviene di tutti i concetti relativi, poniamo di quelli di causa e d' effetto, e che però s' intendono contemporaneamente con un solo atto d' intendimento. Ma quando essi si vogliono significare in parole, allora sembrano separarsi e dividersi per l' imperfezione delle parole, colle quali si prende a significarli; e tuttavia l' intendimento supplisce da sè al difetto delle parole, concependo per intero la cosa, quando la parola incominciò appena a significarla. Così se vien pronunciata la sola parola effetto , o la sola parola causa , l' intendimento concepisce tosto ciò che viene espresso, benchè non possa concepire l' effetto senza la causa, nè la causa senza l' effetto; ma il vocabolo di uno di questi concetti basta a richiamare la sua attenzione su tutti e due (benchè non una attenzione di egual grado), che, legati insieme per natura, sono alla mente una cosa sola, una sola relazione. Quanto poi alla certezza delle dottrine correlative ed alla maniera di dimostrarle, è da stabilire il principio che « la certezza viene da quello stesso fonte onde viene la cognizione »; poichè conoscere e conoscere la verità è il medesimo; giacchè chi non conosce la verità, non conosce (1). Di qui procede la conseguenza che, trattandosi di dottrine correlative, che si conoscono ad un tempo col medesimo atto dell' intendimento, perchè sostituiscono alla mente un solo concetto complessivo, non può accadere che l' una si provi od accerti prima dell' altra, ma ricevono la loro certezza tutte due insieme dalla luce della verità, che ad entrambe è comune. Questa risposta vale pei concetti e per le dottrine correlative. Ma da questo differisce alquanto il caso, in cui la sintesi abbia luogo non già fra due concetti, o fra due cognizioni, ma fra la forma e la materia della stessa cognizione, come accade nella percezione intellettiva, in cui si unisce un sentimento coll' essere intuìto dalla mente, e si pronuncia un solo giudizio, che dice: « sussiste un ente ». In questa percezione la forma, cioè l' essere, è noto alla mente anteriormente; è cognizione per sè, cognizione essenziale, non ha bisogno del sentimento per essere tale. All' incontro il sentimento, o per dir meglio, l' ente reale caratterizzato dal sentimento , si rende a noi noto mediante l' essere. Onde poi abbiamo la notizia di lui, indi anche ne abbiamo la certezza, e ne caviamo la dimostrazione. Perocchè la dimostrazione si può condurre così: la coscienza ci attesta che v' è un sentimento. Ma la coscienza non ci potrebbe ingannare? Vediamolo. Che cosa vuol dire: la coscienza ci attesta che v' è un sentimento? Vuol dire che noi conosciamo, affermiamo che c' è un sentimento. Questa affermazione: « c' è un sentimento », a che si riduce? Ad affermare l' identità fra l' essere e il sentimento. Il dir questo non è altro che dire che il sentimento non è il nulla, perocchè l' opposto dell' essere è il nulla. Ora, se alle voci nulla e sentimento s' affiggono due concetti, questi sono contrari; come pure, se alle voci essere e sentimento s' affiggono due concetti, questi sono pel fatto stesso identici (eccetto che nel primo vi è di più che nel secondo, e perciò coll' affermazione si restringe al sentimento, e così ristretto s' identifica). Se non s' affiggono concetti a quelle due parole, è tolto via il pensiero. Se è tolto via il pensiero, neppure l' errore è possibile. Dunque non è possibile che sia erronea la proposizione, che « fra il sentimento e l' essere v' è identità (nel modo spiegato) »; o quell' altra eguale: « c' è un sentimento ». Questa dimostrazione tutta si fonda sulla notizia dell' essere; l' anima, intuendo l' essere, vede che tutto a lui s' identifica, e identificato coll' essere, acquista la verità e certezza stessa dell' essere. La verità, la certezza, l' evidenza della testimonianza della coscienza, trae origine dall' essere che la informa, senza il quale la coscienza non sarebbe, come non sarebbe alcun atto intellettivo. E come lo spirito vede l' essere, così vede altresì collo stesso sguardo l' identità delle cose reali coll' essere; e qualora questa visione è riflessa, e di cosa a noi unita, si dice coscienza (1). Ma qui si ponga attenzione. L' intuizione dell' essere è il fatto posto dalla natura, il fatto della cognizione. Il fatto della cognizione non ha bisogno certamente di dimostrazione; perocchè dimostrazione vuol dire « riduzione di ciò che si crede conoscere al fatto della cognizione ». Quando ciò che si crede conoscere è ridotto al fatto del conoscersi, non è più che si creda conoscere, ma si conosce. Tuttavia l' uomo, che non meditò ancora sopra sè stesso, non sa che la cosa sia così; ed è l' Ideologia e la Logica che gli dimostra ridursi a questo ogni dimostrazione. Ma l' Ideologia e la Logica, che n' è una cotale continuazione, non si possono esporre senza introdurre percezioni, testimonianze della coscienza, ecc.. Non si ricade dunque nel circolo? - Menomamente no; perocchè in quelle scienze altro non si fa che dirigere l' attenzione della mente ad osservare le percezioni, ecc.; e non è necessario che si adoperi una verità dimostrata precedentemente a dirigere l' attenzione, bastando uno stimolo qualsiasi, atto a produrre un tale effetto, fosse anche uno stimolo cieco, fosse anche un errore. Così se un uomo con una menzogna m' induce a guardare un oggetto, io veggo l' oggetto altrettanto, quanto se fossi stato indotto a guardarlo da una verità. Ottenuto poi che la mente osservi le percezioni , senza uscire dall' osservazione stessa, queste vengono accertate, perchè esse non sono che « l' identità del sentimento coll' essere manifestata all' uomo »; onde la percezione rimane identificata col fatto del conoscere, quindi non è una credenza di conoscere, è lo stesso conoscere. A malgrado adunque del sintesismo che passa fra le dottrine ideologiche e psicologiche, le une e le altre sono fornite di certezza, e ricevono, senza cadere in alcun circolo, la più rigorosa dimostrazione. Venendo or dunque a parlare della Psicologia, ond' ella incomincierà? Quale sarà la sua sfera? Noi abbiamo già osservato che l' attenzione del nostro intendimento è chiamata a fissarsi sull' anima dai sentimenti nuovi e particolari, che in questa si formano, dal passare ch' ella fa dal non sentire al sentire, cioè dal non avere una data sensazione accidentale, all' averla. Queste mutazioni, che avvengono in lei e che richiamano la sua propria attenzione, e la ripiegano sopra di sè, producono in essa la coscienza, la quale rivela al filosofo le dottrine intorno all' anima. La coscienza dunque è il fonte prossimo della Psicologia. Ma il filosofo non si contenta affatto delle sole prime deposizioni della coscienza, dalle quali egli apprende ciò che passa in sè stesso. Vuole di più connettere i sentimenti e le operazioni dell' anima, e da essi levarsi a conoscere l' anima stessa, che ne è il soggetto e in gran parte la causa, levarsi a formarsene il concetto, che gliene dia l' essenza conoscibile , e gliene faccia distinguere la natura. Perocchè, quando il filosofo è pervenuto a fissare l' essenza della cosa di cui discorre, egli allora ne ha trovato l' ultima ragione intrinseca, ha discoperto il principio di tutti i ragionamenti, che intorno a quella cosa si possono fare. E questo è appunto filosofare, trovare l' ultima ragione nel genere di cui si parla, trovare il principio del discorso, e con esso ordinare a sistema le dottrine, che da quel principio s' ingenerano e si reggono. Ora, salita la mente all' essenza della cosa, da questa altresì ella discende, secondo il corso delle operazioni che ne procedono. Onde conosciuta l' essenza dell' anima, e quindi la sostanza, può il pensiero del filosofo farlesi compagno nel suo sviluppo, e notare le leggi che la sostanza segue, operando e svolgendosi. Finalmente, qualora si notino fra le modificazioni che nell' anima ridondano, quali effetti di sue azioni e passioni, quelle che la deteriorano o l' ammigliorano, allora la mente collo studio di esse è condotta a vedere per quali gradi l' anima scenda al basso, od ascenda alla cima della sua perfezione, a cui ella è fatta; e quindi la meditazione filosofica, seguitando in suo viaggio l' anima stessa al doppio estremo del bene e del male, giunge a formarsene l' Ideale (1), a contemplarla cioè pervenuta a tutta la sua perfezione possibile, o a risolvere almeno la questione: se la perfezione dell' anima umana possa avere un termine. Dalle quali considerazioni si scorge che tutte le dottrine, onde si compone la Psicologia, si possono convenientemente disporre in tre parti, le quali trattino della natura dell' anima, dello sviluppo dell' anima, e dei destini dell' anima. Dove vi è il principio , il mezzo , ed il fine dell' attività dell' anima umana e dell' umanità stessa. Tale è lo schema perfetto della Psicologia. Ma i destini dell' anima trascendono a vero dire tutti i limiti della natura; e però noi ci riserberemo a parlarne nell' « Antropologia soprannaturale ». Rimane adunque che la presente opera nostra si restringa alle due prime parti, delle quali la prima ragioni circa la natura dell' anima, la seconda circa il suo svolgimento. Alle definizioni premesse ai tre libri dell' Antropologia, che noi supponiamo note al lettore, conviene aggiungere le seguenti, a intelligenza di questi libri di Psicologia, che fanno seguito a quelli. Psicologia è la scienza dell' anima umana. Anima è il principio d' un sentimento sostanziale7attivo, che ha per suo termine lo spazio ed un corpo. Corpo è una forza diffusa nell' estensione, ossia spazio. Forza è ciò che produce una passione nel sentimento o nel suo termine esteso. Ad alcuno parrà che noi, definendo così la forza, veniamo a disconoscere quell' effetto della forza corporea, per la quale i corpi bruti, agendo reciprocamente, si modificano. Ma la difficoltà svanisce, se il lettore avrà presente quanto abbiamo intorno a ciò scritto altrove (1). Sostanza è quel primo atto di un ente, che lo costituisce, pel quale anch' esso si concepisce, senza bisogno che la mente per concepirlo lo collochi in un' altra entità (1). Perciò la comune definizione, che la sostanza « è ciò che esiste per sè », deve intendersi così che quel per sè non si prenda in universale, ma ristrettivamente, cioè in relazione all' entità, di cui ella non ha bisogno per essere concepita. Sostanza è l' atto onde sussiste l' essenza (2), sia che quest' atto si consideri realizzato, o solo possibile a realizzarsi (nell' idea). Quindi vi sono due maniere di sostanze, come vi sono due maniere di essenze sostanziali. Certe essenze sostanziali pongono una sola entità indivisibile, certe altre pongono più entità in uno congiunte, l' una delle quali è principale e costituente il soggetto. Se l' entità meno principale è separata dalla principale, ella ha perduta la sua identità; allora ella si dice un' altra sostanza, e più propriamente un' altra forma sostanziale; per esempio, l' anima umana è un' essenza, risultante dal principio intellettivo e supremo e dal principio sensitivo7animale; dove il principio intellettivo è l' entità principale, costituente il soggetto. Ora questo principio sensitivo è una entità divisibile e che può stare da sè, come si scorge nelle bestie. Ma il principio sensitivo nell' uomo e nel bruto non è identico, perchè se nelle bestie si può considerare come sostanza, nell' uomo riceve un' altra forma sostanziale dalla sua unione col principio intellettivo, e perciò non è più la sostanza di prima, ma parte di un' altra sostanza. Accidente è un' entità che non si può concepire se non in un' altra entità, per la quale esiste, e alla quale appartiene. Sebbene l' accidente si possa per via d' astrazione concepire in separato dalla sostanza, tuttavia la mente non può far ciò, se prima non l' ha concepito unito alla sua sostanza (3). Quando poi lo considera astrattamente, la mente stessa è necessitata, o di conservare la notizia della sostanza a cui va unito, o di supporre una sostanza in genere, a cui aderisca. Dunque la forza, per la quale sola si concepisce il corpo, ci fa conoscere il corpo come una sostanza. L' anima umana è il principio d' un sentimento sostanziale attivo, che, identicamente il medesimo, ha per suoi termini l' estensione, e in essa un corpo e l' essere; e quindi che è sensistiva ad un tempo, ed intellettiva (razionale). Intuizione è l' atto (ricettivo) dell' anima, pel quale ella riceve la comunicazione dell' essere , in quanto è intelligibile, ossia ideale. Questo atto è chiamato da Aristotele intelligenza , e dice che « « l' intelligenza è degli indivisibili »(1) », chiamando indivisibili le essenze delle cose, che si vedono nelle idee. Onde, presso gli Scolastici, « cognitio simplicis intelligentiae » viene quanto a dire « cognizione dei possibili ». Quindi Kant pervertì il linguaggio filosofico, usurpando la parola intuizione a significare la percezione sensitiva; e anche in questa alterazione del senso della parola fece assai bene conoscere il sensismo, che giace nel fondo del suo sistema, dando al senso l' atto proprio dell' intelletto. Percezione sensitiva è l' atto del sentimento, che riceve in sè una forza extra7soggettiva, atta a modificarlo. Percezione intellettiva è l' atto, con cui l' anima razionale afferma (abitualmente o attualmente) una realità sentita. - Chiameremo percipienza la facoltà corrispondente. Perciò S. Tommaso definì ottimamente la proprietà di questa parola, dicendo: « perceptio experimentalem quamdam notitiam significat (1) ». Realità dell' essere è l' essere, in quanto è sentimento, o in quanto ha la forza di produrlo o di modificarlo. La percezione è dunque la comunicazione di due realità, l' una delle quali è senziente, l' altra sensifera. Sussistenza è l' atto proprio dell' essere reale, ossia è l' atto col quale un essere è reale. Questa e le precedenti definizioni indicano i significati posti ai vocaboli, che si definiscono non dal nostro arbitrio, ma dall' uso costante e comune dei secoli. Noi non abbiamo fatto che sceverare le improprietà , nelle quali caddero e cadono gl' individui, che parlano o scrivono; ma non la moltitudine dei parlanti e degli scriventi. Così tutta l' antichità pose la questione degli universali in questo modo, nel quale la ripete Porfirio nell' introduzione ai predicamenti di Aristotele: « utrum universalia SUBSISTANT, an in nudis intellectualibus posita sint »; dove il subsistere è preso manifestamente per indicare l' atto, pel quale un ente è reale , in contrapposizione dell' atto, in cui un ente è meramente ideale ; perocchè l' essere ideale non è già un nulla, come le sole persone materiali possono darsi a credere, ma è una maniera di essere , diversa però da quella che si chiama reale. La questione riproposta da Porfirio fu agitata da tutte le scuole, in quei termini appunto, sempre usando il sussistere in contrapposizione dell' essere idealmente , o anche mentalmente. Del pari, la definizione da noi data dei vocaboli reale, realità , esprime la proprietà di parlare degli antichi filosofi, dagli Scolastici fedelmente ritenuta. Rechiamo un esempio tratto dagli esordi della Scolastica, cioè dall' operetta di Gerberto (m. 1003), sulla questione proposta dall' imperatore Ottone III, se si possa dire che far uso della ragione sia attributo dell' ente razionale , come vuole Porfirio nel « De rationale et ratione uti, libellus (2) ». In quell' operetta Gerberto espone la sentenza di Aristotele sulla distinzione del possibile e del reale , dicendo che questo filosofo ammette delle possibilità che possono essere senza realità , e delle altre possibilità che non possono essere scompagnate dalla realità , e finalmente delle possibilità che non possono essere mai realmente; le quali ultime sono gli astratti . Tutta questa maniera di parlare mantenuta dalla Scuola, anzi da tutti i filosofi fino a noi, dimostra che essi presero il possibile o ideale, e il reale, nel senso che noi attribuiamo a queste parole; e non cadde mai nella loro mente di confondere il possibile col nulla . Il possibile adunque, ossia l' ideale , e il reale sono due modi primordiali dell' essere da tenersi ben distinti. Noi poi abbiamo di più osservato, che la parola possibile non esprime propriamente l' idea pura, ma esprime l' idea accompagnata da una relazione , che vi pone la mente nostra nel paragonarla col reale (1). L' Io è un principio attivo in una data natura, in quanto egli ha la coscienza di sè stesso, e ne pronuncia l' atto. Nella definizione data nell' « Antropologia (2) » fu definito l' Io un principio attivo supremo . Ora qui si noti che si dice supremo , intendendo di una supremazia entro la sfera della natura umana. Si potrebbe anche aggiungere nella definizione dell' Io la qualità di principio universale , purchè si aggiungesse che non sempre è universale come principio attivo , ma solo come principio, sia poi passivo, o sia attivo. Infatti quando l' uomo dice: « io patisco un dolore o un piacere », egli esprime un principio della passione che soffre, non dell' azione. E benchè anche nel patire il principio ha una certa attività, tuttavia questa specie d' attività non si deve confondere coll' attività propriamente detta che fa, e non patisce. Natura è tutto ciò che entra a costituire e mettere in atto un ente. Di qui si raccoglie la differenza fra sostanza, natura e soggetto . La sostanza è l' atto primo, pel quale un' essenza sussiste. Ma la natura abbraccia di più tutto ciò che è necessario al soggetto per sussistere, e perciò abbraccia anche il termine necessario dell' atto, ond' egli sussiste. Per esempio, l' atto onde sussiste un corpo bruto, è la forza, e in questo sta la sostanza di esso. Ma la natura del corpo abbraccia di più anche l' estensione, in cui quell' atto, che si chiama forza, deve poter diffondersi. La natura abbraccia anche gli accidenti, non però presi singolarmente, i quali possono mancare, ma presi nel loro complesso quando sono necessari. A ragion d' esempio, un corpo può esistere senza ch' egli abbia la forma rotonda, e però questo singolare accidente non entra a costituire la sua natura. Ma il medesimo corpo non può esistere senza qualche forma, e così la forma in generale entra nella natura del corpo, benchè non appartenga alla sua sostanza. Il soggetto è il principio attivo della sostanza senziente. Si esige dunque, perchè una sostanza si possa dire soggetto: 1 ch' ella sia sentimento; 2 ch' ella si consideri in quanto è principio di attività. E questo secondo carattere distingue il soggetto dalla natura sensitiva; perchè la natura sensitiva abbraccia anche il sentito , necessario acciocchè esista un sentimento sostanziale; ma il soggetto non è che il senziente , perchè il solo senziente ha ragione di principio. Una delle principali cagioni, che rendono difficili e talora inestricabili le questioni filosofiche, si è che il pensatore, il quale esercita l' intendimento intorno ad un oggetto, obbligato com' è a riceverlo dalla sua propria mente che lo concepì (e se concepito non l' avesse, niuna meditazione su quello gli sarebbe possibile), ne lo riceve con pienissima buona fede, non dubitando che esso sia tale, nè più nè meno qual' è in natura, o perchè non riflette che è la mente che glielo dà, e non la natura; o perchè egli ha preconcepita la opinione che la mente glielo dia fedele, tale quale glielo darebbe la natura stessa, se questa immediatamente, e quasi colle sue proprie mani, dar glielo potesse. Eppure è indubitabile che la mente, porgendoci gli oggetti innanzi al pensiero, non ce li porge tutti tali quali sono fuori della mente, ma quali essa ce li ha in parte fatti per le leggi soggettive del suo essere e del suo operare. Conciossiachè nello stesso tempo ch' ella ha per suo primo oggetto la verità, che mai non l' inganna, ella ha pure la propria natura, che le impone alcune leggi, le quali non le tolgono certo il possesso del vero, ma le rallentano il passo dal conseguirlo del tutto sincero, conseguendolo solo allora, quando coll' aiuto della luce oggettiva che in lei risplende, ella discerne dentro ai suoi pensieri che cosa è opera propria, e che cosa, tolta via l' opera propria, le rimane. Quindi una delle più accurate investigazioni del filosofo, dove egli ha bisogno di maggior vigilanza ed acutezza, deve esser quella di sceverare prima di tutto in ogni oggetto, su cui vuol filosofare, quanto appartiene al lavorìo della mente, e quanto appartiene all' oggetto medesimo tutto nudo, tratto fuori da quei sottilissimi veli, in cui l' avvolse, quasi direi come in fitta ragna, la mente stessa. Perocchè ognuno che filosofa, voglia o no, deve partire dallo stato intellettuale, ov' egli si trova (1); nè può a meno di ricevere, come dicevamo, l' oggetto, quale lo ha nella mente, allora appunto che a filosofare incomincia. Anche noi siamo dunque in questa necessità, ora che togliamo ad esporre la dottrina dell' anima umana; non possiamo altro che partire da quel concetto dell' anima che pur ci siamo già formati; e quindi ci è di mestieri prima di tutto vedere se l' anima, da noi concepita, sia propriamente l' anima quale sta in sè senza la nostra concezione, senza quello che la nostra mente le può avere aggiunto in concependola. Ora io non posso dubitare che io stesso che sento, che penso, che parlo, sono l' anima. L' anima dunque, come al presente io la concepisco, è quell' essere che intendo esprimere col monosillabo Io . Ma questo Io mi esprime propriamente l' anima, senz' altra aggiunta lavoratale intorno dalle operazioni della mia mente? Ecco ciò che non si può rilevare se non dall' analisi del concetto che esprime l' Io . E questa analisi noi l' abbiamo fatta, e ce ne risultò che l' Io non esprime solamente l' anima , ma l' anima unitamente a molte relazioni, risultanti da più atti mentali, necessari a farsi dall' uomo, prima ch' egli possa pronunciare sè stesso con quel monosillabo. Noi rimettiamo il lettore alla detta analisi (2), aggiungendo le seguenti osservazioni per confermarla e perfezionarla. Colui che dice Io (intendendo ciò che dice), fa un atto interiore, col quale pronuncia l' anima propria. Il monosillabo Io è dunque « il segno vocale, pronunciato da un' anima intellettiva (o più generalmente da un soggetto intellettivo), di un atto suo proprio, quando interiormente rivolge l' attenzione a sè stessa e si percepisce ». Fermandoci qui, già si vede: Che l' anima propria di colui che si pronuncia dicendo Io , è un' anima reale. - L' Io dunque non esprime una pura idea, non esprime solo il concetto dell' anima, ma ne esprime la percezione; quella voce Io aggiunge a ciò che esprime il vocabolo anima (idea, essenza dell' anima) la realità percepita. Che l' Io non è la percezione di un' anima qualsiasi, ma dell' anima propria. - La parola Io adunque al concetto generale dell' anima unisce ancora la relazione dell' anima a sè stessa , relazione d' identità; ella contiene dunque un secondo elemento distinto dal concetto dell' anima, è un' anima che percepisce sè stessa, si pronuncia, si esprime. L' anima non si rivolge sopra di sè, nè si percepisce se non eccitata e tirata da qualche nuovo e particolare sentimento, che in essa insorge, sia poi questo passivo od attivo; perocchè il solo sentimento sostanziale dell' anima, naturale com' è ed uniforme, non è idoneo ad eccitare l' attenzione dell' anima stessa; la quale attenzione è un atto nuovo e particolare, e però esige una causa sufficiente, uno stimolo nuovo e particolare che la susciti. L' anima dunque che dice Io , non pronuncia sè stessa qual' è nello stato suo primitivo, ma già posta in uno stato di attività sopravvenutole, accidentale; così pronuncia sè stessa modificata, paziente, operante. L' Io dunque esprime l' anima coll' aggiunta di un terzo elemento, il quale è una modificazione a lei venuta per via di passione o d' azione; e in generale esprime « l' anima passata già ad atti secondi », l' anima non involta nella sua potenzialità, come ella si trova a principio, ma in attualità. Infatti l' esperienza dimostra che, quando gli uomini incominciano a pronunciare Io , non lo pronunciano mai solo, ma unitamente al verbo che esprime la loro azione, poniamo « io sento, io voglio, io penso, io opero, ecc. »; ed è solamente l' opera dell' astrazione e dell' analisi, che sopravviene più tardi a separare l' Io dal suo verbo, considerando ciò che esprime questo monosillabo, isolato e preciso dal discorso, senza il quale però nel fatto non si trova. Forza è dunque conchiudere che egli esprime il principio delle operazioni dell' anima, ossia l' anima in quanto è principio delle sue varie operazioni. Di più, se dicendo Io , l' anima esprime sè stessa operante, se viene a dire « quegli che fa la tal cosa, per esempio, che vuole, sono Io », questa espressione racchiude ancora un quarto elemento, oltre il semplice concetto dell' anima; perocchè ella si può tradurre e sciogliere in un discorso così: « quegli che vuole è quel principio medesimo che percepisce sè stesso, in conseguenza di che dice Io ». L' Io racchiude dunque un' altra riflessione, e per essa un' altra relazione d' identità, per la quale chi parla e pronuncia l' Io , intende che egli, che si percepisce operante, è un essere identico a quello stesso che opera (1). Riassumendo adunque tutte le differenze, che passano fra ciò che significa la parola anima umana , e ciò che esprime la parola Io , noi abbiamo: Che anima umana esprime un semplice concetto generale dell' anima, l' essenza dell' anima. Che Io esprime: Una percezione intellettiva dell' anima, nella quale, come in ogni altra percezione, oltre esservi il concetto generale della cosa, vi è l' affermazione della realità data dal sentimento. Non ogni percezione intellettiva dell' anima, ma la percezione che un' anima fa di sè stessa, quando contempla il sentimento che la costituisce nell' essere, e però si conosce come un ente. Una percezione di sè stessa non nello stato primitivo, in cui non sono ancora concesse le speciali potenze, ma in uno stato di attività; esprime l' anima, che percepisce sè stessa come principio di sue operazioni. Finalmente esprime l' anima conscia della propria identità fra sè percipientesi e sè operante, o atteggiata ad operare. Eppure nessun' altra via noi abbiamo per giungere alla cognizione dell' anima se non quella di partire dall' Io . E` nella coscienza dell' anima nostra propria che possiamo trovare che cosa sia l' anima in generale, perocchè la coscienza di noi stessi è quella che ci somministra la notizia del sentimento dell' anima , che è uno dei due primi rudimenti delle nostre cognizioni. Di vero, se noi non sentissimo in noi stessi l' anima, non la percepiremmo; e se noi non la percepissimo, neppure potremmo raccoglierne altronde la cognizione positiva; le parole, i segni coi quali qualche maestro ce ne vorrebbe comunicare la notizia, non avrebbero valore per noi se non per darcene meramente quella cognizione negativa, che abbiamo descritta. Che cosa ci resta dunque a fare, per acquistarci il concetto vero e puro dell' anima umana? Meditare sull' Io , dove abbiamo la consapevolezza dell' anima nostra propria; e spogliando quella nostra percezione, che dall' Io viene espressa, di tutto ciò che vi è in essa di straniero al concetto generale dell' anima, cavarne netto e solo il concetto che ricerchiamo. Accingiamoci dunque all' opera. In primo luogo, quando l' anima dice: « io opero », afferma sè stessa operante. In che modo si afferma? Col pensiero, perocchè affermare è pensare . Ma poichè l' anima in questa operazione pensa sè stessa, perciò l' affermarsi operante involge una riflessione dell' anima sopra sè stessa. Se l' anima non facesse questa riflessione, non pensasse punto sè stessa, ella non si conoscerebbe, che è quanto dire, non avrebbe la coscienza di sè stessa. Ora la coscienza di sè stessa è essenziale all' anima? Per rilevarlo conviene vedere se le sia essenziale il pensiero riflesso sopra sè stessa. E` certo che il pensiero riflesso sopra sè stessa non è essenziale all' anima umana; è certo che non è nato con lei, che non è seco incominciato, che vi fu un tempo, in cui l' anima non si conosceva, non aveva di sè consapevolezza alcuna; seguì un' altra età, in cui ella cominciò a ritorcere il pensiero in sè, dopo che questo pensiero aveva avuti per suoi oggetti cose esteriori diverse da sè. Non si deve adunque confondere la coscienza dell' anima coll' anima, e molto meno si può confondere coll' anima quell' atto, col quale l' anima dice Io ; di nuovo, non si deve confondere la riflessione dell' anima coll' anima stessa. Coscienza, Io pronunciato, riflessione, sono accidenti dell' anima, non sono la sostanza dell' anima, che precede realmente a tutte quelle sue accidentali modificazioni. L' aver confuse queste coll' anima è il fonte immenso di tutti i traviamenti e i deliri, in cui si perdette e si perde la scuola germanica. Avendo Reinhold proposto il principio della coscienza, Fichte ridusse l' anima alla coscienza stessa, e così convertì l' anima in una riflessione; ma poichè la riflessione non è che un accidente, svanì dalla sua filosofia la sostanza, rimanendogli in mano dei puri accidenti. Onde egli stesso pervenne nella fine dei suoi ragionamenti a conchiudere che « non esiste alcun essere, ma solo immagini, e che ogni realità è un sogno, e il pensiero è un sogno di quel sogno ». Da questo labirinto non uscì più la filosofia tedesca. Fichte cominciò da questa proposizione, che contiene l' errore indicato: « l' Io pone sè stesso ». La proposizione è manifestamente assurda, perchè suppone che l' Io operi prima d' esistere; ora certo verun ente può porre, può creare sè stesso. Egli avrebbe dovuto dire: « l' anima pone l' Io », poichè questa proposizione significherebbe: « L' anima afferma sè stessa, e così si cangia in un Io , perchè l' Io è l' anima affermata da sè stessa ». In tal modo si distingue l' Io dall' anima, in quanto che l' Io è l' anima, vestita di quella riflessione colla quale si afferma. Ora niente di strano che l' anima produca questa riflessione; ma bene riesce al sommo strano che l' anima sia l' Io , cioè sia l' anima riflessa, prima ancora che ella abbia fatto la detta riflessione. Tuttavia, posciachè l' uomo che filosofa è già un Io bell' e formato, certo gli riesce non poco difficile a disfare in certa maniera sè stesso, e persuadersi che il suo Io sia fattizio, sia uno stato accidentale e non essenziale dell' anima, o per dir meglio, sia l' anima costituita in condizioni accidentali. Egli sarà presto ad argomentare che l' anima, che dice Io , non afferma un' anima qualsiasi, ma afferma l' anima propria, e che dunque è un Io che afferma sè stesso. Nè si può negare che fra l' Io e l' anima propria vi abbia identità di sostanza; ma certo è in pari tempo che vi ha diversità di accidente, e che a significare proprio l' unione di questo accidente coll' anima si adopera il vocabolo Io . D' altra parte, se la cosa non è così, quale imbarazzo nel ragionamento! Se l' Io afferma sè stesso, afferma un Io; se afferma un Io , l' Io è già formato prima che lo affermi; ci perdiamo dunque in un circolo. La qual difficoltà si può esporre in quest' altro modo: se l' Io si forma coll' affermare sè stesso, come si può affermare prima di essere? Come sa egli che ciò che afferma è sè stesso? Converrebbe, a saperlo, che egli avesse paragonato l' Io affermante coll' affermato, e scopertane l' identità. Ma non può paragonare l' Io affermante coll' affermato, se non ha percepito anche quel primo. Avere percepito l' affermante è il medesimo che affermare sè affermante. Questo ci reca ad una serie infinita di affermazioni, perocchè si può far sempre lo stesso discorso circa l' oggetto di un tal giudizio, che diviene il sè affermante. Dunque per questa via non si può spiegare il fatto singolare della riflessione, colla quale l' anima pensa ed afferma sè stessa. - Ma quando si abbia ben afferrato che la denominazione di Io non conviene all' anima prima che ella si abbia affermata, ma solo dopo aversi affermata, e procacciata così la coscienza, svanisce interamente quella difficoltà in apparenza gravissima. Rimane solo a spiegare come l' anima possa percepire sè medesima. A far questo conviene ricorrere alla teoria della percezione intellettiva che noi abbiamo esposta nell' Ideologia e in altri luoghi. La quale teoria descrive la percezione come un atto del soggetto, che, intuendo l' essenza dell' essere, vede questa essenza realizzata nel sentimento. Niuno si può accorgere che nel sentimento v' è l' essere, se precedentemente non conosce che cosa sia l' essere, cioè se non ne intuisce l' essenza. Ma posto che il soggetto abbia questa facoltà di intuire l' essere, non è più difficile intendere che egli veda, ossia ravvisi l' essere dappertutto dove egli è, sotto ogni forma, e però anche sotto la forma di sentimento, che è l' una delle tre, nelle quali l' essere è. Posto ciò, s' intende come il soggetto uomo percepisca intellettivamente sè stesso, ammettendo che sè stesso non sia altro che un sentimento7sostanza. Come egli percepisce tutti gli altri sentimenti, così percepisce anche il sentimento, che si denomina sè stesso . Ma rimane il nodo: come conosca che il sentimento, che in tal caso percepisce, sia sè stesso, cioè come conosca l' identità del sè percipiente e del sè percepito. Certo che, se a conoscere questa identità, facesse bisogno un confronto fra il sè percipiente e il sè percepito, come suppone l' obbiezione che ci vien fatta, in niuna maniera si potrebbe spiegare la percezione di noi medesimi. E` dunque da negarsi che l' uomo conosca quell' identità per via di confronto fra il sè percipiente e il sè percepito. - Di nuovo adunque: come la conoscerà? La conoscerà immediatamente nella stessa percezione di sè. - In che modo? In questo: se egli vede l' essenza dell' essere nel proprio sentimento, di maniera che egli giudica che il proprio sentimento, che si chiama sè , è un ente, in questa percezione, come in tutte le altre, è il sentimento quello che determina che il percepito sia piuttosto un ente che un altro; il sentimento a tal uopo deve essere percepito tale qual' è; non viene alterato dalla percezione. E` adunque dalla varietà dei sentimenti, che si conosce la varietà degli enti. Dunque è nella natura del sentimento che si deve trovare la nota caratteristica, che fa distinguere il sentimento proprio da tutti gli altri sentimenti, dai sentimenti non propri. Ora quale sarà questa nota caratteristica, che fa distinguere all' uomo il sentimento proprio da tutti gli altri? Ella deve essere certamente, per dirlo di nuovo, un quid che nel sentimento stesso immediatamente si percepisca. Ora questo quid , che è nel sentimento proprio, e che è una parte del sentimento proprio, che distingue il sentimento proprio da tutti gli altri sentimenti, è appunto ciò che v' ha d' incomunicabile nel sentimento; ond' esso riceve il nome di proprio, e se si vuole esprimerlo con un vocabolo generale ed astratto, gli si darà acconciamente il nome di suità . Che se poi si vuole un altro vocabolo, il quale pronunci la suità di colui che parla e ragiona, e non di ogni uomo qualsiasi, proporremo di arricchire la lingua nostra filosofica della parola meità , che risponde a quella di cui fanno tanto uso i Tedeschi, Ichheit . Sì, la proprietà, la suità, la meità è un quid del sentimento, che si percepisce come tutte le altre parti del sentimento e come tutti gli altri sentimenti, per l' essenza dell' essere che si ravvisa in essi. Questo quid sensibile è il principio dell' individuazione (1), e diviene anche quello della personalità. Ciò posto, è chiaro che nella percezione del sentimento proprio noi percepiamo noi stessi, quando la parola noi stessi si prende per significare la proprietà del sentimento, ossia la suità, che è la nota caratteristica di tal sentimento. Ma quando diciamo noi stessi , non esprimiamo forse di esserci già percepiti? Non è dunque un circolo il dire percezione di noi stessi? potendosi tradurre in quest' altre parole: percezione di ciò che si è già percepito? - Rispondo, che l' osservazione è giusta, e che essa rivela l' insufficienza del linguaggio a seguire fedelmente la mente nostra nelle sue operazioni; perocchè il linguaggio fu inventato dagli uomini già sviluppati, per esprimere il prodotto delle operazioni della mente, non per seguire le operazioni medesime, di mano in mano che si van producendo. Prego il lettore di mettere ogni attenzione in questo, che m' ingegnerò di spiegare più distesamente. Il difetto, che si ravvisa nella frase indicata « percezione di noi stessi », si può ravvisare egualmente nella frase stessa, riferita a qualsivoglia altra percezione. Poichè quand' io dico « percezione di una cosa, percezione di un ente, percezione di un oggetto », io fo uso, nè posso altrimenti, delle parole cosa, ente, oggetto . Ma cosa, ente, oggetto significano già un quid percepito, e non un quid da percepirsi. E veramente un quid che non è ancora percepito, in niuna maniera può dirsi una cosa, un ente, un oggetto, giacchè questi vocaboli non possono imporsi dall' uomo a ciò, di cui non conosce affatto l' esistenza; conciossiachè cosa, ente, oggetto significano ciò che in qualche modo è; chè il nulla non si dice una cosa, nè un ente, nè un oggetto; nè si direbbe tampoco un nulla, se non si volesse significare la negazione delle cose, degli enti, degli oggetti; sicchè la parola nulla non può essere inventata, nè adoperata se non da colui che conosce già il qualche cosa. Ora se i tre vocaboli accennati significano ciò che quell' uomo ha già percepito, non ciò che gli rimane ancora a percepire, dunque la frase percepire qualche cosa, percepire un ente, percepire un oggetto, è altrettanto difettosa quanto quest' altra: percepire sè stesso; quella involge un circolo, quanto questa; quella, quanto questa, viene a dire: percepire il percepito. Non si potrà dunque esprimere in parole l' operazione del percepire? - Si potrà, ma solo con parole indirette; e noi infatti cercavamo d' esprimerla e di descriverla pur ora; ma l' operazione stessa non può tradurre sè stessa in parole, poichè tutto ciò che l' uomo esprime, lo deve aver già percepito per esprimerlo; chè non può l' uomo certamente dare un nome a ciò che ancora percepito non ha. Adunque, volendosi esattamente indicare la percezione colle parole « è quella operazione, per la quale lo spirito acquista un oggetto reale », questa operazione può chiamarsi anche giudizio ed affermazione, poichè lo spirito non ha acquistato un oggetto reale, se non l' ha affermato, se non ha detto a sè stesso la parola interiore: è. Ond' io altrove dissi che gli oggetti reali si formano (come oggetti) dallo spirito, pure col percepirli (1). Ma se l' oggetto reale non v' è, non si può nominare prima che lo spirito l' abbia percepito; che cosa adunque sarà egli innanzi la percezione? - Egli sarà un sentimento, un sentito, e non mai un inteso; sarà la materia del futuro oggetto dell' intendimento, ma non ancora l' oggetto; l' ente in via di formarsi nella mente, ma non ancora l' ente formato; niuna luce intellettiva v' è in esso; esso non può essere nominato, come si nominano gli oggetti : il sentimento può solamente produrre delle interiezioni, delle voci inarticolate, o, se si vuole anche, delle voci articolate, ma non già imposte a lui dal consiglio della mente, come la mente impone dei segni ai suoi oggetti; ma solo siccome effetti naturali di una causa efficiente; perocchè a questa maniera anche il vento mugola fra le rupi, o freme fra le piante, ma non parla però, e non intende di porre un segno a sè stesso, o ai pensieri ch' egli non ha; e in un modo simile i vari sentimenti piacevoli e dolorosi degli animali bruti sono cause efficienti e necessarie dei vari suoni che emettono, senza però che i detti suoni sieno, come son le parole, segni arbitrari, imposti coll' intenzione di significare oggetti della mente. Ciò che è dunque nella natura non percepito, è anche innominato, com' egli è non inteso; nè si può dirlo una cosa, non un ente, non un oggetto; e se noi ne parliamo, lo facciamo indirettamente, come dicevo; lo facciamo scomponendo l' ente, la cosa, l' oggetto, cioè togliendo dal percepito la percezione, giacchè così ci accorgiamo che, togliendo la percezione, non togliamo tutto dall' ente, o dalla cosa, o dall' oggetto, ma che ci resta ancora l' elemento materiale da noi non più inteso, ma sentito bensì; il che è quanto dire l' oscuro e al tutto incognito sentimento. Applicando le quali cose alla percezione dell' Io , dico che la parola Io indica già la percezione intera bella e formata, e che nell' oggetto espresso con tale vocabolo percepiamo un sentimento, e in esso la nota caratteristica che lo distingue da tutti gli altri sentimenti, la proprietà, la meità. Ma in che maniera dunque l' anima, che percepisce sè stessa, può ella conoscere l' identità di sè percipiente e di sè percepita, come voi avete pur detto ch' ella deve fare pronunziandosi col monosillabo Io ? Come può percepire questa identità, se non paragona sè stessa a sè stessa? - Sebbene dal detto si può rilevare, tuttavia m' ingegnerò di chiarir questo fatto vieppiù, dimostrando che nella percezione della suità si comprende già quella dell' identità fra il percipiente ed il percepito. Il termine della percezione intellettiva è il sentimento; poichè ciò che al tutto non si sente, non si può percepire. Anche l' anima propria, dunque, non potremmo percepirla se ella non fosse un sentimento, termine della percezione. Ma noi percepiamo anche le nostre proprie operazioni; dunque anche le nostre operazioni debbono essere accompagnate da sentimento. Quindi noi percepiamo il sentimento proprio (la propria nostra anima) con tutte quelle attività e operazioni che lo modificano e svolgono. Ora l' atto, con cui noi percepiamo questo sentimento costituente l' anima nostra, che poscia esprimiamo col monosillabo Io o Noi , anch' esso è accompagnato da sentimento, anch' esso modifica, ed attua il sentimento proprio. Quando adunque noi percepiamo questo sentimento proprio, che è l' anima, e lo percepiamo con tutte le sue attualità, perchè tutte di natura sensibile, necessariamente dobbiamo percepirlo anche coll' attualità della percezione di sè, poichè, nell' atto di percepire, egli ha già questa attualità, e il sentimento a lei concomitante. Dunque l' anima, almeno in un cotal modo implicito, percepisce sè stessa percipiente. L' atto dunque del percepire sè stessa, si può considerare sotto un doppio rispetto, o come cagione della percezione, o come sentimento. Sotto il primo rispetto egli produce la percezione, sotto il secondo è termine della percezione, rimane egli stesso involto nella percezione medesima. Nè fa maraviglia che lo stesso atto possa essere principio e termine della percezione, quando si considera che in ogni percezione il termine di essa (il sentimento) non è posteriore di tempo al suo principio (azione percipiente); ma il principio e il termine debbono essere contemporanei acciocchè nasca la percezione, giacchè la percezione non è che il punto di unione del principio e del termine, di cui risulta. L' anima, in altre parole, movendosi a percepire sè stessa, quando col suo atto giunge a sè stessa, si trova già mossa verso tale percezione; sicchè il principio dell' atto della percezione di sè, viene colto dalla percezione ultimata e perfetta (1). Laonde l' identità dell' anima percipiente sè stessa e dell' anima percepita da sè stessa, è data all' uomo dalla natura della percezione, sicchè è impossibile che nasca la percezione, che si esprime col monosillabo Noi , senza che vi s' inchiuda tale identità (2). Ma perchè dunque avete voi detto che, a fin di conoscere l' identità fra il percipiente e il percepito, fa bisogno una seconda riflessione, mediante la quale l' uomo paragoni sè percipiente a sè percepito, e si ritrovi identico? - Dovete avvertire che, quando io dissi ciò, analizzavo l' Io , quale lo dà la coscienza all' uomo già sviluppato. Ora è certo che il filosofo che dice: « l' Io percipiente sono Io stesso percepito », fa una seconda riflessione (e fors' anche di un ordine più elevato), colla quale egli paragona sè a sè stesso. E solo parlando dell' operazione, che fa la mente di questo filosofo, trovasi accurata l' espressione, che abbiamo precedentemente riprovata: « percezione di noi stessi », o quest' altra: « l' Io percepisce l' Io »; perocchè il filosofo percepisce l' Io già formato, medita sopra il sè , che è quanto dire sopra di ciò che egli ha precedentemente percepito, essendo la mente, come già dicevamo, quella che presenta al filosofo l' oggetto delle sue meditazioni. Fichte, per non avere colta la distinzione fra l' Io riflesso del filosofo e l' Io di prima formazione , si smarrì per entro quell' interminabile selva di errori. Egli non conobbe che questo Io è l' opera della mente medesima, e non il nudo rudimento, che dà la natura allo spirito umano fin da principio. Ed anche è così che noi ci piacciamo di giustificare il senso comune, autore delle lingue e delle loro diverse maniere di espressioni, le quali sono sempre accurate, purchè s' intendano secondo la loro istituzione; ma diventano difettose e fallaci per colpa degli individui, che le volgono a significare quello, a cui non furono istituite. Così se la frase « percezione di noi stessi », vogliamo pigliarla a significare la prima percezione, che l' uomo fa del proprio sentimento, diviene inetta ed ingannevole, poichè non fu inventata per questo; ma se la prendiamo a significare la percezione riflessa dell' uomo già sviluppato, ella quadra benissimo, ed è verace. L' anima dunque viene espressa dal monosillavo Io; ma per conoscere lo stato di essa primitivo ed essenziale, conviene aver presente che con quel monosillabo si esprime, oltre il concetto dell' essenza dell' anima, diverse relazioni, in cui la mente stessa, colle operazioni che gli fa intorno, lo avvolge. Noi perciò, rimossi i veli di tali relazioni, abbiamo trovato nel fondo dell' Io un sentimento anteriore alla coscienza , che costituisce propriamente la sostanza pura dell' anima. Dobbiamo ora meditare su questo sentimento, difenderne l' esistenza, descriverne la natura. Il che è tanto più importante, che molti filosofi non s' accorsero di dover cercare l' essenza dell' anima in un primo sentimento (1). Questi traviarono nelle loro ricerche, perchè ebbero la mente infetta da principŒ ontologici limitati e fallaci, come quelli che eran tratti quasi unicamente dalle condizioni sensibili della materia, e però non valevoli che per la materia apparente ai sensi, nè mai applicabili a tutti gli enti: di che quei principŒ non erano veramente ontologici, ma tali si supponevano gratuitamente. E fu questo il maggiore ostacolo ai progressi della filosofia, la facilità immensa che l' uomo ha di pigliare ciò che percepisce coi sensi esteriori, per l' unico stampo di tutti gli enti; quasi che tutti gli enti dovessero avere azioni e passioni simili, e seguire le stesse leggi; e non ci potesse essere niun altro ente, dissimile in tutto da ciò che i sensi somministrano, e non punto soggetto a quelle regole di giudicare, che valgono pei corpi. In quella vece le ali della mente non si possono dispeciare e stendersi a libero volo per le regioni dell' essere, se prima l' uomo non s' avvede che tutto ciò che egli percepisce pei sensi, non è altro che entità incipienti e relative a lui, e che l' ente compiuto si sta via oltre, e la dottrina che lo riguarda racchiude tutt' altri principŒ. Tuttavia, poichè l' uomo non può fermarsi alle mere qualità sensibili dei corpi esterni, ma per la legge della percezione (1) egli è necessitato a supporre l' esistenza di qualche altra cosa, cioè dell' atto, pel quale i corpi esistono; aiutando coll' immaginazione la debolezza di sua ragione, suppone che quell' altra cosa, necessaria a spiegare la sussistenza delle qualità sensibili, abbia un suo luogo; e la colloca sotto le qualità sensibili e superficiali, chiamandola sostanza ( sub7stans ), senza avvedersi che se la sostanza dei corpi giacesse sotto la loro superficie, ella si potrebbe trovare rompendosi i corpi, e frugandosi nel loro interno; il che non si può (2). Ora una tale entità, creata dalla immaginativa, riesce necessariamente un quid inesplicabile e misterioso; indi la conclusione di tutti i sensisti nostri, che le sostanze delle cose sono pienamente incognite (3). Che se, facendosi tacere l' immaginazione, noi ci atteniamo alla ragione, unica guida verace nelle ricerche filosofiche, facilmente ci accorgiamo che l' atto , pel quale esistono le qualità sensibili dei corpi, non è altro che la forza sensifera (4), la quale si manifesta nel nostro sentimento animale, quando viene modificato, come un extra7soggettivo . Questa è quella prima cosa che noi nei corpi intendiamo, e basta ella sola (determinata dai suoi effetti, cioè dalle sensazioni) a farci concepire i corpi, e però ella è sostanza ; ed è a lei che il senso comune aggiunse la parola corpo. Che se poi il ragionamento trova che la forza sensifera , dataci colla percezione (5), esige qualche altra cosa per esistere, quest' altra cosa, che non cade nella percezione dei corpi, in quanto è causa prossima della forza, si chiami pure principio corporeo (6); ma questo sarà sempre fuori del concetto di corpo, poichè questo concetto dalla percezione sola ci viene somministrato. Quei filosofi, adunque, che collocarono la sostanza dei corpi in un quid incognito, non trovandolo colla ragione, ma supponendolo colla immaginazione, continuarono il loro modo di filosofare anche quando presero a sciogliere la questione « in che consiste l' essenza dell' anima umana ». E primieramente generalizzarono la loro dottrina intorno la sostanza dei corpi. « La sostanza dei corpi, così argomentarono, è un quid incognito, che fa sussistere le qualità sensibili ad esso soprapposte. Tale è dunque ogni sostanza ». Persuasi adunque che ogni sostanza si dovesse concepire, o piuttosto coniare ad instar di quella dei corpi, presero anche la sostanza dell' anima per un cotal sostegno, o sostrato ( substratum ) perfettamente incognito, che sta sotto agli accidenti dell' anima. Quanto sia arbitraria tale maniera di ragionare è palese a ciascuno. Dobbiamo dunque lasciar da parte questa filosofia dotta (1), e farci compagni al senso comune. Il senso comune intende di significare le sostanze con quei nomi, che i grammatici chiamano sostantivi . Ora i nomi sostantivi sono imposti a tutti gli enti percepiti dall' uomo. L' ente percepito, adunque, è sostanza secondo il senso comune. Ma se le sostanze delle cose nominate coi vocaboli si percepiscono, dunque esse non sono incognite, perchè percepire è pure una maniera di conoscere. Non dobbiamo dunque crearci le sostanze coll' immaginazione; anzi trovarle nella percezione medesima, ogniqualvolta questa è possibile. Quali sono gli enti che l' uomo percepisce? I corpi e l' anima propria. Se vogliamo dunque rinvenire la sostanza dei corpi e la sostanza dell' anima, noi dobbiamo cercarla nella percezione . Così abbiamo fatto trattando della sostanza dei corpi; il simile dobbiamo fare trattando della sostanza dell' anima. Ora, si può percepire ciò che non si sente? No certamente; perocchè la percezione è una cognizione sperimentale, e non si dà esperimento, dove non si dà sentimento. Nel sentimento adunque abbiamo trovata la sostanza del corpo; nel sentimento pure dobbiamo trovare la sostanza dell' anima. Ma non ogni sentimento è sostanza; perocchè vi sono sentimenti che non si possono concepire da sè soli, e presuppongono un altro sentimento dinnanzi a sè, di cui sieno modificazioni. Conviene adunque risalire al primo sentimento, pel quale e nel quale sono tutti gli altri, e innanzi al quale niun altro sentimento si esperimenta. Vi deve essere dunque un sentimento primo e stabile, in cui consista la sostanza dell' anima; e questo è ciò che noi abbiamo chiamato sentimento fondamentale . Quanto è facile a percepire il sentimento fondamentale, ed anche ad esser colto con una prima riflessione, congiunto colle sue modificazioni (onde il senso comune nomina anima il suo principio), altrettanto è difficile a distinguerlo per via di nuove riflessioni dalle sue modificazioni, e a riconoscere ch' egli è il primo, egli il principio di tutti gli altri sentimenti speciali ed accidentali. Condillac suppone che la vita sensibile cominci al primo fiutare, che la sua statua fa d' una rosa (1). Ma in quel primo atto, che suppone il nostro filosofo, la statua non sente che l' odore d' una rosa, non sa nulla di sè stessa. Tuttavia la maniera, con cui si esprime questo scrittore, riceve qualche benigna interpretazione; poichè egli dice che la statua, fiutando la rosa, deve credere sè stessa l' odor di rosa, e non altro. Se ella deve credere d' essere odor di rosa, ella già sente sè stessa; conciossiachè predica di sè stessa l' odor di rosa. Il Degerando, ed altri, dissero che le sole sensazioni del tatto s' accompagnano al sentimento di noi stessi. Anche questa sentenza presa a rigore, è manifestamente falsa; interpretata benignamente diventa vera; è vera cioè, se si vuol dire che la sensazione del tatto è quella che aiuta l' uomo, più delle altre, a distinguere il Me dalla sua modificazione accidentale. A ragione il Galluppi sostiene che non si può dare sensazione alcuna, scompagnata dal nostro proprio sentimento sostanziale. Poichè « « percepire una sensazione » - egli dice - «è sentirsi modificato, è sentirsi, è avere il sentimento del proprio me » ». Ma egli conchiude poi erroneamente che « « sin dalla prima sensazione noi abbiamo una percezione del me » », e che « « la nostra vita sensibile incomincia dalla percezione del me e delle sue sensazioni »(1) ». Egli non s' innalza dunque fino al sentimento fondamentale, che sta al di là delle sensazioni acquisite, nè giunge ad intendere come vi sia un sentimento anteriore alla percezione intellettiva ed alla coscienza. Finalmente, non conoscendo la dottrina dell' oggetto , egli adopera questa parola a significare il termine della sensazione; il che lo precipita nel sensismo, mentre si dibatte per uscirne. Già noi abbiamo dimostrato che questo sentimento senza dubitazione alcuna esiste (2); e qui volevamo rimettere il lettore alle date dimostrazioni. Ma essendoci venuta alle mani una vecchia nota del 1.21, nella quale avevamo stese alcune ragioni atte a provare l' esistenza di quel sentimento, crediamo opportuno di collocarla qui sotto gli occhi del lettore, cangiando solamente la parola coscienza, allora da noi usata impropriamente, in quella di sentimento. Nell' uomo esiste un sentimento fondamentale. « Io trovo d' avere nello stato presente gran numero di sensazioni, quali sono quelle che mi vengono dal corpo, ho memoria d' altre sensazioni avute, possiedo inoltre molte cognizioni, e fo molti pensieri. Ma io trovo che tutte le sensazioni presenti o passate, e tutti i miei pensieri, hanno qualche cosa di distinto fra loro; infatti, se due sensazioni o due pensieri non avessero niente che li distinguesse, non sarebbero più due, ma uno solo. D' altra parte io vedo che sono sempre io che penso, percepisco e fo tutte queste cose, quell' Io stesso; e se non fossi io sempre quello stesso, non potrei confrontare due sensazioni, o due pensieri, e conoscerne la diversità. Questo Io , dunque, non è le sensazioni e i pensieri, perchè quelli sono diversi, e l' Io è uno; ma l' Io è bensì il soggetto, che possiede le sensazioni ed i pensieri. Dunque l' Io , considerato nella sua propria natura, è indipendente dalle sensazioni e dai pensieri, poichè questi sono accidentali e variano di continuo, senza che possano far variare giammai l' Io . Se dunque incomincio a levar via colla mente qualche mio pensiero particolare o qualche particolare sensazione, io ben m' accorgo di non distruggere perciò l' Io , sento che l' Io rimane. Se dunque l' Io mi rimane egualmente, togliendo da lui qualunque particolare sensazione e qualunque particolare pensiero, vuol dire che io posso togliere via da me, ad una ad una, tutte le sensazioni e tutti i pensieri accidentali, senza che ancora vi abbia tolto via l' Io , l' essenza del quale non ha mai sofferto nulla per averlo così spogliato dei suoi sentimenti e pensieri accidentali. L' Io dunque resta, anche privo d' ogni acquisita modificazione. E in tal modo appunto io ascendo a formarmi l' idea del sentimento, che coll' Io s' esprime, puro e primitivo ». « Le parole, che sono il fedele ritratto delle idee, confermano il medesimo. Infatti, quando io voglio esprimere l' atto del sentire, dico così: Io sento . Ora cancelliamo il solo sento : è allora, io domando, necessariamente levato anche l' Io ? No. All' opposto cancelliamo l' Io , e ci resti il sento . In questo caso, o che nel sento sottointendo l' Io , o che, se assolutamente voglio prescindere dall' Io , il sento non ha più significato. Il sentimento adunque, espresso nella voce Io , esiste indipendentemente dalla sensazione particolare; la sensazione particolare all' opposto ha bisogno per esistere del sentimento fondamentale, a quella stessa maniera appunto che l' accidente non può esistere senza la sostanza, nè l' artificio senza l' artefice, quantunque vi possa essere e la sostanza senza l' accidente, e l' artefice senza l' opera sua ». « Di poi tutte le mie sensazioni non producono che stati o modi d' esistere dell' anima mia. Questa sente quel dato modo di suo essere, quando ha una particolare sensazione. Ma come potrebbe ella sentire quel suo modo di essere, se non sentisse essenzialmente sè stessa? Che vuol dire sentire il modo di essere o d' esistere di sè stessa? Che altro se non sentire la relazione d' una data modificazione con sè stessa? Acciocchè l' anima senta questa relazione, ella ha pur mestieri di sentire già sè stessa, perocchè appunto a sè stessa quella modificazione si riferisce. Onde se l' anima non sentisse sè stessa anteriormente alla sensazione, questa sarebbe nulla per lei, conciossiachè altro non sarebbe che un' azione sopra un ente che non si sente, e che perciò molto meno può sentire qualche altra cosa ». « Si può anche ragionare così: o questa azione è fatta nell' anima, o fuori dell' anima. Se è fuori, l' anima non sente nulla; se nell' anima, o quest' anima è un ente che si sente o no. Nel primo caso vi è il sentimento fondamentale; nel secondo cessa anche la possibilità della sensazione. Perocchè se l' anima non sente sè stessa, come può sentire quello che è in sè stessa? Sarebbe come negasse di vedere una tavola, dicendo di vederne la forma o il colore. La modificazione di ciò che è sensibile, è sensibile; ma la modificazione di ciò che non è sensibile, non è sensibile ». « Sotto quest' altro aspetto si può esporre l' argomento. Io domando: perchè mai l' anima sente i vari suoi modi d' esistere, prodotti dalle sensazioni? Certo, perchè ha la facoltà di sentire i modi del proprio esistere. Ma non è un modo d' esistere quel primo, sebbene anteriore ad ogni acquisita modificazione? Se egli è tale, perchè esso solo si sottrarrà alla facoltà, a cui tutti gli altri modi soggiacciono? Fino che non si trova ragion sufficiente in contrario, si dovrà dire che quell' ente, che sente i modi della propria esistenza, deve sentire anche il primo suo modo, anteriore a qualsiasi particolare mutazione ». « Come mai può avvenire che l' anima, dato che non si senta per sè medesima, venga poi a sentirsi per mezzo delle modificazioni che riceve? Concediamo che tali modificazioni possano muover l' anima a riflettere al proprio sentire, a fare il paragone dei suoi stati, ad uscire così dalla sua naturale quiete, e percepire il proprio sentimento, e quindi venire ad una cognizione più distinta e più appagante di sè medesima. Ma qui noi parliamo del sentire semplice, e non di paragoni fra diversi sentimenti. Diciamo adunque che le azioni fatte sull' anima non potrebbero mai, per quante si fossero, per quantunque forti, condurla a sentir sè medesima, se non si sentisse già a principio di sua natura. Infatti, queste sensazioni che ella acquista, o si considerano avanti che abbiano modificato l' anima, o nell' atto del modificarla. Avanti che esse pervengano all' anima, non sono ancora sensazioni. Nell' atto poi che agiscono sull' anima, nè gli agenti nè le loro operazioni possono dare all' anima il senso, perchè non l' hanno essi stessi, e l' avessero anche, il senso è incomunicabile; bensì è l' anima quella che rende sue sensazioni gli impulsi degli agenti da lei diversi. Avanti dunque che questi impulsi le siano dati, e indipendentemente da essi, l' anima s' aveva il senso, mentre non lo riceve da essi, ma ad essi lo dà ». « Niuno ci nega che l' anima originariamente e per natura sua abbia la facoltà di sentire; ma non ci si accorda egualmente da taluni che essa ne abbia l' atto altresì, perchè, si dice, altro è l' atto, altro la facoltà. E per vero si deve convenire che l' atto particolare è cosa assai diversa dalla facoltà, che produce tutti gli atti. Ma tutta la questione dipende da un' idea chiara della facoltà. Ora ecco come io la intendo. Acciocchè la facoltà operi, richiede sempre certe condizioni, per modo che, date queste, ella opera, ossia diviene atto particolare; giacchè una facoltà, in quanto è atto, cessa d' essere facoltà. Così la facoltà di vedere ha bisogno della luce, la facoltà di udire delle ondulazioni d' un fluido aeriforme, la facoltà di gustare della sostanza saporosa, e così delle altre. Date dunque tutte le condizioni necessarie, una facoltà qualunque si mette in atto. Osservo di più, che l' azione dipende dalla facoltà come da vera causa efficiente, mentre le altre condizioni influiscono solo come occasioni, eccitamenti, ecc.. Acciocchè, per esempio, il sole illumini una stanza, è bisogno che il balcone sia aperto; ma è forse il balcone aperto che la illumina, e non piuttosto i raggi del sole? Passa dunque gran differenza fra la mera condizione necessaria, e la causa. Del pari, se il toccamento dell' aria scossa è necessario all' organo dell' udito acciocchè senta il suono, non è tuttavia il mio organo, la mia facoltà d' udire quella che ode; od è forse l' aria quella che fa quest' atto? Sia dunque conceduto essere cosa del tutto diversa l' occasione della sensazione dalla causa di lei; e questa essere il subietto che sente, ossia la facoltà. Se adunque la causa del sentire è la facoltà, e questa opera necessariamente, poste le condizioni; dunque la facoltà non fa l' atto suo in virtù delle cose esteriori, ma in virtù dell' attività propria; dunque ella deve essere sempre in un certo atto da sè stessa; poichè se non avesse un primo suo atto, in niun modo si potrebbe intendere come ella passasse dalla potenza all' atto, non essendovi ragione sufficiente di tal passaggio; mentre qualunque azione del corpo su di lei non ha punto virtù, come abbiamo detto, di trarvela, ma solo le porge l' occasione dell' operare. La giusta idea dunque della facoltà si è quella che la fa consistere in un atto universale , precedente a tutti gli atti particolari; il quale atto universale si particolarizza poi e specifica, quando gli viene data qualche individuale materia, a cui possa applicare, e sulla quale restringere la sua operazione. Così se io colloco successivamente sotto un' enorme massa di ferro diversi oggetti, ella col suo peso me li schiaccia tutti l' un dopo l' altro, non già perchè ella incominci allora ad operare, anzi appunto perchè quella massa operava, cioè pesava continuamente, ancorchè non ischiacciasse niun oggetto particolare, che non le era sottoposto. Se dunque la facoltà di sentire dell' anima, presa in universale, è già in atto, indipendentemente dagli esterni e particolari impulsi, dunque l' anima sente sè stessa; proposizione che torna a un dire, analizzate le idee, ch' ella è un ente senziente, ciò che pur tutti ci accordano »(1). Le prove dell' esistenza del sentimento fondamentale costituente l' uomo, che abbiamo date nel « Nuovo Saggio », tolgono a provare piuttosto quella parte di esso, che ha per suo termine il corpo e lo spazio; le prove esposte nel capitolo precedente dimostrano l' esistenza d' un sentimento, che si estende a tutto ciò, a cui significare si estende il monosillabo Io . Conviene dunque cercare nel sentimento, che giace in fondo all' io , l' essenza sostanziale dell' anima. Ora, dalle cose dette noi possiamo già raccogliere alcune notizie intorno alla natura di un tal sentimento, e cioè: Quando l' uomo pronuncia Io , egli non intende di pronunciare una modificazione sfuggevole ed accidentale, ma un vero essere sussistente, e però una sostanza. L' uomo niente conosce di sè, prima che non abbia affermata l' anima propria; ed affermandola, egli percepì un ente sussistente, che non è in alcun altro come modificazione o come accidente; e però percepì una sostanza. Questo ente sussiste, questa sostanza affermata e col monosillabo Io espressa, è una sostanza7sentimento; e in questo sentimento v' è un principio attivo, senziente ed operante; e però l' Io è un soggetto (1). Di ogni scienza il principio si è la definizione dell' oggetto, di cui ella tratta; poichè la definizione esprime l' essenza della cosa, e l' essenza della cosa, di cui si parla, è il principio di ogni ragionamento intorno alla medesima; il quale ragionamento prende maggiore o minor campo, secondo che l' essenza conoscibile è più o meno compiuta, relativamente all' essere della cosa. L' essenza conoscibile è positiva, quand' ella si ha per via di percezione. Onde le scienze, che abbiamo dette di percezione, ricevono il loro principio dalla percezione dell' ente, che ne costituisce l' oggetto. La percezione dell' ente ci fa conoscere positivamente la sostanza dell' ente, e quindi la sostanza , positivamente conosciuta nella percezione, è il principio di tali scienze. Applichiamo queste nozioni logiche alla Psicologia. Il principio di questa scienza si deve riconoscere nella percezione stessa dell' anima; cioè tutti i ragionamenti, che far si possono intorno all' anima, debbono necessariamente partire da ciò che noi conosciamo dell' anima nostra, percependola. Ora ciò che percepiamo dell' anima nostra, prima di tutto si è la sua sostanza; alla sostanza dell' anima percepita risponde l' essenza sostanziale , che non è altro se non la sostanza stessa da noi intuita nell' idea come possibile. Non di meno conviene osservare che noi non percepiamo l' anima nostra se non come un soggetto, e che l' anima percepita e pronunciata nell' Io non è un Io possibile, ma un Io sussistente, e sussistente in modo che gli è essenziale la sussistenza, in quanto s' afferma. Affine dunque di concepire un Io possibile , ossia l' idea dell' Io staccato dalla percezione, dobbiamo fare una operazione doppia, per la quale trasportiamo nell' idea non solo l' Io percepito , ma ben anche l' Io percipiente. In altre parole, l' Io possibile non è altro se non la possibilità generale « di un' anima percipiente e pronunciante sè stessa », come io percepisco e pronuncio me. Quando dico Io , esprimo: 1 una meità particolare; 2 la meità particolare mia propria. La meità è sempre particolare, per sua essenza, essendo un sentimento proprio; ma questo particolare può tenere la relazione di identità col me, che hic et nunc la pronuncia, o con un altro soggetto, che pure la pronuncia. Questa relazione è quella che può essere universalizzata, concependosi così ciò che è essenzialmente proprio e particolare, come possibile ad avere relazione d' identità con me, che ora la pronuncio, o con altri, che penso che la pronuncino. Tale è la maniera di universalizzare il me , che è per sua essenza particolare, e che perciò non può essere universalizzato in sè stesso, ma, come dicevo, nella relazione d' identità di sè percepito a sè percipiente e pronunciante. Ciò dunque, che noi conosciamo dell' anima nostra nella percezione di noi stessi, è il principio prossimo della Psicologia . Esso è anche il principio remoto delle scienze, che trattano degli spiriti in generale, ed in ispecie di quegli spiriti, che non cadono sotto la nostra esperienza; e dico remoto, perchè alla formazione di queste deve intervenire il ragionamento (1). La qual via diritta e veramente logica, per la quale debbono procedere le scienze, fu veduta, battuta, e additata da S. Agostino, e dal sommo filosofo nostro nazionale, S. Tommaso. S. Agostino osserva espressamente che la mente umana non potrebbe conoscere alcun' altra mente, se prima non conoscesse sè stessa: « unde enim mens aliquam mentem novit, si se non novit ? (2). » Il che è quanto dire che se lo spirito umano non percepisse prima sè stesso, egli non potrebbe formarsi il concetto di alcun' altro spirito, perchè non avrebbe alcun esempio, per così dire, su cui foggiarlo. Onde, nell' ordine delle cognizioni, precede la cognizione dell' anima propria alla cognizione delle altre anime e delle altre intelligenze; le quali si conoscono col ragionamento, che s' istituisce sulla percezione, che ha l' anima di sè stessa. Quindi seguita a dire il santo Dottore che la mente si conosce per sè medesima [...OMISSIS...] . Delle quali parole fu abusato, poichè taluno pretese dedurne che l' anima umana fosse nota a sè stessa per la propria essenza, ovvero ch' ella non avesse bisogno d' alcun altro lume a conoscere sè stessa; quando S. Agostino ripete assai spesso che nè l' uomo, nè la sua mente, è lume a sè stessa; ma supposto il lume a lei comunicato dall' alto, non conosce sè stessa per un ragionamento, che parta d' altra cosa a lei più nota; ma immediatamente, cioè per via di percezione. Onde egli spiega che, come la mente conosce i corpi pel sentimento che essi producono, agendo negli organi dei sensi, così conosce gli spiriti per sè stessa, cioè per quel sentimento suo proprio, che è oggetto della sua percezione (1). L' Angelico poi spiega la mente di S. Agostino così. Egli dimostra che, quando S. Agostino dice che la mente si conosce per sè, non vuole punto dire che sia conoscibile per la sua propria essenza, il che appartiene a Dio solo, ma che si conosce per l' atto suo, cioè per la percezione di sè, senza bisogno di adoperarvi altro ragionamento induttivo. « Laonde - dice - l' intelletto nostro non si conosce per la sua essenza, ma per l' atto suo, e ciò in due modi: in un modo particolare, e così Socrate, o Platone percepisce di avere un' anima intellettiva per questo che percepisce d' intendere ». Qui S. Tommaso insegna che l' uomo conosce il proprio intelletto, perchè è conscio d' intendere; ricorre all' atto dell' intendere, perchè quest' atto è quello che attira la nostra riflessione su di noi stessi, onde veramente con ciò si spiega la cognizione riflessa di noi, e non l' immediata percezione. Ma se si considera che la riflessione, causa della coscienza, non potrebbe aver luogo, se prima non avesse luogo la percezione; si può ben raccoglierne che la dottrina dell' Angelico intorno la cognizione riflessa, che l' anima acquista di sè stessa, suppone la percezione immediata. Prosegue: « « E in un modo universale, pel quale noi, movendo dall' atto dell' intelletto, consideriamo la natura dell' umana mente »(2) »; il che è appunto ciò che noi abbiamo detto farsi dall' uomo colle operazioni, che chiamiamo oggettivizzazione e universalizzazione . Quindi S. Tommaso stabilisce con Aristotele che la scienza dell' anima nostra propria è il principio di tutte le cognizioni, che aver possiamo degli spiriti puri: La sostanza dell' anima dunque è percettibile all' anima stessa, e non potrebbe essere percettibile, se non consistesse in un sentimento primo e fondamentale; perocchè ciò che non si sente per alcun modo, nè per alcun modo si percepisce. Laonde con pari verità e acutezza S. Agostino scrive ancora: « Nullo modo autem recte dicitur sciri aliqua res, dum ejus ignoratur substantia. Qua propter, cum se mens novit , SUBSTANTIAM SUAM NOVIT; et cum de se certa est, de substantia sua certa est (1). » Ma per applicare convenevolmente questo principio a dedurre le notizie speciali, che ci compongano una scienza dell' anima, più avvertenze si debbono aver presenti, e ne accenneremo le principali. In prima, le scienze non si compongono di cognizioni dirette , ma di cognizioni riflesse . Queste non si acquistano che allorquando la mente si ripiega sulle sue cognizioni dirette. Ora è la cognizione diretta e percettiva quella che afferma immediatamente le sostanze, e non la riflessa. Cercandosi dunque quale sia la sostanza dell' anima, e volendo rendere tale dottrina scientifica , al che non si può a meno di farvi intervenire la riflessione, è uopo che, dopo aver fatto questo, con un' altra riflessione o con più altre, separiamo dalla cognizione scientifica quegli elementi, che l' uso della riflessione vi ha posti, come abbiamo detto, e che non appartengono alla nuda sostanza dell' anima, ma al concetto riflesso di essa sostanza; altrimenti noi piglieremmo per cose attinenti alla sostanza, quelle che sono lavorii della nostra riflessione. La riflessione nostra cade assai più facilmente sugli atti dell' anima che sull' anima stessa, quale ci è data nella percezione; e gli atti sono poi necessari come stimoli della riflessione. Ma sarebbe un errore il conchiudere da ciò, che ogni cognizione, anche la cognizione primitiva dell' anima, si traesse dagli atti suoi per forma che noi la conoscessimo solo dai suoi effetti, quasi si trattasse di cosa a noi straniera, e l' anima nostra non fossimo noi stessi. Noi riflettiamo sugli atti dell' anima ad un tempo, e sull' anima. Infatti, non potremmo mai sapere che gli atti percepiti appartenessero a noi , piuttosto che ad un altro soggetto, se insieme cogli atti nostri non percepissimo noi stessi , come causa e soggetto di tali atti. Acciocchè, dunque, noi abbiamo la notizia della sostanza pura dell' anima, conviene che con una nuova riflessione separiamo dall' anima i suoi atti, benchè colla riflessione precedente noi abbiamo posto attenzione, e agli atti dell' anima, ed all' anima in pari tempo. Finalmente è da avvertire che, quando noi abbiamo oggettivizzato il sentimento dell' anima, che giace nella percezione di noi stessi, e così universalizzatane la notizia, e formatocene il concetto specifico; allora noi con altre riflessioni possiamo analizzarlo, e paragonare l' anima ad altre cose da noi conosciute, come sarebbe ai corpi, per rilevare in che rassomigli e in che dissomigli. Ora qual' è la regola, che ci deve guidare in tali analisi e confronti, per non cadere in errore? La regola si è di « conservare il concetto dell' anima, tale quale ce l' ha dato la percezione di lei e degli atti suoi insieme con lei, senz' aggiungervi cosa alcuna ad arbitrio »; la qual regola viene in conseguenza di ciò che abbiamo detto, che la percezione è il principio della scienza dell' anima. Non può essere in una scienza più che sia nel principio della scienza; onde non può essere nel concetto oggettivo ed universale dell' anima più di ciò che è nella concezione dell' anima stessa, da cui abbiamo separato il concetto. Se vi aggiungiamo dunque qualche cosa di arbitrario, egli è un errore. Ma accade pur facilmente che aggiungiamo, ad arbitrio, al concetto d' una cosa ciò che ad esso non appartiene. Noi abbiamo questa facoltà arbitraria di affermare, ed è appunto la facoltà dell' errore; suol essere la immaginazione quella che, tramettendosi in luogo della ragione, muove la nostra facoltà di affermare, ossia di persuaderci a dire che nel concetto di una cosa vi è quello che non vi è; e così a definire malamente la cosa, attribuendole una natura ch' ella non ha. Dove è l' origine di tutti i falsi sistemi intorno all' anima umana; i quali rimangono tutti esclusi e rifiutati sin dall' origine, colla regola logica da noi accennata, di « richiamare il concetto dell' anima alla percezione dell' anima, ed osservare attentamente se ciò che abbiamo posto in quel concetto, si trovi nella percezione; se vi si trova, egli è un elemento legittimo, se non vi si trova, è un elemento illegittimo e da espugnersi da quel concetto ». La qual semplicissima regola e bellissima, ci fu somministrata da uno dei nostri due grandi maestri in opera di speculazione filosofica non meno che teologica, S. Agostino; noi non l' abbiamo che tradotta in parole moderne. Distingue S. Agostino fra il conoscersi dell' anima, e il pensare che fa l' anima a sè stessa. Per conoscersi semplicemente, ella non abbisogna che di percepirsi; ma per pensare a sè, ha bisogno di riflettere (1). Colla percezione l' anima si conosce come presente , colla riflessione si cerca come assente; perchè la riflessione scientifica, di cui si parla, si volge sul concetto oggettivo ed universale dell' anima. Ora, dice S. Agostino, gli errori non cadono nella percezione , ma nell' opera della riflessione; non nel conoscersi semplicemente, ma nel pensare a sè. Quindi ammonisce che, per evitare gli errori, l' anima pensi a sè stessa come presente, non si cerchi come assente; il che è quanto dire, badi a ciò che le somministra la percezione di sè, non, abbandonata questa, a ciò che va affermando la riflessione di lei (2) come di un cotale oggetto alieno da lei: « non igitur velut absentem se quaerat cernere, sed PRAESENTEM se curet discernere (3). » Non ragioni l' uomo dell' anima propria come d' una terza cosa incognita, non supponga egli di non conoscersi; anzi intenda che si conosce già, e che altro non ha a fare che a distinguere quel sè che conosce dalle altre cose. Il carattere della percezione, aggiunge S. Agostino, è la certezza; di ciò che la percezione ci dà dell' anima, non possiamo noi dubitare. Quindi si trae quasi una spia da conoscere ciò che sappiamo dell' anima per percezione, e ciò che vi abbiamo aggiunto noi arbitrariamente per riflessione, di cui sogliamo sempre dubitare. Così, che l' anima sia il principio del sentire e dell' intendere è ammesso da tutti, niuno dubita; il che è prova che si trova nella percezione; ma che l' anima sia aria, o fuoco, o altro corpo, questo si dice con dubbiezza, non è da tutti consentito. Dunque si conchiuda che è aggiunta arbitraria, che è un errore della riflessione che batte invano; poichè se fosse nella percezione, niuno dubiterebbe (5). Questo solo argomento annulla ogni materialismo. Aggiunge il grand' uomo un altro indizio eccellente a conoscere ciò che non viene dalla percezione , che è il fedele principio della cognizione dell' anima, e quindi anche il criterio per conoscere le vere dalle false dottrine intorno a lei. Quando noi dubitiamo, così viene egli a dire, se una data natura, per esempio l' acqua, sia l' anima, osserviamo se noi pensiamo quella natura allo stesso modo come ne pensiamo un' altra, che sappiamo di certo non esser l' anima. Se la pensiamo allo stesso modo, diciamo pure che non è l' anima nostra; perocchè se fosse l' anima nostra, noi penseremmo quella natura in un modo diverso da tutte le altre nature, il che viene a dire, la penseremmo come presente e come nostra, mentre le altre nature le pensiamo solo come aliene da noi ed assenti (1). Anche S. Tommaso distingue la cognizione diretta dell' anima, che si ha per via di percezione, dalla riflessa; e dice che la prima è facile e non ammette errore, ma la seconda è difficile, perchè si deve frenare la riflessione entro i limiti di quelle cose, che nella percezione stessa si contengono, e l' eccederli fu cagione degli errori presi dai filosofi intorno alla natura dell' anima (2). Concludiamo, la ricerca scientifica della sostanza dell' anima deve essere purgata da tre appendici eterogenee, che con essa si mescolano: Da tutte quelle sostanze o qualità, che non si trovano nella percezione dell' anima nostra , e che furono aggiunte al concetto dell' anima dall' arbitrio dell' uomo; e con ciò si escludono gli errori di quelli che pretesero l' anima essere fuoco, aria, atomi accozzati insieme, e in generale di tutti i materialisti. Da tutte le relazioni attuali colla nostra riflessione medesima, come sarebbe dalla coscienza di sè, la quale è un lavoro sopraggiunto della riflessione; e con ciò si escludono gli errori di quegli ideologi, che cavano le idee dall' anima stessa (soggettivisti), o che suppongono non faccia bisogno spiegare la prima cognizione, quasi fosse data coll' anima stessa, o quasi l' anima fosse cognizione, o conoscibile per sua propria essenza. Da tutto ciò che si percepisce insieme coll' anima, cioè dagli atti delle sue potenze, i quali sono accidenti che sopravvengono all' anima, e non sono l' anima, benchè insieme coll' anima, come dicevamo, si percepiscano; giacchè l' uomo non è mosso a rivolgere la sua attenzione sopra sè stesso, e così percepirsi, se non dai suoi propri atti, i quali atti da prima sono i sensitivi, determinati dall' azione dei corpi esterni. E quindi dovendosi, ad avere la notizia pura della sostanza dell' anima, separare da essa i suoi atti accidentali, conviene separare da essa lo stesso atto della percezione, perchè neppure la percezione di sè è l' anima, anzi è una mera operazione dell' anima, con cui ella acquista la prima notizia di sè. Segregando, adunque, dal concetto dell' anima anche la percezione intellettiva di sè, non rimane che il sentimento primo e fondamentale, che è l' oggetto della susseguente percezione, e che costituisce la pura sostanza dell' anima. E questa avvertenza esclude l' errore di quelli che pretendono essere l' anima un quid del tutto incognito ed insensato, o che suppongono sotto l' Io fenomenale dover essere un altro Io sostanziale; errore da me confutato altrove (1). Finalmente, con questo metodo di filosofare intorno all' anima, noi perveniamo a conoscere due cose, a cui si riducono, come a sommi generi, tutte le psicologiche notizie; perveniamo cioè a conoscere e determinare: Che cosa l' anima è; perocchè ella è tutto ciò che si trova nella coscienza di noi stessi, ossia nell' Io , toltene tre appendici, di cui abbiamo parlato. Che cosa l' anima non è; perocchè ella non è tutto ciò che non cade nella coscienza di noi stessi, ma che è l' una o l' altra di quelle tre appendici, che noi stessi o coll' immaginazione, o colla riflessione, o colla percezione, vi frapponiamo e vi aggiungiamo. Rimane adunque che noi ci facciamo a meditare su questo sentimento sostanziale, che giace nel fondo dell' Io ; che ne distinguiamo le proprietà; e ne compiamo finalmente l' analisi più accurata. Noi abbiamo indicato nel libro precedente il fonte, onde si debbono attingere le dottrine psicologiche, il qual fonte si ravvisa nella coscienza di noi stessi. Abbiamo in pari tempo stabilito il principio della Psicologia , che giace nell' essenza dell' anima , trovata da noi consistere in un primo sentimento immanente e al tutto sostanziale . Al libro presente ed ai tre seguenti è commesso di svolgere (meditando in quel sentimento), e con accurata analisi rinvenire gli elementi, le doti, gli attributi dell' essenza dell' anima, escludendo quelli che falsamente le vengono apposti; e così di esporne la dottrina, tanto nella parte sua negativa, quanto nella parte sua positiva; cioè dicendo quello che l' anima non è, e che dall' altre sostanze la parte; e quello che ella è in sè stessa. Al quale lavoro, secondo la possibilità nostra, ponendo mano, incomincieremo a parlare dalla dote negativa dell' unità. Dovendosi dunque cavare tutta la dottrina positiva dell' anima dalla meditazione dell' Io , in prima noi tosto rileviamo ch' ella è unica in ciascun uomo, perchè ciascun uomo non è mai più che un Io . Questa dimostrazione immediata ed evidente dell' unità dell' anima esclude l' errore delle tre anime, che taluni posero nell' uomo, volendo che vi fosse contemporaneamente un' anima vegetabile, una sensitiva ed una intellettiva. Altri similmente errando, ne posero due, la sensitiva e la intellettiva. La fonte dei quali errori è palese; il non aver cercato questi filosofi quale sia l' anima umana nell' Io , dove ella è, ma altrove dove non è. Dato anche che ci fosse unito all' uomo un principio di vegetazione e di sensazione, distinto dall' Io (e vi può benissimo essere), egli non sarebbe l' anima umana, ma qualche cosa di diverso da essa. Dunque l' anima è tanto evidentemente una, quanto è evidente ad ognuno di essere un uomo solo, e non due o più. Ed è evidente, perchè glielo dice la coscienza, e la coscienza è appunto la percezione dell' anima, o la racchiude; perciò ella è il testimonio unico degno di fede ed infallibile in questo argomento. Noi scioglieremo in appresso alcune obbiezioni, che si potrebbero fare contro a tale verità. Ma a malgrado che l' anima sia unica, perchè unica ce la dice la coscienza, che è la testimonianza che immediatamente ella ci dà di sè stessa, tuttavia molte sono e diverse le sue operazioni; e queste non pure contemporanee, ma ancora successive. Qual' è dunque la relazione fra l' anima e le sue operazioni? Quella stessa che passa fra l' Io e ciò che l' Io patisce o che opera. Ora quando l' uomo dice: io sento, io intendo, io voglio, io mi muovo, ecc., egli si dichiara causa e soggetto di tutte queste azioni, sieno elle passive, ovvero attive. Dunque l' Io è il principio e il soggetto unico di tutte le passioni ed operazioni dell' anima. Ma l' Io è l' anima stessa, la sua sostanza da noi percepita ed affermata. Dunque « la sostanza dell' anima è il principio unico di tutte le diverse operazioni di lei ». Di più questo principio è sensibile, perchè l' Io si sente; è un primo originale e sostanziale sentimento, perchè l' Io è da noi sentito come tale. Dunque « l' anima è un sentimento originario e stabile, principio unico e unico soggetto di tutti gli altri sentimenti, e di tutte le operazioni umane ». Il descrivere accuratamente questo primo principio sentimentale, separandolo dai principŒ attivi inferiori, è un descrivere propriamente l' essenza dell' anima umana. Noi vedremo adunque come nell' anima si contengono quasi in loro principio tutte le operazioni, tutte quelle appendici, ch' ella prende poscia nel suo sviluppo; come ella sia l' atto primo comparativamente agli atti secondi, e gli atti secondi sieno virtualmente contenuti nel primo (1). Quelli che trovano difficoltà a consentire in questa sentenza, sono a ciò indotti dal pregiudizio che « non vi possa essere altro sentimento eccetto il corporeo ». Ma questo, come dicevamo, è un pregiudizio: si prende la specie pel genere; si conosce facilmente il sentimento corporeo, indi si conchiude arbitrariamente che ogni sentimento debba essere corporeo; dal particolare si va a precipizio nel generale. All' incontro, è manifesto a un diligente osservatore della natura che vi sono dei sentimenti al tutto diversi da quelli che a noi produce il corpo nostro od i corpi stranieri. D' altra parte niuno può dimostrare assurdo che vi siano dei sentimenti puramente spirituali, tali cioè che non terminino in alcuna estensione, nè in alcuna materia. Ora poi che un tale sentimento vi sia, assai facilmente si scorge colla immediata meditazione dell' Io stesso. Perocchè il sentimento, che esprime questo vocabolo, è al tutto alieno da ogni fantasma corporeo, non rappresenta estensione, nè forma, nè colore, nè altra proprietà di corpo qualsiasi. Dunque la sostanza dell' anima espressa nel monosillabo Io , è incorporea e del tutto immateriale; e ogniqualvolta noi vi aggiungiamo alcunchè di corporeo o di materiale, altro non facciamo che aggiungere all' Io coll' immaginazione ciò che in esso non è, ma che è termine degli atti suoi; quando abbiamo già pure veduto che l' anima non è nè i suoi atti, nè il termine dei suoi atti, e che tutte queste cose si debbono separare da lei per pervenire a lei stessa. Ma una sostanza, che non abbia niuna proprietà del corpo e della materia, si dice spirituale, ossia spirito; dunque l' anima umana è uno spirito. Ora, se l' anima è una sostanza tutta diversa dal corpo, perciò dalla morte del corpo non se ne può inferire la morte dell' anima. Di più, la parola morte altro non significa che la cessazione nel corpo degli atti della vita e dell' animazione; dunque la parola morte non si riferisce che al corpo, e sarebbe assurdo attribuirla a ciò che non è corpo. Ma spirito significa una sostanza che non è corpo; dunque lo spirito non soggiace alla morte. Ma l' anima è spirito. Dunque l' anima è immortale. Può suscitarsi tuttavia il dubbio, in chi non ha ben afferrata l' efficacia o la connessione delle proposizioni precedenti, se rimarrebbe all' uomo un proprio sentimento, quando fosse privato di tutti affatto i sentimenti corporei e spogliato dello stesso suo corpo. Il dubbio nasce dall' osservarsi che quasi tutte le operazioni del pensiero hanno bisogno d' immagini o di altri sentimenti corporei, sicchè pare che quelle cognizioni sieno piuttosto accompagnate da un sentimento corporeo, di quello che sieno sensibili elle stesse. Ma noi diciamo che anche le operazioni intellettive sono sensibili per loro propria essenza, poichè crediamo che l' essenza stessa dell' uomo consista nel sentimento, come abbiamo detto; sicchè quando l' essenza realizzata dell' uomo non fosse sensibile, non sarebbe l' uomo, nè l' uomo potrebbe percepire sè stesso. L' obbiezione maggiormente si dissipa, ove si osservi che, qualora le operazioni intellettive non fossero sensibili al loro modo, neppure potrebbero divenir tali pei sentimenti animali che vi si aggiungessero; perocchè la sensibilità animale non presenta alla nostra percezione che sè stessa; ora noi troppo bene sappiamo distinguere ciò che ci presenta la sensibilità animale, legata allo spazio, da ciò che ci presenta la sensibilità delle operazioni meramente intellettive, immuni affatto da spazio. In breve, noi ragioniamo delle operazioni intellettive, per esempio, del raziocinio. Noi troviamo in esse proprietà contrarie affatto alle leggi della materia, per esempio la inesistenza delle conseguenze nei principŒ, l' essere gli uni e le altre fuori dello spazio; la semplicità d' un atto che, operando appunto fuori dello spazio, congiunge quelle a questi, ecc., proprietà ripugnanti totalmente a quelle dei sentimenti animali. Ma non potremmo ragionare così delle operazioni intellettive, e trovare in esse proprietà ripugnanti al sentire dell' animale, se in qualche maniera esse coi loro oggetti immateriali non ci fossero sensibili; poichè abbiamo già detto che il sentimento è il primo rudimento necessario ad ogni discorso. Dunque anche quelle operazioni intellettive sono accompagnate da una loro propria sensibilità. Ora poi, se le operazioni intellettive sono accompagnate da una loro propria sensibilità, convien dire che anche la prima di tutte esse, l' operazione immanente, essenziale, che abbiamo detta « intuizione dell' essere in universale », sia essenzialmente sensibile. Quand' anche dunque l' anima fosse privata di tutti i sentimenti animali, quando fosse svestita del corpo e ridotta ad un puro atto intuente l' essere, ella conserverebbe tuttavia un proprio sentimento. Ma conviene però attentamente badare di non formarsi di questo spirituale primitivo sentimento un concetto falso ed impuro (1). Conviene non aggiungergli nulla affatto della natura del sentimento corporeo; conviene di più intendere che l' atto dell' intuizione nulla affatto si estende fuori del suo oggetto (l' essere), sicchè è, per così dire, una sensione spirituale dell' oggetto, che non rivela altro che l' oggetto termine di essa; ma, essendo un' attività, ha un principio diverso dall' oggetto, a cui aderisce in un modo indiviso, a lei essenziale, onde non se ne può staccare senza cadere nel nulla; sicchè la sensibilità propria di questo atto intuitivo è conseguente all' oggetto per esso intuìto; nè senza l' intuizione dell' oggetto, quell' atto sarebbe sensibile, perchè al tutto non sarebbe (2). La sensibilità dunque dell' intuizione primitiva viene dall' oggetto, riferito al principio soggettivo senziente (3). Di che si conchiuda che per sè l' anima umana, anche separata dal corpo, ritiene un proprio sentimento (benchè senza riflessione), e però ritiene la sua essenza, che sta nel sentire; e vive immortale. Questo è argomento efficacissimo dell' immortalità dell' anima, datoci da S. Agostino (1). Io sento in diversi modi, io fo diversi pensieri, io patisco, io godo, io medito, io opero, e sono sempre quell' Io medesimo che fo tutto ciò. Dunque quel sentimento, che giace nell' Io , da una parte è identico, dall' altra continuamente si cangia. Non è questa una contraddizione? Ma come può darsi contraddizione in un fatto? Ovvero giacciono forse nell' Io due sentimenti, l' uno dei quali stia immutabile, l' altro si muti? Ma quel sentimento che sta immutabile, come può in tal caso sentire le mutazioni dell' altro, senza riceverle in sè stesso? E se le riceve in sè stesso, dunque non si sta più immutabile, perocchè quelle diventano sue sensazioni diverse, modificazioni di lui stesso. Che se le varie sensazioni debbono cadere in uno stesso principio, acciocchè vi sia chi le senta, e le senta successive e variabili, dunque è inutile ricorrere a due sentimenti, l' uno dei quali non muti, e l' altro muti; conciossiachè deve essere quello stesso sentimento che mai non muta, che sente ciò che pur muta. Si dovrà dunque ritornare ad un unico sentimento. Ma come? Diremo dunque che quest' unico sentimento, parte è sempre eguale, parte disuguale? In tal caso incontriamo la medesima difficoltà. Perocchè sarà forse la parte che è sempre eguale, quella che riceve le varie sensazioni, che nascono nella parte mutabile? Se è così, si può ripetere il ragionamento che facemmo nell' ipotesi dei due sentimenti: la parte immutabile diviene mutabile, tosto che ammette in sè le variate sensazioni dell' altra, e così le sente, e le afferma, e sentendole ed affermandole, si modifica. Non resta dunque più niuna parte immutabile nel sentimento dell' Io ? Ma allora com' è egli identico in diversi tempi, in diversi luoghi, reggendo come subbietto infinite sensazioni, infiniti pensieri diversi? Non può disconoscersi dal sagace lettore che questo è uno dei più forti nodi della Psicologia, un nodo poco meditato, e quasi voleva dire, sorpassato dai filosofi. Se dunque è vero il nostro principio, che « dove s' incontra nelle scienze una grave difficoltà, ivi si nasconda un prezioso segreto della natura, svelato il quale, la scienza cammina libera per molto spazio con passo spedito »; quanto degno non è, che a questo cotal mistero dell' identità dell' Io , che noi proponevamo, s' applichino le nostre meditazioni? Le quali debbono pur cominciare mettendo da parte ciò che è evidente; nè conviene che il filosofo abbandoni il certo, per l' incontro di qualche difficoltà apparentemente insuperabile. Ora poi la mia propria identità è evidente: io sono certo d' essere sempre quell' Io , in tempi e luoghi diversi, sofferente ed operante cose diverse. Questa identità trovasi nel sentimento mio proprio, in quella parte di esso che chiamammo meità . E il sentimento si percepisce, non si dimostra, nè ammette errore. Perocchè abbiamo già stabilito che la coscienza di noi stessi è il sommo ed infallibile criterio della Psicologia. Dunque, quand' anche noi non potessimo intendere come l' identico sentimento riceva in sè varie modificazioni senza cessare d' essere identico, non rimarrebbe perciò meno vera la sua identità. Ma vediamo se ci riesce di trovare il bandolo d' una matassa così arruffata. Primieramente si osservi che, quando l' uomo dice « io provo ed ho provato varie sensazioni, io fo o feci varie operazioni », egli, col dir ciò, esercita sempre un' operazione intellettiva della stessa forma, salvochè in essa va cangiandosi il termine. Questa operazione si chiama affermare . Dunque l' Io afferma ora di sentire in un modo, ora di sentire in un altro, afferma ora di patire, ora di operare; ora di operare in una guisa, ora nell' altra; ma sempre afferma . Quindi se l' operazione è identica di forma, ed all' opposto varia sempre il suo termine, forza è conchiudere che vi è una specie di identità che può stare a lato d' una specie di varietà; e che altra cosa è l' operazione che fa l' Io coll' affermare i suoi sentimenti, ed altro è il termine di tale operazione, i sentimenti affermati (1). Dunque l' Io affermante è diverso dai sentimenti affermati; questi sono l' oggetto, in cui termina l' operazione dell' Io affermante, ma non sono l' Io affermante. E non potrà dunque rimanere immodificato l' Io , in quanto è attività affermante, anche cangiandosi i sentimenti che egli afferma, i quali sono diversi da quella attività? - Ma in tal caso come l' Io li affermerà, se non ne rimane affetto? E se ne rimane affetto, può essere egli immutato, immodificato? - Sia pure che l' Io rimanga affetto dai sentimenti che afferma; ma la soluzione nostra consiste nel separare l' Io affermante da ogni altra attività o possibilità, che possa cadere nell' Io . Il rimanere l' Io affetto da sempre nuovi sentimenti, è forse cagione che l' Io , in quanto li afferma, non faccia un' operazione sempre eguale? L' Io affermante, dunque, è un' attività che non cangia, quantunque cangino i sentimenti affermati, dai quali non viene modificato l' Io in quanto afferma, ma rimane sempre egualmente affermante. Anzi è necessario che l' Io rimanga affetto dai vari sentimenti, acciocchè la sua sempre eguale attività dell' affermarli possa replicare i suoi atti. L' Io dunque, in quanto è attività affermatrice , è eguale, per quantunque sentimenti molti e variati in esso si suscitino. Ora, in conseguenza di questa osservazione, risulta che i sentimenti, in quanto sono oggetti dell' affermazione, non hanno alcuna efficacia di cangiare l' attività affermatrice; ma questa nell' Io resta la medesima, benchè nell' Io stesso quelli si cangino. Dal fondo adunque dell' Io sorge l' attività affermante sopra i sentimenti , che nell' Io stesso si svolgono; e quella afferma questi, senza che questi possano cagionare in essa veruna modificazione; appunto perchè l' attività d' affermare è al tutto diversa dai suoi oggetti. Ma acciocchè l' identità dell' Io sia dimostrata pienamente, rimangono a spiegare più cose, e principalmente rimane a spiegare come l' identico Io possa essere principio di diverse attività, dell' attività di sentire cioè, e dell' attività di affermare. Perocchè, o conviene ridurre le attività diverse in una sola, o spezzare lo stesso Io in due. Infatti l' Io , in quanto afferma, è l' attività affermante; l' Io , in quanto sente, è l' attività senziente; se dunque sono due le attività, l' una affatto diversa dall' altra, conviene dire che anche gli Io sieno due, uno affermante e l' altro senziente; e in tal caso torna in campo la prima difficoltà, che rende affatto impossibile l' affermazione. Dimostreremo, prima, che per essere il sentimento e l' intellezione composti di due elementi (principio e termine), non si pregiudica all' unicità e identità del soggetto. Affine di venirne a capo, ripigliamo tutto il ragionamento, disponendolo in una serie di proposizioni, ossia di lemmi, i quali grado a grado ci conducano a dimostrare il Teorema generale, che la moltiplicità dei sentimenti e delle operazioni dell' Io non pregiudica punto alla sua unicità ed alla sua identità. Ed è tanto più necessario procedere colla maggior distinzione in un argomento così sottile, che ci fa uopo derivare molti concetti dal seno dell' Ontologia , di cui ancora non pubblicammo il trattato; onde spesso non possiamo accennare le cose come già dimostrate, ma dobbiamo insieme col lettore nostro investigarle. In ogni sentimento si distinguono due elementi opposti, che sono il senziente e il sentito. Questo fu dimostrato dall' analisi del sentimento nell' « Antropologia (1) ». Ogni sentimento è unico e semplice, cioè a dire il senziente e il sentito, che si distinguono nel sentimento, non fanno due sentimenti, ma un solo individual sentimento. Fu pure dimostrato nell' « Antropologia (2) », ed è anche per sè evidente, che un principio senziente non esiste senza qualche sentito, nè un sentito senza qualche senziente. Perciò da queste due condizioni nasce un solo sentimento. Il senziente dunque e il sentito sono scambievoli condizioni l' uno dell' altro: s' avvera in essi la legge del sintesismo, poichè dati entrambi, l' uno è dall' altro distinto di concetto; dato uno solo, nè egli sussiste più, nè tampoco rimane il suo concetto. Non sussistendo l' uno senza l' altro, nè essendovi il concetto dell' uno senza quello dell' altro a cui involge relazione, è manifesto che essi debbono costituire un solo individuo sentimento, e in un individuo sentimento debbon trovarsi: il qual sentimento è appunto la loro unione in atto. La legge dunque di sintesismo, che stringe il sentito col senziente, è una nuova prova speculativa della semplicità ed unicità del sentimento, che ne risulta. Da questo fatto del sentimento possiamo dedurre due proposizioni generali; la prima: « non essere assurdo, anzi darsi nella natura, degli individui risultanti da più elementi distinti fra loro per concetto, senza che la molteplicità degli elementi tolga la loro semplicità ed unicità »; la seconda: « gli elementi formano insieme un individuo solo, quando essi non esistono fuori di lui, ed egli risulta dall' atto della loro unione ». In ogni intellezione si distinguono due elementi opposti, che sono l' intelligente e l' inteso. Anche questa proposizione fu dimostrata coll' analisi nell' « Antropologia (1) ». Indi si possono trarre corollari simili a quelli, che furono tratti dai due lemmi precedenti. Nell' ordine del sentire l' agente è il senziente, e il sentito è il termine di quest' azione. Noi abbiamo detto le tante volte, che sentire è patire; come adunque diciamo qui, che nell' ordine del sentire l' agente è il senziente? - Conviene porre ogni attenzione a quella clausola « nell' ordine del sentire ». Le attività e le passività s' intercettano e si complicano spesso nel medesimo ente (1); sicchè in un ente stesso talora si distinguono più passività e più attività, alternate fra loro o mescolate secondo vari rispetti nei quali si considerano; ed esse appartengono all' ordine intrinseco di quell' ente. E` dunque indubitato che il principio che sente è passivo dal sentito, in quanto il sentito l' attua al sentire in quel modo; ma è del pari indubitato che è poi egli stesso, egli solo quello che sente, e non il sentito. Perciò appunto si diceva che « nell' ordine del sentire »l' attivo è il senziente, perocchè il sentito, in quanto è sentito, non sente nulla; che anzi ha opposizione all' atto del sentire, essendo il termine in cui quest' atto riposa. Quindi è che il senziente si dice principio del sentimento, che vuol dire la parte attiva di lui; e il sentito si dice termine , che vuol dire la parte, che nell' ordine del sentire non è attiva, benchè propriamente neppure si possa dire passiva (2). Infatti il sentito , come tale, non ha alcuna attività sensitiva; ma neanche patisce dal senziente. Il principio del sentire si suol dire anche soggetto , ovvero subbietto (3). Nell' ordine dell' intendere l' agente è l' intelligente, e l' inteso è il termine della sua azione. Quindi l' intelligente dicesi principio dell' intendere. Il termine dell' intendere non è punto passivo, ma solamente non è attivo nell' ordine dell' intendere, perchè non è egli quello che intende. In un ordine superiore egli è nondimeno al suo modo attivo, perchè è quello che fa che l' intelligente intenda. Il modo, col quale il termine dell' intendere fa che l' intelligente intenda, non è tale che immuti l' intelligente, come un corpo, urtando in un altro corpo cedevole, ne muta la forma, quasichè l' intelligente fosse prima di quello che lo fa intendere; ma trattasi d' un modo di azione creativa , a cui nulla risponde dall' altro lato della relazione. Ancora, osservando coll' attenzione della mente a questo modo, si vede che l' inteso è nell' intelligente, conservando però la propria essenza distinta da quella dell' intelligente. Quindi il suo modo di agire può dirsi anche comunicazione di sè , a cui non risponde propriamente la passività , ma un concetto di ricettività e di potenza prima, senz' atto. Anche il principio dell' intendere dicesi soggetto o subbietto . Se il sentito non agisce nulla nell' ordine del sentire, nè l' inteso agisce nulla nell' ordine dell' intendere, e se solo l' agente è il principio del sentire e dell' intendere, e solo dicesi soggetto; è manifesto che la dualità (principio e termine) che si ravvisa nel sentimento, nulla detrae alla semplicità ed unicità del soggetto senziente ed intelligente. Veniamo ora a dimostrare una seconda tesi, cioè che il soggetto senziente od intelligente rimane il medesimo, quantunque cangino i loro termini, cioè pel primo il sentito, e pel secondo l' inteso. La difficoltà, che esige che questa tesi sia dimostrata, si è che, quantunque da ciò che è detto apparisca che il sentito e l' inteso sieno fuori della natura senziente ed intelligente, la quale costituisce il soggetto, sicchè coll' aderire a questo non lo rendono molteplice, non gli tolgono la sua unicità; tuttavia è del pari vero che essi sono condizioni determinanti la sua attività. Onde sembra che, cangiandosi tali condizioni, anche il principio senziente o intelligente debba ricevere qualche modificazione. E veramente il sentire in un modo e il sentire in un altro, ovvero l' intendere più o meno una cosa od un' altra, sono accidenti che mutano l' azione del sentire, o l' azione dell' intendere. Ora è prima di tutto da chiarire la questione, determinando bene le diverse parti ch' ella abbraccia. Il che noi faremo colle seguenti osservazioni. Primieramente è certo che, dato un individuo reale, egli può conservare la sua identità, quantunque più cose si mutino in lui. Affine di vedere come ciò sia, è necessario stabilire che non tutto ciò che si trova in un individuo, è ciò che dà il nome all' individuo e lo costituisce quell' individuo, quel soggetto. Ciò apparisce dall' analisi, che abbiamo fatto di sopra, del sentimento e dell' intellezione. Dalla quale analisi apparì che ciò che si chiama soggetto senziente non è già tutto ciò che si trova nel sentimento, ma solo il principio attivo del sentire; e che ciò che si chiama soggetto intelligente non è già tutto ciò che si trova nell' intellezione, ma il solo principio attivo dell' intendere; il che basta a farci conoscere che la soluzione della tesi, che ci siamo proposta, deve dipendere dall' accurata determinazione di ciò che in un dato soggetto si deve rimanere immutabile, acciocchè il soggetto conservi la sua identità. Trattandosi adunque del soggetto senziente e del soggetto intelligente, noi intanto abbiamo trovato di certo questo, che l' immutabilità cercata non può, nè deve rinvenirsi che nel solo principio di essa. Ora, dato che si cangi il sentito o l' inteso, non può negarsi che si cangi l' azione del principio senziente e del principio intelligente, poichè quest' azione si porta ad altri termini, o si accresce, o si diminuisce sopra gli stessi termini. Ma è da osservarsi che l' azione stessa si deve distinguere accuratamente dal principio dell' azione , e che niente ripugna a pensare che il principio sia identico ed immutato, mentre l' azione si muta. Si dirà: se il principio opera diversamente, egli stesso soggiace a mutazione. - Il dir questo sarebbe un mostrare di non avere bene afferrata la distinzione che facciamo, fra il principio dell' azione e la sua azione. Il principio è unito all' azione, ma non è l' azione; poichè se fosse l' azione, cesserebbe dall' essere principio di essa. La parola principio indica un primo punto semplice e immutabile; se vi si aggiunge qualche cosa, non è più principio. E` vero che non si può disgiungere dall' azione, ma si può e si deve distinguere realmente da essa; anche qui torna la legge del sintesismo, per la quale due cose stanno inseparabilmente unite senza confondersi. Essendo adunque il principio un punto semplice anteriore logicamente all' azione, la quale si può rassomigliare alla linea che da quello discorre, non è assurdo immaginare che da un solo e medesimo principio più e varie azioni procedano, come non è assurdo che da un punto medesimo partano più linee, senza che il punto si cangi. Il principio dell' azione si può dunque e si deve col pensiero nostro separare dall' azione, riconoscendo quello immutabile, mentre questa è mutabile. Ma se l' azione nasce per la virtù del principio, conviene dunque dire che tutte le azioni, che da un principio procedono, sieno nella virtù del principio contenute. Sì certamente; e questo è ciò che attesta il consenso del genere umano, che da tale osservazione trasse il concetto di virtù di potenza, di atto primo distinto dagli atti secondi, i quali sono appunto le azioni, che dall' atto primo fluiscono. Nel primo principio adunque vi è una certa attività, dalla quale, verificate le condizioni, nascono le azioni. Quell' attività, potenza, virtualità o atto primo , come meglio si voglia chiamare, rimane sempre la stessa, unica, semplice, anteriore alle azioni tutte; e ad essa gli uomini attribuiscono il nome di sostanza, dal quale nome sono escluse le azioni; come pure le attribuiscono quello di soggetto sostanziale, tanto è vero che tutti convengono nel separare il principio delle azioni dalle azioni stesse, e nel sentire l' importanza di parlare di quello, separandolo da queste. E` così che nacque anche la distinzione comune fra la sostanza e gli accidenti . « La sostanza è ciò che la mente concepisce in un ente, senza che le bisogni ricorrere ad altro per formarsene un primo concetto ». E` chiaro che non si può concepire l' accidente da sè solo, ma si deve ricorrere alla sostanza per la quale sussiste. Così parimenti non si possono concepire le azioni seconde da sè sole, ma la mente per averne il concetto deve ricorrere ad un principio che le produca, perocchè non possono stare le azioni seconde senza il loro principio causale. Ma quando io sono pervenuto a trovare il primo principio delle azioni in ogni dato ordine di attività, non posso andare più avanti e debbo fermarmi. Questo primo principio, adunque, viene concepito dalla mente, senza che le bisogni salire ad un altro principio ulteriore, che sia nell' ente di cui si tratta; la mente ivi s' arresta, e lo dichiara esistente in sè stesso (1). La sostanza si definisce ancora: « « l' atto onde sussiste l' essenza specifica ». » Ora, in qualsivoglia soggetto il primo principio delle azioni è quel primo atto appunto, in cui sussistono tutte le azioni, e perciò il primo principio del sentire e il primo principio dell' intendere, se stanno separati, sono sostanze. Quindi è che, essendo l' atto primo di un ente ciò che costituisce la sua sostanza, e gli atti secondi solendo essere accidentali, si suol aggiungere al concetto di sostanza quello d' immutabilità e di permanenza relativamente alle sue azioni; e a queste si suol attribuire la mutabilità e transitorietà. Solamente qui si porge la questione: « che cosa sia che determina un atto primo (una sostanza) ad avere in sè la virtù, che si estende ad un certo determinato gruppo di atti secondi piuttosto che ad un altro ». E la risposta si deve ripetere quanto alla possibilità di questi gruppi, dall' ordine intrinseco dell' essere; il quale ordine esclude la possibilità che certe azioni si trovino insieme virtualmente comprese in una potenza, e certe altre consente che insieme s' associno e si fondino in una sola potenza (2). Quanto poi alla reale sussistenza di tali sostanze, la ragione unica è nella volontà del Creatore, che trasse all' atto della sussistenza piuttosto le une di quelle che non involgevano contraddizione, che le altre. Un' altra osservazione non posso trapassare, la quale si è che tutta l' attività del principio senziente è determinata dal sentito, e che tutta l' attività del principio intelligente è determinata dall' inteso. Questo risulta dall' analisi del senziente e dell' intelligente, che abbiamo già fatta; poichè abbiamo veduto che il senziente non sente se non in quanto gli è dato il sentito; e che l' intelligente non intende se non in quanto gli è dato l' inteso. Se dunque il sentito determina l' attività del senziente, e l' inteso determina l' attività dell' intelligente, ne viene di necessaria conseguenza che il senziente, per rimanere identico, debba avere inerente fin dal principio di sua esistenza un sentito, nel quale virtualmente si comprendano tutte le future sensazioni. E del pari, se l' inteso determina la sfera d' attività dell' intelligente, l' intelligente non può rimanere identico nelle successive sue intellezioni, se non a condizione che fino dal primo suo esistere egli abbia inerente un inteso, nel quale virtualmente si comprendano tutti gli oggetti, che si possono poscia rappresentare al suo intendimento. Ora, colui che avrà bene afferrato questa osservazione, troverà in essa una dimostrazione efficacissima della nostra teoria intorno al sentimento fondamentale, e intorno all' essere universale intuìto dall' anima umana per natura; perocchè solo in questa teoria si verifica che l' uomo, in quanto è senziente, senta virtualmente fino dal primo istante tutto ciò che gli accade di sentire dappoi distintamente, non essendo le sensazioni corporee che modi dello stesso sentimento fondamentale (1); e che l' uomo, in quanto è intelligente, intenda pure virtualmente ogni cosa che viene poscia ad intendere distintamente, intuendo l' essere universale, al quale si riduce l' entità intelligibile di tutte le cose. Laonde, supponendo che sia provata la semplicità ed identità del principio senziente ed intelligente nelle varie sensioni del primo, e nelle varie intellezioni del secondo, rimane provata egualmente la verità del nostro sistema. Che se in quella vece si muove dal nostro sistema, cioè si ammette la verità del sentimento fondamentale e dell' intuizione dell' essere, in tal caso rimangono sciolte le difficoltà più sottili, che si possano fare intorno alla semplicità ed identità del principio senziente, la quale diviene una necessaria conseguenza. E qui consideri il sapiente lettore l' armonia del vero, posciachè verità così lontane in apparenza, qual' è l' identità del principio senziente ed intelligente (non messa in dubbio da veruno), e l' esistenza del sentimento fondamentale e dell' intuizione dell' essere, consentono e consuonano mirabilmente fra loro, si sostengono a vicenda, e l' una diviene prova dell' altra, poichè ciascuna contiene l' altra occultamente nel proprio seno. Rimane l' ultima difficoltà, la quale non ci deve dare oggimai gran pena dopo superate le precedenti. Ella si è: « come il principio senziente ed il principio intelligente possano essere un principio unico nell' uomo ». Affine di soddisfarvi, ritorniamo alla dottrina che abbiamo dato della sostanza . Dicemmo che la sostanza è quel primo principio operativo di un ente, onde fluiscono le sue azioni e passioni, e quindi i suoi stati diversi; nel qual principio queste azioni, passioni e stati diversi si contengono virtualmente, cioè in quella sua virtù, attività, o potenza che ne è la causa efficiente. Dicemmo ancora che di queste azioni, passioni e stati si possono concepire diversi gruppi, benchè non si possa dimostrare a priori che ogni gruppo sia possibile, cioè che sia riducibile in un atto primo, in una prima virtù, in un primo principio sostanziale. A determinare a priori quali di questi gruppi possano essere compresi virtualmente in un primo principio sostanziale, si richiederebbe nientemeno che il conoscimento compiuto dell' intrinseco ordine dell' essere. Ma l' intrinseco ordine dell' essere non si conosce dall' uomo immediatamente, si raccoglie a brano a brano dall' osservazione e dall' esperienza. Quindi allorquando l' osservazione o l' esperienza manifesta all' uomo l' esistenza di un gruppo di attività, unito in un unico principio sostanziale, allora l' uomo è autorizzato a conchiudere che un tal principio sostanziale può darsi, perchè ab esse ad posse datur consecutio . Ora è l' osservazione interna quella che attesta all' uomo che egli è un principio unico, e senziente ed intelligente al tempo stesso; poichè ogni uomo può dire a sè stesso: quell' Io che sento, sono quell' Io medesimo che intendo; e se non fossi il medesimo, non potrei sapere di sentire, nè ragionare sulle mie sensazioni. D' altra parte niuna ripugnanza vi è che l' attività sensitiva abbia uno stesso principio dell' attività intellettiva, quando ben si considera che da un principio medesimo, come dicevamo, possono incominciare più azioni, come da uno stesso punto possono incominciare più linee. Ma è da confessarsi tuttavia che, anche dopo di ciò, rimane a vincere un' obbiezione gravissima. Noi abbiamo detto che a costituire un principio senziente è necessario che si concepisca un sentito primitivo, che virtualmente comprenda tutte le speciali azioni di sentire, che egli può fare in appresso; e nell' uomo questo sentito primitivo e fondamentale è il proprio corpo sensibile nello spazio. Abbiamo detto ancora che a costituire un principio intelligente è necessario un primitivo inteso, che virtualmente comprenda tutto ciò che deve poscia essere inteso; e nell' uomo questo inteso è l' essere universale. Ora, se il principio senziente è costituito dal sentito corporeo, e il principio intelligente dall' essere intelligibile, converrà dire o che l' esteso corporeo e l' essere intelligibile si identificano, ovvero che costituiscono due principŒ diversi, e non mai un solo. Affine di rispondere a questa gravissima obbiezione conviene osservare che in ogni sentito vi è un' entità; perocchè ogni atto qualsiasi è un' entità. Ma nell' entità sentita manca affatto la luce intelligibile, manca la conoscibilità, come si vede dal fatto, giacchè la parola entità sentita non è la entità intesa; sicchè il dirsi sentita piuttosto che intesa , è lo stesso che escludere dal sentimento la conoscibilità. All' incontro, l' intelligente ha per suo oggetto l' entità intesa , poichè il principio intelligente non fa altro che intendere, e ogni cosa ch' egli intende è necessariamente entità. Dunque il termine del principio senziente e il termine del principio intelligente sono egualmente entità . Vi è dunque nei loro termini una identificazione. Ma in che dunque si distinguono? - Si distinguono nella diversa maniera colla quale la stessa entità aderisce allo stesso principio. Conciossiachè l' entità si comunica al principio senziente nel suo modo di sentita, che io chiamo anche realità e attività, laddove al principio intelligente si comunica nel suo modo d' intesa, che io chiamo anche idealità, intelligibilità, conoscibilità, luce, ecc.. Poste le quali cose, vedesi chiaramente come il principio senziente e il principio intelligente possono compenetrarsi, fino a formare un solo e medesimo principio d' operare; giacchè si ha il medesimo termine in entrambi i principŒ, benchè ad uno di essi questo termine aderisca in un modo, e si comunichi in una delle sue forme, e all' altro di essi aderisca in un altro modo, e si comunichi in un' altra delle sue forme. Sono adunque due i principŒ, se si considera la forma nella quale l' entità si comunica; ma è un solo principio, se si considera l' entità stessa che si comunica, prescindendo dalle sue forme. Si possono dire due i principŒ, purchè si riconosca che nell' uomo non sono principŒ primi, ma v' è al di sopra un principio primo ed unico, che li tiene subordinati e congiunti a sè; il qual principio primo si riferisce all' entità , e non alle forme della medesima; ed è il principio che sintetizza, sia nell' ordine teoretico manifestandosi col carattere di ragione , sia nell' ordine pratico manifestandosi col carattere di volontà . Onde questo principio intellettivo, in quanto è superiore, è il punto da cui partono le due attività, cioè la sensitiva e l' intellettiva, e dicesi principio razionale . Da quanto abbiamo ragionato fin qui, apparisce che l' anima umana è un soggetto unico sostanziale . Ella è un soggetto , perchè è un primo principio delle azioni dotate di sentimento (1); ed è una sostanza , perchè questo principio si concepisce dalla mente esistente in sè stesso, e non in un altro a lui anteriore nell' ordine del sentire e dell' intendere. E` da notarsi la differenza che passa fra l' appellazione di sostanza e quella di soggetto sostanziale . La parola soggetto , da noi riserbata ad esprimere il principio attivo di un sentimento, viene a nominare l' anima da quella parte appunto, che ne costituisce l' essenza semplicissima. La parola sostanza , che indica l' atto primo pel quale tutto l' ente sussiste, abbraccia tutto ciò che egli fa sussistere, e però abbraccia tutto il sentimento, sì nel suo principio che nel suo termine; onde giustamente si dice che il primo sentimento è sostanza, purchè si riguardi dall' aspetto del principio anzichè da quello del termine, appunto perchè l' atto, che fa sussistere il sentimento, è il principio di esso (1). Dalla quale distinzione fra sostanza e soggetto sostanziale si rileva che non si può chiamare soggetto sostanziale se non l' ente sensitivo o intellettivo; laddove il nome di sostanza conviene anche ai corpi inanimati, in quanto che la nostra mente li concepisce con un atto loro proprio di sussistere. Noi abbiamo fin qui investigata l' intima costituzione dell' anima, e ce ne risultò: Che l' anima umana è un principio unico e semplice, senziente ad un tempo ed intelligente. Che questo principio è un' attività, nella quale si contengono virtualmente tutti gli atti secondi, sensioni, intellezioni, ecc.. Che ciò che determina la sfera di questa attività è il primo sentito e il primo noto , cioè quel sentito e quel noto, che aderisce per natura al principio attivo; poichè in questo sentito fondamentale sono virtualmente comprese tutte le sensioni che vengono appresso, e in questo noto sono compresi gli oggetti di tutte le intellezioni distinte, che possono mai aver luogo. Ora queste dottrine fanno nascere una questione necessaria a compire il ragionamento intorno all' identità dell' anima, la quale si è: « Sarebbe possibile che si cangiasse il sentito o l' inteso primitivo dell' anima umana? E cangiandosi, conserverebbe ella la sua identità? ». Rispondesi che un tal cangiamento non involge contraddizioni nel suo concetto. Quanto poi all' identità dell' anima, non può dirsi se ella si conserverebbe, se non distinguendosi i cinque cangiamenti, che si possono concepire nel sentito o nell' inteso primitivo, e che sono questi: rimozione del sentito e dell' inteso, rimozione dell' inteso solo, rimozione del solo sentito, aggiunta o mutazione del sentito, aggiunta dell' inteso. Esaminiamoli per singolo. Se venisse rimosso interamente il sentito e l' inteso, il soggetto senziente ed intelligente sarebbe annullato, l' anima non sarebbe più. Se venisse sottratto all' anima umana l' inteso primitivo, cesserebbe la sua identità. La ragione di ciò si trova nell' ordine, che hanno fra di sè il principio del sentire e il principio dell' intendere, che nell' anima umana si uniscono in un principio solo. L' ordine loro si è che il principio intelligente è superiore al principio senziente, di maniera che è egli che dà prossimamente l' origine al principio comune dell' intendere e del sentire. Noi veniamo a riconoscere questo vero, se osserviamo che è solo un principio intelligente quello che dice: « io sento », giacchè il dire: « io sento », è un pensiero, che l' uomo fa sulle proprie sensazioni, e il pensiero appartiene a un principio intelligente. All' incontro il principio senziente non può dire nè « io sento », nè « io intendo »; non può dire affatto nulla, ma può solo sentire. E` vero che sopra l' attività sensitiva e intellettiva vi è un principio comune, che rende l' uomo consapevole delle sue sensioni e delle sue intellezioni, e le unisce insieme; ma questo principio è immediatamente formato dalla attività intellettiva, e dicesi razionale, perchè è un atto intellettivo, che fa unione delle sensioni e delle intellezioni. Ora, venendo rimosso l' inteso primitivo, cesserebbe l' intelligenza, e quindi cesserebbe il primo principio dell' anima. Ma l' anima ha la propria essenza in questo primo principio razionale, come abbiamo veduto; onde, privata di questo, perderebbe la sua identità, cesserebbe dall' essere quell' ente, che presentemente denominiamo anima umana. All' opposto, dato che si rimovesse dall' anima il sentito primitivo, ella non perderebbe la sua identità, perchè il suo principio primo, che costituisce la sua essenza, sarebbe conservato. Vero è che cesserebbe in lei il principio prossimo del sentire; ma l' attività intellettiva, essendo principio superiore, conterrebbe sempre nella sua virtù anche il principio del sentire, sebbene non si potrebbe dire che questo attualmente esistesse. Tuttavia lo stato dell' anima, privata del fondamentale sentimento corporeo, sarebbe immensamente cangiato. Al principio intellettivo sarebbe resa impossibile ogni percezione, ogni affermazione, e quindi anche la consapevolezza di sè stesso. Rimarrebbe tuttavia all' anima il sentimento proprio, ma ella non avrebbe più nessuna ragione sufficiente, nessuno stimolo, che la inducesse a ripiegare la propria attività intellettiva sopra un tal sentimento ed a percepirlo; perocchè questa è legge dell' anima umana, ch' ella a principio sia tratta ai suoi atti da stimoli diversi da sè, e che solamente in appresso ella possa proporsi un fine, pel quale operi indipendentemente dagli stimoli; tolte adunque a lei le sensioni accidentali ed acquisite, ed anche il sentimento fondamentale corporeo, ella non ha per natura sua propria alcun bene reale, a cui possa bramare di congiungersi, e che possa proporsi a fine di sue operazioni; quindi non può neppure riflettere su sè stessa (1). Se si aggiungesse qualche cosa al sentito primitivo dell' anima, l' anima avrebbe certamente ricevuta una mutazione sostanziale; ma il suo primo principio attivo, in cui consiste la sua essenza, non si sarebbe però cangiato, e quindi l' anima sarebbe rimasta identica. Tuttavia l' attività del principio primitivo si sarebbe ampliata, quanto alla materia delle sue operazioni. L' anima, nel caso supposto, conservando tutto il sentito primitivo, potrebbe anche conservare la memoria di sè stessa e del suo stato precedente, e quindi essere conscia di sua identità. Ma che si avrà a dire, se il sentito primitivo non si conservasse, ma si cangiasse del tutto in un altro? In questa supposizione dico che l' anima conserverebbe la propria identità, perchè si conserverebbe intatto il principio primo, che è intellettivo; ma ella non potrebbe essere conscia di questa identità, perdendo la memoria del suo stato precedente, giacchè la memoria e consapevolezza di questo stato si fonda nelle percezioni avute precedentemente, le quali cesserebbero. Si potrebbe dubitare se forse non potessero rimanere le idee astratte formate precedentemente, le quali non esigono immagine corporea. Ma io credo che non potrebbero rimanere, se non forse come mere attitudini, e, posto anche che rimanessero nel fondo dell' anima, non sarebbe a lei dato di contemplarle attualmente, se non a condizione che il nuovo sentito avesse col primo qualche rapporto, qualche legge di associazione. Poichè, quantunque le idee astratte non abbiano in sè stesse bisogno d' immagine corporea, tuttavia sono legate alle sensazioni ed alle immagini, od ai loro vestigi siffattamente che, privato l' uomo di queste, egli non può volgere la sua attenzione a quelle sole, sì perchè non ha ragione di farlo, e sì perchè la sua attenzione rimane priva di una guida, che la conduca a trovarle e ad avvertirle, di maniera che le idee astratte nell' uomo, privo al tutto di sensioni e d' immagini, o di vestigi che a quelle si riferiscono, posto anche che essere vi potessero, rimarrebbero in quello stato appunto in cui sono, quando non ci si pensa, prive di coscienza. Ma, come dicevo, assai più probabile mi sembra che non rimarrebbero al tutto tali idee nell' uomo; perocchè elle consistono essenzialmente in una relazione col reale; e il reale a cui riferire l' essere ideale manca, se il nuovo sentito si suppone non avere similitudine [analogia] col precedente, poichè la sostanza dell' anima neppur essa presenta similitudine alcuna col sentito precedente. Non si pone il caso di mutazione nell' inteso primitivo, ma solo di una aggiunta al medesimo, perchè l' inteso primitivo non può mutarsi, essendo egli immutabile di natura, nè può diminuirsi, essendo l' essere ideale semplicissimo di concetto; ma egli può ben accrescersi. Accrescersi poi egli può in due maniere, o col determinarsi in esso i concetti, o col realizzarsi dell' essere stesso essenziale. I concetti sono positivi o negativi. Positivi sono quelli che si fondano in una realità da noi percepita. Se si accrescono nella mente umana i concetti, che si fondano in quelle realità che l' uomo percepisce, in tal caso non è mutato sostanzialmente il suo essere; ma in qualunque maniera gli si accrescano questi concetti nel suo intendimento, essi già si trovano virtualmente compresi nel suo sentito e nel suo inteso primitivo. Se poi si parla di concetti, che si riferiscono ad altre realità, diverse da quelle che virtualmente si contengono nel suo sentito primitivo, questi non gli possono essere dati in nessun modo, a meno che non gli si dia il sentito corrispondente a quei concetti; e in tal caso la questione reincide in quella, che precedentemente abbiamo trattata, della ipotesi che venga cresciuto il sentito primitivo. I concetti negativi sono quelli coi quali l' uomo conosce un ente, non già inteso in sè stesso, ma per qualche sua relazione con altro ente cognito. E questi concetti, per quanti ne acquisti l' anima umana, non hanno virtù di cangiarla sostanzialmente. Il caso poi che l' inteso primitivo s' accresca mediante la realizzazione dell' essere, oggetto essenziale, è sommamente importante a considerarsi, perchè è ciò che fa passare l' uomo dall' ordine naturale all' ordine soprannaturale. L' essere essenziale, oltre essere luce della mente, diviene allora anche sentito. Ma poichè l' essere reale in tal caso è identico coll' essere ideale, quindi il principio che prima intuiva l' essere ideale, rimane ancora identico, benchè senta la realità dell' essere. L' anima dunque, il soggetto sostanziale, non perde la sua identità, ma acquista nuova infinita dignità; ed è lo stesso intelletto che intuisce quella, e percepisce questa contemporaneamente. Ciò che si è mutato è stato propriamente il sentito, cioè si è aggiunto al sentito precedente un sentito essenzialmente diverso, infinitamente maggiore del primo, un sentito che appartiene al senso intellettivo. Quindi il principio primo che unisce il sentito e l' inteso, e che è fonte della ragione e della volontà, non mutò sua natura, ma la accrebbe infinitamente. L' aggiunta d' attività, che vi si fece, è più grande e più elevata di tutta l' attività che egli s' aveva prima: un principio nuovo di operare gli si aggiunse, cioè il principio di operare in un modo soprannaturale. Ora il primo principio , che raccoglie in sè tutte le attività inferiori, si chiama persona , in quanto contiene virtualmente l' attività suprema fra tutte le altre. Quindi, benchè egli conservi la sua identità come soggetto , diviene tuttavia una persona nuova, in quanto riceve un' attività nuova, superiore di lunga mano a quella che s' aveva prima (1). Conosciuto in che consista la sostanza dell' anima umana, e quali sieno le principali sue proprietà, rimane che noi investighiamo le differenze che la separano dalle pure intelligenze, e da altre nature a lei affini. L' anima umana, pertanto, è quel primo principio del sentire e dell' intendere che, senza cessare d' essere uno e di avere un' unica attività radicale, viene costituito da un sentito esteso e corporeo, e da un inteso che è l' essere indeterminato. Si dice primo principio , perchè l' anima è un principio superiore al principio sensitivo; è un principio che contiene virtualmente nel suo seno il principio sensitivo, di maniera che l' attuale esistenza di questo principio appartiene bensì alla natura dell' uomo, ma non all' essenza dell' anima, alla quale è sufficiente che il principio del sentire animale sia in essa virtualmente contenuto. Quindi si può segnare la differenza che separa l' anima umana, sì dalle pure intelligenze (1), e sì dalle anime delle bestie; poichè l' anima umana sta quasi fra gli Angeli e le anime belluine. Agli Angeli manca il sentito corporeo, e quindi vanno privi del principio del sentire animale e delle animali sensioni. Non sono passivi dai corpi, ma sono attivi; e invece dei sentimenti animali posseggono il sentimento delle proprie attività e loro termini; il che dichiareremo più ampiamente, se a Dio piaccia, nella Cosmologia o nella Teosofia. Le anime belluine altro non sono che principŒ del sentire corporeo disgiunti dall' attività intellettiva. Questi principŒ attualmente costituiti, appunto perchè sono soli, sono altresì primi, ed essendo attività prime, non possiamo negar loro il nome di principŒ sostanziali o di sostanze. Quindi anche apparisce in che relazione stia l' anima dell' uomo, la sostanza dell' anima, con tutto l' uomo, preso l' uomo a significare la natura umana (2). L' uomo, cioè la natura umana, è quel composto che risulta dall' anima e dal corpo personalmente uniti. Da una tale unione nasce un unico individuo; questo individuo è unico, perchè ha un solo principio supremo, che raccoglie nel proprio seno virtualmente tutte le attività inferiori; e questo principio supremo è la sostanza dell' anima umana. Essendo dunque la sostanza dell' anima umana il principio attivo, il principio che abbraccia virtualmente tutte le altre attività che sono nell' uomo, suol dirsi la forma dell' uomo; giacchè la parola forma fu presa fino dai tempi antichissimi per « la prima virtù attiva, che trovasi in un dato ente, per la quale esso è quell' ente, anzichè un altro ». Il qual vero ci gioverà confermare con un luogo di S. Tommaso, dov' egli spiega come l' anima si dichiari dagli Aristotelici atto del corpo , perocchè, dice, « in eo, cujus anima dicitur actus, etiam anima includitur, eo modo loquendi quo calor est actus calidi, et lumen est actus lucidi; non quod seorsum sit lucidum sine luce, sed quia est lucidum per lumen. Et similiter dicitur, quod anima est actus corporis etc., quia per animam et est corpus, et est organicum, et est potentia vitam habens (1) ». Ma nell' uomo, oltre esservi un' attività che costituisce il soggetto, si ravvisa qualche cosa d' altro, che non appartiene a quell' attività, ma che conferisce a suscitarla. Questo è l' inteso primitivo, che non è l' attività d' intendere, ma è ciò che la rende possibile e sussistente, onde acconciamente si dice forma dell' intelligenza , in quanto al principio soggettivo aderisce, e lo rende intellettivo. Egli è un elemento extra7soggettivo, termine dell' intelligenza, e propriamente suo oggetto . Dicendo suo oggetto , veniamo a dire un termine, che si distingue dal principio intelligente coll' atto stesso che viene a quel principio comunicato; sicchè si comunica senza confondersi, anzi distinguendosi da lui, da ogni soggetto (per intuizione). Così del pari il sentito primitivo non è l' attività senziente, ma è un elemento extra7soggettivo. Questo elemento extra7soggettivo non ha però relazione di oggetto al soggetto, giacchè il senziente, come senziente, non lo distingue da sè, ma semplicemente lo sente. Infatti in ogni sensione il principio senziente non è sentito in modo distinto dal suo termine; è solo l' intelligenza quella che poi lo distingue; il termine della sensione ed il senziente costituiscono un solo sentimento, nè possono mai divenire due per nessun atto sensitivo, perchè la sensitività non si riflette sopra sè stessa, ma finisce nel suo atto senza più. Il sentito adunque si può chiamare termine del senziente, ma non oggetto . Tuttavia come l' inteso primitivo (oggetto) si può chiamare forma dell' intelligente, così anche il sentito si può chiamare forma del senziente; perocchè l' inteso e il sentito sono propriamente l' ultima perfezione, la cima, e, come dicevamo, il termine dell' atto d' intendere e di sentire. V' è però un' immensa differenza fra l' una e l' altra forma; poichè l' oggetto essenziale è una forma necessaria e tale che, anche annullandosi tutte le menti umane, ella non può annullarsi, sicchè esige e suppone una mente eterna, dove non venga mai meno (1); laddove il sentito corporeo è manifestamente contingente, e può essere annullato. Ma noi abbiamo altrove descritto il sentito primitivo come materia della potenza di sentire (2); abbiamo di poi detto che la materia non è il sentito primitivo, ma è quella forza estranea al sentimento che lo immuta, e la chiamammo sensifero (3). Ora qui sembra che produciamo una terza sentenza, dicendo che il sentito è forma del senziente. Non sono queste altrettante contraddizioni? E` dunque uopo che noi ci conciliamo con noi stessi. Diciamo che in queste tre dottrine v' è una contraddizione apparente, ma non reale. E l' apparenza di contraddizione viene prodotta dalla complicazione delle azioni e delle passioni, che si producono nell' interno dell' essere sensitivo. Perocchè la parola materia significa qualche cosa di relativo, ed ella cangia significato, cangiandosi i termini precisi della relazione. Definiamo la materia. « La materia è un elemento costituente una data entità, estraneo però all' attività dell' entità costituita, e sussistente in virtù della stessa attività »(1). Pigliamo ora a disaminare l' ente sensitivo. Se in esso noi consideriamo l' attività senziente , è chiaro: 1 che il sentito primitivo è un elemento costituente questa attività, perocchè senza il sentito non si dà l' atto del sentire; ma è chiaro ancora, 2 che questo elemento è estraneo all' attività, perchè il sentito non è il senziente, anzi è a questo opposto; e tuttavia è pur chiaro, 3 che da questa attività, cioè dall' atto del sentire, è posto in essere il sentito, perchè il sentito non ci sarebbe senza l' atto del sentire, di cui è contemporaneamente l' effetto. Quindi il sentito è [può dirsi in questo senso] materia del sentimento, come fu detto nel « Nuovo Saggio ». Solamente ivi abbiamo osservato che questa condizione di materia appartiene al sentito primitivo ed immanente, e non al sentito delle sensazioni acquisite, perchè infatti quel solo costituisce l' ente sensitivo, e non questo. Laonde dicemmo che il sentito primitivo è materia dell' ente sensitivo, e i sentiti posteriori sono termini delle operazioni dell' ente sensitivo. Niente tuttavia impedirebbe di chiamare questi sentiti accidentali, materia delle accidentali sensazioni. Questo discorso è dunque pienamente vero, qualora si considera la potenza del sentire , e non il suo atto; cioè quando si considera questo atto nel suo formarsi, non l' atto già bello e formato. Perocchè è certo che nello stesso formarsi dell' atto primitivo del sentire, il sentito ancora non esiste; ma esiste solo quando l' atto del sentire è interamente formato. Onde in questo momento l' attività è dalla parte del principio operante, e la passività dalla parte dell' effetto (il sentito), che va ad essere prodotto. Il sentito adunque, considerato in questo momento, ha il carattere di materia, che viene quasi invasa dall' atto senziente. Ma se si considera l' atto del sentire in quel momento, nel quale egli è già formato, nel quale il suo sentito non è in potenza, ma egli stesso è in atto; certo è che il senziente in tal momento sente in virtù del sentito, appunto perchè questo sentito è l' ultima evoluzione e perfezione di lui, e per così dire la sua estremità. Onde in quel momento dell' ente sensitivo, in cui egli è appieno naturato, il sentito può chiamarsi sua forma; non perchè il sentito senta, ma perchè è ciò, per cui il senziente sente. Non è dunque forma, in quanto il sentito sia l' attività senziente, ma è forma, in quanto l' attività non si dice senziente se non dopo che ha prodotto il sentito; benchè l' attività non ancora senziente, ma in via di divenir tale, preceda il sentito. Potendosi adunque distinguere due momenti dell' essere senziente contingente, l' uno quando sta per divenire senziente, e l' altro quando è già divenuto; nel primo il sentito, che non è ancora, ma che sta per essere prodotto, veste il concetto di materia e di un cotal termine passivo; nel secondo che il senziente è nel suo atto completo, il sentito veste il concetto di forma, perchè questo atto abita per così dire in lui, e per lui è completo. E` dunque il sentito primitivo materia della potenza di sentire, non ancora attuata come potenza; è forma della potenza attuata come potenza. Quantunque questi sieno aspetti diversi o sguardi dell' intelligenza, tuttavia hanno un loro proprio valore; e senza tenerli distinti, il linguaggio che sopra di essi è formato, si confonde e rende falsi concetti. Ora, come può esser vero anche quello che dicevamo nell' Antropologia , cioè che materia si dice propriamente non il sentito, ma quella forza bruta che immuta il sentito primitivo, appellata sensifera ? - Ivi davamo la distinzione fra corpo e materia , e dicevamo che al concetto di corpo basta un sentito esteso; perchè nel sentito esteso « « vi è la forza con virtù diffusiva nell' estensione » », che sono i due elementi costituenti il concetto di corpo (1). Ma osservavamo di più che oltre il sentito , nella natura si presenta qualche cosa come anteriore al sentito, quasi un cotal sostrato del sentito medesimo, ed è una forza che non entra a costituire il sentito, ma a mutarlo; onde noi ne conosciamo l' esistenza per la violenza che sentiamo farci, quando ci viene tolto un sentito, e sostituito un altro (2); ed altresì per la percezione extra7soggettiva. Ora a questa forza, che propriamente cagiona il sentito, si dà il nome di corpo in senso proprio. Noi non conosciamo l' esistenza di questa forza anteriore al sentito ed al corpo soggettivo, se non a cagione di quello che essa opera nel sentito stesso, per la violenza con cui lo altera e lo immuta. Dunque la base positiva del nostro concetto di corpo è il sentito , cioè il sentito è la prima cosa che noi conosciamo del corpo; onde, da esso solo argomentando, ce ne formiamo il primo ed essenziale concetto. Il concetto adunque di corpo involge essenzialmente l' attuale sua sensibilità. Ma la forza che sottrae od immuta il sentito, non è ella stessa un' estensione sentita. Dunque non ha l' attualità, che caratterizza il concetto di corpo. Tuttavia, benchè estranea all' attività corporea (che facciamo consistere nell' attuale sensibilità) quella forza si considera come un elemento necessario al corpo materiale; e ciò perchè quella forza opera in ogni punto del sentito esteso, e può sottrarre ogni punto di lui al nostro principio sensitivo, come pure può supporgli un' altra estensione sensibile, ond' ella è quella che, prima d' essere sentita, operando nell' anima, produce il sentito. Quindi ella si considera come in potenza ad esser sentita. Non ha dunque l' atto di essere sentita, ma è una condizione precedente e necessaria al sentito. Questo è il primo carattere della materia, l' essere, come dicevamo, un elemento costituente, ma estraneo alla attività che da materia e forma risulta. Ma dove si trova l' altro elemento? dove si trova che ella esista in virtù della stessa attività? Si trova in ciò, che il concetto di forza, producente o immutante il sentito, non per altro si conosce da noi che pel sentito, e tutto ciò che ne sappiamo è la relazione che ha con questo. Onde come la potenza si conosce per l' atto, così la forza producente il sentito non si conosce che pel sentito e nel sentito. In questo senso ella esiste pel sentito, giacchè in quello noi troviamo attuata quella forza. Quindi generalmente si dà a una tal forza la denominazione di materia . Niente però vieta che questa forza si consideri anch' essa in due distinti momenti: nel momento in cui, agendo sull' anima, trovasi in via a produrre il sentito, e in questo primo momento non è materia del sentito, che ancora non esiste, ma è piuttosto azione del principio corporeo dall' uomo non percepito, ma argomentato; e nel momento in cui, essendo già prodotto il sentito, quella riceve il concetto di essere il sentito stesso in potenza; onde dicesi materia del sentito, ovvero sia materia del corpo . Nel composto l' anima è forma; il corpo, materia dell' uomo. Ma si può anche dire che il corpo sia materia dell' anima? Sì, qualora per corpo s' intenda la materia del corpo , che abbiamo testè definita. Per vedere come ciò sia, è necessario prima di tutto dimostrare che noi, nello stato presente delle cose, concepiamo il corpo e la materia come un solo ente, che spiega due diverse attività, la prima delle quali consiste in far sentire senza essere sentita, e sotto questo aspetto si chiama materia o corpo materiale , l' altra consiste nell' essere immediatamente sentita, e sotto questo aspetto si chiama corpo . Che queste due attività appartengano ad uno stesso ente, noi lo raccogliamo dall' osservare che la prima attività, che è in via a produrre il sentito, opera in tutta l' estensione del sentito, immutandolo e cangiandolo; il che ci dimostra che la materia è estesa, e che occupa la stessa identica estensione del sentito; sicchè la concepiamo come fosse il sentito stesso in potenza, come il corpo in potenza. Ora la potenza e l' atto appartengono allo stesso ente; di che concludiamo che materia e corpo sono l' ente medesimo. Tutti i corpi esteriori al nostro proprio non ci manifestano se non l' attività materiale; ma noi attribuiamo loro la denominazione di corpo, appunto perchè sentiamo la loro forza sparsa nell' identico spazio, nel quale è sparsa la sensazione soggettiva, che è il sentito immediato (1). Per l' identità dello spazio noi intendiamo che il « corpo anatomico , » come l' abbiamo chiamato, è identico col corpo nostro soggettivo (2). Tuttavia, quando nel corpo consideriamo tutte e due queste attività, gli diamo l' appellazione di corpo materiale; e così attribuiamo al corpo, le proprietà materiali, come suoi attributi. Ciò premesso, vogliamo ora spiegare in che modo nel composto umano il corpo, cioè la materia corporea, si dica acconciamente materia dell' anima. Se noi paragoniamo un corpo animato ad uno inanimato (1), possiamo notare delle grandissime differenze fra l' uno e l' altro. E` dunque certo che l' animazione altera e modifica il corpo, in quanto è oggetto della nostra osservazione esterna, e che chiamiamo volgare od anatomico. Aristotele indusse da ciò, che del corpo animato è proprio un certo atto, di cui è privo il corpo inanimato, e in questo atto egli ripose l' essenza dell' anima. Noi non possiamo convenire in questa definizione dell' anima, la quale non è per noi un atto del corpo , ma bensì il principio che produce quest' atto (2). L' anima in una parola produce l' animazione , ma non è l' animazione stessa. Aristotele, noi crediamo, fu indotto in errore per avere considerato soltanto i fenomeni del corpo volgare od anatomico, che non sono punto l' essenza del corpo, ma dei meri segni, onde possiamo indurre la sua attività materiale; nè egli giunse punto ad afferrare il corpo, in quanto ci è dato dal sentimento soggettivo, dove sta l' essenza del corpo. E che Aristotele si trattenesse a considerare i soli fenomeni esterni, che il corpo produce sui nostri organi, lo dimostra apertamente l' aver egli data l' anima anche alle piante. Ora l' anima vegetativa di Aristotele, priva di ogni sentimento, non è che un principio supposto per ispiegare i fenomeni extra7soggettivi, che ci presentano le piante colla loro organizzazione, nutrizione, incremento, generazione, germinazione. Ma in tutto ciò nulla cadendo di soggettivo, cioè non attribuendosi alle piante sentimento alcuno, manca loro quel soggetto sostanziale, a cui solo spetta il nome di anima (1). Dove poi questo principio soggettivo, ossia sensitivo, si scorge, come negli animali, quivi trovasi senza dubbio l' animazione e l' anima. Ma l' animazione è ella effetto dell' anima, che agisce nel corpo, ovvero è effetto del corpo, che agisce nell' anima, o finalmente è forse effetto delle mutue azioni del corpo e dell' anima? Noi abbiamo già dichiarata su di ciò la nostra opinione; abbiamo detto che il corpo bruto e materiale non ha per sè virtù di agire sull' anima, ma che l' anima è quella che prima lo modifica e lo trae in un atto nuovo, pel quale è a lui possibile l' agire sull' anima e produrvi il sentimento; ed Aristotele stesso cogli innumerabili suoi seguaci lo riconosce (2). Ora questa prima modificazione, che il corpo riceve dall' anima, per la quale egli si trova in via a produrre il sentimento, è propriamente ciò che costituisce l' animazione, che lo rende atto a produrre esternamente i fenomeni extra7soggettivi, propri dei soli corpi animati, e che lo rende del pari atto a produrre nell' anima il sentimento. In quanto adunque egli riceve dall' anima questo atto d' animazione, egli diviene materia all' operare dell' anima stessa. Resta nondimeno a dimostrare che l' animazione del corpo sia prima di tutto un atto dell' anima che agisce nel corpo, anzichè un atto del corpo che agisce nell' anima. Per dimostrarlo conviene osservare che al corpo è essenziale l' estensione continua almeno soggettiva, e che l' estensione continua non si dà se non in un principio inesteso (1). Infatti tutte le maniere di concepire l' estensione del corpo si riducono a due, e a due pure si riducono i concetti, che di essa l' uomo si forma: il concetto voglio dire dell' estensione materiale ed extra7soggettiva, e il concetto dell' estensione corporea e soggettiva. Il concetto dell' estensione extra7soggettiva è quello di una forza, che immuta il sentito; il concetto dell' estensione soggettiva è quello del sentito stesso, di cui l' estensione è il modo. Il primo adunque dei due concetti si riduce al secondo, di maniera che, analizzando tutto ciò che sappiamo intorno all' estensione del corpo, veniamo a conchiudere che la sua essenza non è altro che il modo del sentito corporeo fondamentale (2). Ma il sentito fondamentale è il corpo animato. E` dunque per un' azione dell' anima che il corpo viene animato, giacchè l' anima è quella che gli dà l' estensione soggettiva , alla quale sono connessi tutti i fenomeni extra7soggettivi dei corpi, che si dicono animati (1). Se il corpo è materia dell' anima nel composto, consegue che l' anima sia forma del corpo, cioè sia quella che gli dà l' animazione, quell' atto pel quale vive; il quale atto consiste, come vedemmo, in divenire soggettivamente esteso, che è quanto dire, essere sentito nel sentimento fondamentale come esteso; al quale primo essenziale carattere dell' animazione s' accoppiano costantemente i fenomeni extra7soggettivi, segni dell' animazione, non però l' animazione stessa. Ma nasce qui il dubbio, se forma del corpo sia l' anima intellettiva, o solo la sensitiva. A cui si risponde che nell' uomo non v' è che un' anima sola, e questa è propriamente razionale . Onde quest' anima razionale è forma del corpo (2). Dissi l' anima razionale piuttosto che l' anima intellettiva, (benchè la parola intellettiva si suol rendere anche promiscuamente colla parola razionale), perchè già vedemmo che il principio intellettivo e il principio sensitivo dipendono nell' uomo da un principio che in sè li unifica, come primo principio d' entrambi, e così costituisce il soggetto sostanziale umano. Ora questo primo principio (in cui è la sostanza dell' anima) dicesi con maggiore proprietà razionale (1), secondo la definizione che abbiamo data della ragione , che fu: « quella facoltà che unisce il sensibile e l' intelligibile, pronunciando di ciò che sente, mediante l' idea, ed operando secondo ciò che pronuncia ». Tuttavia il primo principio, che è il razionale, non è immerso tutto nella materia, come si esprimono gli Scolastici (2); ma solo in quanto è principio dell' attività percipiente il corpo; rimanendo coll' attività puramente intellettiva immune affatto dalla materia. Conciossiachè la mera operazione intellettiva, come l' intuizione dell' essere, non riceve nulla dalla sensazione corporea; e quanto alle operazioni razionali, ricevono dalla sensazione la materia su cui lavorano, ma la forma delle loro operazioni è anch' essa del tutto immateriale. Quindi gli antichi distinsero l' anima dallo spirito , ovvero dall' animo , attribuendo il nome di anima al principio prossimo dell' animazione del corpo, che è il principio sensitivo, e attribuendo il nome di spirito alla stessa sostanza, in quanto è intellettiva e immune dal corporeo contatto (3). Ancora usarono dire che le bestie hanno solamente l' anima , ma che l' uomo ha di più l' animo (1). Tutte le cose contingenti e limitate hanno questo di proprio, che la loro natura consiste nella sola realità , di modo che l' idealità non entra a costituire la loro natura come un elemento, ma solo a renderle enti conoscibili all' intendimento (2). Solo l' essere necessario ed assoluto ha tal natura, la cui compiuta realità giace essenzialmente nel seno dell' idealità, e viceversa; sicchè tanto l' essere reale, quanto l' ideale, appartengono alla natura e alla costituzione dell' ente infinito. Ora che la sostanza e la natura dell' anima, come quella di ogni ente contingente, non sia costituita dall' essere ideale, è un vero degnissimo d' attenzione, e non sì facile a cogliersi. Le difficoltà sono due: I Noi non conosciamo l' anima nostra, nè l' anima altrui, nè alcun ente contingente, senza l' uso dell' essere ideale; dunque pare che l' essere ideale si mescoli coll' anima e con tutte le cose contingenti. II L' anima non è intellettiva, se non per l' intuizione dell' essere ideale; dunque pare che l' essere ideale appartenga alla sua natura. La prima difficoltà si vince osservando esser verissimo che noi non possiamo percepire l' anima nostra (dalla quale percezione caviamo poi il concetto di ogni altra anima), se non facendo uso dell' essere ideale; ma esser vero altresì che, per intendere che cosa sia l' anima puramente nella sua natura, senz' altra aggiunta eterogenea, noi dobbiamo dalla percezione dell' anima sottrarre la percezione stessa, e quindi il mezzo con cui la percepiamo, che è l' essere ideale. Alla seconda difficoltà rispondo esser verissimo che l' anima è intellettiva a cagione dell' intuizione dell' essere, ma non conseguire da ciò che l' essere ideale sia un elemento intrinseco della sua natura. E ciò si prova: I Ricorrendo alla coscienza di noi stessi, che è il principio della scienza dell' anima, e il criterio che fa distinguere il falso ed il vero in questo argomento. Ora noi ben sappiamo, e intendiamo con evidenza, di non essere l' essere ideale; perchè l' essere ideale è un universale, ed Io sono un particolare; l' essere ideale è immodificabile; ed Io sono soggetto a modificazioni; l' essere ideale è il mezzo comune a tutti gli uomini di conoscere, ed Io non sono negli altri uomini, ma esclusivamente in me stesso, e gli altri uomini non usano di me per conoscere; anzi fanno i loro atti di conoscere, a malgrado che non abbiano alcuna notizia di me, neppure della mia esistenza. II Posciachè l' essere ideale è congiunto al soggetto per via d' intuizione, è chiaro che non è il soggetto, perchè l' intuizione ha questo di proprio, di distinguere il suo termine da sè stessa, di escluderlo da sè, di contrapporselo come qualche cosa di opposto a sè; di che venne la parola objectum . A maggior chiarimento di questo vero rimetto il lettore a quei luoghi, dove ho dimostrato non essere assurdo che una cosa inesista nell' altra, senza mescolarsi coll' altra; ed effettivamente avvenire il fatto così nell' unione dell' essere ideale col soggetto per via d' intuizione (1). Si replicherà: Voi dite però, che l' atto dell' intuire si crea in virtù del manifestarsi dell' essere; dunque lo stesso atto di intuire è un effetto dell' essere. - Rispondo: e che fa ciò? Sia pure l' intuizione e l' intuente effetto della manifestazione dell' essere ideale, non è per questo che sia un atto dello stesso essere ideale, quando anzi ne è il polo opposto; la causa non è l' effetto. Come poi si faccia questa manifestazione , come questa manifestazione sia una cotal creazione , non cerco; la questione è d' altro ordine, troppo più sublime; a me basta di mantenere il fatto che l' intuìto non è l' intuente, ossia l' anima; e il fatto è evidente. Ora, dal sapersi che l' essere ideale non è un elemento interno costitutivo della natura dell' anima, ma che questa natura è meramente reale , facilmente si trae che l' anima umana è un ente finito; perocchè non si trova l' infinito nell' uomo se non ricorrendo all' essere ideale, il quale, come dicevamo, non è parte dell' uomo stesso. E questa verità ci è data ancora immediatamente dalla coscienza di noi stessi; perocchè ciascuno sa di essere finito, e quando dice Io , ben intende che afferma una realità, che esclude innumerevoli altre realità di eguale e di diversa condizione, e perciò che afferma cosa finita. Nello stesso tempo l' anima umana, in quanto è intellettiva, è unita ad un essere infinito qual' è l' idea, e sotto questo aspetto partecipa d' una certa infinità; potendosi rassomigliare l' essere ideale in relazione colla mente, a quello che è uno spazio infinito equamente illuminato relativamente all' occhio. Quindi, benchè i reali conosciuti dall' uomo siano sempre finiti, perchè è finito il reale che li percepisce, cioè l' anima; tuttavia il mezzo di conoscere i reali percepiti col senso, cioè l' idea dell' essere, non è mai esaurito, o reso inefficace: egli basta sempre alla cognizione di altri reali, se fossero dati all' uomo nella percezione sensitiva, e ciò indefinitamente, e quand' anche la realità fosse infinita (1). Onde S. Tommaso dice che « « a quel modo che l' intelletto nostro è infinito in virtù, a quel modo stesso conosce l' infinito. Poichè la di lui virtù è infinita, in quanto non è determinata da materia corporale » ( noi diremmo, da realità finita qualsiasi ), «ed è conoscitivo dell' universale (dell' essere ideale), il quale è astratto dalla materia individuale (sussistente). E però non finisce a qualche individuo, ma quanto a sè, si estende ad infiniti individui »(2) ». Ora qui si presenta un' obbiezione. - L' essere ideale è la forma dell' anima intellettiva; ma la forma e la materia sono due elementi costitutivi di una natura; dunque l' essere ideale è un vero elemento costitutivo dell' anima. Ma l' essere ideale è infinito nella sua condizione d' ideale; dunque l' anima umana è composta di finito e d' infinito. Rispondo, distinguendo la minore di questo sillogismo così. Le forme sono di due maniere, soggettive ed oggettive. Le forme soggettive appartengono al soggetto e lo costituiscono; le forme oggettive non appartengono al soggetto, nè lo costituiscono, ma traggono in atto il soggetto, e perciò si possono anche dire cause immediate della forma del soggetto. Tuttavia con eguale e forse maggiore proprietà, esse si dicono anche forme , quando cioè si considerano come termine dell' atto dell' intuizione; poichè l' essere universale, in quanto è precisamente termine di quest' atto, viene come appropriato all' anima, senza cessare d' essere universale in sè stesso (1). E infatti, benchè sia vero che l' essere in universale sia intuìto identicamente il medesimo da tutti gli intelletti, tuttavia, in quanto egli è precisamente termine d' un intelletto, non è termine dell' altro; ed è in questo senso che la verità posseduta dall' uomo si può dire creata; intendendosi questa proposizione: « è creata la verità dell' intelletto umano », come equivalente a quest' altra: « quella verità, che è eterna, si è fatta divenire termine di un intelletto creato »(2). Dove si consideri che ogni azione, che termina in una entità diversa da sè, suppone una specie di contatto con quella entità, e nel punto del contatto vi è comunicazione della cosa tangente e della toccata. Ma nel caso dell' intuizione la cosa toccata, l' essere ideale, non è punto mutabile, nè alterabile, nè mescibile con altra cosa (3); dunque la comunicazione non reca varietà in essa, ma solo nel soggetto. La varietà poi che accade nel soggetto, consiste nel metterlo in possesso dell' intelligenza, ossia della luce; e ciò che si possiede non si confonde col possessore, benchè lo arricchisca. Così il possessore dell' oro non è l' oro. In quanto adunque l' essere ideale è luce al soggetto intuente, in tanto è sua forma, senza che lo stesso essere soffra alcun cangiamento o restringimento in sè stesso. E qui non sarebbe inopportuna la questione: « se l' intelligibile sia comunicato limitatamente o illimitatamente alla natura umana; e se il primo, in che consista tale limitazione ». A cui brevemente risponderemo così: L' intelligibile è l' essere eterno e necessario; l' essere eterno e necessario è quello, nel quale non si disgiungono l' essenza e la sussistenza, formando esse un unico e semplicissimo ente; ora l' essenza rifulge nell' idea, è l' intelligibile; se dunque l' uomo vedesse col suo intelletto l' intelligibile pienamente, vedrebbe Iddio, la cui essenza è la stessa sussistenza; quindi l' intelligibile non può manifestarsi in tutta pienezza a nessun essere creato, senza che questo essere sia trasportato in un ordine soprannaturale, e vegga il Creatore. Di vero, Iddio è sopra la natura creata, anzi egli è l' unico ente veramente soprannaturale; e la comunicazione immediata colla divina sussistenza è ciò che forma la condizione soprannaturale delle intelligenti creature. Ma potrebbe un soggetto qualsiasi vedere l' intelligibile in un modo più perfetto di quel che lo vede l' uomo, senza che gli sia data la percezione della divina sussistenza? Questa questione importante non possiamo trapassare. L' intuizione dell' essere si può considerare dalla parte del soggetto intuente, e dalla parte dell' oggetto intuìto. Dalla parte del soggetto intuente l' intuizione può essere, o parere, più o meno perfetta; e sembra che questa perfezione possa variare in tre modi: 1 per l' intensità dell' atto, onde accade che l' essere ideale produca nel soggetto una più alta impressione, mostri più luce, sia veduto più distinto; 2 per la maggiore facilità di riflettere sull' idea e sull' intuizione, il che è propriamente perfezione della facoltà di riflettere, non dell' intuizione stessa; ma l' uomo, rendendosi così più facilmente e perfettamente conscio dell' intuizione, pare che s' aggiunga luce a questa [benchè ciò non sia]; contribuisce nondimeno ad agevolare la riflessione l' intensità dell' intuito; 3 per la maggior facilità di applicare l' idea, onde la percezione ed il ragionamento riescono più pronti e perfetti; e qui pure la perfezione sta nelle operazioni della ragione, non nell' intuizione, benchè ne paia il contrario. Alla quale perfezione del ragionare contribuiscono non poco le due perfezioni precedenti, dell' intuizione e della riflessione; e dipende oltremodo dalla perfetta organizzazione del sistema cerebro7rachideo. Queste differenze dovrebbero svolgersi in un trattato della diversità degl' ingegni. Rimane a sciogliersi la questione dal lato dell' oggetto stesso. Si domanda, adunque, se ad un soggetto possa essere dato a intuire più dell' intelligibile di quel che è dato alla natura umana, senza che gli sia data la percezione della sussistenza divina. Noi rispondiamo negativamente; e dichiariamo così la nostra risposta. Niuna sussistenza è intelligibile per sè stessa fuori che la divina; e ciò perchè l' intelligibile è l' essenza dell' ente, e la sola sussistenza divina s' identifica con quella essenza (1). Dunque a Dio solo appartiene fra i sussistenti di essere l' intelligibile; non si può dunque aggiungere niente all' essere ideale che sia per sè intelligibile, se non si passa in un ordine soprannaturale e divino. Si dirà: l' essere ideale, com' è intuìto dall' uomo, è al tutto indeterminato. Ora egli potrebbe contenere molte sue determinazioni, anche senza ricorrere per determinarlo a Dio. Infatti le idee degli enti contingenti sono altrettante determinazioni dell' essere ideale. Dunque l' essere ideale, dato all' intuito, potrebbe trovarsi in altre menti più perfetto, cioè più determinato che non è nella mente umana. Illusione, nascente dal non intendersi bene come nascano queste determinazioni dell' essere ideale, queste idee speciali o generiche. Elle nascono (2) mediante il rapporto degli enti reali e sussistenti coll' essere universale indeterminato; dunque elle non sono propriamente idee, ma rapporti delle sussistenze o dei loro vestigi all' essere ideale; suppongono dunque conosciute in qualche modo le sussistenze. Ma le sussistenze contingenti non sono intelligibili per sè stesse, e perciò non aggiungono cosa alcuna all' intelligibile. Ciò che s' aggiunge non è qualche cosa che riguardi l' intelligibile per sè, ma sono atti nuovi del soggetto intelligente. L' aumento di cognizione viene tutto dalla parte della materia e non della forma, dalla parte del soggetto e non dell' oggetto. L' intelligenza adunque si può accrescere e rinforzare, senza che cresca l' intelligibile per sè; ella s' accresce, ogniqualvolta le è dato a percepire maggior copia di sussistenze o di realità. Le intelligenze adunque, ristrette all' ordine naturale, non possono differire fra loro per una quantità maggiore o minore dell' intelligibile al loro intuito proposto; ma unicamente per una quantità minore o maggiore di realità percepita, o per una realità di diversa natura. Quello che può crescere, minuire, o variare è ciò che cade nella sfera del sentimento, non mai l' oggetto stesso della intuizione. E così dicevamo che la natura angelica differisce dall' umana per un diverso e più acconcio sentimento, di cui è dotata, e conseguentemente per una natura e una quantità diversa di cose naturalmente percepite; non per una diversa intuizione (3). Ma non è possibile avere delle idee di cose contingenti, senza bisogno d' averle prima percepite? Non abbiamo noi stessi molte idee, di cui non abbiamo percezione? Non si possono conoscere le cose per via di loro similitudini, senza avere esperimentata in noi la loro azione? Ci si chiama all' esperienza di ciò che avviene nell' uomo; ottimamente. Ma non conviene immaginare ad arbitrio quanto avviene in noi, conviene pazientemente osservarlo, unica via per non dare in errore. Ora ciò che avviene indubitatamente nell' uomo, secondo la più accurata osservazione, si è che l' uomo non ha alcuna idea positiva di cosa sussistente, se non è preceduta la percezione, a cui possa riferirla. Così il cieco non ha alcuna idea positiva di colori; perchè la parola colore a lui non suona quello che gli altri uomini; e questa stessa parola egli non l' avrebbe mai inventata, se fosse anche sordo, e perciò coi suoi orecchi non l' avesse mai udita, nè percepita dagli altri uomini. E` vero che all' uomo rimane l' idea di ciò che ha percepito nel suo sentimento, anche quando la percezione è passata; ma ciò accade perchè la percezione non passa del tutto; l' uomo ne conserva la memoria, ne conserva dei vestigi nell' immaginazione, e può suscitarsene l' immagine, che non è altro che una cotale percezione interiore, un ripristinamento della percezione esterna (1). Che se la percezione fosse passata in modo che non gliene rimanesse traccia immaginaria, nè abito, l' idea stessa della cosa sarebbe spenta, perchè non gli rimarrebbe più alcuna via da riferire l' essere al sentimento, nel quale rapporto l' idea stessa, in quanto è determinata, consiste. Questo è ciò che avviene nell' uomo; vediamo se in un altro essere potrebbe avvenire diversamente. Si dice che un' intelligenza può conoscere le cose mediante le loro similitudini . Ma questo non è vero se non in un certo senso, che deve ben definirsi. Acciocchè una similitudine possa essere atta a farmi conoscere la cosa da essa rappresentata, io debbo poter fare il confronto fra essa e la cosa a cui rassomiglia; debbo rilevare quanto fedelmente le rassomiglia, e in che differisce. Altrimenti io non saprei mai che ella è una similitudine, e non anzi la cosa stessa. Ora come farò io questo confronto, se non conosco la cosa sussistente? perocchè un confronto non si fa se non col paragone dei termini. Dunque io non posso conoscere la cosa sussistente per mezzo d' una sua similitudine, se già prima io non suppongo a me cognita la cosa sussistente. Ma la cosa sussistente (trattandosi di cose contingenti) non è cognita per sè, ma per la percezione di lei. Dunque la sola similitudine della cosa non può bastare a conoscere la cosa sussistente, senza la percezione di questa, a cui si riferisce (1). E non si potrebbe conoscere una cosa data per via della sua similitudine, senza averla precedentemente percepita, quando un altro essere ci rivelasse che quella è similitudine? Rispondo: In tal caso non si conoscerebbe la cosa per la sola sua similitudine, ma con di più l' aiuto della rivelazione che farebbe un altro essere; la quale rivelazione già suppone qualche percezione. Se la similitudine fosse meramente un vestigio della cosa, ella non potrebbe dare che un' idea negativa, cioè verrebbe a produrci la persuasione che la cosa sussiste, senza farcene conoscere la natura. Se poi si trattasse di vera similitudine, in tal caso ella dovrebbe essere tale che noi percepissimo con essa la natura della cosa, e quindi dovrebbe essere una realità della stessa natura della cosa, in quanto è simile alla cosa; per esempio, se un ritratto mi fa conoscere la fisionomia d' un uomo, è perchè io percepisco lo stesso colorito, e le stesse forme del volto di quell' uomo; onde io percepisco una realità che ha gli stessi caratteri; e in quanto il ritratto differisce dall' uomo, e gli manca la estensione solida, la flessibilità delle carni, ecc., io con esso non percepisco l' uomo; poichè in ciò che gli manca di simile non è similitudine. E qui si noti bene in che la nostra questione consiste. Noi domandavamo se si può avere idea positiva d' una cosa senza alcuna percezione di essa, e dicevamo di no; ma questa necessità della percezione non si estende punto a tutti gli individui eguali o simili; basta che almeno uno ne sia percepito, e con ciò è già soddisfatto alla condizione da noi apposta, perchè si abbia l' idea positiva di tutti gli individui eguali al percepito; onde percepito un individuo, noi conosciamo anche gli altri per via di similitudine o di eguaglianza, che hanno con quello. Ciò che sosteniamo si è che, se non ne percepiamo alcuno, neppure gli altri possiamo conoscere, perchè ci manca ancora il primo simile. Ma se ci è data una percezione, allora abbiamo certo la similitudine degli altri individui percettibili allo stesso modo; e così li conosciamo per similitudine , senza percepirli. Onde resta fermo che niuna realità si conosce senza percezione, e che non si danno similitudini di cose reali, senza che la realità loro si percepisca. Di che, supponendo che ad un soggetto intelligente sieno date tali similitudini, le quali sieno atte a fargli conoscere cose reali, si viene a supporre con ciò stesso che gli sieno date percezioni interne di cose reali. Ma le percezioni di cose reali, cioè i sentimenti percepiti, in qualsiasi modo vengano acquistate o comunicate, se le cose di cui si tratta sono contingenti, non aumentano punto l' intelligibile, oggetto dell' intuizione. Dunque l' intelligibile non può essere aumentato, in qualsiasi modo gli si aggiungano determinazioni o concetti di cose contingenti e finite; ma ben può essere aumentato per l' unica via della percezione di Dio stesso, perchè la sola sussistenza divina, come dicevamo, fra tutte le sussistenze, è intelligibile per sè stessa. Perciò le diverse intelligenze si debbono distinguere non già per una diversità che cada nell' essere ideale , che le informa, ma per una diversità che trovasi nell' essere reale che le costituisce, a cui è data una diversa sfera di percezioni, siano esse native o sopravvenienti, o con i loro propri atti accidentali acquisite. E qui diamo fine a questo secondo libro della Psicologia. Ricapitolando quanto ragionammo fin qui dell' essenza dell' anima, noi abbiamo veduto che ella dimora in quel sentimento primitivo e sostanziale , che ogni uomo esprime pronunciando il vocabolo Io , e che solamente meditando su questo sentimento dell' anima si possono conoscere con sicurezza le proprietà dell' essenza dell' anima, a tal che esso fu da noi dichiarato fonte, principio e criterio di tutte le dottrine psicologiche. Noi abbiamo di conseguente esaminato questo intimo sentimento; ed egli ci ha testificato che l' anima è unica in ciascun uomo, e ch' ella è il principio di tutte le operazioni dell' umano individuo; che è semplice ed incorporea; e che non muore. Perocchè la parola morte altro non significa che quella passione che subisce il corpo, quando l' anima cessa dall' avvivarlo. All' incontro l' anima è attiva nella stessa morte patita dal corpo, essendone ella la causa negativa, col cessare da quel suo atto, che dicesi animazione. Qui ci si aperse la sottile questione dell' identità dell' anima, alla quale sembrava opporsi una triplice moltiplicità, che apparisce giacere nella natura dell' anima. Perocchè primieramente in lei si nota un principio ed un termine; di poi una pluralità di termini e molte operazioni con essi; finalmente due principŒ attivi d' indole diversissima, la sensitività e l' intelligenza. Ma noi dimostrammo che il termine non è elemento intrinseco all' anima, ma sola sua condizione, ossia essenziale relazione , onde non la può duplicare; quindi neppure la moltiplicità dei termini cade nell' anima, la quale è solo principio . Di poi, nè anche la moltiplicano le varie operazioni, non essendo esse l' anima. Finalmente trovammo che ai due principŒ attivi, che nell' anima si ravvisano, ne sovrasta uno che li regge; e in quest' uno l' identità dell' anima come in sua propria sede dimora, perocchè quel principio superiore è l' anima stessa. Appresso, noi passammo a vedere quali sieno le variazioni, a cui l' anima potrebbe soggiacere senza cessare d' essere identica, e a quali non potrebbe senza perdere la sua identità: il che ci diede buona occasione di discorrere le differenze che partono l' anima umana, da una parte dalle anime dei bruti, e dall' altra dalle pure intelligenze. Dimostrammo poscia che la natura dell' anima (come di tutte le cose contingenti) è quella di essere puramente reale, e che però la sua essenza non si può concepire positivamente senza la percezione della sua realità, o qualche di lei vestigio a cui si riferisca; ella si conosce per via di concetto , il quale è determinato, e quasi disegnato nell' essere ideale, dall' atto della mente che considera la relazione fra il reale e l' ideale. Finalmente provammo che ella è finita, appunto perchè è reale, e in quanto è reale; ma che comunica coll' infinito; perocchè ha l' essere per suo oggetto, il quale essere è come un interminabile spazio, dove ella può stendersi a suo piacere senza fine, e batter l' ali. Nella realità dunque dell' anima consiste la sua natura e la sua limitazione (ond' anche la ponemmo nel sentimento, che è appunto il reale) (1). Ora è necessario che noi ci fermiamo ad investigare ed analizzare più compiutamente questa sua limitazione. Al qual fine è uopo che noi consideriamo l' anima in relazione col corpo da lei animato; imperocchè la realità estesa e corporea è propriamente ciò che la limita, e contribuisce in pari tempo alle operazioni dell' anima. Ci applicheremo adunque nel libro presente a trattare del nesso dell' anima col corpo, e del loro scambievole influsso. Che fra le cose diverse dall' anima il corpo sia la sola realità sensibile e percepibile dall' uomo, è un fatto che si raccoglie dalla coscienza, nè ha bisogno d' altra prova che di questa immediata. Quindi noi possiamo cavare un immediato corollario importantissimo, ed è che l' anima ed il corpo sono congiunti per via di sentimento. E nel sentimento appunto noi abbiamo collocata la realità; dunque vi è fra l' anima e il corpo una reale congiunzione. Ma questa congiunzione non si deve immaginarla simile a quella che ha un corpo operante sull' altro; dove l' agire dell' uno è simile all' agire dell' altro, e il patire dell' uno è simile al patire dell' altro, e il reagire dell' uno è simile al reagire dell' altro (di che venne l' erroneo principio che « l' azione è eguale alla reazione ») (1), e quindi il tocco dell' uno è simile al tocco dell' altro. Anzi nel caso nostro trattasi di due enti di diversa natura, ciascuno dei quali agisce sull' altro a suo modo, cioè in modo diverso; e in modo diverso patisce, e in modo diverso reagisce. Ora il fatto evidente che dimostra l' unione dell' anima col corpo è il sentimento , dal quale sono escluse tutte le leggi meccaniche, che hanno luogo nell' azione mutua dei corpi; e però questa unione e questa mutua azione dell' anima e del corpo fu da noi già denominata relazione di sensilità , ed abbiamo a lungo ragionato della sua natura e delle sue leggi (2). Abbiamo altresì dimostrato che in ogni sentimento corporeo vi sono due quasi estremi, che chiamammo il senziente ed il sentito , e che il sentito è il corpo, ed il senziente è l' anima. Ora del sentito e del senziente si compone un sentimento unico, che in quanto è primo e fondamentale, è un ente unico ed indistinto. Di che procede che non solo il corpo deve essere unito all' anima e l' anima al corpo, ma l' unione deve essere quale è quella della forma colla materia. Quindi ancora confutammo direttamente le ipotesi dell' armonia prestabilita e delle cause occasionali, con questo evidentissimo argomento, che con esse noi non potremmo avere alcuna cognizione del corpo; perocchè ogni cognizione nostra del corpo si riduce a farci conoscere che il corpo è termine del sentimento dell' anima; e però nella nozione stessa di corpo s' involge come essenziale una relazione di unione coll' anima, e di reale azione e passione fra i due principŒ. Trovammo insomma l' influsso fisico nelle stesse definizioni dell' anima e del corpo (3); sicchè tolta tale unione reale, tale fisico influsso, nè l' anima, nè il corpo si può più concepire, nè nominare. Conviene per altro non dimenticare che, se l' animale è un sentimento unico, in questo sentimento però vi è il principio semplice (il senziente) e il termine esteso (il sentito). I quali due elementi formano un unico e medesimo sentimento; onde il corpo, che è il termine del sentimento, non è dato all' animale nel primo suo stato così isolato dal principio senziente, che sia per sè un sentimento separato; ma gli è dato un sentimento solo, configurato così da essere sotto un aspetto senziente, e sotto un altro sentito. Questo sentito viene poi diviso dal senziente per opera dell' intelligenza, come diremo appresso. Ma se s' intende assai bene come l' animale sia un sentimento indivisibile, dove il principio senziente, ossia l' anima, costituisce una cosa sola col termine sentito, ossia col corpo, e così è forma di questo; non è egualmente facile a spiegarsi come l' anima umana, in quanto è razionale, sia forma del corpo umano. Come adunque l' anima razionale comunica col corpo, come lo informa? Dalle cose dette più sopra viene in gran parte la risposta a questa domanda. Perocchè fu da noi dimostrato che l' anima razionale è un principio che virtualmente racchiude anche l' attività sensitiva7corporea. E S. Tommaso aveva già scritto che « l' anima intellettiva contiene nella virtù sua tutto ciò che ha l' anima sensitiva dei bruti, e la vegetativa delle piante », ed usò a spiegare il suo concetto una opportuna similitudine. « « Siccome una superficie che ha figura pentagona, non è tale per via di un' altra figura tetragona, e per via di un' altra pentagona, giacchè sarebbe superfluo il ricorrere ad un' altra figura di quattro lati, che già si contiene in quella di cinque lati, così neppure Socrate è uomo per un' anima, e per un' altra è animale; ma egli è l' uno e l' altro per una sola e la stessa anima »(1) ». Onde egli ancora afferma che « « l' anima razionale, quantunque sia una secondo l' essenza, tuttavia, a cagione della sua perfezione, è molteplice in virtù »(2) ». E tuttavia non si può negare che questo è difficile a intendere, e però noi, a meglio dichiararlo, aggiungeremo alle cose dette alcune considerazioni. E prima di tutto conviene svestire il pregiudizio che le cose siano assolutamente tali, nè più nè meno, quali appariscono ai nostri sensi esterni, e in generale che le cose percepite sensitivamente non abbiano altra entità da quella che in un dato sentimento si percepisce. E` vero che se vi è una maniera di sentire stabile, e principalmente se vi è una sola maniera di sentire, ovvero ad una sola maniera si pone esclusiva attenzione; la cosa, quale è percepita nel sentimento, diviene base di un' idea di essa, e noi le poniamo un nome significativo della sostanza della cosa, intendendo che la sostanza della cosa sia quella entità appunto, che nel sentimento abbiamo percepita (3). Ma se vi sono due o più modi di sentire una cosa, e se noi poniamo loro attenzione, incontanente ci accorgiamo che la cosa appare diversa secondo le maniere diverse di sentire. Così lo stesso oggetto è un colorito, se lo percepiamo cogli occhi, è un saporoso, se lo percepiamo col palato, è un odoroso, se lo percepiamo coll' olfatto, ecc.; e molto più grande è la differenza, se consideriamo quale sia il nostro corpo stesso, percepito cogli organi esterni come un extra7soggettivo, e percepito col sentimento interno come termine del sentimento fondamentale; di che abbiamo a lungo ragionato nell' « Antropologia ». Medesimamente i termini della nostra percezione sensitiva appaiono cose diverse, se li consideriamo rispetto a noi percipienti, e se li consideriamo in relazione fra di sè, per esempio, se consideriamo quale sia un corpo esterno relativamente ad un altro corpo esterno. Poichè, come osservammo, fra un corpo esterno ed un altro corpo esterno a cui lo paragoniamo, noi troviamo relazioni di estensione, di grandezza maggiore o minore, ecc.; ma se paragoniamo quel corpo esterno al nostro principio sensitivo, non troviamo più quelle relazioni, ma una relazione del tutto diversa da quelle, e che noi chiamammo relazione di « sensilità (1) ». Il termine adunque della percezione cangia secondo la natura del soggetto percipiente, e la maniera colla quale si percepisce sensibilmente, sicchè l' indole del sentito, come sentito, è determinata dalla natura dell' entità termine e dalla natura del senziente principio, e dal modo di sentire ecc.; cose tutte già da noi a lungo spiegate (2). Dunque ciò che un' entità è rispetto ad un sentimento, non è rispetto ad un altro sentimento, ma riesce diversa; il che è quanto dire che l' entità stessa manifesta in diverso modo la sua attività, secondo i sentimenti di cui si fa termine. La percezione sensitiva adunque prende le cose percepite secondo diverse loro attività, relative allo stesso sentire; e però ciò che una cosa partecipa di sè al sentimento, tiene assai del relativo. Ma l' intendimento all' incontro non percepisce in modo relativo, sì bene in modo assoluto, tutto ciò che percepisce. Percepire in modo assoluto è percepire l' entità stessa delle cose, non immediatamente la sensilità , l' estensione o altre attività relative. Ora è da notarsi che la sensilità , l' estensione e le altre attività relative ai diversi sentimenti, si comprendono tutte nell' entità , perchè le attività anche relative escono dall' entità. E nel vero, l' estensione è un' entità di suo genere, la sensilità è un' entità pure di suo genere, ecc.. L' intendimento adunque percepisce tali attività, in quanto tutte si riducono ad entità; le percepisce, ma non come tali precisamente, ma per quello che partecipano dell' entità; il che si dice « intendere in modo assoluto »; perocchè sia vero o no che la cosa sia estesa, sia colorata, ecc., è sempre vero che è entità, e che anche l' estensione e le qualità sensibili sono entità. Ed è perciò che l' oggetto proprio dell' intendimento è sempre vero, perchè non si ferma al relativo; ma considera il relativo stesso rispetto a ciò che ha di assoluto. Se dunque i corpi hanno fra loro una relazione di estensione, di grandezza, ecc., se rispetto al principio sensitivo hanno una relazione di sensilità , essi rispetto all' intendimento hanno una relazione di entità; e questa relazione è assoluta e necessaria, mentre le altre sono parziali e variabili. Ma se l' intendimento percepisce tutto ciò che gli è dato a percepire, in rispetto all' assoluta entità non gli è però dato da percepire altro che quello stesso che il sentimento gli appresenta. E veramente ciò che in niun modo si sente, non può percepirsi dall' intendimento. Quindi da una parte l' intendimento, quanto a sè, percepisce le cose senza alterarle, nè scemarle o modificarle; ma dall' altra le cose gli sono date a percepire, già precedentemente modificate o piuttosto composte dal sentimento limitato, che gliele presenta; ed è per questo che la cognizione delle cose riesce limitata, non perchè l' intendimento stesso la frazioni, o la componga, o la limiti. Di che appare manifesto che, se si desse un sentimento che apprendesse tutta intera l' entità reale delle cose, e non una parte, non una speciale attività, in tal caso la cosa sarebbe presentata all' intendimento da percepire, senza limitazione o frazione alcuna, e se ne avrebbe un sapere del tutto assoluto; il che può accadere trattandosi del sentimento sostanziale, che ha un ente di sè stesso. E così pure deve accadere quando l' Essere per essenza, nella sua forma reale, si comunichi all' uomo; perchè, essendo egli semplicissimo ed immutabile, non può comunicarsi che come essere; e quindi in tal caso il principio sensitivo, che lo percepisce, deve essere tale che possa percepire l' entità stessa; la quale è l' oggetto dell' intelletto. Quindi quel principio non può essere che un senso intellettivo. L' intelletto in tal caso, come senso intellettivo, sente l' entità reale, e l' intelletto stesso, come intelletto, sente la stessa entità ideale: è un ente solo reale7ideale, è una potenza sola che unisce in sè stessa due operazioni, per altro divise, del senso e dell' intelletto. Così si percepisce Iddio. L' intendimento adunque percepisce sempre assolutamente , cioè ha nozioni assolute di tutte le cose che percepisce, e di sè ha una percezione completa; ma solo percependo Iddio, percepisce veramente l' assoluto , e quindi ha un sapere assoluto (1). Conviene soltanto aggiungere che si può avere anche un sapere assoluto delle cose contingenti , quando si percepissero come sono in Dio nell' atto creatore; e un sapere pure assoluto, ma negativo , si ha delle cose, quando con una riflessione più elevata si rimuove dal sapere relativo ciò che vi è in esso di relativo. Dalle quali cose tutte noi possiamo raccogliere: Che il principio razionale non comunica direttamente colle cose, in quanto si credono sussistere fuori del senso, ma comunica colle cose sentite , colle cose quali sono a lui date da percepire nei sentimenti. Che esso comunica colle cose sentite, non già perchè queste cose sentite abbiano con lui la relazione di sensilità , ma perchè hanno la relazione di entità . Che la relazione di entità , essendo assoluta, abbraccia tutte le altre relazioni relative, ed anche quelle di sensilità . Che perciò l' anima razionale è unita al corpo, in quanto è unita al sentimento animale; e ciò perchè il sentito, oltre avere la relazione di sensilità , ha la relazione superiore ed assoluta di entità , che abbraccia anche quella di sensilità , come il più abbraccia il meno; giacchè ogni sentito è una entità determinata; ma questa relazione di entità non si manifesta che all' intendimento, il quale si estende ad ogni entità, perchè ha per oggetto l' entità stessa, l' essere per essenza. Che l' unità dell' anima e l' unità dell' uomo sta in questo principio razionale, a cui è dato da percepire quel sentito, o corporeo o di altra natura, che è dato all' uomo. E finalmente, che l' unità dell' uomo consiste in un sentimento unico, proprio del principio razionale, nel qual sentimento unico non è solamente il sentimento animale, ma anche il sentimento razionale, per modo che in questo si contiene quello, come nel più si contiene il meno; sicchè l' uomo nel primo suo stato non ha già più sentimenti, cioè il sentimento animale e il razionale, ma un unico e semplicissimo sentimento, avente un principio ed un termine. Egli ha un principio, ed è lo stesso principio razionale, ed ha un termine, che è l' idea dell' essere, e in quest' essere vede il sentimento animale, che esperimenta; giacchè nella percezione accade, per dirlo di nuovo, che del sussistente sentito e dell' essere si formi un solo ente, oggetto dell' unico principio razionale. Questa percezione primitiva e fondamentale di tutto il sentito (principio e termine) è il talamo per così dire, dove il reale (sentimento animale7spirituale) e l' essenza , che s' intuisce nell' idea, formano una cosa; e questa cosa sola è l' uomo. Ma conviene osservare che il sentimento abbraccia tutto l' uomo e ne costituisce l' unità; la percezione razionale non si estende tuttavia se non solo al sentimento animale; poichè il principio percipiente non può percepire sè stesso se non più tardi, mediante la riflessione, quando in occasione delle sensazioni esterne gli nasce il bisogno di distinguere sè stesso dal resto, che è nel suo sentimento. Onde nell' uomo, quale è naturalmente al primo istante del viver suo, vi è: 1 un sentimento unico costante7fondamentale, animale e spirituale; 2 una percezione razionale, immanente, del sentimento animale. Conviene adunque, per ispiegare l' unione dell' anima col corpo, ammettere che l' anima razionale abbia una primitiva, naturale e continua percezione del sentimento fondamentale animale; perocchè, essendo ella razionale, non può congiungersi a tal sentimento che con un atto razionale, e di tutti gli atti razionali il primo, quello che comunica immediatamente colla realità dell' ente, è la percezione. Ma sulla natura di questa percezione costante del sentimento fondamentale animale non conviene ingannarsi. Riassumiamone bene i caratteri: L' anima con tale percezione non percepisce il corpo extra7soggettivo ed anatomico, ma percepisce tutto il sentimento fondamentale7animale, tale quale egli è, indivisibile, continuo, armonico, ecc.. Quindi ella non percepisce punto il solo principio del sentimento, privo del suo termine; chè il principio, senza il suo termine, neppure esiste. Medesimamente ella non percepisce il corpo soggettivo, termine del sentimento, diviso dal suo principio, perchè la divisione mentale del termine del sentimento animale dal suo principio, non si fa che tardi, per opera della riflessione analizzante il sentimento, ma in sè non esiste il corpo sentito, diviso dal principio senziente; di che quella percezione primitiva naturale non è sufficiente da sè sola a darci la nozione pura del corpo soggettivo, perchè questo in essa non è isolato dal suo principio. Molto meno percepisce le parti del corpo separate dal tutto, ma sì il tutto nella sua perfetta semplicità ed unità armonica. Non percepisce nulla di extra7soggettivo, come forme, grandezze, limiti extra7soggettivi, ecc.. Di quella percezione, tale qual' è in principio, non possiamo avere coscienza, perchè la coscienza nasce dalla riflessione sopra ciò che passa dentro di noi, e quella percezione fondamentale è anteriore ad ogni riflessione. Rimane a cercare se nella percezione fondamentale l' anima pronunci un' espressa affermazione. Si potrebbe credere che questa fosse la nostra sentenza, rammentandosi che noi abbiamo sempre unito al concetto di percezione quello di affermazione. Ma ciò fu, perchè parlammo sempre di percezioni particolari e transeunti, alle quali sempre, o quasi sempre, si congiunge un assenso espresso dello spirito [ossia l' affermazione]. Ora però che ci è uopo considerare la percezione più in generale, diciamo che la percezione ha tre gradi: 1 apprensione, che è un' affermazione implicita o abituale; 2 affermazione espressa od attuale; 3 persuasione. La persuasione può essere anch' essa implicita ed abituale, od espressa ed attuale, secondo che nasce dall' apprensione o dall' affermazione , implicita o espressa. Questi due gradi, affermazione e persuasione, si seguono celeramente, e l' uno non può stare senza l' altro. Ma potrebbe rimanere il primo grado, cioè l' apprensione o affermazione abituale, senza l' affermazione attuale ? Così appunto accade in quella prima percezione, per la quale il principio razionale ha una continua unione col sentimento animale. Essendo questo sentimento unico, e però indistinto da altri, che ancora non ve ne sono, non avendo confini distinguibili, perchè i confini distinti del corpo nostro appartengono all' esperienza extra7soggettiva, essendo uniforme e naturale, essendo l' unica cosa percepita, perchè l' uomo non ha ancor percepito razionalmente neppure sè stesso, nè egli può attirare l' attenzione, nè l' anima ha bisogno di dir nulla a sè stessa, nè saprebbe che dire. Il che però non vieta d' ammettere nella stessa apprensione un cotal implicito ed abituale assenso a ciò che viene appreso, un' affermazione, benchè non ancora pronunciata distintamente. Che se a taluno paresse che alla semplice apprensione razionale, così da noi descritta, non convenisse il nome di percezione, e gli piacesse meglio denominarla solo apprensione razionale , noi non amiamo disputar di parole. Ma se nella percezione primitiva del sentimento fondamentale il corpo, che è il termine di questo sentimento, non è disunito, come poi l' uomo lo disunisce e distingue? Questa è un' operazione molteplice della mente, nè può farla che con una riflessione molto elevata; ed ecco i passi pei quali ella vi perviene. L' uomo mediante le sensioni percepisce prima i corpi esteriori ed extra7soggettivi, i quali gli si presentano da sè, come disuniti dal principio senziente, perchè l' uomo ben s' accorge di essere passivo rispetto ad essi, e perciò li percepisce come una forza straniera, non dipendente dall' attività del suo principio senziente e soggettivo: il che è appunto un percepirli come extra7soggettivi, ossia indipendenti dal soggetto (1). Di poi, colla meditazione ritrova che in ogni sensione prodottagli da una forza estesa extra7soggettiva vi è, oltre la forza straniera, qualche cosa di soggettivo. Meditando sulla natura di questo elemento soggettivo, trova che è una modificazione del suo proprio sentimento, un suo proprio sentire in un modo nuovo e inusitato. Dal concetto di modificazione induce che dunque anche prima di quella sensione v' era in lui un modo ordinario di sentire, che è ciò che venne modificato, e questo è il sentimento fondamentale. Ma di più osserva che la modificazione, ossia la sensione sua propria, si espande nell' estensione, e in una estensione eguale a quella, in cui si espande la forza straniera, operante nel suo sentimento. Di che conchiude che anche il sentire soggettivo ha per termine l' estensione. Di più, vede che ogni sentimento suppone un agente e una forza diversa dal principio senziente, benchè con lui indivisibilmente unita e da lui per molti rispetti dipendente. Conchiude dunque che il termine del proprio sentimento fondamentale7animale sia un corpo, perchè ha le due condizioni costituenti il corpo, la forza e l' estensione. Ancora, colle sensioni esterne trova i limiti di questo termine. Finalmente trova che lo stesso corpo proprio, termine del sentimento fondamentale, cade sotto l' esperienza extra7soggettiva, come ogni altro corpo straniero. Onde conchiude che il corpo soggettivo ed extra7soggettivo ha un' identica natura, salvo che l' uno dipende dal principio del sentimento, e l' altro no. In tal modo egli analizza la percezione fondamentale , e conchiude che un corpo è unito per essa all' anima sua razionale. L' Arabo commentatore travide qualche cosa della dottrina esposta circa l' unione dell' anima col corpo; ma l' imperfezione della filosofia aristotelica non gli consentì di cogliere il vero, e quindi propose un sistema fecondo d' errori. Egli pensò che l' anima si unisce al corpo per mezzo della specie intelligibile (1). Questa sentenza dimostra che Averroè ben s' avvide che il principio razionale non si poteva unire al corpo se non per un atto razionale; perchè se l' atto d' unione non fosse stato egli stesso razionale, l' unione non sarebbe più stata col principio razionale, ma con un' altra potenza. Ma non avendo poi conosciuto qual fosse, e di che natura, l' atto razionale pel quale avveniva il congiungimento dell' anima col corpo, pronunciò che quell' atto si faceva mediante la specie intelligibile , la quale si trova, diss' egli, sì nei fantasmi che appartengono all' organo corporeo, e sì nell' intelletto possibile. Ora è falso che la specie intelligibile si trovi nei fantasmi; e di più S. Tommaso giustamente osservò che i fantasmi sono la cosa intesa, e l' intelletto è l' intelligente. Onde con ciò non si spiegherebbe come colui che ha i fantasmi negli organi corporei, sia anche colui che li intende; perocchè chi ha i fantasmi sarebbe come la parete che ha i colori, i quali sono perciò solo nell' occhio, che li vede. Onde giustamente conchiuse che niun sistema è atto a spiegare l' unione dell' anima col corpo, se non è atto a dimostrare che quell' anima stessa, per la quale l' uomo vive, e si nutre, e sente, ed ha i fantasmi, e si muove, e intende, è la stessa anima; il che è quanto dire che il sistema richiesto a spiegare il nesso fra l' anima e il corpo deve riuscire a dimostrare l' anima razionale esser congiunta al corpo così intimamente, come la forma è unita alla materia (2). Ma dopo avere il Santo stabilita questa importante verità, che « « ipsa anima, cujus est haec virtus (intellectiva), est corporis forma »(1) », s' arresta, senza avanzarsi a proporre quale sia questo sistema. Noi volemmo adunque prendere dalle mani dell' Aquinate questo filo prezioso, e continuarne, se ci fia possibile, lo svolgimento. Vediamo più distintamente i difetti del sistema proposto dall' arabo commentatore. Quello che mancò al pensiero di Averroè si fu: Il non aver posto mente alla natura della percezione , la quale veramente congiunge in uno il percepito ed il percipiente. La specie all' incontro definita, come gli Aristotelici fanno, per una similitudine dei fantasmi, è una cosa tutta astratta e puramente intellettuale, onde non unisce punto in sè i fantasmi, e molto meno gli organi corporali, in cui essi li collocano. Di poi è falso che la specie intelligibile abbia due subbietti, cioè l' intelletto possibile e gli stessi fantasmi, perchè la specie intelligibile non è punto nei fantasmi. All' incontro della percezione è vero il contrario, cioè che il sentimento oltre essere in sè come sentimento, è anche nell' idea, come essenziale entità; dalla qual congiunzione nasce la percezione, solo che l' uomo vi aggiunga l' affermazione, più o meno pronunciata, che non è altro che una disposizione ed un movimento dello stesso principio razionale. In terzo luogo non vide il filosofo cordovese che i fantasmi non sono che modificazioni accidentali , che accadono nel sentimento fondamentale, e che perciò essi non possono essere assunti a spiegare la sostanziale unione dell' anima col corpo. Molto meno egli s' accorse delle due maniere colle quali noi percepiamo il corpo nostro, onde questo ci appare come due cose di diversa natura, benchè non sieno, le quali cose furono da noi dette corpo soggettivo e corpo extra7soggettivo . Non s' avvide che l' unione dell' anima col corpo non può spiegarsi in alcun modo, ove si parta dal concetto del corpo extra7soggettivo, che non fa conoscere l' intima natura del corpo, ma presenta solo un corpo fenomenale in gran parte, e relativo alla nostra facoltà di sentire esterna. Onde i moderni filosofi, che passano per la maggiore, come il Malebranche e il Leibnizio, non avendo conosciuto il corpo soggettivo, dichiararono l' influsso fisico impossibile, e inventarono le ipotesi delle cause occasionali e dell' armonia prestabilita. Quindi medesimamente ignorò che il corpo, come da prima aderisce all' anima, non è isolato, ma le aderisce, perchè inchiuso nel sentimento fondamentale, di cui è termine; il qual sentimento si fa oggetto di quella prima percezione, per la quale il principio razionale col corpo comunica. Finalmente la specie intelligibile non è un atto ella stessa, ma un oggetto contemplato dall' anima, che è l' osservazione dell' Aquinate, e l' anima razionale deve unirsi al corpo con un suo proprio atto; perocchè, quand' anche fosse unito l' oggetto della sua intuizione, non sarebbe però unita ella stessa, perchè l' oggetto da lei intuìto non è ella stessa intuente. Dall' errore di Averroè, che la specie intelligibile sia il mezzo di comunicazione fra l' anima ed il corpo, ne dovevano venire, e ne vennero, le più strane conseguenze. Posciachè la specie intelligibile è un' idea pura, e gli Arabi ebbero fatto gli stessi fantasmi subbietto di essa; e posciachè ebbero posto che per quella specie l' anima comunica coi corpi, ne doveva conseguire che attribuissero all' intelletto ed alla fantasia, entrambi subbietto della specie intelligibile, una strana potenza sui corpi; e non solo sul corpo proprio, ma anche sui corpi stranieri e lontani, di cui si avessero i fantasmi, benchè attualmente non si percepissero. Incontro alla quale assurdità quella scuola non retrocesse; tanta è la forza dei falsi principŒ idoleggiati! Quindi Avicenna (1) dichiarò che l' anima umana, col mezzo di una forte immaginazione, poteva trasmutare non solamente il proprio corpo, ma anche un corpo straniero, farlo ammalare, farlo risanare, produrre gragniuole, nevi, venti, cavare insolite virtù dalle stelle, scavalcare un cavaliero lontano, e cacciarlo in un pozzo, fare che nasca una pianta senza seme, o che si generi un uomo senza uso degli organi generativi! E le stranezze medesime si attribuiscono al mauro filosofo Avicembrone, e ad Algazele (2). Agli stessi errori stranissimi pervennero i Platonici per altra via, confondendo il reale coll' ideale , facendo cioè che le idee sieno sussistenze; ed altri filosofi misti di platonismo e di aristotelismo (3). Per costoro la specie intelligibile e i fantasmi operavano meraviglie, e così spiegano i prodigi di Apollonio Tianeo, e tante altre meraviglie narrate dagli storici, parte delle quali furono probabilmente illusioni del sonnambolismo artificiale. E qui possiamo dire anche una parola a favore di Cartesio. Quand' egli disse: « « Io penso, dunque esisto » », travide una verità. L' anima umana infatti pensa sempre, anche perchè ha la percezione immanente. Cartesio dedusse che l' anima doveva pensar sempre, perchè nel pensare sta il concetto dell' uomo, o per dir meglio, nel concetto dell' uomo c' è il pensare. Doveva dunque parlare Cartesio d' un pensare immanente, e non di atti transeunti del pensiero, i quali non proverebbero che l' esistenza d' un soggetto transeunte con essi; doveva altresì parlare d' un pensare umano, cioè tale che caratterizzasse l' uomo, il che non poteva essere l' intuizione dell' essere, che non involge alcun nesso col corpo; doveva parlare d' un pensare proprio del soggetto uomo, composto di anima e di corpo. Questo pensare immanente non è altro che la percezione primitiva, nella quale sta il nesso dell' anima razionale col corpo. Subodorò dunque il vero, ma non lo colse, nè trovò parole che lo rendesse palese. Quindi ancora, quando il Romagnosi ed altri sostituirono all' argomento di Cartesio quest' altro: « « Io sento, dunque esisto » », non penetrarono la forza che poteva avere quel detto. E veramente l' argomento: « « Io sento, dunque esisto » », non vale cosa alcuna a provare l' esistenza dell' uomo; vale tutt' al più a provare l' esistenza d' un essere sensitivo. Ma perchè sia provata l' esistenza dell' uomo conviene ricorrere ad un atto proprio dell' uomo, composto d' intelligenza e di animalità, ad un atto del principio razionale. E poichè l' esistenza dell' uomo non si prova che provandosi sussistente l' essenza dell' uomo, dunque si doveva ricorrere ad un pensiero immanente, perchè l' essenza non muta. Il detto di Cartesio così spiegato riceve lume, e forza il suo ragionamento; esso prova che l' essenza dell' uomo sta in un atto immanente del pensiero, ma non dice di qual pensiero. Certo non può essere d' un pensiero qualsiasi, ma deve esser di quello che descrivemmo, e chiamammo percezione naturale e primitiva. Dichiarata così la natura dell' anima razionale in quanto è causa formale dell' uomo, rimane a dichiarare altresì come la stessa anima razionale sia causa efficiente delle operazioni umane. La causa formale è quella che costituisce e pone un ente in essere, e lo conserva; la causa efficiente è quella che lo fa operare. L' anima razionale adunque, come causa formale, pone in essere l' uomo e lo conserva; come efficiente, lo fa operare. Ma qual' è la relazione fra la causa formale e l' efficiente? E` chiaro che la ragione dell' operazione di un ente si deve cercare nella sua forma, perchè la forma dà l' essere, e ogni cosa opera secondo il suo essere, giusta l' antico detto (1). Onde S. Tommaso prova che l' anima è forma del composto, appunto perchè ella è principio prossimo di tutte le operazioni del composto. « Quo aliquid est actu eo agit , « Ogni cosa opera con quell' elemento che la fa essere quella che è. Ora è chiaro che quel primo che , onde il corpo vive, è l' anima. E manifestandosi la vita secondo operazioni diverse nei diversi gradi degli esseri viventi, quel che , col quale prima che con ogni altro operiamo ciascuna di queste opere vitali, è l' anima. Poichè l' anima è quel primo che , col quale ci nutriamo, e sentiamo, e ci muoviamo di luogo, e simigliantemente col quale intendiamo. Dunque questo principio col quale prima intendiamo, o si dica intelletto , o si dica anima intellettiva (noi la chiamiamo razionale ), è la forma del corpo »(1). » Conviene adunque trovare l' origine delle operazioni dell' anima e delle potenze, a cui le operazioni si riducono nella forma dell' uomo. Ma quanto alla specificazione delle potenze umane uscenti dalla forma dell' uomo, noi dobbiamo parlarne nella seconda parte, che descrive lo sviluppo dell' anima stessa. Qui dobbiamo solo compire il ragionamento incominciato del nesso dell' anima col corpo, e per compirlo, dopo aver noi esposto come l' anima è unita al corpo quale forma di lui, che mette in essere il composto uomo, dobbiamo spiegare altresì il commercio dell' anima col corpo , spiegare cioè come l' anima possa produrre dei movimenti nel corpo, anzi com' ella sia l' unica causa di tutti i movimenti che produce l' uomo nel proprio corpo. Ripigliando adunque il detto, l' anima è unita al corpo non pei fantasmi, non per le specie intelligibili, cose che non sono atti dell' anima, ma sì per una percezione fondamentale, costante, intera del sentimento fondamentale. Ora partendo da questo principio, vediamo come esso ci possa condurre a spiegare l' azione dell' anima razionale sul corpo da lei informato, e medesimamente la sua passività. Che cosa è percepire un sentimento sostanziale? - E` identificare il reale (sentimento), coll' essenza dell' essere (intuìto dall' intelletto); è un atto dell' anima razionale, col quale ella apprende la realità in rapporto coll' idea; è un percepire insomma l' ente medesimo sotto due forme ad un tempo. Poichè l' ente è identico sotto la forma ideale e sotto la forma reale, e solo ne varia il modo, quindi fa mestieri solo d' una potenza a percepirlo; e questa è il principio razionale, in cui sta l' unità del soggetto uomo. Il principio razionale adunque attinge l' ente sotto le due forme, perchè egli è la facoltà dell' ente ; e però dell' ente sotto tutte le forme nelle quali egli si comunica. Il principio razionale non può già apprendere il sentimento solo, perchè il sentimento tutto solo non è manifestativo dell' ente , che è il proprio oggetto della ragione. Ma il sentimento unito all' essere (intuìto dalla mente) acquista natura di ente, o certo è manifestato come tale; quindi così diviene oggetto della ragione (1). Si deve dunque considerare il sentimento in due modi: o da sè solo, e così considerato, egli è fuori dell' ordine razionale; perciò lo si conviene attribuire ad un' altra potenza, ad un altro principio, al principio senziente, irrazionale: o unito all' essenza dell' essere e nell' essenza dell' essere, per via di percezione razionale, e così unito all' essere è già divenuto per noi ente, è entrato nell' ordine razionale; appartiene alla ragione (2). Dunque nello stesso ordine razionale vi è il sentimento, ma ad un' altra condizione, a condizione ch' egli sia divenuto ente, cioè che sia identificato coll' essenza dell' ente veduta nell' idea. Trovato il modo e la condizione, alla quale il sentimento fondamentale entra nel principio razionale, quasi in suo subbietto, non è più difficile a spiegare come questo principio razionale possa anche agire nel corpo, e dal corpo altresì patire. E veramente il principio razionale è dotato indubitatamente di attività; questo si deve supporre, o piuttosto credere alla certa esperienza. La difficoltà non istava qui: stava nello spiegare come al principio razionale potesse esser dato l' oggetto, sul quale esercitare l' attività sua propria. Il principio razionale non può operare se non in un oggetto che sia il suo. Trovato dunque il modo come il sentimento animale possa essere ricevuto nel principio razionale, la maggior difficoltà è superata. Ma questo modo non poteva essere che nella percezione di esso sentimento sostanziale, perchè ogni altro nesso o non sarebbe un vero nesso fisico, o non sarebbe un nesso razionale ; e perciò non ispiegherebbe la connessione reale del corpo con un principio razionale. Si consideri che la percezione è una vera congiunzione fisica del percipiente e del percepito, dove vale quel che dicevano gli Scolastici: « ex intellectu et intelligibili fit unum »; il che, riducendosi ad espressione precisa, deve tradursi così: « ex percipiente et percepto fit unum ». Questo contatto delle due sostanze, benchè di natura diversa dal contatto dei corpi, questo contatto che S. Tommaso chiama « contactus virtutis », fa nascere una cotale continuazione fra esse due sostanze, fa che l' una sia nell' altra, e quindi anche mette l' una nella sfera d' azione dell' altra. Così quando io con una mano alzo di terra un corpo e lo trasporto da un luogo all' altro, è perchè il corpo che aderisce alla mia mano, è divenuto come una continuazione della mia mano, di che accade che il moto della mia mano si comunichi al corpo. Il simile avviene nella percezione prima e fondamentale rispetto al sentimento sostanziale. Consideriamo adunque come questa percezione fondamentale ci possa spiegare l' azione, che esercita l' anima razionale sul corpo, non meno che l' azione, che esercita il corpo sull' anima razionale. L' oggetto della percezione, di cui parliamo, è il sentimento fondamentale7animale. Ora questo sentimento ha un principio ed un termine , che sono il senziente e il sentito. Il termine, cioè il sentito, è il corpo soggettivo. Il senziente poi è quel principio dalla cui attività, quando è posta in essere, dipende il sentito; il senziente è l' attivo, e il sentito è il passivo. Infatti nei bruti il principio che produce le modificazioni e mutazioni spontanee nei loro corpi, è il senziente, che in essi acquista nome di anima sensitiva. Posto adunque che l' anima razionale dell' uomo, mediante la detta percezione, sia unita realmente con tutto il sentimento animale, consegue che ella sia unita sì col senziente che col sentito; i due elementi da cui quel sentimento risulta. Ma il senziente ha natura attiva; dunque, potendo l' anima razionale esercitare la sua attività sul senziente, senza potergli per altro cangiare la natura, ella può divenire attiva sul sentito, appunto perchè può operare sul senziente. Il sentito all' incontro ha per sua natura di essere passivo verso il senziente, che è quello che lo mette in atto come sentito. Dunque l' anima razionale, non potendo percepire il sentito che come termine passivo del senziente, conviene che lo riceva tale qual è; e perciò non può modificarlo se non movendo il senziente. Quindi accade che, non potendo l' anima razionale modificare immediatamente il sentito, non può che apprenderlo; il che spiega come ella in ricevere i sentimenti e le sensioni tutte si dimostri passiva; non che ella sia passiva veramente, ma poichè tali sensioni sono passive dal principio senziente e in questa passività consiste la loro natura, perciò elle non possono essere immediatamente modificate dal principio razionale, ma solo essere da lui apprese. Così si spiega mediante la percezione del sentimento fondamentale non meno l' attività dell' anima sul proprio corpo, che quella specie di passività ch' ella mostra avere da esso; e se ne ha questa formula rilevantissima, che « l' anima razionale è tanto attiva sul proprio corpo, quanto è attiva sul principio sensitivo », e non più. Dall' avere dimostrato come l' anima razionale unita al corpo soggettivo, possa essere attiva su questo, si trae agevolmente com' ella possa essere medesimamente attiva sul corpo extra7soggettivo, e produrvi i movimenti, quali extra7soggettivamente si percepiscono. Basta a ciò rammentarsi quanto fu detto nell' « Antropologia » sulla relazione dei due corpi, e delle due serie di fenomeni che presentano. Quei due corpi non sono che uno solo diversamente percepito; l' identità del corpo soggettivo ed extra7soggettivo fu da noi ampiamente provata (1). Che se ivi noi dichiarammo di non considerare i fenomeni extra7soggettivi come effetti dei soggettivi, ma solo come una serie parallela ed armonica, ciò dicemmo perchè a quel nostro ragionamento bastava il considerarli così, senza inoltrarsi in altre ricerche; e rimane vero che i fenomeni soggettivi non sono la causa dei fenomeni extra7soggettivi, ma le due serie hanno una causa prossima nel principio senziente, e una causa remota nell' attività dell' anima. Oltre di che gli extra7soggettivi risultano in parte dalle relazioni del corpo coi cinque organi speciali della sensitività esteriore. All' attività naturale e radicale di un ente gli antichi davano nome di natura . Quindi dicevano che la natura di un ente tende sempre a conservarlo e a perfezionarlo, non mai ad alterarlo e distruggerlo. Tommaso Fieno, non ignobile filosofo d' Anversa, prova, movendo il suo discorso da questo principio, che l' anima non può direttamente per sè stessa muoversi a produrre nel proprio corpo dei movimenti a lui dannosi. « « L' anima è una natura. Ora la natura è certo principio di moto nelle cose naturali, ma non è principio di ogni moto, ma solo di quello che alla cosa naturale compete; e perciò ella non è principio attivo di alterazione »(1). » Dunque l' anima non può alterare il proprio corpo. Su questo principio Ippocrate fondava la medicina, nella forza cioè della natura, che tende sempre a migliorare e non a guastare, [...OMISSIS...] . La quale dottrina tuttavia sembra in parte contraria a quanto dicemmo nell' « Antropologia », dove distinguemmo nell' uomo le « forze medicatrici e le forze perturbatrici (2) ». Ma conviene osservare che le forze perturbatrici non appartengono alla sola natura animale , ma sì ad altre cause che agiscono in essa e la perturbano, come mostreremo più estesamente fra poco. L' uomo non è solo animale; egli ha l' intelligenza, la quale spingendosi a beni via oltre la sfera dell' animalità, può questo solo cagionare alterazioni nell' animalità disordinata. Oltre di che, essendo l' uomo libero, egli ha il potere di pervertire sè medesimo, e così nuocere alla propria animalità, e anche distruggerla; perocchè la natura libera si sottrae alla legge indicata d' esser principio di soli movimenti conservativi ed utili, la quale non vale che per le nature che operano con necessità, non per quelle che operano liberamente. Così noi abbiamo trovata la radice, e per così dire, il fonte generale di tutti i vari effetti, che gli atti dell' anima razionale producono nel corpo; l' abbiamo trovata nella stessa percezione immanente di tutto l' intero sentimento fondamentale, che l' uomo ha per natura; in quella percezione che lega stabilmente l' anima razionale al corpo, e ne fa un solo soggetto. E questa è altresì la chiave da aprire il segreto di quella misteriosa efficacia che hanno gli atti secondi, parziali e transeunti dell' anima razionale sul corpo. Non sarà vano il farne parola, raccogliendo i fatti che l' esperienza ci somministra. Cominciamo dal fare un cenno della questione: « se l' intelletto puro possa nulla sul corpo ». L' intelletto puro differisce dal principio razionale solo in questo, che lo stesso principio, in quanto intuisce l' essere ideale, che eccede ogni realità finita, dicesi intelletto , e in quanto percepisce qualche realità e conseguentemente ragiona, dicesi principio razionale o ragione . Domandasi adunque se il principio intellettivo ha qualche efficacia sul corpo, anche prescindendo affatto dagli atti di percezione e di ragionamento. Ed è facile scorgere che direttamente egli non può esercitare sul corpo alcuna azione; perocchè il suo concetto esclude ogni comunicazione col corpo; chè si chiama intelletto, in quanto l' oggetto suo eccede ogni finita realità, che gli sia data da percepire. Tuttavia, se si considera che l' intuizione dell' essere è ciò che informa quell' anima, che è anche razionale, e che perciò comunica col corpo, è consentaneo il supporre che quella intuizione contribuisca a far sì che l' anima unita al corpo sia diversamente disposta da quel che sarebbe, se non avesse l' intuizione dell' essere. E poichè, come vedremo, l' anima presiede alla stessa organizzazione del corpo, pare certo che un' anima intellettiva organizzi il corpo in modo diverso da un' anima meramente sensitiva, e lo faccia atto a sè stessa, sempre operando come forma del principio razionale. Conciossiachè il principio intellettivo, avendo una perfetta unità col razionale, deve poter produrre unità ed armonia anche nell' oggetto della sua percezione e nel corpo compreso in questo oggetto. Di più, è da dire che l' intelletto contribuisca a tutte quelle modificazioni del principio razionale, e conseguentemente del corpo, che avvengono per via di cognizione e di affetti, aventi per oggetti cose al di là della sfera sensibile ed animale (1); le quali cognizioni ed affetti sono potentissimi sia a vantaggio, sia a danno del corpo stesso, sì fattamente che a questa potenza eccedente l' animalità deve attribuirsi lo stesso suicidio, che non ha luogo nei bruti, ma solo nell' uomo. Ma poichè la causa prossima di tutti questi effetti è finalmente il principio razionale, parliamo di questo. La prima questione che si può fare, si è: « quanta sia la potenza del principio razionale sul corpo ». Rispondiamo che il principio razionale, per sè considerato, può di assoluta potenza produrre nel corpo da lui informato tutti quei movimenti, che può produrre nel medesimo il principio senziente col quale immediatamente comunica. E dico di assoluta potenza , perchè altro è ch' egli possa produrre tali movimenti, considerata la sua natura e il suo nesso col principio senziente, ed altro che egli li produca sempre, senza distinzione di circostanze. Certo, affinchè la potenza che ha il principio razionale di muovere le diverse parti del corpo passi all' atto, è mestieri che si avverino alcune condizioni, delle quali parleremo in appresso. Che se queste condizioni mancano, pare che l' anima razionale sia impotente a cagionare quei movimenti, o le riescono più o meno difficili ad ottenere. Venendo dunque ad esaminare quale efficacia possa esercitare sul corpo il principio razionale coi suoi atti speciali, noi diremo che esso immuta il corpo con due maniere di attività; cioè operando come intelligenza , e operando come volontà . Il primo atto del principio razionale si è la percezione speciale. E qui tosto ci si fa innanzi un fatto singolare. Appena i nostri sensi sono percossi da qualche stimolo corporeo, incontanente l' anima razionale si muove a fare l' atto della percezione. Onde tanta prontezza? Onde questa spontaneità di movimento? Se l' impressione non movesse che il solo senso, il principio razionale non saprebbe ancora che egli ha una sensazione, o un corpo da percepire, e però non si potrebbe muovere a percepirlo. Ma questo fatto diviene chiarissimo, quando si ricorre alla percezione fondamentale. Se è vero che l' anima razionale percepisca continuamente il sentimento animale tutto intero, e ciò per legge di sua natura, è evidente che deve percepire anche le mutazioni, che accadono violentemente in questo sentimento, e la forza che le produce, cioè il corpo stimolante. Di poi s' affaccia l' altra questione: « l' anima nella percezione esercita qualche attività sul corpo? ». Consideriamo prima la percezione sensitiva, qual' è nei bruti, e poscia la percezione razionale. La percezione sensitiva si fa naturalmente e spontaneamente, come abbiamo altrove spiegato, perchè il sentimento fondamentale sente necessariamente le proprie modificazioni (1). Questa operazione al cominciamento, quando l' animale non ha ancora alcuno sviluppo, accade secondo quella stessa legge di spontaneità, per la quale il principio sensitivo invade il sentito (2). In appresso il principio sensitivo acquista un abito che aumenta la sua attività, e anche questo in virtù della stessa legge di spontaneità, onde accade che il principio sensitivo s' immerga di più, per così dire, in ciò che gli riesce piacevole, e rifugga di cooperare a ciò che gli torna doloroso. Quindi noi vedemmo che nella percezione sensitiva vi può essere più o meno d' intensità, più o meno d' attività del principio senziente (1). E tuttavia questa maggiore intensità di certi sentimenti, prodotta dall' attività del principio senziente ed istintivo (2), non pare che sia un effetto immediato di esso principio, ma effetto ottenuto per via di movimenti intimi da lui prodotti nell' organo sensorio, e perciò mediante un' azione sul corpo. Venendo ora al principio razionale, e ritenendo ch' egli possa sul corpo tutto ciò che può il principio senziente7istintivo, da lui percepito e dominato, dovremo dire che il principio razionale nella percezione possa modificare l' organo sensorio, movendo il principio sensitivo a prestarsi ad una percezione più intensa. Accade poi ancora che il principio razionale percepisca più intensamente e distintamente coll' aumentare la sua attenzione razionale . La qual maniera di operare, se non rende più intensa la percezione in quanto è sensitiva, l' accresce in quanto è razionale. E tuttavia non è improbabile che anche l' attenzione più o meno intensa dello spirito intelligente produca nel corpo certi minimi movimenti, per la ragione detta dinanzi. Le immagini sono sensioni interne, riproduzioni delle esterne. Esse ricevono, comunemente parlando, dalla memoria o ritentiva delle sensazioni avute innanzi l' attitudine di servirci di segno d' un corpo esterno, del quale crediamo di vedere in esse quasi il ritratto sensibile. Ora, perchè mai alle sensazioni sole è per lo più serbato di provocare la nostra percezione dei corpi esterni, e non ai fantasmi, se non aiutati dalla memoria di quelle? L' attitudine delle sensioni, a preferenza dei fantasmi, a farci percepire i corpi esterni è dovuta a due loro proprietà, cioè: Nelle sensioni si percepisce il corpo straniero, stimolante e immutante con violenza il nostro organo sensorio dalla sua parte esteriore; il che non avviene nelle immagini, le quali non sono eccitate da alcun corpo straniero al nostro, ma da stimoli e movimenti interni del nostro proprio corpo, onde gli stessi stimoli, gli stessi movimenti o non si sentono o si sentono soggettivamente, o per lo meno non si sentono con egual costanza degli stimoli esterni. Le sensazioni molte e diverse, attesa la moltiplicità dei vari organi, possono essere ripetute, e quindi si può percepire ed esperimentare lo stesso corpo straniero con vari organi, quante volte si vuole; onde avviene che in esso si riconosca una virtù costante di produrre sensazioni; ed è questa costante potenza, che dà il concetto d' una sostanza permanente corporea. All' incontro nei fantasmi non hanno luogo tali esperienze (1). Ciò nonostante, dopo che abbiamo i concetti dei corpi per mezzo delle sensioni esterne, anche i fantasmi ce li rappresentano facilmente, perchè altro non sono che le sensioni stesse internamente risuscitate; alle quali noi uniamo prontamente il concetto del corpo, formatoci già prima coll' esperienza esteriore. Il che supposto, rimane a spiegare onde ci venga questa inclinazione d' aggiungere l' idea al fantasma. Perchè aggiungiamo noi al fantasma di una pietra l' idea d' una pietra, pur sapendo che la pietra di cui abbiamo il fantasma non è presente, nè percettibile? Perchè questa associazione spontanea e naturale fra i fantasmi e le idee corrispondenti? (2). La ragione si è quella stessa in fondo, con cui abbiamo spiegata la spontaneità delle percezioni dei corpi esterni. Essendo il principio razionale unito per una percezione naturale e continua al nostro proprio sentimento fondamentale7animale, esso è sempre attuato a percepire intellettivamente ogni mutazione che avvenga in lui. Solamente che il percepire la mutazione, che accade nel sentimento fondamentale, non basta a spiegare come a questa mutazione s' aggiunga l' idea d' un corpo esteriore. Ma ciò accade, come dicevamo, per l' associazione dei fantasmi colle sensioni esterne corrispondenti e coll' idea del corpo, che per esse ci siamo già formata; la quale associazione diviene abituale, e però pronta ad operare. Ora i bambini, nel primo tempo, quando non si sono ancora fatte le idee dei corpi esteriori, e in cui non sono ancora associate le idee di questi corpi ai fantasmi, non è a credere che, ad ogni fantasma che sia suscitato in essi, pensino un corpo. Il principio razionale diviene più manifestamente attivo sul corpo con quella funzione, con cui egli richiama in atto e compone cognizioni positive , che si conservano abitualmente in esso. Perocchè le cognizioni positive sono quelle che risultano dai due elementi, dell' idea e del sentimento o dei suoi vestigi. Ora l' anima razionale per richiamare all' atto di sua attenzione quelle cognizioni, deve esercitare un' azione sul sentimento corporeo . Supponiamo che questo sentimento appartenga ai fantasmi; l' anima spiega dunque il potere di risuscitare i fantasmi, i quali non si possono ridestare senza rinnovare il movimento dell' organo cerebrale (1). Certi fisiologi, che si conoscono assai poco di Psicologia, non dubitarono di chiamare il cervello organo del pensiero. Il vero si è che il pensiero puro non ha organo, e che il cervello non è altro che l' organo dell' immaginazione corporea . Ciò che produce l' errore di tali fisiologi si è il fatto della prontezza, con cui l' anima all' immagine associa l' idea . La rammemorazione dunque delle notizie positive e la loro ricomposizione si fa col rieccitare più o meno le immagini; al quale rieccitamento rispondono nell' ordine extra7soggettivo i movimenti nelle fibre del cervello. Ora quanto possa il principio razionale a suscitare le immagini, e comporle in vari gruppi, e rinforzarne la vivezza (il che dipende dalla forza del concetto intellettivo, e dei sentimenti e passioni, che muovono l' intendimento), ella è cosa conosciuta e da molti trattata. Il pensiero di ciò che si concepisce come bene, muove immagini gaie e ridenti, e il pensiero di ciò che si concepisce come male, muove immagini tristi e spaventose; le une e le altre possono addurre l' uomo ad una gaiezza o tristezza estrema. La ragione poi, onde l' uomo veste le idee d' immagini analoghe ad esse, è quella medesima, per la quale le immagini provocano i pensieri dell' intelligenza: ella si giace nell' associazione indicata fra le immagini e le sensazioni, e fra le sensazioni e le idee; si prende l' immagine in luogo della sensazione, alla quale è naturalmente unita la percezione intellettiva del corpo esterno, e in questa è compresa l' idea positiva. L' uomo dunque, come essere intellettivo7sensitivo, vuole un pensiero composto d' intuizione e di sensione; nè il suo pensiero è completo se non risulta d' entrambi questi elementi. Ora questa funzione, per la quale il concetto chiama l' immagine, l' immagine chiama il concetto, è da noi detta forza sintetica umana . Tutti questi fatti si spiegano con somma facilità mediante la percezione fondamentale. Dagli oggetti percepiti sorgono nell' uomo sentimenti o lieti, se l' oggetto è percepito come un bene, o tristi, se è percepito come un male. Questi sentimenti noi li chiamiamo sentimenti razionali (o intellettuali , se nascono dalla intuizione dei concetti puri), per distinguerli dai sentimenti animali , che non richiedono, per esistere, alcun uso di ragione, ma solo il senso e l' istinto. Vediamo, sempre colla guida dell' osservazione interna, quale sia l' attività di questi sentimenti razionali nell' immutare il corpo soggettivo, e conseguentemente nel produrre movimenti extra7soggettivi. Primieramente osserviamo che l' oggetto della notizia, che muove il sentimento, può essere diverso dal soggetto, e può anche essere lo stesso soggetto, in quanto egli è contemplato come oggetto. Queste due classi di sentimenti razionali si possono chiamare oggettivi e soggettivi7oggettivi . Il sentimento semplicemente oggettivo sorge nel soggetto razionale ogniqualvolta egli apprende un' entità qualsiasi, perocchè di ogni entità appresa egli naturalmente s' allegra; ed è per questo che l' ente e il bene si convertono secondo la maniera di dire degli Scolastici (1). Quindi tal sentimento diviene naturalmente maggiore in ragione della entità, la quale se è massima, massimo diletto produce alla mente. Il sentimento soggettivo7oggettivo sorge allorquando il soggetto percepisce un bene o un male di sè stesso. Conviene dichiarare che cosa sia il bene e il male d' un soggetto, e propriamente del soggetto uomo. In generale il bene del soggetto7uomo è uno stato o un atto piacevole, il male è uno stato o un atto doloroso. Piacere e dolore (parole che prendiamo nella massima estensione di significato) appartengono al sentimento. Il bene dunque e il male del soggetto uomo sono sentimenti piacevoli e dolorosi. Ora fra i sentimenti piacevoli e dolorosi di un soggetto razionale, altri sono intellettivi, come è quello che abbiamo detto nascere da ogni oggetto della mente, altri sono animali, molti sono misti d' entrambi. Allorquando dunque il principio razionale percepisce un bene suo proprio, tosto è prodotto il sentimento della gioia razionale; quando percepisce un male suo proprio, tosto è prodotto il sentimento della tristezza pure razionale. Di più, il sentimento soggettivo7oggettivo della gioia e della tristezza nasce nell' uomo non pure allorquando egli percepisce intellettivamente il proprio bene o il proprio male, ma ancora quando percepisce qualche cosa, che ha virtù di cagionargli questo bene o questo male, di accrescerlo o diminuirlo. Adunque il sentimento soggettivo7oggettivo è quello che sorge nell' uomo in conseguenza della notizia del proprio bene e del proprio male, o delle loro cause. Quindi rilevasi che i sentimenti soggettivi7oggettivi seguono gli ordini della riflessione; di modo che si possono distinguere tanti ordini di sentimenti soggettivi7oggettivi (piacevoli o dolorosi), quanti sono gli ordini della riflessione che può fare l' uomo, e il numero di questi ordini è indefinito. Così, dopo che io mi sono rallegrato nella contemplazione di un ente, riflettendo sopra me stesso, posso godere di quel mio rallegramento; e questo godere può esso stesso essermi cagione di diletto e di compiacimento, se a lui nuovamente rifletto; e così si dica di questa nuova compiacenza; e via in infinito. Ora noi possiamo considerare tutti questi sentimenti razionali, oggettivi semplicemente o soggettivi7oggettivi , in due modi: prescindendo affatto dall' influsso che può esercitare su di essi la volontà, o in quanto vengono modificati dall' azione della volontà. Se si considerano in sè stessi, prescindendo dall' influenza della volontà, essi seguitano certe leggi necessarie, che provengono dalla natura dell' oggetto e del soggetto, e si riducono alle seguenti. I sentimenti semplicemente oggettivi hanno per legge di essere tanto maggiori, quanto è maggiore l' ente contemplato che li produce. Essi costituiscono la facoltà universale, che ha l' uomo di amare oggettivamente : l' uomo, secondo natura, ama ogni ente, più il maggiore e meno il minore. Le leggi, che presiedono ai sentimenti soggettivi7oggettivi , sono più complicate; poichè nascendo tali sentimenti dal bene e dal male, che l' uomo percepisce razionalmente in sè stesso, o dalle loro cagioni, questo bene e questo male nel soggetto uomo risulta da più elementi, cioè: 1) dal bene e dal male animale ( sentimenti animali ); 2) dal bene e dal male intellettuale ( sentimenti oggettivi e sentimenti soggettivi7oggettivi ); 3) dal bene e dal male morale. Il principio razionale percepisce tutti questi beni e tutti questi mali, la cui fusione produce quel bene e quel male complesso, di cui l' uomo si rallegra o s' addolora. Ora la percezione di questo bene o di questo male complesso, che anch' essa è, quasi direi, la fusione di più percezioni, si fa dall' uomo più o meno perfettamente, secondochè ha natura più o meno perfetta, e più o meno perfezionata. Sarebbe lungo il descrivere come la percezione di quelle tre specie di beni e di mali soggettivi sia più perfetta, più che la natura umana è perfetta in sè stessa, o s' è resa più perfetta mediante il suo fisico, intellettuale e morale sviluppo. Lasciando questa ricerca, che troppo a lungo ci condurrebbe, noi possiamo ridurre ad una sola formula generale le leggi, che presiedono alla formazione naturale dei sentimenti soggettivi7oggettivi. E questa formula si è che « l' uomo riceve sentimenti gaudiosi o tristi in proporzione della percezione naturale dei propri mali e dei propri beni; percezione che può essere più o meno giusta, secondo che nella sua natura prevale la luce intellettuale e il sentimento morale al sentimento animale, o viceversa, come pure può essere più o meno vivace ed efficace ». Premesse queste cose, vediamo in che modo il principio razionale coi diversi sentimenti suoi propri influisca nel sentimento animale , e mediante questo sentimento produca certi movimenti nel corpo. I sentimenti razionali procedono sempre da una intellezione. Ora le intellezioni della mente umana possono primieramente essere così astratte dallo spazio e dal tempo che sieno immuni da ogni immagine corporea, e però non hanno bisogno a formarsi di alcun organo corporale: tale almeno è l' idea dell' essere in universale. Ora un pensiero così puro e immateriale può egli cagionare qualche sentimento? Distinguiamo i diversi accidenti d' un tal pensiero. Il primo accidente si è che, quantunque l' oggetto di un pensiero sia per sè stesso puro da ogni immaginazione corporea, tuttavia l' uomo, tendente per natura ed abituato a rappresentarsi ogni cosa per via d' immagini, associa facilissimamente, come vedemmo, all' atto di quel pensiero qualche altro atto, col quale suscita in sè immagini più o meno delicate e sottili, che vestono l' oggetto e glielo fanno apparire, com' egli crede, più luminoso, benchè nel vero glielo contraffanno. Ora noi dobbiamo rimuovere questo gioco dell' immaginazione, perocchè la questione nostra riguarda la pura idea. Il secondo accidente si è che l' uomo, essendo un soggetto molteplice, cioè un principio di molte facoltà, o non mai, o difficilissimamente, muove una facoltà sola. Ora, se si tratta non del semplice intuire, ma di pensare riflessamente all' oggetto dell' intuizione, è impossibile ch' egli muova questa riflessione senza trarre in azione alcun' altra facoltà. Quindi non dubito che il solo sforzarsi a contemplare l' idea pura, e più ancora lo sforzarsi a far tacere in noi ogni altra attività, è già un mettere in moto quelle potenze, a cui vogliamo imporre la quiete. Onde l' uomo non potrà ripensare l' idea pura, senza qualche gioco delle fibre del cervello, qualche contenzione di quest' organo, la cui modificazione segue quella della mente, come uno strascico, non voluto, dell' azione di lei. Neppure l' operazione di altre facoltà, che per accidente accompagna l' atto puro della mente, deve entrare nel nostro calcolo, giacchè la questione nostra non parla che dell' effetto sentimentale della pura idea. Spogliato adunque il pensiero da ogni accompagnamento d' immagine, e da ogni sequela di moto a lei impertinente, dico che l' idea pura cagiona un sentimento intellettuale meramente oggettivo di piacere, il quale sentimento è maggiore di grado, quanto è più perfetta e più viva l' intuizione. Ora questo sentimento, affatto alieno dall' ordine delle cose corporee, influisce egli sul sentimento animale, e per mezzo di questo cagiona nel corpo dei movimenti? E` certo che quel sentimento appartiene ad una natura di cose affatto immateriali. Ma è a riflettersi all' identità del soggetto uomo, il quale è principio ad un tempo dei sentimenti spirituali e dei sentimenti corporei. Ora le affezioni spirituali di questo soggetto, modificando il suo stato, rendendolo più perfetto o più imperfetto, più o meno felice, producono necessariamente degli effetti e modificazioni, quantunque indiscernibili, nella vita animale di cui egli è principio. E veramente l' esperienza dimostra che l' anima umana affetta da una gioia spirituale, quanto si voglia, diviene più attiva sul corpo e accelera il movimento del sangue, mentre la tristezza fa i contrari effetti. Se ben si considera l' effetto soggettivo, cioè il bene e il male stare dell' anima, da qualunque causa egli provenga, è finalmente una cosa semplice, che differisce di gradi e non di specie, benchè le cause che producono quegli stati gioiosi o tristi, possano differire fra loro specificamente, genericamente ed anche categoricamente. Come l' anima è semplice, così semplice è la sua maniera di essere, il suo stato. Ella ha una sola perfezione naturale, che ammette però dei gradi infiniti. La sua perfezione è la sua felicità. Ora, quanto ella è più perfetta e felice, tanto è più forte; nella sua qualità dunque di principio vitale, ella esercita nel corpo una energia proporzionata alla sua fortezza e perfezione. I sentimenti oggettivi, quanto sono più perfetti, tanto più sono a lei gioiosi e la rendono più felice e più attiva. Sembra veramente che la gioia attuale, cresciuta oltre a certo termine, produca nel corpo dei movimenti troppo impetuosi e repentini fino a sconcertarlo e cagionare la morte; ma questo è un fenomeno dell' istinto sensuale, improprio alla natura umana, anzi nascente dal decadimento di lei, nella quale la ragione indebolita non sa più governare le affezioni; e trattasi sempre in tal caso di affezioni fattizie e non naturali. Ciò che abbiamo detto dei sentimenti meramente oggettivi è da applicarsi ai sentimenti soggettivi7oggettivi. Questi modificano il sentimento animale in un modo più prossimo che i sentimenti meramente oggettivi, i quali non possono modificare i sentimenti animali se non soggettivandosi, di maniera che il sentimento oggettivo muove il corpo comunicando la sua azione, per mezzo di tre quasi anelli o serie di cause e di effetti; 1 sentimenti oggettivi; 2 sentimenti soggettivi7oggettivi; 3 sentimenti animali. E` da questi che risultano i movimenti extra7soggettivi. Ora i sentimenti razionali, di cui parliamo, sono essi involontari? Ve ne sono d' involontari e di volontari. I sentimenti involontari del soggetto razionale sono quelli che in lui si suscitano senza l' impero della volontà; i sentimenti volontari sono quelli che in lui si suscitano mediante l' azione della volontà, che li eccita con impero mediato o immediato. Un' altra domanda ci si presenta: la volontà può ella modificare quei sentimenti che di loro natura sono involontari? Alcuni ne può modificare, altri no. Di più, quando la volontà modifica i sentimenti naturali involontari, ella non può farlo se non con un' azione limitata; limitazione da noi esposta nell' « Antropologia ». Il sentimento universale, pel quale l' uomo tende al bene, non può essere alterato dall' azione della volontà umana. Esso è naturale, involontario e superiore alla volontà, che da lui si origina. Da questo sentimento universale pel quale l' uomo tende al bene, tende ad ogni bene, nascono naturalmente tutti i sentimenti oggettivi, i quali hanno questa legge, che sieno proporzionati alla grandezza dell' ente concepito, sicchè la naturale gradazione di essi è la naturale gradazione degli enti. Se questi sentimenti si considerano così ordinati e digradati, essi sono naturali e involontari, cioè nascono per natura loro nell' uomo senz' atto di volontà, e piuttosto, se così si vuole, muovono essi stessi atti spontanei di volontà consenzienti. Ma la volontà può influire su di loro, alterarne l' ordine, rincarire soverchiamente il prezzo di alcuni, ribassare quello di altri, oppugnando la natura e la verità; può fare tutto questo con atti, che lasciano delle traccie e delle disposizioni nell' anima, massime se vengono replicati; questi atti generano delle opinioni arbitrarie, delle abitudini pregiudicevoli, dei giudizi ed affetti abituali, immorali. La volontà può ancora coll' energia sua propria, coi suoi liberi consentimenti serbare l' ordine dei predetti sentimenti ed accrescere la loro vivacità compiacendosi in essi. In quanto adunque i sentimenti naturali della natura umana intelligente (1) possono essere alterati e accresciuti dalla volontà, in tanto da involontari diventano volontari . Ma la volontà opera nel corpo ancora in un altro modo. Opera con un imperio così pronto che pare non entri di mezzo alcun sentimento fra il suo comando e il movimento corporeo. A ragion d' esempio, se io voglio muovere un braccio, lo muovo col solo atto della mia volontà, senza che mi accorga d' aver provata alcuna affezione nè di gioia, nè di dolore, alcun sentimento nè piacevole, nè dispiacevole. Tuttavia chi più attentamente considera, rileva che l' impero della volontà, che muove un membro del corpo, non comunica già il movimento senza intervento di alcun sentimento, ma solo d' un sentimento diverso da quelli degli affetti e delle passioni. Ho già distinti i sentimenti animali in figurati e non figurati (1), e quei primi in sensioni esterne (sensazioni) ed in sensioni interne (immagini). Ora la volontà, che impera un movimento, è per lo più col mezzo delle immagini che lo eseguisce; l' immagine cioè del movimento che vuol produrre, o di quell' ultimo atteggiamento in cui l' animale si vuol collocare, diviene il principio prossimo del detto movimento (2). Dico per lo più , intendendo di parlare dell' uomo in uno stato di sviluppo, nel quale egli opera liberamente, ed impera i movimenti coll' immagine delle loro forme extra7soggettive. Ma nell' uomo non ancora sviluppato può la volontà produrre dei movimenti col solo sentimento interno della propria attività, e di quei movimenti stessi presentiti soggettivamente, se il sentimento di tali moti è grato o domandato dai bisogni; nel qual caso, benchè l' uomo muova le membra con atto di sua volontà, egli non conosce tuttavia il movimento che produce nella sua forma extra7soggettiva; non ha presente l' effetto extra7soggettivo del suo atto interno, e perciò non lo vuole; ma l' atto del suo volere termina immediatamente nello spazio soggettivo ed interno; il movimento extra7soggettivo non è da lui scelto fra molti, neppure imperato; procede quale conseguenza della relazione coll' attività interiore, che ebbe per iscopo di migliorare lo stato interno del sentimento. Il principio razionale, adunque, immuta il proprio corpo e vi cagiona movimenti, sì operando come intelligenza , e sì operando come volontà . Ma il dominio del proprio corpo egli non l' ha se non mediante l' azione, che egli esercita in esso volontariamente . Ora l' azione della volontà, e quindi l' esercizio del dominio sul corpo, è legato a certe condizioni, le quali noi dobbiamo ora investigare. Dicevamo che il movimento del corpo può essere prodotto dalla volontà in due modi, o sapendo ella l' effetto di quel che comanda, o non sapendolo, cioè non sapendo l' effetto del movimento extra7soggettivo, quale apparisce ai sensi esteriori colle sue relazioni alle altre parti del corpo. Allorquando il bambino, a ragion d' esempio, vuol muovere le mani, le muove o per istinto, o per impero di volontà. Ma la sua volontà, che ordina quel movimento, non sa che il movimento medesimo gli nuoce quando si conficca le dita negli occhi; non conosce dunque la posizione relativa extra7soggettiva delle mani e degli occhi; ignora l' effetto esterno del suo atto interno, col quale promuove quel movimento. Supponiamo adunque che un uomo non avesse mai veduto sè stesso, nè mai fatto ancora alcun movimento. Egli si determina colla sua volontà a muovere la prima volta qualche parte del suo corpo. Questa parte egli non la conosce ancora che internamente, soggettivamente; la scelta, che fa del movimento, è tutta interna; fra i movimenti esterni non sceglie punto, perchè ancora non li conosce; ma alla sua scelta interna succede l' effetto di un movimento esterno, che è una cosa nuova e meravigliosa a lui stesso; è per lui la rivelazione di un mistero. La ragione per la quale, quand' egli fa l' atto interno che cagiona il moto, non prevede l' effetto esterno, nè conosce la relazione della parte che si muoverà colle altre parti del suo corpo, si trova in quel vero, che abbiamo tante volte ripetuto, cioè che i fenomeni soggettivi e i fenomeni extra7soggettivi sono così dissomiglianti fra loro, che dagli uni non si possono argomentare gli altri prima dell' esperienza. I fenomeni extra7soggettivi del movimento non si conoscono adunque dall' uomo a priori, ma solo mediante l' esperienza dei sensorii esterni, a cui tali fenomeni appartengono, nè si possono dedurre dal sentimento fondamentale, nè dalle modificazioni interne e meramente soggettive di questo sentimento. Fino adunque che i fenomeni extra7soggettivi dei movimenti del proprio corpo non sono dall' uomo sperimentati, gli rimangono incogniti; e finchè gli rimangono incogniti, egli non può scegliere gli uni a preferenza degli altri, nè può al tutto volerli. La prima condizione adunque, che rende possibile alla volontà di esercitare la sua potenza locomotiva, imperando dei movimenti extra7soggettivi, si è che l' uomo ne abbia preso conoscenza, avendoli nel fatto stesso sperimentati. Ma non basta questa condizione. E` necessario, oltracciò, che egli abbia imparato a conoscere il nesso fra i movimenti esterni del suo corpo (cioè i movimenti in quanto sono percepiti e rappresentati dai sensorii esterni) e gli atti interni imperati, che li producono; è necessario che egli abbia imparato che ad un dato atto interno corrisponde un dato movimento esterno; che egli sia venuto a conoscere, per esempio, a quale atto interno risponda quel dato movimento della mano o della gamba. Questi atti interni e soggettivi, imperativi dei movimenti esterni ed extra7soggettivi, sono dei sentimenti attivi . Deve dunque legare insieme nella sua cognizione pratica questi sentimenti attivi coi movimenti esterni che seguono ad essi. Questi suoi sentimenti interni, tanto vari quanto sono vari i movimenti esterni che a loro succedono, è uopo che diventino non già l' oggetto d' una sua cognizione speculativa, ma d' una sua percezione . La cognizione pratica , di cui parliamo, è adunque « l' associazione delle percezioni, che l' uomo si forma, dei suoi sentimenti attivi coi movimenti extra7soggettivi, che a quei sentimenti conseguono ». Ora la cognizione pratica di un certo sistema di azioni, quando è resa abituale, è un' arte. Acciocchè dunque l' uomo possa ridurre all' atto la facoltà, che egli ha, di produrre nel suo corpo i movimenti extra7soggettivi che egli vuole, deve impararne l' arte; e fino che non l' ha appresa, egli ne ha bensì la facoltà, ma non l' esercizio. Così è che l' uomo ha bisogno d' imparare a tenersi ritto e ben equilibrato sulla persona, ha bisogno d' imparare a camminare e, in una parola, a fare tutti i suoi movimenti esteriori. Non tutti gli uomini conoscono egualmente l' arte dei movimenti del proprio corpo. Il danzatore di piano e di corda, il sonatore, lo schermidore e tanti altri professori di arti ginnastiche e meccaniche non differiscono dagli altri uomini, imperiti di quelle arti, se non per avere appreso l' abito di fare un certo ordine di movimenti del proprio corpo con precisione ed agilità; la loro volontà, prima causa in essi di quei movimenti, già non sceglie più fra i singoli movimenti, ma fra i diversi gruppi di movimenti possibili, poichè ella conosce già praticamente quei gruppi, ed il nesso che essi hanno cogli atti interni e soggettivi che li producono; quando uno di questi atti interni basta a produrre un intero gruppo od ordine di movimenti, allora quell' atto prende il nome di abitudine o di arte. E nondimeno tutti gli uomini imparano a fare certi movimenti del proprio corpo, che sono loro necessari alla vita, o che vengono loro suggeriti dalle diverse circostanze in cui si trovano. Ma poco importa al più degli uomini di acquistare l' arte di produrre a volontà certi movimenti, non necessari alla loro esistenza e al loro benessere, o anzi contrari al loro benessere. In tal caso la volontà non se ne interessa, e lascia operare l' istinto vitale e sensuale a suo modo. Il che non prova che manchi nell' uomo la facoltà di produrre colla volontà sua quei movimenti; prova solo che egli non riduce all' atto e all' abito tale facoltà. Tanto è vero che, essendo egli libero, talora s' oppone colla sua libertà alla sua volontà spontanea anche per puro capriccio, e gli piace di far mostra del suo potere, arrestando e modificando i movimenti istintivi e spontanei. A ragion d' esempio, il battere delle palpebre è certamente istintivo, e giova a difendere gli occhi dal polverìo e da altri corpiccioli eterogenei volitanti per l' aria, come pure a dar riposo al sensorio. La volontà dunque qui lascia fare all' istinto. Pure alcuni individui, che colla forza della loro libertà si proposero di fare il contrario, riuscirono a tenere aperte le palpebre a loro piacere. Del pari sono movimenti istintivi il socchiudere degli occhi all' avvicinamento di un oggetto, il contrarre la pupilla ad una luce assai viva e dilatarla nelle tenebre; e pure si sono trovati individui, che s' addestrarono liberamente a fare il contrario, come Guglielmo Porterfield e Felice Fontana. Quantunque alcuni moderni attribuiscano il restringimento della pupilla percossa da viva luce all' afflusso del sangue, tuttavia è impossibile spiegare questo afflusso medesimo colla sola irritazione meccanica della luce, senza ricorrere al principio vitale e sensitivo. La ragione di quel restringimento è evidentemente la sensazione molesta che cagiona la soverchia luce; e la sensazione è fenomeno soggettivo appartenente al principio senziente , il quale dalla molestia che prova, è determinato a promuovere quei movimenti dell' iride, che valgono a restringere il foro della pupilla pel quale entra la luce, e così scemare la sensazione. Che se il detto principio sensitivo ottiene questo effetto, promovendo l' afflusso del sangue, si scorga qui l' influenza che egli ha sulla circolazione nei minimi vasellini. E poichè la libera volontà può fare il contrario della pupilla, dunque ella è efficace sulla circolazione mediante l' influenza che esercita sul principio sensitivo (1). L' esempio celebre di Townshend conferma la stessa potenza della volontà sulla circolazione. Si sa che questo inglese, poco tempo innanzi la sua morte, coricato supino, poteva trattenere a sua voglia il movimento del suo cuore e del suo polso (2). Io sospetto che se si fosse fatta la sezione del cadavere di quest' uomo, si sarebbe forse trovata qualche particolarità là dove il sistema nervoso cerebrale comunica col sistema nervoso ganglionale. Ma poichè i due sistemi nervosi non mancano mai di continuarsi, quindi sembra che non possa mancare l' influenza della volontà sulla circolazione, benchè questa possa essere in diversi uomini più o meno facilitata da speciale organismo. Il sonno anch' esso è un fenomeno animale, che si deve attribuire indubitatamente al principio sensitivo , ma niun dubbio che la volontà possa non poco influirvi, mediante il dominio che ella ha sullo stesso principio sensitivo. Che poi vi possa influire il sentimento intellettuale , è manifesto sol che si consideri quanto l' esercizio mentale valga ad impedire il sonno, e massimamente un pensiero fisso ed appassionato, e quanto al contrario l' oziosità della mente l' aiuti, come si vede nei bambini, e negli spensierati e scioperati. Ma che il principio intellettivo operi sul sonno anche coll' impero della volontà più o meno a ciò efficace, non si potrà negare da quelli che ne osservarono la natura. Non solo la volontà colla sua energia può impedire fino a certo segno il principio sensitivo già disposto a produrre il sonno, sospendendone l' azione e l' effetto; ma ella può anche eccitare questo principio sensitivo a produrre tale effetto, massime in persone di grande mobilità nervosa. E` vero che, quando l' uomo vuol dormire, egli si adagia del corpo e colla volontà opera più negativamente che altro, astenendosi essa dall' agire sull' intendimento e dal concorrere all' azione di lui, e dal dirigerla; conciossiachè è l' azione della mente, provocata e diretta dalla volontà, e dalla libera volontà specialmente, quella che più impedisce il sonno. Ma in prova che la volontà può operare anche positivamente nella produzione del sonno, io non dubito di addurre i fenomeni del sonnambolismo artificiale, che con un vocabolo per lo meno temerario altri dicono del magnetismo animale (1). Il sonnambolismo è uno stato speciale di sonno. Io stesso ho conosciuto un certo Ricamboni che a sua volontà dormiva, e chiamato di mezzo al sonno, si rendeva sonnambolo; l' esperimento che ne ho fatto, mi parve a principio sì strano, che non poteva tormi dall' animo ci avesse qualche finzione; ma poscia, confrontato quel fatto con altri, e considerate tutte le circostanze, ho deposto ogni dubbio della sua veracità. Anche, trovandomi presente agli esperimenti che si facevano sopra una fanciulla dotata della facoltà del sonnambolismo artificiale , ed osservando che chi faceva gli esperimenti, la faceva passare a stato di sonno non solo colle manipolazioni, che chiamano impropriamente magnetiche, ma con qualsiasi altro cenno o atto arbitrario, le dimandai se ella non potesse dormire a volontà sua, anche senza bisogno dei gesti, che gli faceva il dottore innanzi agli occhi; ed ella con tutta l' ingenuità del mondo mi disse di sì, e mi assicurò che a sua volontà ella dormiva. La volontà esercita il suo potere anche sugli organi delle secrezioni; ella influisce sul moto peristaltico degli intestini; e chi non sa che le persone dotate specialmente di molta mobilità nervosa, come le donne, aprono o chiudono i fonti delle lagrime a loro arbitrio? In una parola il principio intellettivo, a cui appartiene la volontà, ha di natura sua il dominio sul principio sensitivo a condizione: 1 che egli conosca mediante l' esperienza i movimenti extra7soggettivi, se pur questi debbono essere l' oggetto delle sue volizioni; 2 che egli abbia imparato a conoscere praticamente il nesso fra i detti movimenti extra7soggettivi e gli atti (sentimenti attivi), coi quali egli deve produrli, e acquistatone l' abito. Dalle cose dette si raccoglie: Che il principio razionale agisce sul principio sensitivo corporeo . Che egli esercita questa sua azione sul principio sensitivo corporeo in due modi, per via d' intendimento o senso intellettivo e per impero di volontà . Che l' intendimento, essendo potenza passiva e necessaria, e la volontà essendo potenza attiva, l' anima intellettiva influisce sulla vita corporea in due modi, l' uno necessario e l' altro volontario . Che quindi non è meraviglia se i fisiologi distinguono due ordini di nervi e muscoli, quello cioè dei nervi e muscoli volontari e quello dei nervi e muscoli involontari; nè del pari è meraviglia se gli stessi nervi sieno talor mossi in due modi, involontariamente e volontariamente. Anzi non direi affatto improbabile che tutti i nervi sieno soggetti alla potenza della volontà (1), benchè questa ne apprenda il maneggio di certi più facilmente, di altri più difficilmente, secondo che è più o meno necessario all' uomo l' adoperarli cogli atti della sua volontà, e secondo che sono più o meno distanti dal luogo in cui la volontà opera immediatamente, che è il cervello, come diremo, per via delle immagini (2). Ma rimane a vedere dove l' attività razionale produca immediatamente i movimenti del corpo, se nel solo sistema nervoso o anche altrove [in tutte affatto le parti del corpo], e se il sistema nervoso sia quello che, ricevuto il moto, lo comunichi alle altre parti. In quest' ultimo caso le altre parti del corpo non sarebbero connesse all' anima, ma solo riceverebbero dall' anima un' influenza per mezzo dell' azione dei nervi soli propriamente animati, sola vera sede dell' anima; o almeno il principio sensitivo e istintivo non sarebbe in queste parti, o non sarebbe connesso immediatamente all' anima razionale. Per rispondere a questa questione, si distingua primieramente fra l' azione dell' anima sul corpo, e la manifestazione di questa azione per via di movimenti atti a cadere sotto i sensi esterni, e quindi a manifestarla distintamente. Io non ebbi sempre su di ciò le stesse opinioni. Presentemente mi pare probabile che l' anima razionale agisca più o meno su tutte affatto le parti del corpo vivente, che in tutte le parti vi sia il sentimento fondamentale di continuità , e con esso il principio senziente; ma che questo sentimento non sia atto in ogni parte ad essere immediatamente eccitato dall' anima, per mancanza di organismo opportuno, o per contrasto di altre forze, sicchè o manchi del tutto, o sia leggerissimo e limitatissimo il sentimento di eccitazione . Per sentimento di eccitazione io intendo quel movimento organico, che è atto a produrre una sensione. Nello stesso sentimento fondamentale è uopo ammettere un sentimento d' eccitazione; giacchè nell' animale vivente vi è un moto continuo (di continuità fisica), il quale continuamente eccita lo stesso sentimento, come più estesamente dimostreremo (1). Diciamo dunque che là dove manca il sentimento fondamentale d' eccitazione , dove manca la suscettività delle parti d' essere eccitate, cioè a ricevere quei moti intestini ed immediati che producono le sensioni, ivi pare che manchi la sensitività; tale è il concetto che mi sembra doversi formare delle parti del corpo umano così dette insensibili . I nervi, in questa supposizione, sono le parti organate in modo da poter ammettere quella estensione, frequenza, rapidità e metro di movimenti istintivi, che generano la sensione. Quindi, quantunque in tutti i tessuti del corpo umano vi sia il sentimento fondamentale di continuità, manca nondimeno in alcuni la sensitività eccitabile, e però essi ricevono i movimenti piuttosto dai nervi, su cui agisce l' anima con grande effetto, cioè coll' effetto dei grandi movimenti muscolari, che dall' anima stessa immediatamente. Questa differenza, per dirlo di nuovo, parmi doversi attribuire intieramente all' intima organizzazione; sicchè due parti del corpo, su cui egualmente esercita l' anima intellettiva la sua azione motrice, l' una si muove con frequenza incredibile di moti interni da produrre l' eccitamento del sentimento, ossia la sensione; l' altra non ammette quelle ondulazioni, oscillazioni, ecc., unicamente perchè la prima è una fibbra coi suoi fluidi organata a tanta mobilità; l' altra, non così acconciamente organata, resiste all' impulso e lo fa finire e consumare ben presto inutilmente, ovvero si muove conservando la stessa testura delle minime parti. Posto ciò, è a dirsi che i movimenti provocati dal principio intellettuale ed atti ad essere da noi conosciuti incominciano dai nervi, ed alle altre parti del corpo umano, secondo certe leggi speciali, si propagano. Ma non basta; rimane a cercare in quali parti dello stesso sistema nervoso incomincino i movimenti prodotti dal principio intellettuale. A questo si può rispondere generalmente che queste parti, dove i movimenti incominciano, sono determinate dalla natura degli stessi movimenti speciali che il principio razionale produce. Ma per classificarli generalmente li partiremo in due generi nel modo seguente. Vedemmo che il principio razionale opera in due modi, come istinto (1) e come volontà . Ora, a questi due metodi rispondono i due sistemi nervosi, che sono nel corpo umano, il ganglionare e il cerebro7spinale . Allorquando il principio razionale produce dei moti per via d' istinto , è il sistema nervoso ganglionare che ne viene immediatamente affetto; all' incontro quando produce dei moti per via di volontà , l' azione viene impressa nel sistema cerebro7spinale. Questo merita qualche spiegazione. Il sistema nervoso cerebro7spinale è lo strumento [o la sede] di quei sentimenti, a cui abbiamo dato il nome di figurati e anche di superficiali , cioè delle sensazioni esterne e delle immagini . Ora questa maniera di sentimenti prestano materia alla cognizione dei corpi extra7soggettivi e dei loro accidenti. Certamente essi non sono cognizione, propriamente altro non sono che segni della presenza d' un corpo, non però segni arbitrari, ma contenenti l' azione del corpo stesso. Ora, quantunque il sentimento sia nostro e non dell' agente, tuttavia l' agente colla sua azione si rese inesistente nel nostro sentimento, cioè esistente nello stesso spazio superficiale in cui noi sentiamo. Per questa identità di spazio fra l' agente attivo e noi passivi, attribuiamo al corpo la modificazione del nostro sentire, come alla causa prossima e quasi formale della stessa, e così l' agente diverso da noi ci appare colorito, odoroso, ecc.. La somma precisione di confini, che presentano i sentimenti figurati, e la mirabile distinzione fra loro ci provoca mirabilmente a doverli prendere per qualità dei corpi. Così essi diventano materia alle nostre cognizioni degli enti corporei. Ora la cognizione precede sempre l' azione del principio razionale , perchè questo principio non agisce che conoscendo. Ma la cognizione non precede in egual modo quando il principio razionale opera come istinto, e quando opera come volontà. Sia recata ad un uomo la notizia d' una repentina sciagura, poniamo la morte improvvisa d' un congiunto amatissimo; è certo che in ricevere i segni sensibili di questa notizia egli usò del sistema nervoso cerebro spinale. Le sensazioni dell' udito, se la notizia gli fu recata in voce, o della vista, se per lettera, furono quelle che, facendo ufficio di segni, rivelarono alla sua mente l' infausto avvenimento. Si può anche supporre che il caro oggetto perduto sia corso alla mente per via di memorie vestite d' immagini; benchè queste non sieno necessarie a cagionare il subito trangosciamento, bastando il puro pensiero intellettuale, che quasi allor non ha tempo nè voglia, nel primo istante, di vestirsi d' immagini. Eppure a questo pensiero incontanente succede il ritiramento del sangue al cuore, che si manifesta nella pallidezza, l' allentamento del polso, i tremori, le convulsioni, e fin anche la sincope e l' apoplessia. Questi effetti non furono imperati dalla volontà; non provennero dalle immagini, che hanno sede nel sistema nervoso cerebro7spinale, le quali immagini altro officio non fecero che quello di dare notizia dell' avvenuto all' intendimento; ma sì dalla notizia stessa dell' intendimento partì una azione, che, senza bisogno alcuno di affettare prima il cervello, immediatamente si comunicò al sistema nervoso trisplancnico, che presiede alla circolazione, alle secrezioni, alle passioni, ossia ai sentimenti non figurati. Ma la cosa va diversamente, quando si considerano i movimenti prodotti dal principio intellettivo non più come istinto, ma come volontà. Quando questo principio opera con atto di volontà sia spontaneo, sia deliberato, egli: 1 si determina a volere un dato movimento; 2 lo decreta; 3 lo produce. Acciocchè egli formi la volizione o il decreto di un dato movimento, è necessario che questo movimento sia da lui concepito . Il movimento concepito, in cui si porta come in suo oggetto il decreto della volontà, non è quasi altro che uno dei movimenti extra7soggettivi, perchè questi soli sono percepiti con sentimenti figurati e distinti, acconci a tirare l' attenzione ed a fissare la percezione intellettuale. All' incontro è difficilissimo il poter dire che l' intelletto percepisca il movimento mediante il presentimento soggettivo , perchè questo presentimento, che non è che la propria energia che lo produce, non è guari distinto da quello maggiore dell' energia totale dell' anima, fino a tanto che l' energia totale, passando all' atto e producendo il movimento stesso, non si distingua coll' operazione, e così divenga energia speciale. Quindi se la volontà produce dei movimenti senza averne cognizione, è da dire che ella lo faccia con quelle specie di volizioni, che abbiamo dette puramente affettive (1); ed anche in questo caso il concorso della volontà si unirebbe all' istinto solo allorquando questo avesse già iniziato il movimento, e quindi resa distinta l' energia dell' anima che lo produce, traendola fuori dall' energia totale dov' era immersa; perchè solo a questa condizione tale energia separata e limitata è percettibile dall' intelletto, e però atta ad essere oggetto della volontà. Lasciando dunque da parte questa maniera di operare della volontà sommamente oscura, e parlando solo delle volizioni, che hanno per oggetto movimenti extra7soggettivi, conoscibili e percepibili distintamente dall' intendimento; dicevo che in tal caso l' oggetto della volontà, cioè il movimento ch' ella passa a decretare, è presentato all' intelletto per via d' immagine, la quale non si fa che nel cervello, che è l' organo di questa potenza. La volontà vuole e decreta di eseguire quel movimento semplice o complicato, che essa coll' aiuto dell' immaginazione preconcepisce. In qual maniera le forze animali per lo più si mescolino nella determinazione ed esecuzione di tal fatto, non è necessario che da noi venga qui discusso. L' immaginazione adunque, che appartiene al sistema cerebrale, presenta all' intendimento il movimento, semplice o complesso, su cui la volontà delibera. La scelta, che ne fa la volontà, si eseguisce con un suo decreto, il quale non appartiene alla fantasia, ma all' ordine intellettivo ed affatto spirituale; il qual decreto è un giudizio pratico, con cui assente essere buono e da farsi quel movimento. Questo giudizio pratico è l' iniziamento di quell' atto con cui viene eseguito quel movimento. Ora come succede una tale esecuzione? I movimenti, che il principio razionale produce in conseguenza di un decreto della volontà, si debbono distinguere in due classi. Alcuni di essi hanno congiunto un piacere sensibile ed animale o la soddisfazione di un bisogno, ed alcuni altri ne sono privi. I primi sono voluti pel piacere che hanno annesso, o pel bisogno che soddisfano; i secondi non sono voluti per sè stessi, ma adoperati siccome mezzi ad ottenere qualche bene, che è propriamente l' oggetto della volizione. A ragion d' esempio, l' uomo ha l' istinto di parlare, il bambino ripete istintivamente i suoni che sente pronunciare, l' uccello fa altrettanto del canto della sua specie, ecc.. Coi movimenti dell' organo vocale l' animale soddisfa ad un bisogno, ad un istinto, cerca un piacere, e sfugge la molestia che soffrirebbe, se quell' istinto rimanesse represso. All' incontro se l' uomo compera un libro, non sono i movimenti ch' egli fa in quest' atto, l' oggetto piacevole in cui finisce la sua volontà, ma il possesso del libro e la dottrina ch' egli spera cavarne. Ora, il principio razionale procede diversamente quando toglie ad eseguire i movimenti della prima classe, e quando toglie ad eseguire quelli della seconda classe. Nell' esecuzione dei movimenti della prima classe la sensione piacevole ed il movimento sono congiunti, per modo che la stessa sensione piacevole è quella energia prossima che lo incomincia e produce, dove l' energia intellettiva non ha da far altro che eccitare ed aiutare il sentimento piacevole, che per istinto produce il moto. All' incontro i movimenti, scompagnati da sensione piacevole, debbono esser prodotti immediatamente dall' energia intellettiva senza aiuto di sensione, anzi in opposizione alla sensione stessa. Così io posso per vigore di libera volontà muovere un braccio od una gamba, quantunque un tal movimento sia accompagnato da dolore. Tutto ciò è a noi attestato dalla coscienza. Ora, niun savio ed intelligente dirà essere fuori di ragione, se dalla cognizione di tali fatti soggettivi noi ci facciamo a dedurre alcune congetture circa l' organismo animale, che solo il coltello anatomico e la meditazione fisiologica possono convertire in verità dimostrate. Le congetture, di cui parlo, riguardano la celebre questione, più sopra toccata, intorno alla distinzione fra i nervi motori ed i nervi meramente sensitivi. Sembra che quei movimenti accompagnati da sensazioni, e dalla sensazione stessa provocati, suppongano che il movimento incominci alla radice degli stessi nervi sensitivi, i quali perciò avrebbero la doppia proprietà del senso e del moto. All' incontro quella classe di movimenti, che si possono produrre immediatamente dall' impero della volontà, senza che la sensione li accompagni, in modo da essere riconosciuta per la causa che prossimamente li eccita e produce, sembra supporre che vengano operati mediante tali nervi motori, i quali non abbiano la proprietà del senso speciale, ma solo quella del moto, o se hanno anche la proprietà del senso, questa non si manifesti se non ad una condizione diversa da quella dei primi, sicchè il principio razionale che li muove non li stimoli al senso, e il moto loro impresso non sia un moto sensifero. Quest' ultima ipotesi per altro mi sembra probabilissima, e consonante al tutto colla speciale sensibilità propria del sistema cerebro7spinale. Infatti la sensibilità di questo sistema in istato normale si manifesta solo alle due estremità, cioè alle estremità esteriori mediante le sensazioni, e alle estremità interiori mediante le immagini; laddove in tutta la lunghezza delle filamenta nervose niun sentimento speciale e distinto si manifesta. Se dunque il movimento imperato e scevro di sensione si supponga cominciare appunto là dove risiedono quelle immagini, che rappresentano lo stesso movimento all' intelligenza, apparirà tosto il perchè il movimento dai nervi si comunichi ai muscoli senz' altra sensione di sorte, voglio dire senza una sensione che apparisca per sè stessa eccitatrice e produttrice del movimento. Ci si farà una difficoltà domandandoci come i bruti, a cui manca ogni principio razionale, possano produrre i movimenti di seconda classe. Rispondo: per la forza unitiva . Nella loro immaginazione si associano i movimenti di prima classe ai movimenti di seconda classe, e il principio sensitivo eccitato a produrre istintivamente i primi, produce anche i secondi ogniqualvolta sono necessari ai primi, cioè ogniqualvolta l' animale non può venire a capo della soddisfazione sensitiva che cerca nei primi, se non a condizione che produca anche i secondi. Che se i secondi dipendono dal sistema cerebro7spinale o da una parte di esso, mentre i primi incominciano o nel sistema ganglionare o in altre parti dello stesso sistema cerebro7spinale, si può ritrarre un' altra bellissima dimostrazione della semplicità dell' anima sensitiva; conciossiachè essa in tal caso, a fine di procacciarsi dei piaceri o fuggir dei dolori annessi ai movimenti di certi nervi, imprime il moto ad altri nervi, le cui radici sono diverse da quelle dei primi; il che non potrebbe fare se la sua attività non fosse contemporaneamente presente, e non agisse contemporaneamente in parti e luoghi diversi, ciò che suppone che ella sia immune dalle leggi dello spazio. Concludiamo: il principio razionale, operando come istinto, esercita un' azione immediata sul sistema nervoso ganglionare; operando come volontà, esercita un' azione immediata sul sistema nervoso cerebro7spinale. I due sistemi comunicano insieme, come troppo bene sanno gli Anatomici; i gangli laterali del gran simpatico hanno molte comunicazioni coi nervi cerebrali e rachidei, i gangli cerebrali comunicano col pneumogastrico. L' osservazione accurata sulle accidentali differenze, che possono trovarsi in diversi individui rispetto a queste congiunzioni nervose, potrebbe non poco dilucidare i gradi d' azione, che può avere la volontà in diversi uomini sulle passioni e sui movimenti della così detta vita organica. In tutti i ragionamenti precedenti noi abbiamo sempre supposto che nel sentimento fondamentale non siavi che un principio attivo semplicissimo, che abbiamo chiamato principio senziente o principio sensitivo . Di che procede che tutti i fenomeni animali debbono riconoscere per unica causa questo principio; come pure che il principio razionale non può agire sul corpo, se non per via di questo principio del sentimento. Nell' « Antropologia » noi abbiamo dimostrata l' esistenza del principio sensitivo, la sua semplicità, la sua immensa attività sopra il corpo, la quale fu da noi distinta in due rami, all' uno dei quali demmo la denominazione d' istinto vitale , all' altro quella d' istinto sensuale . Nondimeno dei pregiudizi inveterati fanno ostacolo a questa dottrina; e per dar mano a rimuoverne alcuni, crediamo qui necessario di soffermarci a parlare della scuola animistica , la quale nello stesso tempo che andò più presso al vero delle altre, coll' eccesso in cui cadde, ne infastidì il mondo e lo dispose a precipitare nell' eccesso opposto. Le due scuole, erronee egualmente per gli estremi a cui si spinsero, sono la scuola materiale , che pretende spiegare tutti i fenomeni apparenti nel corpo animale colle leggi della materia; e la scuola animistica , che li attribuisce tutti all' anima razionale. La scuola materiale , grossolana com' è ed altrettanto ignobile, non può gran fatto dar noia alla nostra dottrina, tanto più ch' ella fu da noi in più luoghi combattuta. Rimane che intraprendiamo una giusta critica della scuola animistica , e che dimostriamo come il vero stia collocato fra gli eccessi delle due scuole. Quali furono adunque gli errori, in cui incappò la scuola animistica? Si riducono tutti al non aver veduto con distinzione che la causa di tutti i fenomeni animali è il principio senziente . Quali furono le cagioni, per le quali questa scuola non pervenne a conoscere la precisa attività dell' anima, a cui si dovevano riferire i fatti dell' animalità? Le principali furono le seguenti: Il non aver fatta la debita distinzione fra i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi . Il non aver conosciuto la differenza specifica fra il sentire e l' intendere . Il non aver distinto il sentimento fondamentale dalle sensioni . Il non aver riflettuto che il solo termine dell' anima sensitiva è esteso, e che il principio inesteso, che è l' anima stessa, può non già dividersi , ma moltiplicarsi , senza danno della sua semplicità. Diamo un' occhiata a ciascuna di queste quattro cagioni. Egli ha ragione; ma l' obbiezione perde la sua forza contro alle cose da noi dette, perocchè: Basta trovare un' ipotesi non assurda atta a spiegare quell' università, acciocchè ella non possa più conchiudere cosa alcuna contro la spiegazione psicologica dei fenomeni animali. Ora niente vi è d' intrinsecamente ripugnante ad ammettere che il sentimento sia individualmente unito agli elementi primitivi della materia, i quali non sarebbero in tale ipotesi che il termine extra7soggettivo di quel sentimento. E quand' anche si lasci da parte questa ipotesi (che non è poi mera ipotesi in aria, come pare nel primo aspetto), basta ad annullare quella obbiezione la gran distinzione fra i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi . Mediante questa distinzione innegabile si scorge essere al tutto falsa quella università pretesa di fenomeni. Poichè tutti quelli che non attribuiscono il sentimento ai vegetabili, o alle loro parti, o ai loro elementi, debbono riconoscere che in questi vi sono bensì dei fenomeni extra7soggettivi consistenti in movimenti simili a quelli che si scorgono negli animali, ma non vi sono fenomeni soggettivi di sorte alcuna, i quali consistono nel sentimento. Ora le forze materiali si percepiscono come cause di movimenti, e perciò qui abbiamo cause ed effetti analoghi, ed è difficile, per non dire impossibile, il dimostrare che l' accozzamento temperato ed organico delle cause materiali non possa spiegare i movimenti dei vegetabili; quando all' opposto nei soli animali si rinviene come propria la classe dei fenomeni soggettivi o sentimentali, che non si può in alcuna maniera spiegare con forze extra7soggettive e motive. La vera cagione adunque, per la quale non si potè rispondere efficacemente fino ad ora a quella obbiezione, si fu per non essersi tirata la linea importantissima fra le due classi mentovate di fenomeni. Ma su questa cagione, tanto ella merita d' essere considerata, ritorneremo ancora. La seconda cagione, perchè non poterono consentire le menti degli studiosi della natura a riconoscere nell' anima il principio dei fenomeni animali si fu perchè gli psicologi, che primi videro il bisogno di ricorrere all' anima, non seppero fermarsi al principio sensitivo , ma, trascorrendo il giusto termine, misero in campo l' anima razionale . E il loro eccesso venne da questo, che non intesero mai a dovere la differenza essenziale che passa fra il sentire e il conoscere, fra il senso e l' idea. Il sensismo stava nei visceri di tutte le loro meditazioni, e sta tuttavia nelle fibre di quelle filosofie che oggidì si vantano spirituali e razionali. Non è così facile intendere che il sentimento e l' idea , lungi dal differire di gradi solamente o di qualità accidentali, sicchè il primo con certi suoi atti si possa cangiare nella seconda, sono entità diverse ed opposte; che il sentimento è soggettivo, e che l' idea è oggetto per essenza. Così tutti i filosofi moderni, compreso Cousin e i discepoli suoi, che non possono concepire un sentimento privo di qualunque coscienza, confondono l' elemento sensibile coll' intelligibile, cioè uniscono al sentimento, senz' accorgersi ed arbitrariamente, un elemento intellettivo; e commesso questo primo errore, essi hanno alla mano un sentimento non quale è in natura, ma quale essi medesimi lo si sono formato coll' immaginazione; dal quale partendo, non è loro certamente difficile il dedurne tutte le funzioni della ragione; bastando a ciò che sviluppino quel germe intellettivo, che essi hanno messo nel sentimento e dichiarato parte di esso. Al tempo di Giovanni Alfonso Borelli (m. 1679), di Giovanni Swammerdam (m. 16.5), di Claudio Peraulo (m. 16..), e di Giorgio Ernesto Sthal (m. 1734), non è meraviglia se non fosse ancora ben distinta la sensazione dall' idea, uscendo appena il mondo dall' aristotelismo, sistema che presentò faccie diverse, ma onde s' era cavato principalmente il sensismo, per tacere del materialismo di Pomponaccio e di altri. La setta adunque degli animisti faceva intervenire nella spiegazione dei fenomeni animali l' intendimento, incapace com' ella era di concepire il sentimento puro, cioè tale che niuna cognizione affatto avesse seco congiunta (1). Osserviamo la confusione fra il principio del sentire e l' anima razionale nel nostro italiano Borelli, che come fu principe dei jetromatematici, così a buona ragione si deve mettere alla testa degli animisti moderni, avendo egli prima degli altri conosciuto che i fenomeni animali si dovevano spiegare mediante un principio di attività soggettiva. In un luogo della celeberrima sua opera, « De motu animalium », assume a provare che è possibile che il moto del cuore si produca « a facultate animali COGNOSCITIVA (1) », e ciò con argomenti che altro non dimostrano se non che quel moto si opera per l' attività del principio sensitivo . Osserva dunque il Borelli che, quando il principio del sentimento ( animae sensitivae facultas ) è tocco grandemente dall' affetto della gioia, la circolazione si rende più celere, e quando è tocco grandemente dalla tristezza, la circolazione si rende più lenta. Questo è un fatto, che dimostra indubitamente l' attività del sentimento sulla circolazione. Ma il Borelli invece di contentarsi di tirare tale conseguenza giustissima, confondendo l' attività del sentimento coll' attività intellettiva, ne induce che l' anima conoscitiva è il principio dei movimenti del cuore, considerando il sentimento stesso come un' azione di essa anima conoscitiva: « utraque enim », dic' egli, « pulsationis variatio fit ab apprehensione et persuasione, quae sunt ANIMAE COGNOSCENTIS facultates ». E tornando a scambiare la sensibilità coll' anima conoscente, soggiunge: « Ergo talis motus cordis fit a facultate sentiente et appetente, non vero ab IGNOTA necessitate (2) ». Dove si può vedere l' origine del moderno sensismo. Aveva ricevuto il mondo un' antica eredità, di cui la scolastica era stata l' ultima testatrice, il pregiudizio cioè che sentire fosse una specie di conoscere . Invano S. Tommaso aveva detto in qualche luogo, quasi alla sfuggita, che il sentire non era un vero conoscere, ma che si diceva così per una cotal metafora; questa savia, ma troppo breve annotazione, non bastò a correggere la impropria maniera di parlare invalsa, e l' erronea opinione che seco adduceva. Per altro il Borelli nello stesso tempo che sragionando errava, perchè confondeva il sentire col conoscere, afferrava una verità importante, passata, come dissi, nella scuola degli animisti, e poi rifiutata dal comune degli scienziati per la stessa ragione, per la quale era stato accettato l' errore. Infatti, quando taluno presenta al mondo un errore abbracciato con una verità, si ammette l' errore perchè vi si scorge la verità annessa, a cui solo si pone attenzione. In appresso poi, ammesso l' errore, quell' accoppiamento di errore e di verità si rifiuta, perchè non si vuole la verità, che scorgesi non coerente all' errore prevalso. Finalmente si volge un terzo tempo, nel quale si fa ciò che non s' è fatto prima; si scompone quel tutto, e staccando la verità dall' errore, si ritiene la prima e si rigetta il secondo. Questa è quella cotal chimica delle opinioni, che io procurai, per quanto ho saputo, di applicare alle questioni filosofiche più controverse. Ma ciò che contribuì maggiormente a ingannare la perspicacissima mente del nostro Borelli si fu l' aver egli considerato l' effetto delle passioni nell' uomo, anzichè negli animali universalmente. E certo nell' uomo una notizia lietissima ed improvvisa, empiendolo di subita gioia, gli fa martellare il cuore; una notizia tristissima l' abbatte, e toglie al suo cuore quasi il movimento. Or qui trattandosi di notizie, siamo nell' ordine intellettivo. Ma questo che prova? Prova unicamente che le notizie dell' intendimento hanno virtù di eccitare gli affetti della gioia e della tristezza, non prova già che abbiano quella di muovere o di allentare immediatamente la pulsazione del cuore. Se le notizie adunque influiscono sulla circolazione, è mediante gli affetti che in prima esse generano nel soggetto umano; i quali affetti appartengono all' ordine dei sentimenti, ed anche nelle bestie si suscitano non per cagione di notizie , cui esse abbiano, ma per virtù degli istinti ciechi, e per la forza unitiva , di cui nell' « Antropologia » ho più a lungo ragionato. L' anima intellettiva adunque comunica col principio sensitivo e ne mette in moto l' attività; tutto questo accade entro il soggetto; ma è poi la sola attività del principio sensitivo quella a cui si debbono riputare gli effetti, che modificano la materia e il corpo, termine di quel principio. Nobilissima questione poi, ma separata dalla precedente, si è quella: « Come il principio intellettivo eserciti un' azione sul sensitivo ». La psicologia deve trattare entrambe queste due distintissime questioni, e noi abbiamo cominciato già a farlo col pur distinguere l' una dall' altra, e coll' indicare perchè vennero fin qui confuse dai più solenni maestri; questo ci pare il primo passo necessario a mettere le menti in sulla via. Laonde, continuandoci a illuminare le cagioni, per le quali i filosofi trascorsero fino a pigliare l' intelligenza (confusa da essi col senso) come la sola via di spiegare i fenomeni animali, osserveremo che vennero anche tratti in inganno dai vestigi di somma sapienza, che si ravvisano nelle operazioni dell' istinto animale. Giustamente Galeno se ne mostrava trasecolato. Ed egli aveva troppa ragione di ribattere con ciò la setta degli Epicurei rigettanti la provvidenza (1); come pure egli faceva un' osservazione assai assennata, quando a quelli che esprimevano la causa della generazione e degli altri fenomeni animali colla parola natura , rimproverava che l' inventare una parola non è spiegare i fatti (2). Ma quando gli pareva difficile a spiegare come la sostanza, di cui si compone l' embrione e successivamente il feto, e che opera movimenti sì regolati e complicati, fosse qualche cosa d' irrazionale (3), allora sragionava; non intendendo come la causa intelligente ci doveva essere certo, ma non era però necessario che si confondesse colla sostanza animale, non distinguendo insomma la causa ultima e creante (Iddio) dalla causa prossima (la natura), nè giungendo a concepire la causa prossima nel sentimento; il quale benchè cieco, è ministro acconcissimo alla divina intelligenza, da cui è creato. L' illustre Stahl fu indotto nel medesimo errore da un' altra verità da lui veduta, ma male applicata. Vide l' uomo grande che l' intendimento fa molti suoi atti, di cui l' uomo non ha alcuna coscienza; questa era una preziosa verità; ma non ne veniva già perciò la conclusione che egli arbitrariamente ne deduce, cioè che le operazioni animali sono appunto di questi atti intellettivi senza coscienza (1). Lo Stahl in questa dottrina prese due errori, distinguendo male le operazioni dell' intendimento che vanno prive di coscienza, da quelle che alla coscienza si accompagnano; e collocando le opere del sentimento animale nella classe delle operazioni dell' anima intellettiva, prive di coscienza. E di vero, egli distinse la ragione, «logos», dal raziocinio, «logismos», e qui ottimamente. Alla prima attribuì le operazioni senza coscienza, al secondo quelle di coscienza accompagnate; il che è del tutto erroneo. L' osservazione più attenta, posta sulle nostre interne operazioni unita all' induzione, ci dà questo risultamento, che noi facciamo anche dei raziocini, di cui non abbiamo coscienza alcuna, e in universale ci somministra quella legge meravigliosa, che « ogni qualsiasi operazione dello spirito nostro è incognita a sè stessa, ed ha bisogno di un' altra operazione (riflessione), che ce la riveli ». Quanto al secondo errore di classificare le operazioni del senso fra quelle della ragione priva di coscienza, è facile riconoscerlo mediante la stessa osservazione interna. Primieramente non è vero che tutto ciò che passa nel nostro sentimento sia scompagnato di coscienza; anzi è vero che « di qualsiasi nostro sentimento possiamo aver coscienza », e se non potessimo averla, non sarebbe sentimento nostro proprio , giacchè altro non vuol dire sentimento nostro proprio, se non sentimento di cui possiamo acquistare coscienza. Ma se di ogni sentimento nostro proprio possiamo aver coscienza, nel fatto però non l' abbiamo di tutti. Certo il sentimento non la racchiude in sè stesso, ma dobbiamo formarcela con l' osservare internamente quel sentimento che passa in noi. Ma dobbiamo distinguere i sentimenti nostri propri da quelli che possono essere nel corpo nostro, e non essere nostri. Fra i sentimenti nostri ve ne sono: 1 di quelli, di cui possiamo avere coscienza, ma non l' abbiamo, perchè non ci portiamo l' attenzione del pensiero nostro; 2 di cui abbiamo attualmente coscienza. Ora, che vi siano altresì dei sentimenti nel corpo nostro i quali non sono nostri, perchè non possiamo al tutto averne coscienza, ne abbiamo la prova negli entozoari, e possiamo congetturare che niun elemento corporeo ne sia privo; ma questi sono sentimenti fuori del nostro individuo. Le sole due prime classi di sentimenti appartengono al nostro individuo, e quindi sono nostri propri. Ora, fissando il pensiero sopra la seconda classe di sentimenti, che sono quelli di cui abbiamo attuale cognizione, possiamo ben discernere se essi abbiano natura razionale sì o no, appunto perchè li conosciamo, ne abbiamo coscienza. Ebbene, questa ci dice che quei sentimenti mancano dei caratteri della cognizione, perchè non hanno alcun oggetto , ma hanno indole esclusivamente soggettiva, sono semplici modificazioni del soggetto, e che la cognizione e la coscienza, che li accompagna, non appartiene ad essi. E questo è appunto ciò che separa essenzialmente il conoscere dalle altre entità; ogni cognizione è un atto , che termina in un oggetto , senza confondersi con esso. Nulla di ciò nel sentimento animale. Egli ha in quella vece natura opposta, cioè è un atto meramente soggettivo, senza che esca di sè per terminare in alcun oggetto da sè distinto, ossia che egli stesso distingua. E` dunque un errore il confondere, come fece la scuola animistica, i sentimenti cogli atti razionali dell' anima. La terza cagione, onde non si colse il vero principio dei fenomeni animali, si fu il non essersi conosciuta la natura del sentimento fondamentale, e creduto che tutto il sentire si risolvesse nelle sensazioni speciali, suscitate dagli stimoli extra7soggettivi. Quindi venne la meraviglia, che menava Galeno e dopo di lui altri molti, al vedere che l' uomo e l' animale sa muovere i suoi muscoli e nervi in servigio dei suoi bisogni, senza tuttavia conoscere quali siano, e come conformati i nervi e i muscoli che egli muove. Parve a cotesti filosofi e naturalisti impossibile a credere che la volontà umana facesse uso con sì grande sapienza di parti, di cui pur non ha cognizione, la quale non acquistano se non i dotti gradatamente collo studio dell' anatomia. Quelli che così ragionavano, non videro primieramente che la cognizione anatomica non è già l' unica cognizione, che l' uomo possa avere del corpo umano, nè la più fedele, cioè quella che gliene faccia veramente conoscere la natura. Non videro che l' esperienza esteriore, qual' è quella che guida gli anatomici nelle sezioni ed ispezioni dei corpi, è condizionata all' operare soggettivo dei sensi esteriori, degli occhi, del tatto, ecc.; i quali non presentano già a noi la natura delle cose, ma solo dei fenomeni risultanti da due concause, che sono la natura degli organi sensati strumenti di tale osservazione, e quella degli stimoli loro applicati, onde ciò che se ne ricava non sono quasi che fenomeni, che assai tengono del soggettivo, affatto alieni dalla natura propria ed intima del corpo osservato. Non conoscendo l' importanza di questa osservazione, ciecamente s' affidavano quei naturalisti all' osservazione extra7soggettiva, come l' unico mezzo e sicuro di conoscere i corpi animali. All' opposto il vero si è che il corpo si conosce con due esperienze, l' extra7soggettiva e la soggettiva; e che quest' ultima è quella che ce ne indica la vera natura. L' esperienza soggettiva suppone il sentimento fondamentale, pel quale il principio sensitivo sente tutte le parti del corpo, nelle quali quel sentimento si propaga. E` vero che in questo sentimento non cadono i confini esterni di queste parti, le forme, ecc., che sono fenomeni dell' esperienza extra7soggettiva; ma, come dicevo, l' esteso del corpo non è meno perciò sentito col sentimento fondamentale, benchè in tutt' altro modo che colle sensazioni esterne. Ancora è vero che questo sentimento fondamentale non è cognizione, ma solo materia possibile di cognizione; ma egli tuttavia suppone presente l' attività dell' anima sensitiva, dovunque si trova; e però non deve far più meraviglia che l' anima adoperi quelle parti, che ella sente ed investe, secondo le leggi del suo individuale sentimento, e a pro di questo; il quale è poi costituito da una suprema intelligenza, per modo che col suo operare ottenga dei fini sapienti; benchè non sieno fini se non pel Creatore, laddove pel sentimento sono termini, condizioni, atteggiamenti, stati piacevoli, a cui egli è volto incessantemente per le sue proprie forze naturali, per le quali egli è. Finalmente la quarta cagione dell' errore preso dagli animisti si fu il non aver distinto il principio dal termine del sentimento; nè quindi essersi potuti formare il giusto concetto di un' anima sensitiva, la cui essenza è appunto questa di essere il detto principio del sentire, e non il termine. La mancanza di questa distinzione importantissima li travolse in enormità, che assai contribuirono a screditare il loro sistema. E veramente, se non si distingue il termine del sentimento dal suo principio, che solo costituisce l' anima, si cade primieramente nell' assurdo di rendere l' anima sensitiva, materiale, estesa, mortale. Pressato lo Stahl dalle obbiezioni di Leibnizio, fu obbligato di confessare la necessità di questa conclusione (1). Ma in tal caso, o l' uomo avrà due anime, o l' identica anima parteciperà della materialità, della estensione, della mortalità! Per tutta risposta il religioso Stahl non dubita di dire che egli aspetta l' immortalità dell' anima umana non dalla sua natura, ma dalla grazia! (2). Di più, se non si distingue il principio del sentimento dal suo termine, inesteso il primo, esteso il secondo, non si può in alcun modo conoscere la dottrina dell' individuazione delle anime sensitive, nè la facoltà che hanno di moltiplicarsi senza dividersi. Ora, posto che questa dottrina non si sia ancor trovata, e che tuttavia si vogliano spiegare tutti i fenomeni animali ricorrendo all' anima; che si dovrà dire di certi fenomeni ammessi dalle parti disputanti per animali, e che succedono tuttavia nel corpo, anche qualche tempo dopo seguita la morte dell' animale, come, a ragion d' esempio, dell' irritabilità o controdistensione dei muscoli? Roberto Whytt, che ristorò in Iscozia il sistema degli animisti, non dubitò punto di affermare che l' attività dell' anima si conserva presente a quei muscoli e si aumenta sotto gli stimoli (1). Ritornando ora a noi e riassumendoci, noi vedemmo: Che l' anima razionale è unita al sentimento animale fondamentale per una percezione naturale ed immanente. Che essendo nel sentimento fondamentale due elementi, cioè il senziente e il sentito, l' anima razionale è unita conseguentemente all' uno e all' altro. Che l' essere unita al sentito è lo stesso che l' essere unita al proprio corpo soggettivo, per la quale unione ella diviene passiva, perchè esso corpo è passivo. Che dall' essere unita al senziente , ne viene ch' ella sia attiva, e possa operare su questo principio che regge il sentito, ossia il corpo, e così operare su di questo. Che il principio senziente nei bruti è ciò che costituisce l' anima sensitiva. Che il principio senziente ha quell' unione indivisibile col sentito, che abbiamo dichiarata a lungo nell' « Antropologia ». Dimostrando le quali cose, noi non abbiamo parlato che di passaggio del corpo extra7soggettivo. E veramente, quando sia spiegato il nesso dell' anima col corpo soggettivo, è spiegata altresì la sua relazione col corpo extra7soggettivo; perocchè questo è sostanzialmente quello stesso, ma vestito di altre apparenze a cagione del diverso modo e delle diverse potenze, per le quali viene da noi percepito. Tuttavia noi vogliamo qui dirne ancora alcuna cosa. I filosofi non conobbero troppo che sia il corpo soggettivo; essi concepirono sempre la sostanza corporea vestita di quei fenomeni, che loro porgeva l' esperienza esterna ed extra7soggettiva. E quando si proposero la questione: « come l' anima operi nel corpo o viceversa », intesero sempre per corpo l' extra7soggettivo; indi il loro imbarazzo. Ad uscirne conviene adunque dimostrare la relazione fra questi due corpi da noi percepiti; perocchè, conosciuta bene qual relazione passa fra l' uno e l' altro corpo, facilissimo riesce ad intendere come si eserciti l' azione dell' anima sul corpo extra7soggettivo, in conseguenza dell' azione sua sul corpo soggettivo. E con questa occasione abbiamo fiducia d' innalzare forse agli occhi di molti qualche lembo del velo densissimo, che ricopre il mistero della sensazione, al quale viene certo non piccola luce dal dichiarare il nesso che passa fra i fenomeni extra7soggettivi ed i soggettivi, nesso che noi, già prima d' ora, riponemmo nella medesimezza dello spazio, in cui convengono i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi. E di vero, se si ammette che vi sia un sentimento fondamentale diffuso per tutte le parti sensitive del corpo umano, di maniera che questo sentimento occupi lo spazio identico a quello in cui si manifestano i fenomeni extra7soggettivi, sicchè quel nervo stesso, a ragion d' esempio, che io veggo coi miei occhi e tocco colle mie mani (fenomeni extra7soggettivi), sia quello a cui sta inerente il sentimento soggettivo, che rende quel nervo naturalmente sentito ma in altro modo, cioè in un modo immediato, a chi lo possiede; in tal caso avverrà che tutti i movimenti prodotti in quel nervo, da una parte si presenteranno all' osservazione esterna come fenomeni extra7soggettivi, e dall' altra modificheranno effettivamente il sentimento soggettivo inerente al nervo. Si noti tuttavia che, quantunque noi diciamo un sentimento soggettivo diffondersi naturalmente in tutto lo spazio occupato dal nervo, non diciamo per questo che nel sentimento soggettivo naturale e fondamentale, questo spazio si delinei e si figuri. Nulla di ciò; lo spazio non viene figurato e limitato se non mediante la sensazione esterna, la quale dà i fenomeni extra7soggettivi. Uno dei quali fenomeni è quello delle sensazioni superficiali , non mai considerate dai filosofi, per quanto ci è noto, e di cui noi trattammo nell' « Antropologia ». Le sensazioni in superficie sono propriamente quelle che ci contornano i corpi e fanno nascere le loro forme, le loro grandezze determinate, e quindi le loro proporzioni; quelle perciò che ci somministrano tutte le cognizioni che l' uomo si va formando da tali elementi. E` così appunto che il mondo esteriore viene fabbricato, per così dire, dalla sensitività esterna dell' uomo. Il mondo interiore all' opposto, chiuso nel sentimento soggettivo, non presenta nulla di tutte queste appercezioni. Tuttavia lo spazio occupato dal sentimento fondamentale, ancorchè senza confini e senza relazioni con altri spazi, e però di apparenza oscura e semplice, non atta ad eccitar l' attenzione, è quello stesso spazio, per dirlo di nuovo, che in appresso dalle sensazioni esterne si definisce, ed affigura, e in certa maniera s' illumina e distingue dalla totalità dello spazio; ed è in questo medesimo spazio che riceve poi il movimento quell' organo corporeo, a cui aderisce il sentimento. Vero è che se noi poniamo che questo corpo, quest' organo corporeo, muti di luogo senza che nel suo interno avvenga moto relativo fra le molecole o particelle che lo compongono; nel sentimento interno, che inerisce al corpo, niente accade da cui altri si possa accorgere della mutazione locale; poichè la mera mutazione di luogo non è sensibile se non per la posizione relativa dei corpi esterni, che non viene data dal sentimento fondamentale e soggettivo, ma solo dalle sensazioni accidentali e dai fenomeni extra7soggettivi (1). Ma se nello stesso corpo vivente, a cui aderisce il sentimento, nascono dei movimenti intestini, come se un nervo si accorcia o protende per certa sua propria elasticità animale o contrattività; in tal caso il sentimento stesso, inerente al nervo, verrà a restringersi o a rilasciarsi, ad accumularsi in minore spazio o a distendersi in maggiore. Si attenda bene, non vogliamo già dire che il sentimento inerente a quel nervo presenti alla nostra coscienza il movimento; ripetiamo che il movimento non si rileva, se non in virtù dei fenomeni extra7soggettivi. Vogliamo dire adunque che il celere accorciarsi o rallungarsi del nervo sentito deve produrre necessariamente una modificazione al sentimento fondamentale; la sua attività deve eccitarsi, giacchè ha uno stimolo che lo sforza a conformarsi altrimenti. Il sentimento adunque così eccitato, in virtù di forza straniera, l' attività sua così scossa, stimolata, addensata, deve produrre una modificazione sentita, giacchè ogni attività del sentimento si sente. Ma qual foggia prenderà questa modificazione? Quest' attività sensitiva, tratta dal suo stato di quiete, in quali fenomeni si spiegherà? Questo è ciò che è impossibile predire a priori, e la sola esperienza ci può far conoscere. Ora abbiamo dall' esperienza che questi fenomeni sono le sensazioni transeunti, i colori, i suoni, gli odori, i sapori, le sensazioni tattili, ecc.. Queste sono dunque eccitazioni del sentimento fondamentale (1). Era difficile lo spiegare come i movimenti di un corpo potessero produrre queste eccitazioni in un sentimento, che non è corpo. Ma trovato che vi è un sentimento fondamentale, che aderisce essenzialmente al corpo, e che si diffonde nello stesso spazio del corpo, la difficoltà sembra vinta. Solamente vuol notarsi che, affin di trarre dal sentimento fondamentale certe sensazioni speciali, è uopo che egli sia scosso ed agitato con certi stimoli, secondo certe leggi, da certi movimenti, in certi organi a cui costantemente aderisce. E dico con certe leggi , poichè non tutti i movimenti degli organi eccitano il sentimento fondamentale in modo da svegliare le sensazioni. Il perchè ad ottenerle occorrono certe condizioni, un apparato di nervi, una maniera di scosse anzichè un' altra, una data celerità di tremiti. Tutto questo rimane ancora in gran parte nascosto. Aggiungiamo un' osservazione sul fatto innegabile della necessità che concorrano più organi a produrre una sola sensazione, a ragion d' esempio sulla necessità che i nervi ottici, i lobi del cervello e del cervelletto, i talami ottici, ecc., concorrano a produrre la visione. La necessità di un apparato di organi sì complicato a produrre una sensazione sì semplice, non farà meraviglia qualora bene si meditino le seguenti verità, già da noi dichiarate: Che il principio sensitivo è unico e semplice. Che la sensazione esige un' attività eccitata di questo principio sensitivo, vera causa della sensazione. Che tutto il sentito fondamentale in tutta la sua estensione sta nel principio sensitivo inesteso, non come un esteso sta in un altro esteso, ma come un sentito sta nel senziente: il che abbiamo chiamato rapporto di sensilità. Che il principio sensitivo viene eccitato, scosso, attuato dai movimenti intestini, che si producono negli organi, i quali sono parti del sentito. Che perciò questi movimenti, benchè vari e ai vari organi appartenenti, tutti tendono ad un solo effetto, cioè all' eccitamento del principio sensitivo, contraendo e addensando, e successivamente dilatando il sentito suo termine. Che perciò, quantunque ad ogni addensazione e dilatazione del sentito debba succedere qualche modificazione nel sentimento e nell' attività del principio sensitivo, tuttavia perchè si spieghino in esso sensazioni speciali non fa meraviglia che si richieggano movimenti d' una certa moltiplicità, varietà, frequenza, ecc.. Da tutte le quali cose ci sembra ricevere gran luce il nascimento della sensazione. Questo fatto era inesplicabile prima che si trovasse la distinzione fra i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi; perocchè la spiegazione della sensazione è il medesimo che la soluzione della grande questione del commercio dell' anima col corpo. Rimanendo il pensiero dell' uomo entro la sfera dell' esperienza extra7soggettiva, invano s' affaticava ad inventare delle ipotesi; una reale comunicazione fra lo spirito e il corpo non si trovava giammai. Quindi i filosofi si divisero in due classi. Alcuni contraffecero il concetto dello spirito, lo resero extra7soggettivo, immaginarono in una parola che fosse qualche corpo sottilissimo sfuggevole ai sensi; così rendevano possibile la reciproca azione fra lui e i corpi più grossi. Altri ben s' accorsero che questo era un distruggere l' ente spirituale, un materialismo, e che avrebbe dato ragione di una relazione meccanica, ma non mai d' una relazione sentimentale; quindi negarono ogni influsso fisico fra l' anima e il corpo; e, ora sognarono varie ipotesi (1), ora più saggiamente applicarono a tal questione il nome di mistero, suggellando con questa bella ed onesta parola la bocca a sè stessi, e a tutti quei profani che ne volessero più oltre ragionare. Io credo che debba essere cosa amena ai lettori il dare un cenno degli strani pensamenti, a cui dovettero pervenire i primi affine d' immaginare come lo spirito, quasi un cotal fiato sottilissimo, si raggiungesse a questo nostro corpaccio così crasso e voluminoso, per una gradazione d' altri corpi più sottili intermedi. Prenderò la esposizione di tali sistemi da Giovanni Fernelio, a cui sembrano d' indubitabile certezza (1). Questi sgarramenti delle immaginazioni erano necessari, dato che si voleva pure spiegare la comunicazione dell' anima col corpo e non si sapeva conoscere la natura soggettiva di questo, onde altro non rimaneva che dare anche a quella una natura extra7soggettiva, ma sì tenue da sfuggire ai sensi. Quindi tutta l' antica filosofia si vide andare sullo stesso cammino in questo argomento. Seguitiamo la storia delle opinioni, sempre colle parole del Fernelio. Così egli passa ad esporre quella di Alessandro Afrodiseo (1): [...OMISSIS...] . Venendo all' opinione di Aristotele (2), che il Fernelio vuol conciliare colle precedenti, prosegue: « « Il perchè giustamente Aristotele espose che nel corpo seminale e spumoso si contiene lo spirito , e nello spirito la natura , la quale proporzionalmente risponde all' elemento delle stelle; significando apertamente che questo spirito s' interpone fra il corpo e quella divina natura, siccome un cotal vincolo comune. Nè solo alla mente, ma ancora a ciascuna parte caduca dell' anima diede un proprio spirito, asserendo che ogni facoltà dell' anima partecipa d' un altro corpo, d' un corpo più divino di quelli che si appellano elementi, e come le anime differiscono fra loro per nobilità e per oscurità, così anche la natura di questo corpo » ». Onde, raccogliendo le precedenti sentenze, il Fernelio chiude così assai gravemente: « « Se dunque con certo giudizio noi vogliamo pesare le ragioni sì di Aristotele che degli altri, apparirà manifesto che ogni parte dell' anima si appoggia ad un certo spirito, siccome a suo fondamento; pel quale spirito ella e risiede nel corpo, e vi eseguisce ogni funzione del suo officio » ». E per questo spirito intende il corpo sottilissimo veicolo del calore innato; perocchè il calore innato (1) non può stare senza un fluido, a cui aderisca e che lo contenga (2). Così, non avendo potuto questi filosofi pervenire a concepire la natura soggettiva di cui vedevano i fenomeni, si sforzavano invano d' attribuire questi fenomeni alla natura extra7soggettiva, assottigliandola in modo che sfuggisse ai sensi esterni, e si togliesse quindi all' esperienza extra7soggettiva; mostrando almeno con questo d' intendere che i fenomeni dell' anima si dovevano spiegare con qualche cosa che fosse alieno dall' esperienza extra7soggettiva, senza tuttavia sapere che cosa vi potesse essere al di là di questa esperienza, e senza intendere che le leggi del corpo extra7soggettivo, anche sottilissimo, e sfuggevoli interamente ai sensi sono essenzialmente le stesse, e che il corpo non muta natura coll' esser grande o piccolo quanto si voglia, giacchè la grandezza e la piccolezza sono meri accidenti, e nulla più. Se le anime umane fossero scevre dai corpi, niuno potrebbe dubitare della loro spiritualità. L' unione dunque, che hanno col corpo, è la cagione, onde pullulano i dubbi intorno alla loro semplicità e spiritualità nelle menti, che non giungono a ben conoscere la natura di quella unione. Perciò noi abbiamo speso il libro precedente ad investigarla. Rinvenuta questa importante verità, che fu pure argomento di tante disputazioni, dall' inutilità delle quali gli uomini più sensati, ma alquanto impazienti, s' erano affrettati a conchiudere che ella doveva essere un mistero impenetrabile, da una parte cessano le apparenti difficoltà che opponevano i materialisti, dall' altra ci è dato di poter mantenere la spiritualità, senza precipitare negli errori d' altro genere, in cui gli spiritualisti cadevano quando prendevano a spiegare il loro dogma vero, nobilissimo e consolante. Imperocchè l' armonia prestabilita, le cause occasionali, l' idealismo berkeleyano, l' atto aristotelico del corpo, i corpi sottili confinanti colla supposta esilità dello spirito (a cui si riducono i principali sistemi, coi quali si pretese spiegare i fenomeni animali che appariscono nella materia) sono altrettanti errori, fecondi di conseguenze perniciosissime. Giova dunque che ora noi, raccogliendo il frutto delle dottrine esposte nel libro precedente, ci occupiamo ex proposito di questa dote essenziale dell' anima, che fu detta semplicità o spiritualità. La quale si rannoda ad importantissime questioni, come è quella dell' origine, o generazione, o moltiplicazione dell' anima (chiamisi come meglio piace), che non sono difficili per altro, se non perchè è difficile a concepire in che modo l' anima, essendo spirituale e semplice, operi nel corpo e dal corpo patisca, e soggiaccia a passioni che sembrano simili (benchè non sieno che analoghe o proporzionali) alle passioni della materia. Incominciamo dunque dall' esporre, con maggior estensione che non abbiamo fatto, le prove dirette della semplicità dell' anima umana. E primieramente è da osservarsi che la parola semplicità fu presa in vari significati. Ella fu presa in primo luogo per escludere la moltiplicità , e in questo senso equivale al vocabolo unicità . In secondo luogo fu presa per escludere l' estensione , e in questo senso viene a dire inestensione . In terzo luogo fu presa per escludere la materialità (forza sensifera), ed allora si dice incorporeità o spiritualità . Ora in tutti questi modi conviene all' anima l' essere semplice. Le prove, colle quali si può dimostrare la semplicità dell' anima, si riducono comodamente a tre grandi classi, traendole: 1 dalla coscienza; 2 dalle speciali proprietà dell' anima somministrateci dalla coscienza; 3 dalle sue operazioni, cioè dal bisogno di supporre che l' anima sia semplice per dare a quelle operazioni una ragione sufficiente, una convenevole spiegazione. La prova immediata tratta dall' intima coscienza fu già esposta più sopra. Dalle proprietà dell' anima si può trarre la seguente dimostrazione della sua semplicità. Si parte dalla definizione dell' anima: « L' anima è il principio del sentire e dell' intendere ». Da questa definizione si raccoglie immediatamente che ella è semplice, cioè si raccoglie che la moltiplicità , l' estensione continua e la materialità non entrano nel concetto dell' anima. Ora ogni ente ha le sue proprietà, e per esse egli è determinato e distinto da ogni altro. Le proprietà, che specificano l' ente, non possono essere comunicate ad un altro che non sia di quella specie; perchè in tal caso le specie delle cose si confonderebbero, e le specie sono inconfusibili; la loro distinzione si fonda nell' ordine intrinseco dell' ente, il quale è eterno ed immutabile (1). Basta dunque provare che il concetto dell' anima e il concetto della moltiplicità, dell' estensione e della materialità sono concetti specificamente diversi per aver dimostrato che essi si escludono, e però che l' anima non è nè molteplice, nè estesa, nè materiale. E quanto alla moltiplicità , ella si oppone ad ogni sostanza reale, perchè niuna sostanza reale può essere se non è una. Quanto alla estensione continua , noi abbiamo veduto che ella non si trova se non nel sentito e nel sensifero. Ma l' anima è il principio senziente, e il senziente è un concetto specificamente diverso da quello del sentito e da quello del sensifero. Dunque l' anima non ha estensione. Allo stesso modo si prova che ella non ha alcuna materialità , poichè la materialità del corpo consiste in quella forza che muta violentemente il sentito, la qual mutazione solamente ci è nota. Ora la forza, che muta ed altera violentemente il sentito, ha un concetto interamente diverso dal sentito medesimo e molto più dal senziente, è forza bruta opposta al sentimento. L' anima adunque, che è il principio senziente, non ha da far niente colla materialità, è dunque immateriale. Se si prendono altre proprietà dell' anima, come quella di essere principio , si riesce alla stessa conclusione. Perocchè la natura del principio esclude la moltiplicità, l' estensione e la materia estesa. Partendo dall' identità dell' anima si ha il medesimo risultamento; sicchè quante sono le proprietà dell' anima, altrettante sono le prove della sua semplicità. Finalmente si può provare la semplicità dell' anima da questo, che ella è unica ragione sufficiente a spiegare le diverse sue operazioni, e questo si ottiene in tre modi. Perocchè si può dimostrare che semplice deve essere necessariamente il principio efficiente di tali operazioni: 1 dalla natura di esse , per l' opposizione manifesta tra l' esteso e il principio che l' ha per termine; 2 dal loro modo , per l' opposizione tra i fenomeni extra7soggettivi, che racchiudono il concetto di materia, e i fenomeni soggettivi, che soli appartengono al soggetto senziente; 3 dal loro termine , per l' opposizione tra la moltiplicità dei fenomeni soggettivi e l' unicità del loro principio. Quante prove adunque non possono dedursi a conferma della semplicità dell' anima! Ciascuna operazione dell' anima, esaminata che sia diligentemente, ne somministra tre; perocchè si può argomentare che l' anima è semplice considerando la natura , il modo ed il termine di essa operazione. E veramente, qualora sia dimostrato che una data operazione non può essere prodotta che da un principio semplice, questo principio già non può più contenere in sè stesso nulla che s' opponga alla semplicità. Conciossiachè se ciò fosse, egli non sarebbe più il principio di quella operazione, come si suppone che sia; giacchè semplice e non semplice, ei non può essere ad uno stesso tempo. Di vero, si ponga che quel principio abbia in sè qualche cosa di non semplice. Questo elemento non semplice già non è più il principio di quell' operazione, ma è altro. Dunque non è l' anima. Dunque basta un' operazione sola, a cui sia necessario avere un principio semplice, a dimostrare che l' anima è tutta semplice. La dimostrazione della semplicità dell' anima, cavata dalle operazioni intellettive, è assai facile ad intendersi da chi non ha la mente preoccupata, perchè quelle operazioni si manifestano ad evidenza immuni e pure da ogni concrezione materiale. Laonde anche gli antichi fisici, che vestivano l' anima quasi di più camicie corporee di etere finissimo conteste, non dubitavano di riconoscere la mente del tutto incorporea. Perciò appunto, cominciando dal più facile, noi esporremo prima le prove della semplicità dell' anima, che si traggono dalle operazioni sensitive (1), le quali anche sole bastano a provare la semplicità dell' anima umana. Perocchè, qualora sia dimostrato che le operazioni sensitive non si possono in alcun modo spiegare senza supporre che elle siano effetti d' una causa semplice, rimane con ciò dimostrato che tutta l' anima, a cui quelle operazioni appartengono, è semplice. Poichè, essendo il primo principio sensitivo sostanzialmente identico nell' uomo col primo principio intellettivo, se quello è semplice, deve esser semplice anche l' anima umana, che è il primo principio del sentire ad un tempo e del conoscere. L' efficacia della quale maniera di argomentare è sentita da Lucrezio stesso, laddove procaccia di volgerla a pro della mortalità dell' anima intellettiva, deducendola dalla mortalità dell' anima sensitiva: [...OMISSIS...] . A cui noi rispondiamo che l' anima sensitiva, si moltiplica, non muore, come vedremo; dunque neppur muore l' intellettiva. E con assai più di forza noi argomentiamo così: quella è semplice; dunque anche questa è semplice; o in altre parole, se l' anima sensitiva fosse estesa e corporea, potrebbesi dubitare non forse l' anima intellettiva ricevesse da essa qualche estensione e corporeità; ma essendo quella inestesa ed incorporea, può bene starsene unita all' anima intellettiva siccome semplice a semplice, senza che dalla loro unione e identificazione riuscir possa nulla di esteso e di corporeo perciò. Noi già dimostrammo altrove che le operazioni sensitive addimandano un principio semplice, a tal che involgerebbe contraddizione il farle produrre da un principio molteplice od esteso (1). Ma essendo le operazioni sensitive di due maniere, cioè passive ed attive , ci limitammo allora a dimostrare la semplicità dell' anima sensitiva dalle operazioni passive del sentimento. Ora simili prove si possono trarre dalle operazioni attive dell' istinto. Le prove poi della semplicità dell' anima, dedotte dalle operazioni tanto passive quanto attive dell' animale, si distinguono in tre classi. Poichè rimane egualmente dimostrato che il principio senziente è semplice: Dal considerarsi che la sensazione dell' esteso7continuo in niuna maniera può aver luogo, se non vi è un principio semplice, che abbracci colla virtù del sentire in sè tutta l' estensione continua ad un tempo. Dal considerarsi che i fenomeni extra7soggettivi del corpo, che si manifestano sempre contemporanei alla sensazione, non hanno con questa diversità ed opposizione, e che mentre questi sono molteplici, quella che si suscita contemporanea a questi è unica. Onde le azioni del corpo extra7soggettivo, come i movimenti delle fibre, ecc., non possono essere la causa immediata delle sensazioni, come anche vedemmo; ma possono essere solo fenomeni paralleli ad esse o loro causa mediata. Dal considerarsi che il principio medesimo di sentire prova più sensazioni. Conciossiachè la sensazione del molteplice è inesplicabile, se non si ammette un principio semplice, che abbracci in sè, per la virtù del sentire, quelle varie modificazioni ad un tempo. La prima di queste tre classi di prove distingue e separa al tutto l' anima dal corpo soggettivo e dall' esteso; la seconda esclude dall' anima ogni materialità propria del corpo extra7soggettivo; la terza esclude dall' anima ogni moltiplicità . Ed esse sono tutte suscettive di maggiore sviluppo. Accenniamo soltanto lo sviluppo che si potrebbe dare alle due prime. La prima prova cavata dalla natura del continuo fu già addotta nell' « Antropologia »; ma ella potrebbe essere ampiamente illustrata coll' autorità e colle speculazioni degli antichi sul bisogno di un principio semplice, che contenga il corpo, acciocchè il corpo non si dissipi in nulla. E veramente, se questa è la proprietà del corpo esteso, che ogni parte in esso assegnabile sia fuori dell' altra e sia dall' altra indipendente, come non s' arriva mai ad assegnare una parte nel corpo, entro la quale non se ne possano assegnare altre ed altre ancora, forza è che, se le parti non sono unite e contenute da un principio semplice, egli divenga una sostanza assurda, perchè è assurdo « ciò che non si può pensare », e nel corpo non si trovano le prime sue parti esistenti in sè stesse; conciossiachè in ogni parte assegnabile una parte minore è fuori delle altre tutte, sicchè non resta più niuna parte estesa, che sia tutta in tutta sè. Non rimangono dunque che i punti semplici, che sieno in sè; ma questi non sono corpo, nè parti di corpo esteso, perchè non sono estesi; nè per conseguente possono formare l' esteso, per quantunque si moltiplichino; perocchè una somma anche infinita di enti, ciascuno dei quali ha un' estensione eguale a zero, non può dare nel risultato che un' estensione zero. Dunque l' esteso o non esiste, o se esiste, altrove non esiste che in un principio semplice che lo raccoglie. Questa era l' argomentazione ineluttabile dei Platonici di Alessandria. Ecco come la riferisce Nemesio: « « Contro tutti quelli che affermano l' anima essere corpo, bastano quelle cose che furono disputate da Ammonio, maestro di Plotino pitagorico. Ed elle son queste: I corpi di loro natura si mutano, e affatto si dissipano, dividendosi all' infinito. Dunque se in essi nulla rimane che sia immutabile, hanno pur uopo di qualche cosa che li contenga e connetta, e quasi restringa insieme, e li rattenga; il che noi chiamiamo anima . Il perchè, se l' anima è un corpo qualunque, si finga pur tenuissimo, or di nuovo che cosa sarà ciò che lo conterrà? Poichè abbiamo pure dimostrato che ogni corpo ha bisogno d' un che, dal quale sia contenuto, e così all' infinito, fino che perveniamo ad una qualche cosa, che sia al tutto priva di corpo »(1) ». Chi è atto a sentire la forza di tale argomento, farà profitto applicandosi alla filosofia; chi assolutamente non è atto a ciò, ne abbandoni lo studio. Non è però a credere che questa maniera di argomentare appartenga all' età della scuola alessandrina; ella è una eredità, che quella scuola raccolse dai primi filosofi italici. Quando Senofane cominciò a parlare dell' unità come necessaria a spiegare la natura di tutte le cose, certo è da credere non avesse ancora idee distinte. Infatti Aristotele ci attesta che egli non ispiegò se parlasse di un' unità di materia, o di un' unità di concetto (2). Ma l' aver sentito così solo in generale e indistintamente il bisogno di ricorrere ad una unità per dare consistenza alla natura, era già un travedere, comecchesia, che il corpo non poteva essere senza qualche semplice che lo contenesse. A Senofane successero presso di noi Parmenide e Melisso, i quali tennero il principio dell' unità; ma il primo poneva, come congettura Aristotele, che l' unità procedesse dalla ragione, il secondo all' incontro voleva trovarla nella stessa materia (3). Sembra dunque che entrambi dimenticassero il senso , trapassando il primo fino all' intelligenza, e fermandosi il secondo nella materia; e ciò perchè il senso e l' intelligenza non erano ancora accuratamente distinti. Onde, mentre Parmenide confondeva il senso colla ragione, Melisso lo confondeva colla materia; ma entrambi travedevano pure il bisogno di un semplice per ispiegare la natura. Ora poi, che Parmenide sotto la ragione comprendesse il senso, vedesi da ciò che seguita in Aristotele, il quale dice che Parmenide giudica ciò che è ente essere uno, e ciò che è non7ente essere nulla: « Ma costretto a seguire quelle cose che appariscono, e stimando l' uno essere per la ragione, e i più essere secondo il senso, pone di nuovo due cause e due principŒ, il calido e il frigido , quasi dica il fuoco e la terra . Ora di questi l' uno, cioè il caldo, lo pone coll' ente, l' altro poi col non7ente ». Ora, come poteva dichiarare il fuoco condizione o proprietà dell' ente, che è uno per ragione, se non considerando il fuoco, ossia il calore, qual principio della vita prodotto in gran parte dalla respirazione dell' aria, che viene scomposta al contatto del sangue con una operazione simile a quella della combustione? Qui dunque si scorge manifestamente che nel suo ente e nel suo uno secondo ragione, interveniva la vita animale, ossia il principio sensitivo, che è quello appunto che per la sua semplicità ed unità dà ai corpi l' essere uni, che è quanto dire l' essere come tali qualche cosa, l' essere qual che sono, cioè corpi estesi. Seguì a questi un altro lume della scuola antica d' Italia, Zenone di Elea, i cui argomenti contro l' esistenza del moto chi ben li considera, tutti vennero da questo principio: « l' esteso non ha alcuna unità in sè stesso ». Se si prescinde adunque da un principio semplice, che contenga e renda uno il corpo, niuno dei fenomeni riguardanti il corpo è spiegabile, anzi è un complesso di contraddizioni e di assurdi (1). A questo argomento, tratto dalla natura del continuo, è affine quell' altro, tratto dall' esistenza dell' anima tutta in tutte le parti del corpo, il quale è svolto da S. Agostino (2), da S. Tommaso (3) e da tanti altri; nè i moderni hanno negato questo vero, se non perchè, abbandonata l' osservazione interna e la deposizione della coscienza, soli autorevoli testimoni quando trattasi di ragionare dell' anima, vollero andar vagando per via di astratti ragionamenti, immaginando l' anima come qualche tenue corpicciuolo, che dovesse aver sua sede in qualche determinata parte del corpo. All' incontro è tanto lungi che l' anima, il principio senziente, si limiti a dimorare in qualche punto determinato del corpo, che anzi è evidente ch' egli è dappertutto là dove sente; perchè la sua natura si riduce tutta all' atto immanente del sentire, senza che vi si possa aggiungere alcun altro elemento, che sia straniero a quell' atto. Ond' è che l' essere tutta l' anima in ogni parte del corpo dove sente, altro non significa se non ricever ella ed avere il sentito in sè stessa; ed è per ciò che questo argomento della semplicità del principio senziente si riduce al primo dell' unità del continuo; perocchè il continuo non è tale, se non perchè dimora nel semplice. Così concepì la cosa S. Tommaso, che affermò costantemente: « « magis anima continet corpus et facit ipsum esse unum , quam e converso »(4) ». E un illustre padre della Chiesa, pur italiano del secolo VIII, Paolino di Aquileja, scriveva la stessa cosa, dicendo che [...OMISSIS...] (1). Ora, venendo alla seconda delle prove indicate, quale evidenza non potrebbe ella ricevere, qualora, approfittando dei lavori degli anatomici e dei fisiologi, si volesse divisatamente raffrontare i fenomeni extra7soggettivi (della materia) a quelli corrispondenti del sentimento, facendone notare tutte le opposizioni? Darò un piccolo saggio di tale confronto. I nervi, ai movimenti dei quali risponde la sensazione, sono composti di sottilissimi filamenti, detti fibre nervose, comunicanti a quando a quando fra loro a foggia di plesso. Si ritiene ancora che ogni fibra nervosa abbia una tonaca fina e trasparente, detta nevrilemma. Il fenomeno adunque extra7soggettivo, che immediatamente precede od accompagna la sensazione, non è il movimento di una fibra sola, ma di un fascetto d' innumerevoli fibre. Se dunque la sensazione fosse l' effetto meccanico e materiale del movimento, in tal caso la sensazione dovrebbe essere, o almeno rappresentare, una moltitudine di movimenti diversi. All' incontro la sensazione è unica. Dunque è necessario un principio semplice, nel quale e in virtù del quale ella nasca, non potendo nascere nelle molte fibrille scosse contemporaneamente con tanti distinti movimenti. Dunque ella è frase del tutto inesatta, benchè ripetuta dall' eco di cento e cento scrittori, questa: « le impressioni delle cose esterne, ricevute nelle estremità nervose, si portano al cervello ». Che cosa sono queste impressioni? Sono forse gli idoli di Epicuro? Niuno ritornerà a tali sogni; non possono essere che movimenti. Ma i movimenti non si portano al cervello, ma a lui si comunicano, il che è quanto dire si estendono lungo la fibra nervosa fino al cervello. Si deve dunque una volta sostituire quest' altra maniera di dire: « Tutta la fibra nervosa, o la sostanza nervosa della fibra, si muove; e se il moto non continua fino al cervello, non si ha sensazione »; certo l' impressione stessa non può essere portata, perchè non è cosa che si porti, ella rimane dove fu fatta, nelle estremità, essa non è che il principio, non è che la spinta ricevuta del moto. Ciò posto, nel fenomeno extra7soggettivo, parallelo alla sensazione, altro non si ha che moto longitudinale (si faccia questo mediante filamenti solidi o liquidi, in modo meccanico o dinamico, ora è indifferente per noi) fino al cervello. Ora la sensazione, che è il fenomeno soggettivo che vi corrisponde, non presenta lunghezza, nè si sente nel cervello, ma nell' estremità, a cui fu applicata la forza esterna. Il fenomeno extra7soggettivo presenta dunque estensione, il soggettivo nessuna; il primo domanda movimenti diversi in diverse parti, nelle quali non si manifesta alcun fenomeno soggettivo. Questo dunque non è quello, nè è un mero effetto materiale o immediato di quello, poichè in tal caso ne terrebbe la similitudine e la natura; moto non può produrre che moto, se non vi è un principio di tutta diversa natura, estensione non può dare che estensione. I fenomeni extra7soggettivi sono ancora più complicati a sentenza dei fisiologi. I nervi sensibili sono legati fra loro, hanno certe dipendenze gli uni dagli altri, tolte le quali, non si manifesta più il fenomeno della sensazione. Magendie trovò con replicate esperienze, che la sensitività della testa, e particolarmente della faccia e delle sue cavità, dipende dal quinto paio di nervi, di guisa che se questo nervo è tagliato, prima che sorta dal cranio, la faccia nulla più sente. Di più, credette aver dimostrato che la sede principale della sensorietà generale e dei sensori speciali non è propriamente nel cervello, nè nel cervelletto, e ne reca in prova questa esperienza: [...OMISSIS...] . Un meccanismo ancora più esteso e complicato si manifesta nei fenomeni extra7soggettivi, che precedono od accompagnano il fenomeno soggettivo del vedere. Ora, se a fare che sorga un' unica sensazione, qual' è quella della vista, concorrono simultaneamente tanti organi diversi, è evidente che, oltre questi organi, deve esservi un principio unico e semplice, nel quale la sensazione stessa abbia esistenza; è manifesto che questo semplice principio non può essere nè un solo di quegli organi, giacchè un solo non produce la sensazione, nè tutti insieme, giacchè la sensazione è unica e non molteplice. A tanti fenomeni extra7soggettivi, inerenti a diversi organi come loro proprie modificazioni, corrisponde un solo fenomeno soggettivo. Questo dunque deve avere un principio unico e semplice, che riceve un' unica e semplice modificazione, parallela di quei molteplici, distinti ed estesi movimenti. Finalmente molti sono gli organi sensitivi, a cui corrispondono speciali classi di sensazioni. Distrutto l' uno o l' altro di quegli organi, cessa l' una o l' altra classe, non però tutte. Gli organi adunque servono a fare che sorga la sensazione con certa indipendenza fra loro. Ma il principio che sente è sempre il medesimo, sorgono in lui tutte egualmente le sensazioni delle varie classi. Egli non può essere adunque un organo speciale, nè la modificazione di un organo; ma deve esser tale che risponda a tutti egualmente gli organi; e questo è il principio soggettivo, a cui appartiene l' unicità e la semplicità, e perciò appunto essenzialmente diverso dal principio extra7soggettivo, a cui spettano le proprietà contrarie della moltiplicità e dell' estensione. A queste prove della semplicità dell' anima sensitiva paragoniamo alcune di quelle che ci hanno dato gli antichi, le quali tradotte nel nostro linguaggio riceveranno forse nuova chiarezza. Certo, quello che io ho detto fin qui non pretendo che sia nuovo, anzi solo detto nuovamente affine di renderlo ai nostri contemporanei di più facile intelligenza. Una prova della semplicità dell' anima fu dagli antichi dedotta dall' esser ella presente tutta in ogni parte del corpo, come abbiamo veduto di sopra. [...OMISSIS...] ; così Giovanni Massenzio (1). Or questa prova è oltremodo calzante, quando sia provato che l' anima veramente si trovi tutta in ogni parte del corpo per contactum virtutis . Ma su questo appunto si mossero dubbi, i quali sgagliardirono nella persuasione degli uomini quella prova. All' incontro, l' accurata disamina della maniera colla quale l' anima sente, le restituisce, le raddoppia il vigore. Da questa disamina ci risultò che l' estensione continua non può avere la sua esistenza che in un ente inesteso. Non viene quindi che l' anima sia tutta in ogni parte del suo corpo? Sì certamente; conciossiachè anzi tutto il suo corpo sensibile, in quanto è sentito, è in lei come in un principio semplice, per un rapporto proprio, che chiamammo di « sensilità (2) », dovendosi di più avvertire che, come dicevamo, in un corpo sentito soggettivamente si manifestano anche tutti i fenomeni extra7soggettivi della vita. Quindi è manifestamente l' anima, che dà al corpo vivente la sua mirabile unità: Aristotele argomenta la semplicità dell' anima dal conoscere che ella fa tutti i corpi indistintamente (4). Perocchè - egli dice - se ella fosse un corpo determinato, non potrebbe conoscere gli altri corpi; argomento che così S. Tommaso espone: [...OMISSIS...] Sul quale argomento furono dette dagli Scolastici le mille cose, e molti lo vollero inefficace. Ma per noi egli diventa efficacissimo, solo che se ne spieghi bene il fondo. Quell' argomento si deve prima di tutto volgere a provare la semplicità del principio senziente, e non dell' intellettivo, la quale viene appresso di conseguente, poichè il principio senziente è quello che da prima percepisce i corpi reali, là dove l' intellettivo solo li apprende ed afferma come sentiti. Se la percezione sensibile dei corpi spiegar si potesse supponendo corporeo il principio senziente e percipiente, l' operazione intellettiva che viene appresso non darebbe più fastidio, ella riceverebbe la materia, tale quale le sarebbe data. Ora poi, che il principio senziente non possa essere corporeo, si prova appunto così: se egli fosse un corpo determinato, non potrebbe mai sentire l' estensione nè propria, nè altrui, perchè non sarebbe tutto e il medesimo in ciascuna parte, e però neppure niuno dei fenomeni che si manifestano nell' estensione, il che è quanto dire non potrebbe sentire in modo alcuno. Questa è appunto la prima prova, che noi abbiamo data della semplicità del principio senziente (2); ed ella è irrepugnabile. Dal sapere che l' anima sensitiva è semplice, procede che ella sia indivisibile. Alcuni Scolastici sostennero che le anime belluine fossero estese e divisibili in generale (3); altri distinsero fra gli animali perfetti ed imperfetti, e vollero estese e divisibili le anime di questi, le anime poi di quelli, indivisibili. Lo stesso Suarez parla in più luoghi di anime divisibili. Ora sembrami manifesto che tali autori vennero a sì fatta opinione, unicamente perchè non considerarono che l' anima non è che il principio del sentire (il principio senziente), e che al principio compete essenzialmente l' essere semplice, altrimenti non sarebbe principio. Vennero adunque in tale errore non per iscarsezza d' ingegno, chè alcuni di essi l' ebbero squisitissimo, ma perchè il metodo investigato non era stato ancora perfezionato nell' età in cui fiorivano. Onde invece di esaminare l' anima direttamente coll' osservazione interiore, si volsero a ragionare di essa senza averla bene osservata, applicandole i principŒ generali dell' ontologia, della forma, della materia, ecc., i quali non si possono applicare ad un ente, che non ancora ben si conosca prima di tutto per via di osservazione. Essi dunque urtarono in quello scoglio appunto, nel quale vediamo rompere tutto dì i nostri scrittori di metafisica, assai meno degni di scusa, assumendo di sciogliere piuttosto la questione: « che cosa l' anima debba essere acciocchè soddisfaccia ai loro principŒ ontologici »(che è quanto dire ai loro pregiudizi), che l' altra, unica che il filosofo si deve proporre: « che cosa l' anima sia »; traendo poi dal sapere che cosa ella è, i veri principŒ ontologici esprimenti l' ordine dell' essere in universale. Già in antico s' erano fatte delle osservazioni sulla conservazione della vita in corpi troncati o divisi in parti. Aristotele, grande osservatore, ebbe distinti gli animali in perfetti ed imperfetti, e con somma sagacità detto dei primi che erano « « quasi molti animali insieme annodati » (2). » Aveva osservato ancora vivere lungamente le testuggini, a cui sia estratto il cuore (1). Averroè riferì aver veduto un ariete camminare con mozzo il capo, e, sulla testimonianza di Avicenna, un toro senza testa aver dati due passi (2). Somiglianti fatti si trovano riportati altresì da Tertulliano (3), da S. Agostino (4) e da altri. Ora, se invece di osservare direttamente l' anima, come ci viene data dalla nostra propria coscienza, noi vogliamo a tali fatti esterni ed extra7soggettivi subitamente applicare un ragionamento ontologico, ci riuscirà inevitabile il precipitare all' errore dell' estensione e della divisibilità delle anime sensitive. Noi ragioneremo così: se un polipo diviso in parti diviene più animali viventi, o l' anima prima s' è divisa ella stessa, od è perita, e invece di lei due altre ne vennero infuse. Sono esse nate dalla corruzione della prima? O uscirono dalla materia? O furono da Dio create? Difficoltà senza numero; per uscir dalle quali nasce l' irresistibile tentazione di dire quello che sembra più facile, cioè che la prima anima si è bellamente divisa in due, ciascuna la metà della prima. All' incontro, se si adopera l' osservazione, e da questa, unita ad un accurato ragionamento, si trae che la sostanza dell' anima è riposta nel principio di sentire, non è vero che in ogni animale il senziente deve essere unico e semplice, e che tanti sono gli animali, quanti i principŒ senzienti? Non s' intende subito che l' esteso non è che il sentito, e che solo l' esteso è quello che si può concepire suscettibile di divisione? Non s' intende, quindi, che se la divisione non può cadere che nell' esteso, ella di conseguente non può concepirsi nell' anima, perchè l' anima è il senziente, cioè l' opposto appunto del sentito? So che alcuni faranno le meraviglie, e dall' imperfetta ontologia che invade le menti (perocchè ogni uomo si crea un' ontologia sua propria, traendola dalla natura dei corpi, come questi fossero i soli enti, da cui trarre la natura e l' ordine intrinseco di ogni ente) si produrranno fuori molte obbiezioni, tutte comincianti dalla frase: « Come può essere... ». Ma io rispondo che il non sapere come una cosa possa essere, non fa ch' ella non sia, quando è data dall' esperienza; rispondo quello che la diritta logica di S. Agostino rispondeva, nello stesso argomento appunto in cui noi siamo, all' occasione che, contro la semplicità dell' anima da lui difesa, Evodio opponeva il fatto dei polipi recisi in brani tutti viventi. Infatti le obbiezioni che si possono fare ad una verità, ancorchè appaiano insolubili, non possono mai, secondo una buona logica, distruggere quello che è direttamente e solidamente dimostrato. Che anzi ogni dottrina eccellente, perchè profonda e recondita, presenta al comune degli uomini le massime difficoltà; ma i savi o le sciolgono, o, non riuscendo a scioglierle, conservano tuttavia la persuasione fermissima di quel vero, che hanno da prima ben conosciuto. E tuttavia chi trae la nozione dell' anima e delle sue attività unicamente dalla coscienza e dalla osservazione interna, e ne raccoglie i risultati imponendo silenzio ai presuntuosi pregiudizi, che mormorano sempre nell' animo, troverà la cosa non tanto difficile a concepirsi, com' ella sembra nel primo aspetto. Perocchè ne raccoglierà quello che noi dicemmo, cioè: L' esteso sentito non altrove poter esistere che nello stesso senziente semplice ed inesteso. Fra il senziente e il sentito, nulla cosa essere in mezzo, quindi formar essi un unico e semplice sentimento avente quasi due poli, l' uno inesteso, che è il principio, l' altro esteso, che è il termine. Quindi l' inesteso senziente esser tutto in ogni parte dell' esteso sentito, appunto perchè niuna parte potrebbe essere sentita, se ivi non fosse il senziente; giacchè il senziente e il sentito formano un solo ed unico sentimento (2). Il senziente essere limitato dal sentito, che è il termine del suo atto, sicchè dove è il sentito, ivi deve esservi necessariamente il senziente; ma dove non è il sentito, neppure può essere il senziente, giacchè il senziente non sente se non pel sentito; come il sentito non è sentito se non pel senziente, come fu di sopra spiegato. Sottostare, ossia aderire al sentito una materia corporea estesa, a cui il sentito è legato e da cui dipende (1), sicchè se quella materia si sottrae o si muta d' estensione, anche il sentito cessa o si muta d' estensione. Potersi quindi un sentito esteso continuo dividersi in più parti col dividersi della sua materia; e conseguentemente formarsi due o più sentiti non aventi comunicazione fra loro. Niuna ragione potersi trovare a priori, per la quale se il sentito di una data estensione si divide in due o più, debbano cessare di essere sentite, giacchè dalla quantità o figura dell' estensione non ha per sè alcuna dipendenza il sentimento. Onde, come prima di dividersi un sentito continuo in due, vi era in ogni punto dell' estensione il sentimento, e quindi anche tutto il senziente, così anche in tutti i punti delle parti divise e discontinue è naturale che rimanga un sentimento, e in ogni punto di esse rimanga il principio senziente. Ma poichè il principio senziente, benchè tutto esistente in ogni parte di ogni continuo sentito, non è uno se non perchè è uno il continuo e senza parti, quindi per la stessa ragione, dividendosi il sentito in più continui, anche l' attività sensitiva si moltiplicherà; giacchè l' attività sensitiva non risiede in un continuo solo, ma in più continui disgiunti. Questa moltiplicazione del principio sensitivo riesce difficile ad intendersi, perchè facilmente la nostra fantasia immagina che questo principio sia quasi un essere completo e sussistente senza il sentito, come a dire un cotal minimo corpicciuolo. Ma la cosa non è così. Conviene distruggersi nella mente quell' essere fantastico, e concentrare l' attenzione nella natura della cosa; considerare che in natura non v' è che il sentito, e che al sentito come sentito è essenzialmente unito il senziente, e che questo sente solo il continuo sentito, senza sentire sè stesso; perchè il sentito animale non ha alcuna riflessione sopra di sè, che anzi questo monosillabo sè non è affatto ad esso applicabile. Se quel principio non sente dunque che il solo sentito, e egli è senziente solo in quanto sente, non appare chiaro che, dato il sentito diviso in due continui, il senziente sentirà due continui; ma non sentendo sè stesso, non potrà conservare la propria identità nell' uno e nell' altro sentito, perchè divisi; il che è appunto un moltiplicarsi? Conviene dunque conchiudere che ogni anima sensitiva è semplice ed indivisibile; ma che tuttavia ella è moltiplicabile . Quando Trembley nel secolo scorso (1740) ed altri naturalisti ricominciarono ad osservare ciò che avevano già osservato gli antichi, cioè come le idrie ed altri polipi si moltiplicano per bottoni, che su loro nascono spontaneamente e per sezioni sì naturali che artificiali, trasecolarono di meraviglia, atteso l' imperfetto concetto che fino allora si aveva della positiva natura dell' anima. Noi abbiamo osservato nell' « Antropologia » (2) che la maniera di propagarsi dei polipi non devia punto dalla legge comune della generazione, la quale è un fatto egualmente mirabile in tutti gli animali siano vivipari, siano ovipari, siano gemmipari, o fissipari, od atti a moltiplicarsi in altro modo. E veramente ogni maniera di generazione avviene sempre « mediante lo staccarsi di qualche parte viva dell' animale, la quale anche staccata conserva la vita, e diviene un nuovo individuo della stessa specie ». Le differenze fra le varie maniere di generazione si trovano solo nelle « diverse maniere di staccarsi dall' animale la parte destinata ad essere un vivente da sè e a divenire un individuo perfetto della specie », e nelle varie condizioni che questo distacco addimanda; ma tali differenze non sono che accidentali, e si verifica sempre la legge medesima, che la generazione non è altro che « lo staccamento d' una parte viva dall' animale, che si conserva viva e s' individua ». Tutta la questione adunque si riduce a sapere « quali sieno le condizioni necessarie, acciocchè una parte viva che si stacca dall' animale, non perda la vita dopo staccata (1) e s' individui ». E noi crediamo che anche queste condizioni nei diversi animali variano solo rispetto agli accessori ed agli accidenti, ma si riducono sempre ad una condizione sola, ad una legge sola specificamente la stessa, la quale noi altrove esponemmo (2), ed è: « La vita si conserva nella parte viva staccata dall' animale, ogniqualvolta in quella parte si rinviene una cotale composizione di tutte le forze meccaniche, fisiche, chimiche, organiche e vitali, per la quale la materia del sentire sia continuamente conservata in quel suo stato nel quale ella trovasi idonea a fare l' ufficio di termine di quello specifico sentimento , che costituisce appunto la specie dell' animale ». Il termine variabile in questa formola si è « lo specifico sentimento costituente la specie dell' animale »; e dalla variabilità di questo termine si devono ripetere le varietà degli animali, e quindi anche le varietà, che si osservano nella maniera di propagarsi. Come adunque l' essenza dell' animale sta nel sentimento, così la classificazione specifica e veramente filosofica di essi deve riconoscersi nella varietà del loro sentimento fondamentale (3). La varietà di questo sentimento si desume dai fenomeni extra7soggettivi, che l' accompagnano, e che, sebbene non sieno immediati effetti del sentimento, sono tuttavia fenomeni collaterali a quelli del sentimento, e però segni dimostrativi di quello. Nondimeno, quanto all' estensione , ella è identica, come dicemmo, sì pei fenomeni extra7soggettivi e materiali che pei fenomeni soggettivi e sentimentali, poichè il sentimento si diffonde in quello stesso spazio nel quale appariscono i corrispondenti fenomeni extra7soggettivi (benchè ella si senta in modo diverso); di che noi tirammo la conseguenza che una stessa forza produce, agendo nell' anima, il sentimento, e agendo sopra sè stessa (sulla materia del sentimento), produce i fenomeni extra7soggettivi. Ora il fatto si è che, staccandosi certe parti vive dagli animali, ora queste parti staccate diventano animali vivi, ora no, ma periscono. Noi abbiamo riposta la cagione di tal differenza in questo, che nel primo caso la materia del sentimento si conserva in quello stato normale che è necessario, acciocchè ella possa essere termine di quel dato sentimento animale; nel secondo caso la materia perde quello stato normale. Ora lo stato normale consiste nella conveniente organizzazione, la qual sia cotale che conservi l' unità del sentimento. E qui si possono fare più questioni delicate ed importanti: Come la materia vivente, staccata dall' animale, perde quello stato normale d' organizzazione, che la rende atta a divenire termine d' un unico sentimento? Prima che si staccasse ella aveva certamente l' organizzazione necessaria perchè era sentita, e quindi in essa era pure tutto il principio senziente, tutta l' anima, che è là dove sente; ora, come può mantenere questa condizione anche una parte staccata? Rispondo, non potersi negare che una parte sentita, che si divide dal corpo d' un animale abbia, per sè considerata, uno stato di organizzazione conveniente ad essere sentita, e che niente può dimostrare che lo perda colla sola circostanza della divisione dal resto del corpo. Ma è da osservarsi che il principio sensitivo non sente solamente; ma è in una continua azione, e produce continui movimenti nel corpo vivo da lui sentito, di maniera che questo termine del suo sentire ha un continuo movimento intestino, che, come dicemmo, pone il senziente in continua eccitazione (1). I quali movimenti portano un' incessante mutamento nella più intima organizzazione della materia, e la fanno passare da uno stato ad un altro senza posa. Acciocchè dunque l' organizzazione normale si conservi, debbono questi nuovi stati rimanere sempre stati normali, a tal che il movimento si volga in circolo, ed alterando l' organizzazione non la distrugga, ma la rinnovi, ovvero anche la migliori. Ora, questi movimenti prodotti dall' anima sono di due maniere, procedendo o da quello che abbiamo chiamato istinto vitale , o da quello che abbiamo chiamato istinto sensuale (1). Ma i movimenti dell' istinto sensuale pregiudicano in certi casi ai movimenti dell' istinto vitale , li turbano, e così disorganizzano il corpo che l' istinto vitale tende ad organizzare via meglio, sicchè diviene la prima causa della morte (2). Di più, lo stesso istinto vitale, che è il principio organizzatore , deve sostenere una lotta colla forza bruta (3), i cui processi meccanici, fisici, chimici, ecc., si operano senza alcuna posa a lato di lui e indipendentemente da lui, e quindi talora procedono in direzione opposta a quella organizzazione, che esso tende a comporre. Se i processi di questa forza bruta sono contrari all' organizzazione, a cui tende l' istinto vitale, si operano con più celerità e veemenza che il processo organizzatore del detto istinto; è chiaro che la materia perde l' organizzazione necessaria alla vita animale; e questa è la seconda causa della morte . La morte si deve sempre ripetere dall' una o dall' altra di queste due cause. Applicando dunque queste teorie al fenomeno della morte in generale, s' intende perchè alcune parti, staccate vive dal corpo vivente, muoiono in brevissimo tempo, altre, anche dopo staccate, continuano a dimostrare i fenomeni della vita per un tempo considerabile più o meno lungo, ma finalmente vanno a morire; perchè alcune parti lentamente muoiono rimanendo unite all' intero corpo vivente, succedendo in esse quei processi di alterazioni intime, che le conducono alla morte, come avviene nelle cancrene, nelle paralisie; perchè alcune malattie (e tutte le malattie non sono mai altro che una serie dei processi, di cui parliamo) conducano il corpo intero alla morte, ed altre lo conducano alla sanità; s' intende finalmente perchè alcune parti staccate dall' animale rimangano costantemente vive, rifacciano quella parte di organizzazione che loro fu tolta; ovvero se l' hanno già intera, la sviluppino e la perfezionino; al qual ultimo caso viene dato il nome di generazione . S' intende ancora perchè avvenga anche il caso che, staccandosi dal corpo alcune parti, queste vivono, laddove il corpo, da cui si sono staccate, va a morire. Così l' ape maschio dopo fecondata la femmina, nella quale lascia infitti i propri organi generativi, va a morire. Muoiono pure dopo la fecondazione moltissimi insetti, come lo scarafaggio, la mosca effimera, la cocciniglia, ecc.. In questo caso nelle parti staccatesi, che compongono un nuovo individuo, succedono processi atti a conservarle vive; e nell' animale generatore succedono per le stesse cagioni processi più o meno rapidi, che lo conducono alla morte. Ma rimane a vedere perchè l' istinto vitale non s' accontenti di qualsiasi materia, ma la esiga organata in una data guisa affine di mettere in atto il sentimento animale; ossia, che è il medesimo, perchè il termine del sentimento debba essere piuttosto un aggregato di materia che un altro, una scelta, un tessuto che un altro. Se è vero che nell' animale l' anima è la sola forma sostanziale del corpo, se è vero che il sentito (corpo) esiste per la virtù del senziente (anima), se è vero che il sentimento costituisce l' animale in essere, deve esser vero altresì che lo specifico sentimento fondamentale sia quello, in cui si deve cercare la ragione, che rende necessario uno specifico organismo dell' animale, e non la materia quella che contenga la ragione delle varie specie di sentimenti. Mi spiego. Qualora l' aggregato della materia fosse quello che determinasse il sentimento complessivo, dovrebbe avvenire che ad ogni frazione di materia corrispondesse un sentimento unico complessivo7animale. Ma se il sentimento è quello che determina la frazione ed aggregato della sua materia, queste frazioni ed aggregati saranno tanti e non più, quanti possono essere i sentimenti fondamentali di cui parliamo. Rimane dunque a domandare: perchè i sentimenti fondamentali, costituenti altrettanti animali, sono certi e determinati, e non tutti quelli che si possono concepire? In questa inquisizione ci aiutano i dati dell' osservazione ed esperienza interiore, che si debbono accuratamente raccogliere. Uno di questi dati si è che il sentimento dell' animale riceve uno stato più o meno soddisfacente dallo stato del corpo, come pure secondo la condizione, le variazioni, i movimenti che accadono in questo, prova piaceri o dolori. Di che si raccoglie che ogni sentimento fondamentale ha in sè certe leggi, per le quali si modifica, ricevendo ora un moto di perfezione, ora un moto di deterioramento. Se un sentimento fondamentale è suscettivo di un modo di perfezione, la sua azione tenderà a conseguirlo, e ad allontanarsi dall' estremo opposto. Questo modo o stato perfetto del sentimento è certamente cosa che si avvera in lui, e non fuori di lui; onde il principio vitale ed il sentimento stesso, supponendolo attivo, supponendolo in una continua tendenza ad atteggiarsi ed a comporsi nel suo modo di essere più perfetto, più naturale, più soddisfacente, muoverà e modificherà incessantemente il sentito; e muovere e modificare il sentito viene al medesimo che muovere e modificare il corpo, e per conseguenza la materia che vi soggiace. Così il principio vitale e senziente affine di porsi nello stato suo più naturale, nel suo modo più grato di essere, atteggia, compone, raffazzona sè medesimo; e con questo sforzo organizza la materia in cui opera, o a cui può stendere per la contiguità la sua operazione, o certo tende a sottometterla, ad organizzarla come più gli è grato. Quindi nel sentimento fondamentale, dove giace l' attività animale, si deve cercare lo stampo della specie, la forza plastica e la ragione, che fa che ogni animale riproduca un altro animale simile a sè. E` così che noi intendiamo e spieghiamo la vis essentialis di Gaspare Federico Wolf (1), l' epigenesi di Aristotele, di Galeno, di Cartesio, d' Harvey, di Giovanni Tuberville Nèedham e di Müller; il nisus formativus di Blumenbach, di Barthez e di altri; le forme plastiche di Cudworth; l' attrazione delle parti e la superstruttura degli organi di Maupertuis; il potere di creare e di organizzare il feto, che lo Stahl dà all' anima; l' archeo e lo spirito formatore di Van7Helmonzio. Certo, questi autori non vanno appieno d' accordo, e spesso dicono cose manifestamente false, ed adoperano sovente delle maniere al tutto improprie di spiegare il loro pensiero (a ragion d' esempio l' anima seminale da Van7Helmonzio collocata nella matrice); ma tutti convengono in una verità innegabile, la quale si è che nella natura v' è un principio organizzatore. Ora questo è ciò che noi crediamo di vedere nel principio vitale e nell' istinto sensuale operante d' accordo con quello (1). Non si può negare essere un fatto, che il sentimento dell' animale abbia vari stati piacevoli e dolorosi con una gradazione e varietà di piacere, e con una gradazione e varietà di dolore. Neppure si può negare che sia un fatto esibitoci dall' esperienza, che ad ogni stato del sentimento animale corrisponda una condizione del corpo, che è suo termine. Che anzi lo stato del sentimento animale, venendo sempre determinato da ciò che sente, e non sentendo quel sentimento mai altrove che nell' esteso corporeo, è manifesto che dalle condizioni di questo esteso corporeo, cioè del sentito, deve dipendere il trovarsi bene o male il principio senziente. Finalmente neppure si può negare che nel sentimento giaccia un' attività, e che questa cerchi di raccorsi ed acconciarsi seco stessa nel modo più grato e però a lei più naturale, e quindi ch' ella operi conseguentemente nel corpo, suo termine; la quale attività è poi anche quella che produce tutti i moti dell' animale, e che fa, a ragion d' esempio, che un insetto collocato supino cerchi a tutta possa di raddrizzarsi, e ricollocarsi nella postura sua naturale. Questi tre fatti non si possono negare. Ma rimane dopo di ciò a investigare quale sia la ragione, per la quale un sentimento animale abbia uno stato soddisfacente, e ne abbia altri meno soddisfacenti, ed altri ingrati più e più, e finalmente perchè cessi d' esistere. Se noi consideriamo il sentimento fondamentale e sostanziale come un ente specificamente determinato, non si potrebbe fare altra risposta alla questione che si propone, se non che la ragione dei suoi diversi stati grati ed ingrati giace in lui medesimo, è la legge di sua natura, procede immediatamente dall' ordine intrinseco di sua costituzione. Ogni ente ha un ordine interiore, e la ragione ultima di quest' ordine si rifonde nell' ordine intrinseco dell' essere essenziale; questo essere essenziale e il suo ordine è il fatto primo, che contiene la ragione ontologica sufficiente di tutti gli altri fatti, al di là del quale non si può cercare altra ragione di sorta. Ma poichè il sentimento animale, benchè uno e semplice nel suo principio, porge all' osservazione ed all' analisi una sua propria moltiplicità e composizione, risultando da certe intime azioni e passioni, perciò rimane ancora aperto qualche adito a ricercare nell' interna costituzione di lui la ragione dei suoi accidenti e delle sue vicende. Tentiamo dunque di spiare, se ci riesce, la natura, quasi riguardandola per le fessure. Io suppongo qui come certi questi principŒ: Il sentimento animale è per la sua essenza piacevole, è l' attività di godere; sicchè egli ha tanto meno di sua propria entità, quanto ha meno di attività di godere (attività di godere equivale a godimento fondamentale). Il sentimento, l' attività di godere, ossia il godimento fondamentale, può essere diffuso più o meno equamente in un continuo, e può essere più o meno quasi addensato in un punto fisico del detto continuo, o in più punti, quasi centri del godimento e dell' attività, sia mediante un eccitamento incessante, sia in altro modo. Essere il godimento fondamentale accentrato e condensato equivale a dire essere più intenso e vivo in un luogo che in un altro. Quanto più il godimento fondamentale e continuo è intenso, ha anche tanto più di attività istintiva. Negli animali più perfetti il godimento fondamentale è più accentrato e più intenso, e più molteplici sono le funzioni della vita; all' opposto negli animali imperfetti il godimento primitivo e fondamentale è meno accentrato, più sparso uniformemente, o invece d' un centro solo ha più centri, e quindi anche l' attività, le funzioni e i segni della vita sono più scarsi e meno osservabili. Dall' essere il godimento primitivo e fondamentale più o meno accentrato, più o meno intenso, io stimo che nasca la differenza specifica del sentimento fondamentale costituente l' animale; e quindi la base di una distinzione filosofica delle varie classi o specie di animali. Ai diversi sentimenti fondamentali risponde nel mondo extra7soggettivo una diversa scelta di materia, una diversa elaborazione di essa, una diversa primitiva organizzazione. Se la materia conveniente viene sottratta, o se non viene convenientemente elaborata, o se l' organizzazione opportuna si scioglie, il sentimento fondamentale soffre più o meno, e anche cessa, cioè si dirompe in più sentimenti perdendo l' unità del suo termine. Presupposto tutto ciò, io stimo che l' agglomeramento specifico del sentimento, posto dalla natura nel primo istante in cui l' animale esiste (o almeno il sentimento considerato secondo il suo tema), non può mai essere accresciuto dall' attività propria dell' animale; ma che questa attività tutta si volge a conservarlo lottando colle forze contrarie. Questa attività tende ancora a procacciarsi delle sensazioni piacevoli transeunti (istinto sensuale); ma queste sensazioni non fanno già che il sentimento fondamentale si agglomeri maggiormente in qualche punto, non sono che atti secondi passeggeri dello stesso sentimento. E` bensì vero che l' animale si sviluppa; ma io considero questo sviluppamento come effetto di quella attività, per la quale egli tende a conservarsi (istinto vitale), a conservare il tema del suo sentimento fondamentale , associata con quella per la quale tende a procacciarsi sensazioni passeggere (istinto sensuale), senza che il fine diretto, a cui tendono queste due attività, sia lo sviluppo e l' ingrandimento. Volendo il sentimento fondamentale conservarsi secondo il suo tema, e volendo emettere i suoi atti, cioè le sensazioni passeggere, accade che non possa farlo senza quei movimenti vitali, i quali per un po' di tempo lo sviluppano e perfezionano; ma, passato il periodo della sua perfezione, lo fanno anche decadere ed invecchiare, sicchè lo sviluppo ed il decadimento sono sequele naturali dell' uso dell' attività vitale e sensuale, non il prossimo fine in cui tendono questi due rami dell' attività animale. Si potrebbe anche concepire il pieno sviluppo dell' animale come stato di massima perfezione, e supporre che solo in tale stato il sentimento fondamentale sia giunto alla massima sua intensità, secondo il tema suo naturale. In tal caso converrebbe assumere per tipo costante, ossia stampo specifico dell' animale, la proporzione nella quale il sentimento è compartito nei diversi punti del suo termine , e quindi l' indole e il carattere dell' armonia di azione propria dell' animale. Poichè dove il principio senziente è unico, unica certamente e tutta armonica è questa azione, che si origina nel sentimento. Ma essendo maggiore l' attività dell' animale dove è maggiore il sentimento, se il sentimento ha un centro solo, avrà un centro solo anche questa azione, e se il sentimento ha più centri, anche l' attività animale avrà più centri, e così nei vari punti del sentito vi sarà attività maggiore o minore, secondochè vi è maggiore o minore sentimento; dove si parla sempre di sentimento d' eccitazione, che suppone dinanzi a sè il sentimento della continuità. Onde, rimanendo eguale questa proporzionata distribuzione di sentimento, rimarrà sempre eguale il carattere dell' armonia dell' attività animale in tutti gli stati che l' animale prende successivamente sviluppandosi. E questo carattere costante di armonica attività può essere quello che costituisce la specie dell' animale. Ora poi, pigliando questa proporzionata distribuzione di sentimento e di attività pel carattere che contraddistingue la specie, è necessario riconoscersi come legge costante che l' attività animale, almeno se non è perturbata da forze ed accidenti stranieri, non tende a mutare, nè a migliorare questa distribuzione caratteristica e primitiva di sentimenti e di attività, ma a conservarla e giovarsene cavandone piacevoli sensazioni; ma ne consegue in appresso la mutazione, quasi direi praeter intentionem . La qual legge riconosciuta, se ne hanno i seguenti corollari: I Che ogniqualvolta il principio senziente ed attivo, tendente a conservare il tema del sentimento fondamentale ed a godere da lui speciali sensazioni, opera nella materia, o questa gli resiste e si sforza di sottrarsene colle sue forze meccaniche, fisiche, chimiche, ecc., ovvero gli ubbidisce e cospira in qualche modo con esso. Nel primo caso nasce il fenomeno del dolore, che è la lotta del principio senziente colla sua materia e l' incipiente prevalere di questa, onde il principio senziente rimane frustato nella sua tendenza, e il sentimento viene posto in una condizione contraria alla sua natura, che è essenzialmente quella di godere; rimane allora il sentimento mozzato, minorato, o affaticato nel suo conato incessante di giungere a ciò a cui non può giungere; quindi si rattrista e addolora. Se poi la materia ubbidisce, cospirando le forze brute al fine del sentimento, hanno luogo in esso i contrari effetti. II Che se poi il sentimento fondamentale perde nella lotta talmente da deteriorarsi pur in ciò che forma la sua specie, se la condensazione specifica del sentimento e l' attività armonica conseguente si rende impossibile, quel sentimento specifico diviene impossibile del pari, il che è quanto dire l' animale muore. III Ma se vi fosse un animale, il cui carattere specifico fosse la diffusione del sentimento al tutto equabile senza condensazione di sorte, dovrebbe moltiplicarsi in tanti animali, quanti fossero i brani che di lui si facessero, giacchè in ciascuno vi sarebbe l' equabile distribuzione del sentimento, che costituisce la specie di quell' animale. S' intenderebbe altresì come il principio vitale potrebbe facilmente rimarginare le ferite, date almeno le condizioni esterne necessarie in ogni caso alla sua nutrizione. IV Procede ancora, che gli animali nei quali il sentimento è accumulato in molti centri con una intensità eguale, si debbano facilmente moltiplicare tagliandoli, o riprodurre a guisa di gemme, conciossiachè rimane in ciascun pezzo maggiore o minore numero di questi centri; onde la legge della loro azione armonica e la proporzione, nella quale il sentimento è compartito, rimane la medesima. Il che spiega la moltiplicazione degli animaletti infusori, nè fa più meraviglia la strana maniera di moltiplicarsi di quel tricode, dal Müller denominato Caron, il cui ventre si rigonfia come una bolla prima trasparente e poscia opaca, scoppiando in fine con tanto impeto da far saltare l' animaluccio in più di cento pezzi, ciascuno dei quali diviene un tricode perfetto (1). E non dissimile a questa nostra è la ragione, che dà S. Tommaso della moltiplicazione per taglio degli animali anellati. [...OMISSIS...] . V Che se poi la sequela dei movimenti vitali e sensuali, che l' attività animale produce in sè, fosse di mutare il centro del sentimento, o la sua intensione, il suo tema, dovrebbe vedersi un cangiamento totale nella organizzazione, e un animale cangiarsi in altro senza morire. Il che è appunto ciò che accade in certe specie viventi, come nei vermi che passano a stato di crisalide, e poi di farfalla. Ma il VI importantissimo corollario, che viene dalla precedente teoria, si è la possibilità della generazione spontanea, di cui parleremo nel seguente capitolo. Apparisce da quanto è detto che, se fosse verificato quel modo di generarsi tanto asserito dagli antichi, tanto negato dai moderni, chiamato da quelli per putrefazione, da questi generazione spontanea, esso rientrerebbe nella stessa legge universale, che presiede alla moltiplicazione degli animali. Allorquando il sentito, e di conseguente la materia del corpo animale, venendo meno l' organizzazione, non potesse più conservare l' unità del sentimento, nè il carattere specifico dell' armonia delle sue azioni, avverrebbe in queste tale discordia, che invece di cospirare tutte al mantenimento dell' unità del sentito, divergendo le une dalle altre, ciascun centro intenderebbe a costituirsi da sè stesso. Ora, questa intima lotta nelle varie attività del sentimento, sorgente quasi in tutti i punti dell' esteso sentito, questa disunione e dissoluzione di esse, come spiegherebbero il fenomeno della fermentazione putrida, così pur spiegherebbero la formazione dei minimi animali, che ne seguiterebbe. La qual maniera di moltiplicazione differirebbe poi dalle altre tre o quattro solo in questo, che mentre le altre propagano l' animale della stessa specie o lo trasformano, questa discioglie l' animale per comporne altri d' altra specie coi suoi squarci e brandelli, vera generazione equivoca. Alla metà del secolo scorso, un sacerdote cattolico in Inghilterra riprodusse l' opinione della generazione spontanea, e tolse a provarla con esperimenti microscopici (1). Da quell' ora molti naturalisti la sostennero, fra i quali Vrisberg, Ottone Federico Müller, Ingenhous, Bloch, Lamark, Treviranus, F. Meckel, Rudolphi (2), Bremser, de Blainville (3), Fray (4), Carlo Federico Burdach, Dellechiaje (5), ecc.; in una parola ella oggidì è divenuta quasi opinione comune fra i naturalisti (6). In una nota, posta ai « Nuovi Elementi di Fisiologia » di Richerand, così si parla degli animali infusori: « « Questi esseri viventi, che l' occhio non può ravvisare senza l' aiuto del microscopio, sembrano il prodotto di una generazione diretta o spontanea. La natura per mezzo del calore e dell' umidità dà loro la nascita; noi non sappiamo in che modo ella vi impieghi certi fluidi imponderabili, come il principio della elettricità; nonostante è molto probabile che una piccola massa gelatinosa possa, per la riunita influenza di tali cause, trasformarsi in un tessuto cellulare organizzato e vivente. Ecco senza dubbio in qual maniera si formano le monadi, e quella folla di animaletti microscopici, che pullulano e si agitano con tanta attività in seno di un' acqua stagnante. Il calore della estate sembra indispensabile alla loro produzione, perchè essi non si ravvisano più in tempo freddo. I tempi burrascosi ne favoriscono pure la moltiplicazione. Come il professore Lamarck ha molto bene osservato nella sua Filosofia Zoologica , tomo 2, i moderni sembrano avere rigettate troppo assolutamente le opinioni degli antichi rispetto alle generazioni spontanee; senza dubbio dal seno di un toro putrefatto non potranno uscire animali così composti come le api; ma non è a dire lo stesso di quegli esseri che presentano un primo abbozzo di organizzazione. Le monadi fra gli animali infusori, il byssus nelle prime famiglie delle alghe, sembrano il prodotto immediato del calore umido, avvalorato dalla influenza dell' elettricità »(1) ». La generazione spontanea parve ai materialisti una prova del loro sistema. Mossi da questo secondo fine, la sostennero acremente, e cantarono vittoria (2). Per la stessa ragione, quelli che ammettevano la spiritualità dell' anima presero ad impugnarla. Erravano gli uni e gli altri. Perocchè se il fatto della generazione spontanea si riscontra veramente nella natura, non si deve certo dire, come disse Cabanis, che la pura materia da sè stessa passa alla vita (3); ma si deve anzi dire che dunque ella viveva, e che il principio di vita che era in essa, operando nella sua materia, produsse l' organismo. Laonde questo gran fatto sarebbe prova evidentissima d' un principio immateriale. Un medico recente della scuola di Broussais, dopo avere indicato il problema proposto da Becquerel: « « Come si effettuò il passaggio dalla natura inorganica alla natura organica »(1) », dice: « « Le generazioni spontanee potrebbero non poco aiutare la soluzione del problema; poichè se fosse vero che la materia morta può colle sue proprie forze vestirsi di organizzazione, la questione sarebbe sciolta in gran parte »(2) ». Ma le generazioni spontanee non dimostrerebbero mai che la materia fosse morta; anzi dimostrerebbero chiaramente ch' ella sarebbe viva (3). Basta dunque fissar bene il concetto di corpo e di materia; quello e questa non sono che il termine del sentimento. Tale è l' unica idea che ne hanno gli uomini, e non ne possono aver altra, se non giocano d' immaginazione. Ora il termine del sentimento richiede il principio senziente, e questo non può essere che al tutto semplice, perchè se fosse esteso, sarebbe termine. La questione adunque è ridotta a cogliere l' idea di corpo e di materia in quell' istante in cui l' uomo l' acquista, prima che egli stesso la alteri colla sua immaginazione; e la questione posta così chiaramente è tosto finita, perocchè ne risulta che dappertutto dove vi è sentimento, ivi vi è un' anima essenzialmente semplice. Nel libro, che contiene le più antiche origini delle cose mondiali, Iddio comanda alla terra di germinare i vegetabili prima ancora che risplendessero il sole e la luna. Posti questi due luminari nel cielo, Iddio comanda alla liquida sostanza di produrre i rettili, i pesci, gli uccelli; e l' acqua e l' aria furono popolate. Appresso comanda ancora alla terra di produrre i giumenti, i rettili della terra, e le bestie secondo le loro specie; e la terra ubbidisce (4). Se ne indurrà forse che le sostanze materiali, che al cenno di Dio producono gli animali, fossero al tutto prive di vita? Sarebbe indurne il maggiore assurdo, e al tutto gratuitamente. Anzi lo stesso Mosè dice che fino dalla creazione della materia lo spirito di Dio fecondava le acque (1). Questo spirito di Dio venne inteso da qualche antico padre per lo spirito della vita animatore delle cose. La ragione poi, perchè si dice fecondare le acque, cioè la materia liquida anzichè la solida, si trova osservando che solo la materia sottile è atta alla generazione spontanea degli animali, e noi ne daremo una ragione più sotto. S. Teofilo, che fu innalzato alla cattedra antiochena nell' anno 16., dichiara che Mosè « « per lo spirito che spaziava sulle acque intende quello che Iddio diede alle creature per la generazione dei viventi, come l' anima all' uomo, congiungendo tenue con tenue (perocchè tenue è lo spirito, e tenue l' acqua) acciocchè lo spirito fecondasse l' acqua, e l' acqua insieme collo spirito, pervadendo ogni cosa, fecondasse la creatura »(2) ». Una testimonianza tanto antica è una grave autorità. Ora, che la sostanza materiale così fecondata possa dal principio vivente essere organizzata in varie forme secondo le circostanze, questo non è materialismo. Quando Cuvier, studiando le ossa fossili, trovò tante specie di animali intieramente perdute, il paleoterio, l' anoploterio, l' antracoterio, il plesiosauro, il megalosauro, il pterodactilo, l' ichtiosauro, ecc., fu detto che la temperatura del globo, la fecondità della terra, le circostanze influenti sull' organizzazione dovevano essere diverse dalle presenti. S' immaginò ancora che quelle specie perdute, così diverse dalle presenti, fossero il prodotto della terra dotata di altra virtù, in altre circostanze atmosferiche, ecc.. Qualunque opinione s' abbracci sopra di ciò, ella sarà falsa quanto si voglia; ma non cadrà mai a favore del materialismo. Perocchè, quand' anche dal suolo uscisse fuori composto d' un tratto un mastodonte o un rinoceronte, nient' altro se ne potrebbe ragionevolmente indurre, se non che un principio vitale era nel suolo, ed egli fu l' occulto organizzatore di quei grandi corpi. Dalle cose precedenti il lettore può raccogliere che la vita, l' anima sensitiva, si può trovare unita alla materia anche quando non apparisce con fenomeni esterni extra7soggettivi. Noi vogliamo in questo capitolo proporci l' ipotesi che il senso si trovi unito a tutti i primi elementi della materia, ed esaminare se una tale ipotesi trarrebbe dopo di sè funeste conseguenze. Intanto una tale ipotesi può essere certamente falsa; onde ella deve essere verificata colle esperienze di fatto le più accurate, prima che si ammetta. Del resto noi non vediamo ancora alcun argomento che ce la provi assurda; e d' altra parte ci pare che a torto, facendole aggiunte arbitrarie che la snaturano, si pretese adoperarla a sostenere ora il materialismo , ora il panteismo . Quanto al materialismo, è evidente che in nessun modo si può trarlo legittimamente da essa, sol che si consideri che se ogni elemento materiale ha seco congiunto un sentimento, l' elemento esteso non può essere che il termine di questo sentimento; il quale sentimento d' altra parte esige un principio semplice come suo essenziale costitutivo. Quanto al panteismo, è al tutto indifferente l' ammettere che le sostanze animate, che si trovano nell' universo, sieno più o meno, siano alcune o siano anche tutte; purchè si conceda che sono create e però al tutto distinte dal Creatore, il panteismo rimane escluso. In secondo luogo non si deve confondere l' ipotesi che dà il sentimento ai primi elementi della materia, coll' ipotesi dell' anima del mondo concepita dagli antichi. Neppure questa seconda adduce di necessità il panteismo, per quantunque erronea, purchè sia convenuto che quest' anima è creata. Ma quella dell' animazione dei primi elementi importa di più, che le anime possano essere molte, quanti sono gli elementi separati o i gruppi di essi. Essendo dunque queste anime individualmente distinte, e in ogni caso atte ad essere distinte e moltiplicate per via di separazione, non potrebbero giammai confondersi colla divina sostanza semplicissima com' ella è, e in nessuna maniera moltiplicabile. In terzo luogo il sentimento corporeo è affatto distinto dall' intelligenza; egli è cieco. Iddio all' opposto è intelligibile ed intelligente per propria essenza, onde non può essere in alcun modo confuso con un' anima sensitiva. In quarto luogo l' anima sensitiva non è che il principio senziente, e la materia è il suo termine, opposto a quello per natura. Queste sono due nature diverse; è dunque impossibile ridurre tutte le cose ad una sola natura o sostanza, come fanno i panteisti. Acciocchè dunque taluno dall' animazione degli elementi creda poterne cavare il panteismo, egli deve: 1 confondere ciò che è contingente con ciò che è necessario; 2 confondere ciò che è moltiplicabile con ciò che è immoltiplicabile; 3 confondere il senso coll' intelligenza, cioè essere sensista (1); 4 confondere il principio senziente col suo termine sentito, perocchè il panteismo non è veramente altro che la confusione assoluta, onorata del titolo di sistema. La sintesi nella mente umana precede la distinzione dei concetti, come il caos nella creazione precede la distinzione delle parti dell' universo. Quindi non è meraviglia se il panteismo comparisca negli esordi di tutte le filosofie. Non è già che la confusione sia naturale all' umana mente; a questa è naturale solamente da principio il pensare per via di grandi generalità, e il percepire le cose reali come una cosa sola variegata, per così esprimerci. Ma quando l' uomo con questi primi e poveri materiali si fa a comporre un sistema filosofico, allora gonfio e presumente di sua impresa, corre precipitoso all' errore, inventa il panteismo. Pure, come ogni errore trae l' origine da qualche verità, non sarà disutile meditare sui traviamenti dello spirito umano, specialmente affine di riconoscere in che parte si manifesti un consenso od una pendenza di tutto il genere umano, la quale può essere indizio e carattere di verità. Ora non si può negare che sempre e dovunque si manifestò un' inclinazione grandissima nelle menti a supporre animata la materia, benchè un tale concetto sia stato infarcito di mille errori. L' India, dove la vita in tutti i regni della natura apparisce così feconda, infaticabile, rigogliosa, doveva essere il paese, in cui più facilmente che altrove s' immaginasse che tutta la natura fosse animata. Di più l' animazione si riputò, come a sua causa, ad uno spirito universale. Questa unità della vita, intesa in un senso, non sarebbe aliena dal vero; è il pensiero dell' Oriente. Nelle scritture stesse si parla di « « uno spirito di vita » », che anima tutto ciò che ha vita (1). Infatti, ammesso che la vita sensitiva si moltiplichi collo spezzarsi dei continui viventi, chi non intende che tutta la materia viva si può concepire unita ed organata, e così animata quasi da un' anima sola? Ma tostochè si perde di vista il fatto della moltiplicazione di quest' anima colla divisione del suo termine, tostochè si pretende che l' anima conservi la sua unità anche quando i continui sono così divisi, e non hanno più alcun contatto fra loro, allora si è caduto in errore, perchè si è sconosciuto il fatto della moltiplicabilità dell' anima e della pluralità delle anime. A questo primo errore i filosofi delle Indie ne aggiunsero un altro assai più grave; si arrestarono all' anima del mondo, e la presero per lo stesso Dio, creatore di tutte le cose. Da quell' ora che poteva trattenerli dallo sdrucciolare nel panteismo? Non è difficile riconoscere che la materia non esiste se non in relazione al sentimento, e nel sentimento l' anima, cioè il senziente, è il principio attivo, in cui e per cui anche l' esteso come sentito esiste. Indi scaturiva assai facilmente l' emanatismo . Abbracciata l' ipotesi dell' emanatismo, tutti gli esseri dovevano partecipare della sostanza vivente del primo, da cui si supponevano derivare. [...OMISSIS...] . Da questo germe deposto nelle acque uscì egli stesso sotto forma visibile, ossia come Anima suprema. Da quest' anima suprema uscì: 1 l' intelligenza; 2 la coscienza o il me ; 3 il sentimento, che si risolve negli organi sensitivi ed attivi, ed un senso inferiore comune; e di qui tutti gli esseri. [...OMISSIS...] . Uscendo dunque tutti gli esseri da principŒ spirituali, come sono il sentimento, l' intelligenza, la coscienza, e le cinque particelle sottili o elementi componenti i cinque sensi, forza è che sieno tutti accompagnati di vita e di sentimento (1). Quindi non è meraviglia (2) se poco appresso si attribuisca il sentire ai vegetabili: [...OMISSIS...] . Insomma in tale sistema tutto l' universo altro non è che lo stesso Creatore sotto la forma particolare. La vita di tutti gli esseri e di tutte le molecole, che compongono l' universo, trovasi espressa fra gli altri luoghi, anche nell' I‡a Upanisad di Yajur7Veda, dove, seguendo la traduzione di G. Pauthier, così si legge: [...OMISSIS...] . In questo sistema adunque la morte non è che la dissoluzione della forma esterna; il sentimento non perisce mai; le anime individuali si trasfondono nell' anima universale, quando l' aggregato della materia si discioglie; non v' è nell' universo che trasformazioni, e per questo si distingue l' universo corruttibile, cioè soggetto a perire, dal principio incorruttibile e dagli elementi non perituri (3), che ne costituiscono propriamente l' intima sostanza. Ora, questa antichissima maniera di spiegare i fenomeni del mondo dimostra come l' antichità era persuasa che non se ne potesse in alcun modo assegnare una ragionevole spiegazione, ricorrendo a sole cause brute, a cui si arrestarono i moderni materialisti. Dimostra ancora gli scogli del panteismo, dell' emanatismo e della trasmigrazione delle anime, a cui si potrebbe agevolmente rompere, se in questione sì sottile non si procedesse colla maggiore perspicacia e cautela. Ma dopo di ciò apparisce che tali errori non sono conseguenze necessarie dell' ipotesi che gli elementi corporei abbiano seco indivisibilmente unito un sentimento, di cui essi costituiscono il termine. Conciossiachè questo sentimento nè rimarrebbe uno sempre, nè sarebbe emanato da Dio, quasi tenesse della propria sostanza di lui, ma creato dal nulla, nè si potrebbe confondere colla materia, nè col principio intellettivo, che nell' uomo a quello sovrasta. Dall' oriente passiamo alla Grecia. L' opinione dell' anima del mondo fu ammessa da quasi tutte le scuole filosofiche. Ogni scuola la concepì a suo modo; Platone a suo modo, Eraclito a suo modo; ma in fine convenivano che il mondo era animato. Molti aggiunsero la vita propriamente agli elementi, fra i quali Empedocle, di cui scrive lo Sturtz: « Empedoclem quodlibet elementum pro animo sive anima habuisse (1) », onde anzi spingendo la cosa all' estremo, li deificava. Platone pure diede il senso agli elementi (2). Di Democrito scrive Plutarco che « « egli credette tutte le cose partecipare di qualche anima, eziandio i corpi morti; e però sempre manifestamente hanno qualche porzione di caldo e di sentimento, essendone però la maggior parte svaporata »(3) ». Ricevuta dagli Italiani l' opinione dell' animazione del mondo, Virgilio la esponeva in versi stupendi e Cicerone in elegantissima prosa. Abbiamo già detto che uno degli errori, che guastava l' opinione dell' anima del mondo, era l' unità sua mantenuta costantemente; e che un altro errore era che, non sapendosi tirare la linea fra il senso e l' intelletto, si poneva un' anima universale non pur sensitiva, ma intelligente. Questi errori, entrati nella Chiesa, divennero altrettante eresie (4). Ma non fu rifiutata dai Padri della Chiesa la generazione spontanea, e talora per ispiegarla ricorsero ad un' animazione primitiva di certe molecole corporee (1). I filosofi italiani del secolo XVI proposero di nuovo l' ipotesi dell' animazione universale, ma oltre non aver distinta l' anima sensitiva dall' intellettiva, caddero nell' errore dell' anima unica del mondo, e il Telesio scrisse un opuscolo con questo titolo: « Quod animal universum ab unica animae substantia gubernetur ». Francesco Saverio Feller scrive così: [...OMISSIS...] . Ma l' aggiungere una cotal sostanza neutra, di cui si parla in questo luogo, quasi ministra dell' animazione, è aggiungere ipotesi ad ipotesi affatto gratuitamente. Poichè basta supporre accoppiato il sentimento agli elementi senza più, e incontanente riescono abbastanza spiegati i fatti della generazione spontanea e delle varie manifestazioni della vita, del moto, del conato organizzatore in tutti gli angoli della terra. Dopo che Van7Helmont propose il suo archeo, comparvero alcuni filosofi o medici, che si facevano chiamare i nuovi Pitagorici . Questi parlavano dell' anima comune , che distinguevano però dall' anima intellettiva. Uno dei loro errori principali si fu quello della trasmigrazione di tal anima; dove è da osservare che la trasmigrazione di un' anima meramente sensitiva non è solo cosa erronea, ma assurda; perchè tale anima non può trasmigrare da un corpo in altro senza staccarsi dal primo, nè può staccarsi dal primo senza perire, ossia perdere la sua identità (1). Si può dunque dire che l' ipotesi dell' animazione della materia non fu mai presentata con nettezza, e pura da errori e d' aggiunte arbitrarie; ma che se si volessero raccogliere tutti quelli che l' hanno prodotta in mille maniere diverse, senza tener conto degli errori aggiunti, ella si troverebbe comune a tutte le scuole principali di filosofia di tutte le età. Perocchè: In essa convengono i materialisti, dando alla materia una forza, cagione della vita e del sentimento; solo errano in non saper distinguere questa forza dalla materia stessa (2). In essa convengono tutti quelli che ammisero o ammettono l' anima del mondo; solo errano nell' ammettere quest' anima intelligente e indipendente, e nell' escludere la pluralità degli individui. In essa convengono i panteisti e gli emanatisti; solo errano nel volere che le anime sieno parti della divina sostanza, o la sostanza stessa divina in varie forme acconciata. In essa convengono i naturalisti, che suppongono una sostanza neutra, un fluido biotico, un imponderabile per tutto diffuso, tutto invadente, animatore di tutto; solo errano in ammettere perciò una sostanza di più nella natura, di cui non è provata pur l' esistenza, nonchè la virtù. In essa convengono i Pitagorici di tutti i tempi, o piuttosto tutte le più antiche scuole, che ammisero un' anima comune che s' individua, ovvero si trasmigra; ma errarono, aggiungendo agli altri errori fin qui accennati quello della trasmigrazione. In essa convengono tutte le specie di idealisti , che della materia fanno una modificazione dello spirito; solo errano, confondendo il termine (materia) collo spirito (principio); e confondendo oltracciò il sensibile e l' intelligibile. Si svestano tutti questi sistemi dei loro errori; e in fondo ad essi rimane un' opinione consentita da tutti, il bisogno di supporre la materia animata. Nella patria dell' idealismo trascendentale, la Germania, fu coltivata e in pari tempo depravata più che mai l' ipotesi della vita annessa agli elementi della materia. Si sa quanto diedero a pensare a quei filosofi le idee sulla natura di Schelling. Ma l' avviamento venne pure da Kant, il quale trasse non poco dal sistema delle monadi di Leibnizio. Leibnizio stesso era stato in qualche modo prevenuto dall' inglese Glisson (m. 1776), come questi dai nostri italiani, il Telesio, il Bruno, il Campanella, il Cardano (m. 1576), e somiglianti. Diamo un cenno della maniera di vedere di Francesco Glisson. Questi incomincia dall' affermare che non si può attribuire il concetto di sostanza se non a cosa che abbia tre facoltà, la percettiva , l' appetitiva e la motiva (1); e tosto toglie a provare che anche la sostanza materiale è dotata di esse, assumendo per conceduto che i corpi sieno sostanza. Nel capo XV precedente egli s' era occupato a distinguere la percezione naturale , che egli attribuisce alle sostanze materiali, dalla sensazione; e qui è dove più mostra di non aver colto menomamente il carattere della sensazione , nè come ella si distingua dall' intellezione , con cui la confonde, nello stesso tempo che la verità gli scopre talora se non sè stessa, qualche falda della sua veste. A ragion d' esempio, paragonando la sua percezione naturale colla percezione intellettuale , stabilisce questa differenza: « quella (della percezione naturale) è una facoltà necessaria e semplice, tendente per diritta via all' azione; questa (della percezione intellettiva) è quasi duplicata o giudicata, e si termina all' azione mediante il libero arbitrio. E stimo la percezione intellettuale presupporre la naturale, e contemplarla quasi inflessamente, e perciò percepire la percezione di lei »(doveva dire « percepire quella percezione »). Ora questa è una differenza capitale, da noi osservata, fra la percezione sensitiva e la percezione intellettiva; quella è semplice e senza giudizio, questa è duplice e accompagnata da giudizio. L' autorità del medico inglese conferma la nostra dottrina; ma il valente uomo non ebbe poi veduto che innanzi alla percezione intellettiva , è l' intuizione , la quale non involge alcun giudizio, eppure è oggettiva , mentre la sensazione e la percezione sensitiva è soggettiva ed extra7soggettiva . Per altro il Glissonio fu anche condotto a travedere l' oggettività della percezione intellettiva, quando considerò che la sua oggettività è condizione necessaria all' esistenza della volontà e della libertà; onde scrisse: « La seconda differenza (fra la percezione intellettiva, dell' angelo poniamo, e la naturale) si prende da questo, che l' intelletto dell' angelo può rappresentare l' oggetto alla sua volontà sub aliquali indifferentia objectiva , onde la volontà sua eserciti intorno ad esso il suo libero arbitrio, eleggendolo o non eleggendolo. Poichè se l' oggetto eleggibile non si propone alla volontà sotto una tal quale indifferenza, la libertà intorno ad esso non può esercitarsi, ma l' elezione rimane predeterminata e necessitata dal rigido dettame dell' intelletto ». Qui il Glissonio è di nuovo con noi, attribuendo all' oggetto dell' intelletto, come tale, un' indifferenza che può essere tolta dalla volontà, rendendolo questa buono o cattivo a sè stessa, che è quella funzione che noi chiamiamo ragione pratica , la quale liberamente fa sì che l' uno o l' altro oggetto diventi migliore all' uomo, e così prevalga. Ma quando egli si fa a distinguere la percezione naturale (che veramente risponde a ciò che noi chiamammo sentimento fondamentale ) dal senso (che corrisponde alla nostra sensazione ), allora mostra di non essere pervenuto a chiare e distinte idee, ignorando le distinzioni fra i fenomeni extra7soggettivi e i fatti soggettivi, e le altre che abbiamo detto di sopra. Il Glissonio adunque assegna alla sua percezione naturale o animale , come anche la chiama, le differenze seguenti: Che ella è similare e inorganica, quando la sensitiva è organica. - Ma questa è una differenza meramente extra7soggettiva, la quale non pone una differenza interiore alle due percezioni. Che ella è semplice, quando la sensitiva è composta e quasi duplicata, perocchè è percezione di percezione. - Qui non s' ebbe accorto che il senso non si rivolge sopra sè stesso, e rimane sempre semplicissimo, salvo che nella percezione , in quanto si distingue dalla sensazione , cade anche un elemento extra7soggettivo, e però si può dire composta di due elementi, ma non mai d' una percezione che ne abbia per oggetto un' altra; anzi è sempre unica percezione, dove non v' è oggetto, ma solo termine. Ora, dal non avere conosciuta la semplicità essenziale della sensazione egli fu condotto a dare in appresso alla sua stessa percezione naturale una duplicità, che lo traviò in sottigliezze di ragionamenti inestricabili, ed affatto inutili. Quindi anche dà al senso il giudizio, « sensus includit quasi implicitum quoddam judicium de re percepta », confondendolo di nuovo colla percezione intellettiva , quando nel senso la cosa percepita non è manco un oggetto (e sull' oggetto solo può cadere il giudizio), ma è un elemento che ha concetto di materia o di termine rispetto al principio senziente, sicchè l' attività del senziente non esiste che con esso, ed essendo individuale non può moltiplicarsi; onde neppure può giudicare l' elemento di cui abbisogna per esistere. Seguitando sulla stessa via sbagliata, il Glissonio concede al senso di potere errare, quando l' errore appartiene al solo giudizio, e perciò alle funzioni della ragione. Gli concede di contemplare un oggetto: « objectum perceptum ut quid extra se contemplatur ». E tanto rimane lontano il Glissonio dal concepire la sensazione e la percezione sensitiva nella sua purità e semplicità, senza aggiungervi arbitrariamente qualche elemento intellettuale, che egli parla della sua percezione naturale colle maniere di dire, che sono applicabili alla sola percezione intellettiva , e le dà il sè , e la facoltà di rappresentare sè stessa, le sue cause, i suoi effetti, ecc. (1). Nè fa maraviglia; io lo dirò chiaro e senza riguardi, non ho mai trovato filosofo, che sia giunto a formarsi il concetto della sensazione semplice , senza giunta di qualche cosa intellettiva o di qualche cosa materiale (2). Vi sono questioni intorno alle quali il senso comune non dice nulla, perchè esse non si presentano alla mente del comune degli uomini. Tale è la questione dell' animazione dei primi elementi, che non esce dalle scuole dei filosofi. E veramente, se il senso comune divide i corpi in animati e inanimati, non è che pronunci con ciò qualche cosa intorno alla questione di cui parliamo; egli intende parlare della vita apparente ai sensi esteriori, senza menomamente proporsi l' altra questione: « se vi possa essere unita a certi corpi, privi di organismo animale, una vita latente, un qualche principio sensitivo ». Così in ogni caso la distinzione comune dei corpi animati ed inanimati rimane ferma; nè si deve mutare l' uso comune di queste parole, salvo ad attribuir loro un significato più ampio e più vero entro l' ambito della scuola. Definiscasi adunque il corpo inanimato: « quello che non dà segni di vita per mancanza di opportuno organismo »; ovvero « un corpo inorganico, che, come tale, è inanimato »; e il corpo animato: « quello che dà segni di vita », ovvero « un corpo organico, che, come tale, è animato »(1), e la conciliazione dell' opinione filosofica, di cui parliamo, col senso comune è compiuta. Ma che dicono gli osservatori della natura? E` indubitato per la storia delle scienze naturali che, più si osserva e si sperimenta, più si allargano i confini del dominio della vita. La sensitività, data da Haller a certe parti del corpo, fu estesa successivamente da fisiologi ad altre ed altre. La scoperta dei polipi, degli animali infusori, dei movimenti spontanei, di cui sembrano dar segno i globuli del sangue, ecc., ed altre innumerevoli, assicurano che vi è vita in infiniti corpi, che in apparenza sembrano e si riputavano prima al tutto inanimati. A Ehrenberg parve di riconoscere che diverse rocce, e specialmente il tripolo, sieno composte di gusci di animali. Mauld credette avere scoperto che il tartaro dei denti era quasi un guazzetto di animaletti. I signori Payen e Mirbel pretendono che i vegetabili sieno un ammasso d' innumerevoli bestiuole microscopiche. Presentando il primo di questi all' Accademia delle scienze di Parigi, nel febbraio dell' anno 1.44, un volume di fisiologia vegetabile, si espresse così: « « Una legge senza eccezione mi sembra apparire nei molti fatti da me osservati, e condurre a riguardare sotto una luce novella la vita vegetale. Se io non mi illudo, tutto ciò che la vista diretta o amplificata ci permette discernere nei tessuti vegetali sotto forme di cellule o di vasi, non rappresenta altro che gli inviluppi protettori, i serbatoi e i condotti, nei quali i corpi animati, che li producono per via di secrezione, alloggiano, collocano e trasportano i loro alimenti, depongono ed isolano le secrezioni » ». L' ipotesi adunque dell' animazione degli elementi primi dei corpi coincide con quella ammessa oggidì universalmente dai fisiologi, che esista una vita latente, la quale non produce fenomeni eccitati, esterni, finchè mancano le condizioni necessarie al loro esercizio. Ma perchè, qui giova cercare, alcuni fenomeni sono considerati dall' uomo come manifestativi della vita, e altri non sono? La ragione unica di ciò si è che l' uomo prende il criterio da distinguere così quei fenomeni unicamente dalla propria esperienza. Ciò che osserva in sè stesso, gli è unica regola, secondo cui giudicare degli altri esseri naturali. Egli osserva, a ragion d' esempio, quali suoni emette, quando un vivo dolore lo punge, quali, quando prova un vivo piacere; perciò quella qualità di suoni o altri analoghi ad essi gli sono certo segno a conchiudere che altri esseri, ond' escono, in circostanze simili alle sue, simili voci, provino dolore o piacere. Egli osserva la propria organizzazione, vede come sono tessute le proprie carni, come la sensitività sua propria sia unita a filamenti nervosi, come si contraggano le parti diverse del corpo in occasione dei sentimenti, quali fenomeni esterni accompagnino in lui il sentimento o la cessazione di esso; indi ne inferisce che in quegli esseri, in cui trova altrettanto o il simiglievole, debba esservi altresì un sentimento simile al suo. Ma questa rimane sempre però una misura relativa, e non è certa prova che non possa esistere la vita sotto altre forme, certo una vita dalla sua diversa, ma pure una vita e un sentimento. Acciocchè dunque si possa considerare la mentovata ipotesi da tutti i suoi lati, conviene che distinguiamo tre maniere di sentimento, cioè: Un sentimento, che per suo termine non ha che l' esteso; e questo solo sarebbe quello che si attribuisce agli elementi isolati dei corpi. Un sentimento eccitato, che ha per termine ancora l' esteso, ma non immobile come l' elementare, ma avente dei movimenti intestini. Questa maniera di sentire esige pluralità di elementi contigui e moto fra essi; esige dunque qualche composizione, se non di organizzazione, almeno di aggregazione. Un sentimento non solo eccitato, ma in cui l' eccitamento si conserva, riproducendosi con qualche varietà sua sullo stesso tema. Qui già si esige un vero organismo, nel quale il movimento intestino si possa perpetuare. Le tre vie adunque, che si vogliono accuratamente distinguere, sono: Quella dei singoli elementi l' un dall' altro staccati. Quella degli elementi uniti, aggregati, ma non organati perfettamente. Finalmente quella che presenta al di fuori i fenomeni suoi propri, e che ha bisogno di compiuta organizzazione. Consideriamo a parte ciascuna di esse. Se noi immaginiamo un elemento solo di materia, e questo elemento esteso e perfettamente duro, come noi crediamo essere i primi elementi, in tal caso, quantunque potesse cadere questo elemento sotto i sensi nostri (ciò che è certo impossibile per la sua piccolezza), tuttavia esso non ci darebbe nessun segno di vita, poichè non potrebbe dare a sè stesso, nè ricevere nel suo interno alcun movimento. Tuttavia il principio senziente di lui sarebbe semplice, il termine di questo principio sarebbe lo spazietto determinato da quell' elemento; in questo termine sentito vi sarebbe omogeneità od uniformità, supponendo la materia dell' elemento, di cui si tratta, densa egualmente in tutti i suoi punti, e differenza d' intensità, supponendo la densità variabile nei diversi strati o punti dell' elemento (1). In questa piccola vita si rinverrebbe a pieno il carattere della continuità (2). Che se all' elemento animato noi aggiungiamo altri elementi parimente animati, possiamo tosto concepire nuovi fenomeni. Supponiamo tali elementi di forme diverse. Uniti insieme dall' attrazione o ritenenza loro propria, formeranno vari poliedri, secondo le forme degli elementi che si uniscono. Supponendo le forme degli elementi regolari, se ne avranno poliedri regolari. Ma questi poliedri regolari non diverseranno fra loro soltanto di forma, ma ben anche di densità e quindi di peso specifico. La ragione è manifesta, se si considera che dalla varia forma dei primitivi elementi, che si uniscono, dipendono questi due accidenti: Che i punti di contatto sieno maggiori o minori, e quindi più ferma l' unione fra quegli elementi, che possono toccarsi con maggiore superficie. Che rimangano, nell' interno dei cristalli, maggiori o minori intervalli, onde ciascuno di questi primitivi cristalli colle sue faccie esterne racchiude uno spazio vuoto maggiore, e viene ad avere un peso ossia un' attrazione specificamente minore. Gli elementi, che s' uniscono, sieno due soli. L' abbinazione dei primi elementi già ci deve dare molecole aventi proprietà diverse dagli elementi primitivi. Molto più l' atternazione, la quaternazione, ecc., dei primi elementi. Supponendo che questi primi elementi neppure pel contatto fra loro s' uniscano con tanta forza, quanta è quella che rende la materia perfettamente dura entro ciascun elemento, avremo tosto dei nuovi accidenti vitali; poichè in queste molecole il sentito continuo, a cui risponde un unico principio senziente, è più esteso che non nei primi elementi. Vero è che se la particella risultasse da due o tre soli elementi, non potrà mai cominciare il moto perpetuo (1) dal suo interno, e perciò non avranno luogo movimenti vitali. Ma se i due o tre elementi si muovono, senza dividersi per impulso esterno che loro vien dato, di maniera che le faccie aderenti si soffreghino, in tal caso il sentimento uniforme, sparso in detti elementi, deve necessariamente ricevere una eccitazione, e quindi non è assurdo che sorga in esso una sensazione, benchè nessun fenomeno extra7soggettivo la manifesti. Di più, dato che i due elementi, per la violenza loro usata dall' esterno, non abbiano più i loro centri di gravità nella maggior possibile vicinanza, non è assurdo immaginare che sieno spinti a ricercare il primitivo equilibrio delle forze dall' attività del sentimento da cui sono investiti. Perocchè il sentimento sparso nei due elementi è unico per la loro continuazione, e come ripugna a separarsi, così tende ad unirsi, e quindi a tenere gli elementi uniti e combaciati in maggiori punti che esser possa per quel momento della funzione organizzatrice, che noi chiamiamo ritenenza , e di cui poscia parleremo. Qui dunque vi sarebbe, oltre il carattere della continuità , anche quello dell' eccitamento; ma questo sarebbe momentaneo ed accidentale, mancando un sistema di stimoli che si succedano e che tengano in continuo, regolare ed armonioso moto gli elementi, che compongono il piccolo gruppo da noi supposto. Nella vita di due o tre, o certo di pochi elementi uniti in una sola molecola, abbiamo: 1 continuità, 2 possibilità di eccitamento, che sono due caratteri della vita. Ma l' eccitamento in tal caso, dipendendo dalla forza esterna che farebbe col suo impulso strisciare e stropicciare gli elementi fra loro senza dividerli, sarebbe momentaneo, non ecciterebbe che una sensazione passeggiera, senza che l' attività spontanea del principio sensitivo potesse continuarla. Non si può adunque avere i fenomeni esterni della vita animale, se non a condizione che i vivi elementi si uniscano insieme in numero ragguardevole, a segno tale da comporre tutti insieme una macchina più o meno complicata, ma però così artificiosa che, mediante organi aventi reciproche azioni gli uni sopra gli altri, si riproducano gli stimoli, i quali perpetuino il moto e quindi l' eccitamento del sentimento; sicchè il sentimento armonicamente eccitato possa e conservare la continuità nelle parti, e l' unità dell' organismo, e secondare colla sua spontaneità il movimento armonico, e questo ritorno alla sua volta ad eccitare il sentimento e mantenerlo nella sua medesima eccitazione. Dalle quali considerazioni si trae che l' organizzazione (prodotta ella stessa e sviluppata dal sentimento) occasiona le varietà degli esseri naturali, e le diverse specie di fenomeni che si presentano all' osservazione dell' uomo; quindi: I composti di pochi elementi non possono manifestare altre forze che le meccaniche, fisiche e chimiche, benchè non ci sembri alieno dal vero che la vera causa anche di queste sia il sentimento inerente ai primi elementi, che non ha virtù di manifestarsi altrimenti per mancanza di acconcia organizzazione. Nei composti di più elementi deve cominciarsi a vedere certa regolarità d' organizzazione, quale si osserva nei minerali, e l' aggregazione similare, che si scorge principalmente nei metalli. Se la composizione è più complicata, deve prodursi la organizzazione dei vegetabili, ai quali mancano affatto tutti gli organi simili a quelli coi quali l' uomo esprime il piacere, il dolore, gli istinti, l' intelligenza, ecc.. Ma in questa organizzazione già vi è un sistema di stimoli che si riproducono, solo mancando i segni esteriori del sentimento, esperimentato e significato dall' uomo. Il sentimento, adunque, che fosse nei vegetabili, non si può conoscere a che grado si trovi di unità, di accentrazione e di eccitamento. Ora, data un' organizzazione più opportuna, si manifesta oltracciò il fenomeno dell' irritabilità , ossia della contradistensione , il quale non è atto ancora a far conoscere all' uomo con certezza l' esistenza del sentimento, ma vi si avvicina, per la somiglianza che presentano i movimenti di tali corpi irritabili e contradistensivi coi movimenti spontanei, che nascono dal sentimento, e per la tessitura loro somigliante a quella di organi sentiti. Finalmente, con una organizzazione ancora più complicata e più perfetta delle precedenti, si manifestano i fenomeni extra7soggettivi, volgarmente detti fenomeni animali; i quali sono propriamente quelli che accertano l' uomo della presenza del sentimento, l' accertano della continuazione del termine del sentimento, dell' unità d' azione del sentimento medesimo, tale che è atta a dominare tutti i movimenti, i quali da esso non ricevono il principio, ma solo la continuazione e la direzione; movimenti che riproducono incessantemente gli stimoli, che rieccitano il sentimento quando scade dalla sua eccitazione, e lo rimettono nel medesimo stato (1). S' intende oltracciò, coll' esposto sistema, come non sia necessario che tutte le parti di un corpo animale vengano sentite dallo stesso individuo, cioè formino parti del medesimo sentimento fondamentale; potendo alcune avere un sentimento proprio, e questo esser nondimeno necessario a costituire la macchina extra7soggettiva, nella quale si debbono riprodurre, ossia riattivare continuamente gli stimoli eccitatori del sentimento, i quali stimoli possono non esser termine al sentimento fondamentale dell' animale. E del pari s' intende come alcune parti insensibili del corpo possano divenire sensibili, od il contrario, bastando che il sentimento loro proprio si comunichi e si continui al sentimento totale, o dal sentimento totale si divida, cooperando solamente all' unità organica. S' intende ancora perchè certi organi o parti del corpo umano sembrino godere di una vita loro propria, e siano soggette alla morte prima di altre (2). Ma qui certamente si presentano questioni difficili, piene di quegli enimmi, di cui pur tutte le ricerche naturali sono come avvolte, quando l' intera natura non è che un enimma solo da innumerevoli risultante. In qual maniera il sentimento proprio di un elemento, di una molecola, di un rudimento, di un organo si continua ed unifica coi sentimenti fondamentali di altri elementi, molecole, rudimenti, organi? Basta solo la continuità delle parti, come abbiamo fin qui supposto? Basta questa continuità a fare che il sentimento minore perda la sua individualità? S' individualizza forse mediante l' eccitamento massimo, provocato in qualche punto del continuo, dove s' accumuli di conseguente l' attività vitale, cioè l' intensità del sentimento, centro di tutti i movimenti armonici? E se questi centri sono vari, vi sono in tal caso più individui senzienti nello stesso continuo? E i movimenti diversi, continuati da questi centri ciascuno a pro di sè stesso, possono essere così armonizzati che non dirompano il continuo in più continui? E` questo forse il caso dei polipi e degli animali gemmipari, fissipari, e degli entozoari? E in tal caso ciascuno dei principŒ senzienti ha egli per suo sentito tutto il continuo? Ammessa la generazione spontanea, convien dire che gli elementi, o certo le molecole, di cui si compongono i nuovi animaletti, erano per innanzi animati. Altrimenti sarebbe inevitabile il materialismo, poichè si dovrebbe dire che la vita ed il sentimento si producono dalla materia bruta; ciò che è assurdo. Conciossiachè il termine del sentimento è opposto al suo principio; e se il termine esteso producesse il principio, che è cosa essenzialmente semplice, sarebbe un effetto dissimile ed opposto alla sua causa, contro al principio ontologico che « ogni causa deve produrre un effetto simile a sè ». In secondo luogo, se gli elementi non avessero sentimento, essi non avrebbero un' esistenza propria, ma solo extra7soggettiva, relativa ad un altro soggetto. Quindi sarebbero esseri assurdi, impossibili, illusioni. E veramente: « « La possibilità è la pensabilità; ciò che non si può concepire, non può essere » » (per il principio di cognizione) (1). Ma non si può concepire un essere che sia una mera relazione con un altro, poichè se un essere ha una relazione, si deve in lui trovare un che , il quale costituisca il termine a quo della relazione. Ma se l' elemento non sentisse, sarebbe nulla in sè, non potrebbe essere dunque il subbietto, ossia il termine a quo della relazione. Un tale elemento dunque non si può pensare; dunque non sarebbe; sarebbe dunque un' apparenza ingannevole e nulla più. L' osservare come nel mondo microscopico la generazione nasce con tanto più di facilità che nel mondo dei corpi maggiori, e come altresì che il fatto della generazione spontanea non si verifica che in animali minutissimi; è prova assai probabile che la vita sia annessa ai primi elementi. Perocchè dato che sia, si spiegano incontanente questi due fatti. Se la vita è annessa ai primi elementi, rimane chiaro per sè, come essi, quando non sono ancora organizzati, sieno liberi a comporsi insieme in quel modo che è più confacevole al loro istinto vitale (la cui legge formativa esporremo nella seconda parte), organando così facilissimamente degli individui animali. All' incontro i corpi già composti non possono organarsi in forma di animali, perchè gli elementi organizzatori non possono muoversi in essi con libertà. Che anzi ogni generazione, anche degli animali maggiori, accade sempre per via di umidità e di calorico; i fluidi dunque sono i primi viventi, gli organizzatori, appunto perchè in essi gli elementi o le molecole sono mobili e possono organarsi variamente, secondo le circostanze, mettendo in essere composti animati. Si deduce una quinta prova dell' animazione degli elementi dall' osservazione interna, la quale ci dice che la sensazione si estende in un continuo (2); il che si prova anche col ragionamento, perocchè se così non fosse, noi non potremmo avere alcuna idea del continuo (3). Ma noi abbiamo idea del continuo; forza è dunque che sia continuo l' esteso sentito. Ora dove vi è il sentito, ivi vi è il senziente, perchè senziente e sentito sono due cose indivisibili (4). Il senziente adunque è in tutti i punti assegnabili d' un corpo sentito; dunque aderisce ai primi elementi, cioè ai minimi continui della materia. Altre prove a conferma della vita degli elementi verranno da noi esposte qua e là, dove il filo del ragionamento ce ne darà occasione. A chi le avrà bene intese, quella cesserà d' essere ipotesi, ed entrerà nel numero, noi crediamo, delle verità dimostrate. Noi non intendiamo tuttavia di sciogliere queste questioni misteriosissime; e ci pare che il filosofo già faccia assai, solo determinando quali ipotesi intorno a questioni sì arcane non involgano logica ripugnanza, nè opposizione ad altre verità metafisiche, o ai dati sperimentali che somministrano ogni dì più le fisiche scienze. Nell' « Antropologia » noi abbiamo dimostrato che non si può concepire o sentire una porzione limitata di spazio, se non si suppone di sentire altresì lo spazio solido, illimitato. Con questo e con vari altri argomenti noi crediamo di avere dimostrato che tutti i fenomeni, che presenta il sentimento corporeo, suppongono che ogni anima sensitiva abbia a suo termine, dato dalla natura, lo spazio solido illimitato, o se meglio piace, immisurato , nel quale poi sorgono i sentiti corporei, che si espandono in uno spazio limitato e misurato da confini determinati. Se a questa dottrina si aggiunge quella della animazione degli elementi, se ne ha che gli elementi corporei da noi descritti si accostano, in qualche modo, alle monadi leibniziane rappresentatrici dell' universo. I nostri elementi, o piuttosto i nostri principŒ senzienti, non avrebbero a dir vero la rappresentazione dell' universo a quel modo nel quale l' attribuisce Leibnizio alle sue monadi, perchè questo grande uomo pretende che esse rappresentino l' universo con tutto ciò che l' universo contiene di esseri corporei e spirituali; quando i nostri principŒ sensitivi abbraccierebbero solamente lo spazio solido illimitato, immisurato, nel quale gli esseri corporei sussistono. Ora poi l' esser noi venuti all' esposta sentenza - alla quale non pervenimmo già leggermente, ma per lunga meditazione e condottivi a forza da una logica necessità - ci obbliga altresì a proporci la questione: « Se potesse esservi un principio senziente, il quale altro non sentisse che lo spazio solido illimitato, e se questo sarebbe un individuo ». La questione, come si vede, è di mera possibilità, ma non inutile ad investigarsi, perocchè non è mai inutile chiarire i concetti affini a quelli di cui ha immediato bisogno la filosofia. Diciamo adunque che il concetto di un tale principio non involge assurdo in sè stesso; e se vi fosse un tale principio, egli sarebbe certamente un individuo, attesa la semplicità e la realità annessa alla natura di principio, e di tale principio. Ma quindi nasce una conseguenza di qualche momento, la quale si è che di tali individui non ve ne potrebbe essere che uno. Poichè se due principŒ vi fossero con un termine identico, quale sarebbe lo spazio illimitato, essi non potrebbero avere in alcun modo una realità distinta; e perciò non potrebbero essere due, ma uno solo, essendo la realità il principio dell' individuazione (1). Ora, che tali principŒ non potessero avere una realità distinta si prova così. I principŒ, come tali, non hanno altra attività, nè altra realità, se non quella che ricevono dai loro termini. Se qualche altra realità si aggiungesse loro coll' immaginazione, già non sarebbero più meri principŒ, come si suppone nella nostra ipotesi. Se dunque uno ed identico è il termine, una e identica deve essere altresì la realità e l' attività del principio a quello correlativo; ma lo spazio solido illimitato è uno ed identico; dunque uno ed identico deve essere altresì il principio, che a un tal termine si riferisce. Questo argomento è ineluttavile; ma riesce alquanto difficile a concepirsi per la facilità, con cui la mente umana inclina a considerare il principio come avente qualche altra appendice, parendole che un mero principio non possa essere ente, non possa essere sostanza, senza attribuirgli qualche altra cosa oltre l' atto senziente o percipiente; la quale appendice diverrebbe differenza atta a distinguere fra loro i principŒ così immaginati. Conviene adunque che il pensatore si affatichi per ispogliare il concetto di principio da ogni altra giunta arbitraria, e incontanente sentirà tutta l' efficacia della nostra argomentazione (2). Ciò posto, quale relazione avrebbe un tal principio unico colle anime sensitive dei corpi? Queste verrebbero a sorgere e ad individuarsi nel seno di quel principio mediante nuovi termini, cioè mediante i termini corporei. Quel principio primitivo potrebbe ricevere in qualche senso, benchè impropriamente, la denominazione di anima comune , ovvero meglio di principio comune delle anime sensitive (di sentimento corporeo). L' individualità di queste anime rimarrebbe intatta, ma esse avrebbero un atto comune ed un atto proprio. Quest' atto proprio costituirebbe la loro realità e sostanza propria, e quindi la loro differenza sostanziale; e questa realità propria di ciascheduna sarebbe il principio della loro individuazione, e così riuscirebbe vero ciò che insegna S. Tommaso che la materia è il principio d' individuazione delle anime, ma ciò non varrebbe che per le anime meramente sensitive. Nulla si può vedere in ciò di ripugnante. Ma è d' uopo che parliamo con qualche maggiore estensione dell' individualità che le costituisce. Individuo, secondo l' etimologia, significa indivisibile. In questo significato ogni essenza, ogni specie ed ogni genere può dirsi individuo, perchè è sommamente indivisibile (1). Ma questa parola individuo si adopera più comunemente a significare l' indivisibilità degli enti reali, molti dei quali rispondono di sovente ad una sola essenza, ad una sola specie. E noi parliamo ora dell' individuo in questo significato. L' ente reale in tanto è indivisibile, in quanto è uno. Ma come vi sono diverse maniere di unità, così vi sono diverse maniere d' indivisibilità, e per conseguente d' individui. Anche un aggregato di più enti, in quanto la mente lo concepisce come un solo ente complesso, può dirsi individuo; ma questa non è che una individualità mentale; è l' individualità del concetto applicato alla realità. Noi non parliamo qui di questa individualità mentale, artificiale, che ha il suo fondamento nell' unità del concetto, con cui si pensa il molteplice per modum unius , come dicevano le Scuole, ma vogliamo parlare dell' unità reale , che ha il suo fondamento nella stessa realità. Gli enti reali possono essere molti, ma ciascuno di essi deve essere uno. E veramente, facciasi che un ente reale sia più enti, siamo nella contraddizione; perocchè se sono più, non sono uno. E` dunque essenziale ad un ente reale l' essere uno, perocchè le due parti della proposizione sono identiche. Se quell' ente che era uno, diventa due, già non si ha più un solo ente, ma due enti, ciascuno dei quali è uno. Dunque ogni ente reale, in quanto è ente, è uno, e in quanto è uno, è indivisibile. L' ente reale adunque è indivisibile. Onde adunque procede il concetto della divisibilità? Questa parola divisibilità si prende in senso proprio e in senso improprio, cioè per significare moltiplicabilità . La divisibilità in senso proprio ha per fonte la mente, o più in generale la percezione . A ragion d' esempio, lo spazio è uno e indivisibile; ma la mente umana può considerare uno spazio limitato. Con questa operazione sembra che si divida lo spazio, perchè la mente restringe la sua considerazione a quella porzione di spazio, dividendolo dal rimanente. Ma da ciò non è affatto avvenuto che lo spazio sia stato diviso veramente; poichè egli è in sè stesso al tutto indivisibile. Infatti, quantunque io delinei colla mia immaginazione una sfera avente un metro di diametro nel mezzo dello spazio, tuttavia non fo già con questo che oltre quella sfera non si distenda lo spazio, come prima che io immaginassi quello spazio sferico; o che lo spazio al di là della sfera, da me circoscritta, non si continui senza interruzione alcuna allo spazio occupato dalla sfera. Lo stesso si dica se la sfera, limitante lo spazio, fosse una sfera reale, corporea. La divisibilità dunque in senso proprio non è reale, ma unicamente relativa alle operazioni del percipiente. Prendiamo ora un pezzo di materia continua, e dividiamola in due parti. E` ella questa una vera divisione? Propriamente parlando non è che una moltiplicazione, per la quale invece di avere un individuo solo, ne ho due. Infatti, acciocchè ella fosse vera divisione, io dovrei avere l' individuo diviso. Ma io non ho l' individuo diviso, ma ho due individui. Per fermo, i due individui, che io ho prodotti, non sono certo parti dello stesso individuo; perocchè le due porzioni di materia continua, essendo divise, non formano più un tutto solo, ma due tutti; dunque non sono parti, perchè non esiste il tutto di cui sieno parti. - Si dirà che si possono considerare come parti di quell' intero, che era prima della divisione . - Ottimamente; si possono considerare dalla mente; onde l' essere parti del tutto proviene loro unicamente dalla considerazione della mente; non sono parti quando sono già divise, non erano ancora parti quando erano unite e formanti un solo continuo. La divisibilità dunque della materia è di nuovo una maniera di considerare propria della mente; è relativa alle operazioni di questa. Ma la materia, prima che si dividesse, si poteva dunque considerare come un individuo? La continuità basta ella a dare unità a questo essere che si chiama materia? La questione sarà da noi esaminata più a fondo dove parleremo della natura della materia. Qui basterà avvertire che l' individualità della materia è tutt' al più un' individualità molto imperfetta, poichè nella materia, come materia, non si trova alcun principio che possa unificarla. L' individualità dunque dell' ente reale, l' unità sua, non si trova propriamente che in quell' ente, che ha natura di principio attivo . La parola principio contiene nel suo stesso concetto l' unità e l' indivisibilità. Ora gli enti principŒ non sono che gli enti sensitivi ed intellettivi. Noi dobbiamo dunque parlare dell' individualità di questi. Veri individui sono adunque i principŒ sensitivi e i principŒ intellettivi. Questi principŒ sono atti primi, e tali che nell' ordine del sentimento loro proprio sono indipendenti. Gli atti secondi, dominati dagli atti primi, ricevono da questi l' unità e l' individualità. Ma non è assurdo il concepire che nel seno d' un atto primo sensitivo sorga un atto secondo, il quale sia immanente e divenga alla sua volta dominante dello stesso atto, dal seno del quale è sorto. In tal caso, divenuto indipendente, costituisce un altro individuo. Dico che l' indipendenza deve essere nell' ordine del sentimento; con che intendo dire che il sentimento individuante non deve avere un altro sentimento maggiore, che lo domini colla sua attività. Applichiamo questi principŒ sulla natura dell' individualità all' argomento che abbiamo alle mani. Cominciamo dall' individualità dell' uomo. Facilmente si comprende che nessun animale bruto può avere quella speciale individualità , che è propria dell' uomo, soggetto animale7razionale. L' uomo riceve la propria individualità dall' intuizione dell' essere universale, che lo costituisce intelligente (1). Questa intuizione è un atto semplicissimo di natura aliena dallo spazio, come è semplicissimo ed inesteso l' essere per sè oggetto. Ora, il principio intuente l' essere è nell' uomo identico col principio senziente, onde questa radice unica dei due principŒ fu da noi già chiamata principio razionale . Il che fa sì che lo stesso principio senziente dell' uomo, in quanto s' identifica in potenza col principio intelligente, è perfettamente uno, semplice ed alieno dallo spazio, che appartiene solo al termine del suo atto (al sentito). L' unicità dunque e la semplicità del primo atto intellettivo immanente costituisce l' individualità dell' uomo. Alla quale individualità s' aggiunge ancora un carattere importantissimo, che la distingue da quella del bruto e che procede dalla natura dell' essere ideale, da cui l' uomo viene informato. L' essere ideale è inesauribile, anzi di più egli è immutabile, immodificabile. Dunque egli informa l' uomo senza subire niuna mutazione in sè stesso, niun restringimento. E` l' uomo che è unito a lui, non egli propriamente che sia unito all' uomo. Egli è in sè, non ha unione con altre cose, benchè altre cose possano aver unione con lui; l' unione è relativa a queste, non a lui. Queste si sentono migliorate dall' unione con lui; e questo sentimento, che forma la loro unione, non cade nell' essere ideale, ma solo nell' essere intuente. Quando s' intenda bene tutto ciò, e non si applichi all' essere ideale il concetto di unione tratto dalle cose finite, che reciprocamente si uniscono, allora ed allora solo s' intenderà come all' uomo sia possibile la riflessione. L' uomo, in quanto è un essere intellettivo, è informato dall' essere ideale, e per questo esiste. Tuttavia egli, che esiste per l' essere ideale, trova ancora l' essere ideale in cui contemplare sè stesso informato dall' essere ideale. Questa è appunto la riflessione. La riflessione suppone: 1 il principio intelligente, di cui l' essere ideale è la forma; 2 l' essere ideale, in cui si vegga sè stesso informato dall' essere ideale. L' essere ideale adunque nella riflessione fa due uffici: fa l' ufficio di forma del principio intelligente, che costituisce lo stesso principio intelligente, e fa l' ufficio di mezzo del conoscere tale principio intelligente già sussistente. E` dunque l' essere ideale che si applica a sè stesso per la sua natura inesauribile, come dicevo, ossia immutabile. Ora dalla descritta riflessione nasce nell' uomo la coscienza, cioè la cognizione di sè stesso, e col processo di varie operazioni, già da noi indicate, vien posto l' io . Così si perfeziona l' individualità umana colla coscienza di sè. L' uomo sente e conosce sè stesso; l' uomo sa, l' uomo dice a sè di essere un principio unico (coscienza dell' individualità conosciuta). Neppur questa individualità può trovarsi nel bruto; l' individualità non può conoscersi che dall' uomo. Quale è dunque l' individualità appartenente al bruto? Ella deve trovarsi nel sentimento, nell' unicità del principio senziente. Ora noi abbiamo distinto un sentimento quieto ed uniforme (1), ed un sentimento eccitato. Quindi due principŒ d' individuazione. Se si suppone il sentimento fondamentale quieto e diffuso equabilmente in un dato continuo, è chiaro che l' individualità consisterebbe nell' unico principio senziente, nel quale tutto quel continuo esiste; perocchè, come abbiamo detto, il continuo non sarebbe continuo e perciò uno, se non esistesse nel semplice. Ma se supponiamo che in quel continuo aggregato di più elementi accadano dei movimenti, il sentimento eccitato crescerà d' intensità in alcuni punti di esso. E il principio senziente è più attivo là dove è più intenso. Ora dove è più attivo, ivi v' è più di principio senziente. Quindi il principio senziente in tal caso è unico, e perciò individuato, in quanto si estende a tutto il continuo; ma egli ha due atti, coll' uno dei quali abbraccia tutto il continuo sentito, coll' altro si accumula in una determinata parte o in diverse parti di esso continuo. Il principio senziente, in quanto è posto in atto con maggiore intensità, in tanto egli s' individua, divenendo dominante ed indipendente. Si distinguano diversi casi. Il primo sia che in un continuo equabilmente sentito sorga, per l' eccitazione del movimento, un' intensità maggiore di sentimento limitata ad un solo spazietto. L' individualità qui si forma, perocchè il sentimento acquista l' individualità di eccitamento, la quale prevale per la sua intensità. Ciò che forma la base di questa individualità si è l' atto, col quale esso principio sente più intensamente ed opera più attivamente nello spazietto accennato che altrove; ed il principio, che sente il più, può essere quello che sente anche il meno, ma non viceversa. Ora si suppongano due spazietti nello stesso continuo, in ciascuno dei quali l' intensità del sentimento sia cresciuta al medesimo grado. L' individualità del sentimento non sarebbe tolta, ma vi sarebbero due individui invece d' un solo; perocchè l' atto di maggiore intensità aderente ad uno spazietto non potrebbe essere l' atto di maggiore intensità aderente all' altro spazietto, conciossiachè le intensità sono eguali. Tuttavia il principio senziente che sente in uno dei due spazietti, abbraccierebbe nel suo sentimento tutto il continuo, pel principio che chi sente il più, può stendersi a sentire il meno; e lo stesso dicasi del principio senziente inerente all' altro spazietto. Sarebbe adunque il caso di uno stesso corpo, animato da due anime comunicanti fra loro, di due individui congiunti sostanzialmente, il caso dei mostri bicefali, degli animali anulosi, dei polipi, dei gemmipari e fissipari, ecc.. Ma facciamo un terzo caso. In un dato continuo il sentimento sia accumulato ed eccitato in diversi spazietti e a diversi gradi. Se uno di questi sentimenti eccitati ed accumulati è più forte degli altri, ed è quindi centro di un' attività istintiva sì grande che, coll' aiuto sempre dell' acconcia organizzazione, possa dominare l' attività di tutti gli altri sentimenti e tenerla talmente in freno, talmente regolarla a suo pro che ne riescano dei moti armoniosi, atti a conservare il tutto nell' unità; in tal caso se ne avrà un animale solo, più o meno perfetto; e ciò perchè, quantunque esistano nello stesso corpo più sentimenti individuali, tuttavia essi non possono dimostrare al di fuori la loro individualità nello stato servile in cui si ritrovano. E questo è probabilmente il caso di tutti quelli che noi chiamiamo animali, e specialmente dei più perfetti; nei quali, quantunque vi fossero dei sentimenti separati e degli istinti ad essi relativi, tuttavia uno solo è quello che prevale e che domina, e che nello stato di sanità rende armoniosi e cospiranti tutti i movimenti dei vari organi, di cui il corpo si compone. Consideriamo ora l' individualità dell' animale, connessa e trasfusa nell' individualità dell' uomo. Il sentimento animale è congiunto all' intelligenza per la percezione fondamentale , che abbiamo descritta, e così l' individualità sua si trasfonde nell' individualità umana. Quindi di nuovo, l' uomo solo può avere la coscienza della propria individualità animale; di che accade che, se nello stesso corpo vi potessero essere altri sentimenti minori che potessero essere individuati, l' uomo non potrebbe avere che la coscienza di quel sentimento massimo, che naturalmente e abitualmente percepisce. Insensitive per noi adunque sarebbero quelle parti, il cui moto non modificasse quel sentimento fondamentale, che è da noi abitualmente percepito, e del quale perciò possiamo avere coscienza. E qui ancora si vede la ragione, perchè non ogni movimento produca una sensazione. Il che si chiarirà meglio colla seguente considerazione. S' avverta in prima, questa esser legge del sentimento fondamentale che, sebbene esso si diffonda in certe parti, tuttavia non può farci conoscere la località di esse (1), poichè questa parola località altro non significa che un rapporto delle parti fra loro, determinato dalle sensazioni superficiali. Ora l' esperienza dimostra che non ogni movimento nelle parti, benchè per noi sensitive, produce sensazione. La retina, così sensitiva alla luce, può essere straziata senza che vi sorga sensazione da noi avvertibile. Le leggi del moto sensifero sono ancora poco conosciute; ma si potrebbe fare la congettura seguente. I diversi tessuti del corpo umano sono organizzati di molecole più o meno composte. Cioè a dire vi sono prima gli elementi, di poi questi elementi formano molecole di prim' ordine. Queste formano altre molecole di second' ordine; queste altre di terz' ordine, ecc.. Ora il sentimento, nell' ipotesi che abbiamo fatta e sulla quale ragioniamo, aderisce sempre agli elementi. Ma aderisce egli anche alle molecole di prim' ordine, di second' ordine, di terz' ordine, ecc.? Cioè voglio dire, ogni molecola di qualsiasi ordine continua il suo sentimento coll' altra, ovvero questo sentimento è continuato solo dagli elementi e da certe determinate molecole, che non possono cangiare di posizione relativa, senza che cangino la loro posizione relativa anche gli elementi di cui sono composte? Io credo probabilissimo, che le molecole altro non sieno che una organizzazione più o meno opportuna al moto intestino degli elementi (1). Ora noi abbiamo messo per condizione all' eccitamento che gli elementi a cui il sentimento aderisce, al contatto fra loro, debbano muoversi stropicciandosi insieme, e così mutando frequentemente l' esteso continuo, termine del sentimento. Ciò posto, se io stimolo una membrana composta di molecole del cinquantesimo ordine, in modo da fare che si muovano reciprocamente e si stropiccino queste molecole, ma non i loro elementi; e se quindi accade che il movimento elementare non si propaghi fino al centro, termine del sentimento dominante e costituente l' uomo, io non avrò eccitata alcuna sensazione; ma qualora io trovi il modo di far che nasca un movimento intestino negli elementi, in modo che questo si propaghi e continui col movimento intestino centrale, allora io avrò con ciò determinata la sensazione propria dell' uomo, ed atta a cadere nella sua coscienza. Infatti la sensazione non nasce col moto assoluto del corpo e dell' organo (2), ma in virtù del moto relativo fra gli elementi sensati; e questo moto deve essere continuo a quello del centro; perocchè, se i movimenti intestini degli elementi fossero limitati in una parte del corpo e non si estendessero al centro, nascerebbe un sentimento eccitato diverso dal sentimento massimo, mancando nel moto la continuità, a quella guisa appunto che il sentimento di continuità si moltiplica, se il continuo si divide e discontinua. Solamente dunque alle descritte condizioni la sensazione prodotta si riferirà al sentimento individuale dell' uomo, che è il sentimento massimo fondamentale fra quelli che cadono nel corpo umano. E qui ci sembra scorgere probabile ragione, perchè lo scotimento dei nervi debba essere propagato fino al cervello, acciocchè noi , che siamo il principio razionale del sentimento massimo, ne abbiamo la sensazione. Che se tale sensazione si sente colà dove è stato applicato lo stimolo, ciò vuol dire che anche quella parte entra nel sentito del sentimento massimo; ma per appartenervi è uopo che comunichi col centro, divisa dal quale appartiene ad un altro sentimento, perchè dal centro, cioè dall' unità e continuità del termine del sentimento massimo, riceve l' individualità animale il sentimento fondamentale dell' uomo. Acciocchè dunque un eccitamento produca una sensazione individuale conviene: Che il movimento si faccia nel continuo sentito. Che il movimento si faccia negli elementi, a cui aderisce il sentimento. Che il movimento sia propagato fino alla sede dell' individualità del sentimento, dove cioè sta quel sentito, che risponde al sentimento fondamentale massimo, e individuato in virtù appunto di questa sua condensazione; di maniera che il principio senziente senta un moto continuo (cioè nel continuo), e non interrotto. Le cose dette sembrano potere spianar la via a sciogliere la questione tanto agitata sulla vita dei fluidi, che circolano nei corpi animali, e che nel corpo umano formano forse undici dodicesimi di peso. Vedesi chiaramente: Che essi possono vivere d' un sentimento diverso dal nostro, di un sentimento perciò che non può cadere nella nostra coscienza. Che non è assurdo il pensare che questi fluidi, o una loro parte, sieno termini del nostro stesso sentimento fondamentale di continuazione, benchè non si abbia da essi il sentimento eccitato, purchè si ammetta che la sensitività appartenente al nostro individuo non sia annessa alle molecole del fluido, ma agli elementi di esse; onde, essendo il fluido cedevole, non accade che si spostino gli elementi, componenti le molecole fluide, per mancanza di stimoli; il che ce lo fa parere insensibile, perchè l' attrito delle molecole non adduce un attrito fra i loro elementi, continuato sino al centro del sentimento umano. Noi intanto esporremo colle parole altrui gli argomenti, che mossero un gran numero di dotti a riconoscere nei detti fluidi le proprietà vitali, perchè questo fatto, qualora sia verificato, conferma la data teoria, dalla quale rimane spiegato. Noi siamo ben lontani dall' accordare che vi siano sostanze corporee separate dal nostro corpo, le quali, applicate al corpo nostro, operino immediatamente sulla vitalità. Secondo noi il corpo non può operare che sul corpo, e il corpo straniero, come corpo, non può operare che sul corpo nostro. Quanto poi allo stesso corpo nostro, termine del sentimento, è manifesto che, modificandosi nel modo detto, deve di necessità modificarsi, accumularsi, eccitarsi, ed anche moltiplicarsi da sè stesso il sentimento (1). Che poi l' attività del sentimento, che ha per termine il corpo, possa operare immediatamente sul sentimento del corpo paziente, questo l' abbiamo congetturato (4); e ci venne a parer sempre più probabile, più che osservammo i fenomeni della natura animale, onde l' azione di un corpo vivo sopra un corpo vivo sembra a noi duplice, materiale e sentimentale. E nel vero in questa ipotesi sono i sentimenti quelli che, venendo le molecole vive al contatto, si continuano e si unificano; sono i sentimenti che si accentrano ed individuano, e che individuati fanno da sè dipendere altri sentimenti, e dominano i movimenti intestini del continuo a cui s' estendono. Fra questi sentimenti vi è azione, comunicazione, e talora armonia, talora anche lotta. Laonde, quantunque i fluidi del corpo animale sieno all' animale stesso insensibili, possono tuttavia essere vivi ed investiti di sentimento, e possono essere termini del sentimento nostro di continuazione, senza che i loro movimenti valgano ad eccitarlo e a dar sensazione, perchè il loro attrito non è attrito degli elementi viventi, o perchè l' eccitamento non è continuato fino al centro, cioè alla sede del sentimento massimo; ovvero possono essere termini d' un altro sentimento, diverso da quello dell' animale, a cui si reputano appartenere. E che i fluidi del corpo umano, od alcuni di essi, possano essere termini d' un altro sentimento, le osservazioni microscopiche fatte dai moderni sui globuli del sangue sembrano confermarlo. Le accennerò colle parole d' un illustre medico italiano: Ma è pure strano il sentire alcuni che vi negano tuttavia la vita degli umori, e in medicina d' altro non vi parlano che di solidismo, quando dovrebbe disingannarli anche solo la riflessione che avanti i solidi furono i liquidi; e nella formazione della natura e nella generazione dell' animale questi precedono quelli, di maniera che sempre più si illustra il principio antichissimo, divenuto caratteristico della scuola jonica, « il liquido essere principio di tutte le cose ». Si rammentino le osservazioni già tanto moltiplicate sulla formazione successiva dell' animale. A spiegare altresì il fatto dell' assimilazione, della nutrizione e della riproduzione di alcune parti del corpo, conviene ricorrere alla vita dei liquidi. Nelle quattro specie conosciute di generazione, la vivipara, l' ovipara, la gemmipara e la fissipara, le particelle fluide, che danno la vita ad un nuovo individuo, si separano dal corpo; ma non si riflette abbastanza a un fatto tanto significativo, perchè troppo consueto, benchè egli solo, pare a noi, basterebbe a provare la vita annessa ai fluidi. Ecciterà dunque maggiormente l' attenzione quest' altro fatto, che si osservano vestigi di vita anche in particelle, le quali si separano dai corpi per accidente, e non secondo le leggi della generazione conosciuta. Dopo Buffon (2), che suppose l' esistenza di molecole organiche, molti applicarono i loro studi a deciferare questa questione. Presso di noi il Professore Botto fece (3) speciali osservazioni sui movimenti di globicini animali e vegetabili, sospesi in vari liquidi, che non sembrano potersi spiegare ricorrendo unicamente a leggi meccaniche, fisiche, o chimiche. Non si conchiuda già da tali osservazioni che vi sia un' azione fra quei globuli in distanza. Niente mi prova, come dissi ancora, la necessità di ammettere attrazione fra corpi distanti, e m' induce a negarla la ripugnanza che mi par giacere nel suo concetto. I globicini possono avere un movimento intestino, che li muova da un luogo all' altro. Oltracciò, nuotando essi in un fluido, le cui particelle io suppongo al contatto e dotate di sentimento, possono benissimo stendere la loro azione ad altri globicini nuotanti nello stesso fluido, per l' azione del sentimento che nel fluido stesso si può continuare, benchè nei soli globicini si trovi accumulato in modo da renderli centri di maggiore azione. Del rimanente è uopo riflettersi che fra il sentimento massimo e gli altri sentimenti parziali si possono dare diverse relazioni, le quali non cessano, se non cessando la continuità delle molecole sensitive. Allorquando queste molecole sensitive, o aggruppate e attenentisi ad un centro di sentimento, o sciolte, si separano dal corpo animale, costituiscono altrettanti sentimenti individuali separati. Ma prima che si dividano interamente, il loro sentimento può essere più o meno raggiunto al sentimento massimo, e da questo più o meno dominato, o almeno da questo influito e mantenuto in certa attività. Il sentimento massimo d' un animale può influire alla conservazione di altri sentimenti individuali in più modi, che si possono ridurre a due; l' uno soggettivo , eccitando immediatamente questi sentimenti, e così attivandoli in modo che acquistino l' intensità necessaria per essere individuati; l' altro extra7soggettivo , somministrando ai detti centri il nutrimento, o applicando loro stimoli extra7soggettivi atti a conservare l' eccitamento medesimo. Il primo modo soggettivo , col quale il sentimento massimo d' un animale eccita immediatamente il sentimento in una sua parte con tanta forza da individualizzarlo, si scorge nell' atto generativo, almeno negli animali più perfetti, dotati di vario sesso. Io credo che il sentimento inerente alle particelle, che divengono un nuovo individuo, riceve dall' atto generativo una tale e tanta esaltazione, quale e quanta bisogna loro per individuarsi, bene inteso che questa individuazione viene aiutata dal separarsi della sostanza seminale dagli individui a cui ella apparteneva, benchè non si stacchi interamente dagli individui femmina, ma vi aderisca meno di prima. Quanto poi al secondo modo, extra7soggettivo , se n' ha molti esempi, e primieramente nel feto. Questo riceve dalla madre la nutrizione non solo, ma di più il sangue rosso. Se la madre estenda il suo sentimento fondamentale a quello del feto, o lo ecciti immediatamente, questo non so; e se fosse, servirebbe a spiegare l' amore materno. Ma somministrandogli ella del proprio sangue rosso mediante la vena umbelicale, e questo sangue venendo mosso dal sentimento materno, è questo sentimento che mantiene la vita intra7uterina del feto colla somministrazione dello stimolo principale e incessante che la produce. Di più, vi sono molti animali che vivono in altri animali, e la loro vita è legata sì fattamente all' animale che li contiene, che muoiono con esso; non se ne rinvengono mai nei cadaveri, ed estratti dal corpo in cui vivono, benchè si contraggano ancor qualche tempo nell' acqua tepida, poi vengono meno. Non abbiamo ancora dati sufficienti da determinare il modo, nel quale la loro vita dipende dalla vita dell' animale maggiore; ma non sarebbe impossibile che il sentimento massimo comunicasse immediatamente della propria eccitazione, in essi continuandosi. Se la cosa non è così, è almeno necessario che il sentimento massimo somministri, colla sua attività e colle operazioni che egli produce in tutto il corpo, a questi piccoli viventi il nutrimento, ed assai probabilmente gli stimoli extra7soggettivi, che tengono il loro sentimento limitato in quel grado d' intensione, che gli è necessario per essere costituito come individuo (1). Ed è degno di osservazione che fra gli animali di cui parliamo, alcuni non vivono che in animali sani; altri all' incontro non si rinvengono che in animali, che si trovano in istato di malattia. La legge, secondo la quale tali animali si producono e si mantengono, è la medesima. Il sentimento massimo nello stato di sanità ha un' attività, e produce nei corpi movimenti diversi da quelli che produce nello stato di malattia; quindi egli deve aiutare lo sviluppo di centri diversi, produrre organizzazioni diverse nella sfera dell' organizzazione totale. Tra gli animali abitanti in corpi viventi sani tengono il primo luogo i zoospermi. Ora i zoospermi non solo sono propri del corpo sano, ma sembrano a questo necessari, perchè sembrano necessari alla generazione. Pare adunque che questi animaletti sieno così essenziali all' animale maggiore che li racchiude, come è a lui essenziale la facoltà generatrice. Gli animali, che sembrano svilupparsi nei corpi per cagione di malsania, o che malsania producono, sono di molte maniere, gli entozoarii, gli acari scabbiosi, i pidocchi, ecc.. « Ogni specie animale ha i suoi particolari entozoarii, i quali non possono vivere in specie diverse, e periscono tostochè sono usciti dal corpo in cui ebbero nascita; e ogni viscere del corpo d' un animale non può essere nido che di particolari entozoarii ». Fra questi gli idatidi o vermi vescicolari, che furono divisi in cinque classi maggiori, ciascuna delle quali presenta delle suddivisioni in classi minori, e che conservano pure la vita per l' influenza della vita dell' animale maggiore in cui vivono, sono divisi e isolati mediante il parenchima dell' organo, in cui si sviluppano mediante vesti o vesciche nelle quali si contengono; le pareti di queste vesciche sembrano influire non poco a limitare l' eccitamento intestino loro proprio, sicchè non si possa estendere e comunicare all' animale maggiore che dà loro l' alloggio, la nutrizione, degli stimoli (1), e fors' anche parte del proprio eccitamento; la quale limitazione deve contribuire all' individuazione di quei piccoli sentimenti fondamentali. Alla detta limitazione deve contribuire del pari la stessa vescichetta, che forma ciascun idatide; e pare indubitato che, mediante un tegumento più o meno consistente, più o meno insensitivo, che racchiude tutti gli entozoarii, si limiti a breve spazio sì la loro organizzazione e sì il loro proprio fondamentale sentimento; le pareti del detto tegumento ne formano come la linea di confine. Gli argomenti, volti a provare la generazione spontanea dei pidocchi nei fanciulli anche sani e nella ftiriasi, furono esposti da Fournier (1), da Sichel (2), da Burdach (3) ed altri. « Ogni specie animale è soggetta ad una particolare varietà di pidocchi, e sovente un individuo di una determinata specie di animali, vivente isolato e lontano da ogni altro individuo della sua specie, trovasi molestato da pidocchi che sono propri della sua specie. Anzi Patrin, avendo fatto covare ova di pernice da una gallina, ottenne pernici sui quali osservò i pidocchi propri della pernice, e neppur uno dei pidocchi propri dei gallinacei ». Tutti questi viventi sembrano ingenerarsi dall' animale massimo in istato sano o morboso. La generazione spontanea si manifesta assai più evidente, disorganizzandosi l' animale morto, ed anche il vegetabile. Quante maniere non se ne presentano all' osservazione coll' infusione di tali sostanze in un liquido? « Ottengonsi infusorii di specie diverse a norma della diversità delle sostanze infuse, ed a norma delle diverse condizioni dell' acqua e dell' aria, che concorrono all' effetto dell' infusione. Così l' infusione di una sostanza vegetale od animale, priva d' azoto, darà luogo piuttosto alla produzione di vegetabili infusorii che a quella di animali; e per lo contrario, l' infusione di una sostanza animale o vegetale, ricca d' azoto e scarseggiante di carbonio, produrrà di preferenza animali che vegetabili infusorii. Sostanze animali diverse, infuse, forniscono animali infusorii diversi, come lo provò Gruithuisen, il quale osservò che gli infusorii, prodotti dal musco, sono diversi da quelli prodotti dal pus (4). Anche il diverso stato, in cui trovasi una stessa sostanza organica, basta per fare sì che essa produca infusorii di diversa specie; così Spallanzani vide che i grani di trifoglio bolliti producono infusorii diversi da quelli prodotti dai medesimi grani non sottoposti alla bollitura ». Sembra che tutti questi fatti non si possano spiegare, se non supponendo che il sentimento sia inerente ad ogni elemento della materia, e che la composizione di questi piccoli sentimenti e l' unità armonica dei loro eccitamenti ed accumulamenti (composizione ed unità prodotte dall' attività del sentimento medesimo e dalle leggi che ad essa presiedono) sia ciò che produce tali organismi vitali, tali animali. Nella quale supposizione la morte degli animali maggiori ed osservabili altro non sarebbe che la dissoluzione del sentimento loro fondamentale, e la perdita quindi dell' esistenza individuale, che perirebbe a cagione della perdita dell' organizzazione opportuna a quel sentimento eccitato, che li individua. Ma in tale avvenimento niun sentimento primitivo ed elementare cesserebbe d' esistere; solamente venendo egli composto, accumulato ed eccitato diversamente, o diviso fino allo stato elementare, riceverebbe altre individuazioni, e darebbe così esistenza ad altri animali ed a vivi elementi. In questo modo la generazione spontanea sarebbe spiegata, anzi pure ogni generazione si ridurrebbe ad una sola legge. Nè dubito punto che il filosofo metafisico vedrà la cosa possibilissima, scevra da ogni perniciosa conseguenza, anzi pure probabile, se egli moverà i suoi ragionamenti dall' osservazione interna della coscienza che ha del proprio sentimento; se egli rifletterà che l' anima sensitiva non può essere da lui conosciuta se non mediante la detta osservazione, che lo rende conscio del sentimento [col quale sente], e che egli non può trovare quest' anima se non nel sentimento medesimo, non può definirla se non un principio senziente; ancora, che in questo principio senziente egli deve riconoscere un termine esteso, variabile, divisibile e moltiplicabile, e che il principio senziente non esiste se non inerentemente al suo termine, onde si deve moltiplicare col moltiplicarsi di questo. Solo l' anima dell' essere intelligente è un principio più elevato, il quale non può perdere l' identità sua e la sua individualità colla perdita del sentimento corporeo, come dichiareremo in appresso più largamente. Forse all' universalità della legge, che noi accennavamo, si opporrà non essersi potuto ancora ottenere alcun animale coll' accozzamento di sole sostanze inorganiche. A cui rispondo che, lasciando anche da parte la pretensione di alcuni chimici, che vantano di avere ottenuto qualche rudimento d' organizzazione facendo reagire fra loro sole sostanze inorganiche, l' obbiezione non distrugge necessariamente l' universalità della legge, posta da noi per congettura, essendosi dimostrato antecedentemente che certi aggregati troppo semplici di elementi non possono dar segni di vita apparenti all' osservazione, quand' anche l' avessero. Che poi gli elementi per comporsi in modo da acquistare quell' organizzazione ammirabile, senza la quale la vita non può apparire e mostrarsi di fuori in movimenti continui extra7soggettivi, abbiano bisogno di una organizzazione preesistente, quasi di macchina acconcia in cui ella venga elaborata e disposta; questa è questione indipendente affatto dalla precedente. Finalmente si opporrà che, ammessa questa teoria, sarebbe cosa al tutto decisa che la morte dell' animale si fa sempre per disorganizzazione; il che non è provato, non essendosi potuto scoprire in certi cadaveri segno di disorganizzazione di sorte. La disorganizzazione potere essere sfuggita all' osservazione, come non rade volte indubitatamente avvenne (1). Se la vita è inerente agli elementi, i quali per la loro piccolezza si sottraggono ad ogni osservazione umana, poter benissimo esservi tali lesioni d' organizzazione, che non sieno atte ad essere osservabili. Finalmente le osservazioni fin qui istituite per discoprire i disordini d' organizzazione, che cagionarono la morte, furono tutte fatte su cadaveri umani; e poichè nell' uomo vi è un principio superiore al corpo, non può provarsi impossibile che questo principio abbia virtù di dividersi dal corpo spontaneamente, senza che preceda disorganizzazione nel corpo stesso; benchè a me parrebbe dover avvenire in tal caso piuttosto una momentanea alienazione che una vera separazione. Qui poi aggiungerò l' osservazione, che coll' ipotesi della vita dei primi elementi si concilierebbero due sentenze apparentemente contraddittorie in sommi scrittori, i quali non è mai a credere che si sieno troppo grossamente contraddetti. I più eccellenti ingegni hanno creduto provare l' immortalità dell' anima umana dall' essere ella vita del corpo, così argomentando: « Il corpo riceve la vita dall' anima, dunque egli è morto per sua natura. Ma l' anima, che è quella che dà la vita al corpo, non può cessare di vivere, perchè è vita ella stessa »(2). Ora, questa maniera di argomentare è fermissima, ma ella vale egualmente applicata all' anima dell' uomo e a quella dei bruti; cioè prova egualmente che il principio che dà la vita al corpo, abbia congiunta o no l' intelligenza, non può perire. Eppure quegli stessi autori insigni che ragionano così, insegnano poi che l' anima dei bruti perisce. Come conciliarli seco medesimi? Colla teoria della vita dei primitivi elementi della materia; vita distinta da quella organico7eccitata, propria dell' animale. La vita originaria, primitiva, latente, che non perisce, si è quella degli elementi; per essa è acconcissimo l' argomento indicato. Ma la vita patente degli animali non consiste in quel solo primitivo sentimento, ma esige eccitamento, continuazione dell' eccitamento, regolarità in questo eccitamento, e quindi organizzazione, che riproduca l' eccitamento con armonia in circolo perpetuo. Perisce adunque l' animale col distruggersi dell' organizzazione, perisce la vita sua propria, ma rimane la vita, il principio della sua vita, cioè l' anima aderente agli elementi primi, nei quali l' organismo si scioglie. Anche l' altro argomento dell' immortalità dell' anima, che si dedusse dalla spontaneità del moto (1), conviene egualmente al principio sensitivo ed al principio intellettivo, perocchè entrambi hanno una efficacia di muoversi da sè stessi, date le condizioni opportune; e però esso è certamente efficace, ma non a provare la sola immortalità dell' anima intellettiva, ma l' immortalità della vita dei primi elementi. Quindi non fa meraviglia se molti filosofi dell' antichità, non essendo pervenuti a distinguere la vita eccitata degli animali dalla vita in riposo degli elementi, abbiano sostenuto l' immortalità egualmente delle anime umane e belluine, fra i quali l' indiano Budda o €akya, che diceva non differire queste anime se non per riguardo al soggetto in cui esse si trovano, distinguendo con nuovo errore il soggetto dell' anima dall' anima stessa (1). Vi sono ancora altri argomenti non leggeri in favore della sentenza che pone gli atomi animati, ma noi ci riserbiamo ad accennarli dove cadono a corollario delle verità, che ci restano ad esporre. E qui noi possiamo perfezionare la definizione dell' animale, meglio dichiarandola. Abbiamo definito l' animale « un essere individuo materialmente sensitivo e istintivo ». Ciò che rimaneva a dichiararsi era la parola individuo . Le cose, che precedentemente abbiamo esposte, dimostrano in che consista l' individualità dell' animale: ella consiste in un sentimento massimo, dominatore di tutti i sentimenti diffusi in una data estensione sentita. Quindi la differenza fra gli elementi vivi (2) e gli animali . Quelli non hanno che il sentimento; ma gli animali non sono costituiti se non allora che si avverino queste quattro condizioni: 1 sentimento continuo; 2 eccitamento; 3 organizzazione che perpetui l' eccitamento; 4 unità di organizzazione e di eccitamento, cotalchè vi sia un sentimento massimo e prevalente, il quale, avendo maggiore attività che tutti gli altri sentimenti nello stesso continuo, domini tutte le attività sensitive, e così individui l' ente senziente. Quindi può nascere la questione: « se vi sia in natura uno speciale ministro dell' eccitamento animale, onde siccome da agente principale si formi, ristori e sviluppi l' organizzazione ». Ebbene, rispetto a molti animali e fors' anche a tutti, pare che questo ministro vi sia, e che sia l' ossigeno. E` un fatto, che s' avvera negli animali a sangue caldo e rosso, che, qualora una parte dell' animale non viene più innaffiata dal sangue ossigenato, ella non dà più segni di sentimento animale. Questo prova che in tali animali il sentimento massimo e individuante non ha più attività sufficiente a conservare o esercitare il suo dominio, senza un tale eccitatore. Quindi ella è antichissima opinione [consacrata dall' autorità della Scrittura], che la vita animale abbia la sua sede nel sangue; il che noi interpretiamo così, che il sangue ossigenato sia nell' uomo e in altri animali, organati con certa perfezione, l' eccitatore del sentimento individuante. Non bene fu reso da un celebre scrittore il luogo della Genesi, dove si nomina « il sangue delle vite » « sanguinem animarum vestrarum (1) », colla frase « il sangue è la vita »(2). Così pure altrove si dice che nel sangue è la vita della carne, « anima carnis in sanguine est (3) », ma non che il sangue stesso sia la vita. Si pretese trovare questa stessa opinione in Omero, donde l' abbia poi derivata Empedocle (4), ed in altri assai. Certo è che fu introdotta negli stessi miti , favoleggiandosi che le anime dei trapassati non potessero ricordarsi le cose della vita presente, se non assorbendo il vapore del sangue o il sangue stesso; opinione che deve aver dato origine in parte alle vittime immolate ai trapassati. Non rincresca che io qui riferisca il luogo di Porfirio, conservatoci da Stobeo: [...OMISSIS...] . Dove però si scorge continuamente confusa l' anima sensitiva coll' anima intellettiva. In Italia Plinio riprodusse questa opinione, che ripone l' anima nel sangue (2). Recentemente fu riprodotta dal cav. Rosa (3), e poscia in Inghilterra da Hunter (4), il quale stabilì questa proposizione tutta all' uopo nostro, che « l' organizzazione niente ha di comune colla vita ». Solamente che questi celebri osservatori della natura non videro poi la differenza fra la vita semplice e quiescente, che nel solo sentimento consiste, e la vita continuamente eccitata, a cui è indispensabile la conveniente organizzazione. Ad ogni modo pare che dalle loro esperienze si possa raccogliere in un modo inconcusso che la vita eccitata ed animale ha il suo principio eccitatore nel sangue (5). Ma non basta; le esperienze di Bichat provarono che non il sangue nero, ma il solo sangue rosso ha la virtù di eccitare la vita animale dell' uomo. Ora è noto che il sangue si fa rosso mediante l' ossigeno, che l' animale trae dall' atmosfera colla respirazione. Ben rimarrebbe a conoscere se i pesci e gli altri bruti a sangue freddo e a sangue bianco ricevano anch' essi l' eccitamento, che mette in atto la loro vita, dall' ossigeno, cavandolo dall' acqua o altronde comecchessia. Quindi per molti animali l' atmosfera è, quasi direbbesi, il serbatoio e il fonte perenne della vita animale. Questo sembra aver veduto Empedocle, il quale, secondo che attesta Teodoreto, dice « l' anima essere commista di sostanza eterea ed aerea », e pose nel cuore la sede di lei (1). E perchè nel cuore? Perchè al cuore passa il sangue dal polmone, dopo saturato d' ossigeno, onde Cicerone scrive: « « Empedocles animum esse censet cordi suffusum sanguinem » (2) », frase che assai bene distingue il sangue ossigenato, che va al cuore, dal sangue che, venendo spinto dal cuore alla circonferenza, si disossigena. E poichè nella respirazione la scomposizione dell' aria è una cotal combustione, e produce calore, Empedocle di fuoco principalmente volle constare l' anima; e dal maggiore e minore calore del sangue riuscire pronti o tardi gli ingegni (3). Anche gli autori, che diedero all' anima la natura di aria, come Anassagora, Anassimene, Archelao, Diogene di Apollonia (4), sembrano aver colta o traveduta la stessa cosa; come pure tutti quelli che le diedero natura di fuoco, come Parmenide, Leucippo, Democrito; e lo stesso Eraclito di Efeso, che pose nel fuoco il principio elementare, il substratum di tutte le cose, l' agente universale, onde ammetteva gli elementi animati da questo principio (5), e sembra che col fuoco identificasse od unisse la luce (6). A me pare che Empedocle abbia derivato molte sue sentenze da questo fonte. E questo sia prova che talora i filosofi, che sembrano di opposta sentenza, si possono conciliare fra loro, come facciamo qui di quelli che volevano l' anima aerea, e di quelli che la volevano ignea. Per altro la stessa etimologia delle voci anima, animus, spiritus , ecc., tutte significanti aerea sostanza, par dimostrare che i primi uomini, inventori di queste parole, e con essi il senso comune, opinavano che l' animale traesse dall' atmosfera, respirando, il motore della sua vita. La quale opinione si deve forse riporre fra quelle che risalgono all' origine del mondo; poichè nella Scrittura l' anima si denomina fiato, e per uno spiro della bocca di Dio viene infusa (1); i quali luoghi adducendo, Tertulliano dice: « « Nam anima in substantia flatus est, ab effectu autem dicitur spiritus quia spirat »(2) »; di che questo autore trasse il suo errore della materialità dell' anima, confutato poi validamente da S. Agostino (3). Laonde, se gli antichi fisici si fossero accontentati d' insegnare che l' animale traeva dall' atmosfera l' eccitatore principale di loro vita, non sarebbero andati lungi dal vero; ma confondevano tutt' insieme colla vita animale il principio intellettivo, e però traviarono nei primi passi (4). Passiamo ora a considerare l' anima umana, in quanto è intellettiva; e anche qui consideriamone la semplicità . La semplicità è una proprietà negativa, perchè con essa si esclude il molteplice, l' esteso, il materiale. Ma ella ci giova tuttavia non poco a conoscere la natura dell' anima, perchè noi non la consideriamo sola quella proprietà e astrattamente, ma negli atti e nelle operazioni dell' anima, le quali ci somministrano una cognizione positiva di lei. Onde conoscendo positivamente l' anima mediante il sentimento e la coscienza, come dicemmo, altro non ci rimane che a trovare le differenze sue dalle altre cose, e principalmente dai corpi, per averne così la cognizione riflessa e scientifica; giacchè questa si compone di differenze, dimostrate in gran parte nelle proprietà negative, che escludono dall' ente, che si vuol conoscere, tutto ciò che non è lui. Diciamo, dunque, che niuna delle operazioni intellettive dell' anima potrebbe essere fatta se non da un principio semplice; e che perciò tante prove si hanno a conferma della semplicità dell' anima, quante sono le sue operazioni intellettive. Ognuna di queste prove, bene analizzata e meditata, è convincente a pienissimo. Onde il ragionare nostro non troverebbe fine, se tutte volessimo trarle fuori per singolo. Come adunque abbiamo fatto parlando dell' anima sensitiva, la quale si dimostra semplice coll' analisi di qualsivoglia operazione dell' animale, e tuttavia ci siamo ristretti a considerarne sol poche; così faremo dell' anima intellettiva. Deliberemo la materia, limitandoci a meditare quale semplicità di principio esigano a prodursi le prime fra le intellettive operazioni. Che cosa è l' anima intellettiva? Un soggetto che intuisce l' essere in universale. Ora l' intuizione è operazione semplice, perchè semplice ne è l' oggetto. Infatti l' essere universale è fuori dello spazio e del tempo (1). Ma il soggetto, che lo intuisce, riceve la sua forma dall' essere intuìto; dunque l' intelligente, la cui attività termina tutta e dimora nell' essere intuìto, è un principio fuori dello spazio e del tempo, al tutto semplice, spirituale (2). L' intuizione adunque dimostra ad evidenza la semplicità dell' anima intuente (3). Questa è la dimostrazione fondamentale della spiritualità dell' anima intellettiva, come quella che è tratta dall' atto primo di lei, dal suo essere formale. Ella racchiude altresì tutte le altre nel suo seno; conciossiachè se le altre operazioni dell' anima intellettiva e razionale si trovano dover essere semplici, la ragione ultima della loro semplicità giace nella semplicità dell' atto primo, dal quale gli atti secondi derivano e si svolgono. L' intuizione delle essenze specifiche e generiche dimostra la stessa verità. Tali essenze sono tutte semplici, immuni da spazio e da tempo, e non differiscono dall' essere in universale se non per alcune determinazioni, di cui lo rivestono. Ma ciò che merita di essere più attentamente osservato si è che quello stesso che nel primo aspetto sembra poter recare qualche pregiudizio alla semplicità dell' anima intellettiva, e onde furono tratte infatti alcune obbiezioni per impugnarla, è ciò che maggiormente la conferma. Noi abbiamo dimostrato la semplicità del principio sensitivo dalla natura del continuo, il quale, abbiamo detto, suppone il semplice in cui esiste. L' estensione adunque è già unificata dal principio sensitivo, e somministrata come semplice all' apprensione dell' intendimento. Ma il numero riceve la sua natura di numero dall' unità e semplicità del principio intellettivo, che simultaneamente e con atto semplicissimo apprende più cose. L' unificare più cose in una sola collezione, numerarle, cavarne per astrazione i concetti e la teoria dei numeri, è tale operazione che non può esser fatta che da una mente e da un atto semplice, che abbraccia il più nell' uno. Da questo medesimo argomento, che dimostra la semplicità dell' anima, perchè ella considera più cose nello stesso tempo e collo stesso atto, e in una stessa idea, procede la dimostrazione della semplicità del principio intelligente, che si trae dal sillogismo e da tutti gli atti del ragionamento, e che noi accennammo altrove (1). L' uomo non potrebbe, se non avesse uno spirito al tutto semplice, eseguire l' operazione del paragone, trovare le differenze delle cose, le convenienze e le disconvenienze, ordinare i mezzi al fine, ecc.. Tutte queste operazioni suppongono un principio, che abbraccia più cose nell' unità e semplicità di una sola e medesima idea. Quindi esce ancora l' argomento che si trae dalla libertà dell' uomo, la quale esige un principio semplice, che sia capace di eleggere fra più cose. Il quale argomento, già usato da S. Tommaso (2), viene esposto dal Suarez così: « « Tutti gli agenti materiali, di cui abbiamo esperienza, operano per necessità di natura, e i bruti per naturale istinto; del che è segno l' osservare che tutte le cose, che sono della medesima specie, hanno un' operazione determinata e un modo uniforme di operare; onde quella determinazione procede dalla materialità. Per conseguente il modo di operare dell' anima razionale tutt' altro da quello, proviene dall' immaterialità »(1) ». Aristotele e i suoi seguaci, gli Scolastici, ottimamente osservarono che la condizione e virtù del corpo è così limitata e particolarizzata, che esso non ammette se non certe modificazioni e passioni, le quali si escludono scambievolmente. Così nello stesso tempo che un corpo è rosso, non può essere d' altro colore. Quindi gli atti del corpo non s' estendono oltre a quella breve virtù, che è nell' atto primo del corpo stesso. Ma tutt' altro accade della virtù dell' anima intellettiva, che intende tutte le cose a lei offerte nel debito modo, anche le più contrarie, le confronta, ecc.. Dunque l' anima intellettiva non può avere natura corporea. Questa in sostanza è la prova che adduce Aristotele, considerata nel suo fondo e vestita di una forma esatta (2). La ragione poi, ond' è che la natura conoscitiva dell' anima può abbracciare tutte le cose, si è perchè il suo atto primo, che determina la sua virtù, è informato dall' ente in universale; il quale abbraccia virtualmente tutte affatto le entità; onde ella ha una virtù primitiva, che a tutti gli enti si estende. All' incontro il corpo non ha oggetto distinto da sè, termina tutto in sè stesso, nella sua natura particolare. Così pure il principio sensitivo ha per suo termine l' estensione corporea, e quindi la virtù sua è limitata alle modificazioni, di cui è suscettibile l' esteso sentito. Ma l' esteso sentito, cioè il corpo, è limitato a quel modo che diciamo; perciò anche il principio sensitivo rimane limitato dalla limitazione stessa del corpo, che costituisce il termine del suo primo atto. Alla qual prova si riduce quest' altra molto evidente, ed usata spesse volte dagli antichi (3). L' anima intellettiva concepisce enti spirituali, come sè stessa, gli Angeli, Iddio; e può amarli e volerli come suoi beni (1). Ma il corpo, esteso com' è, non può uscire colla sua azione dall' estensione, quindi non può attingere ciò che è al tutto fuori di essa. L' anima intellettiva dunque è incorporea. Finalmente l' operazione del riflettere , che fa l' anima sopra sè stessa, è manifestissima prova della sua semplicità ed incorporeità; perocchè il corpo non ha alcuna azione sopra sè stesso (2). Ma anche questa dimostrazione è conseguente alla prima; giacchè dove trovasi la ragione che spiega la riflessione del pensiero sopra sè stesso? Onde deriva questa facoltà? Ella deriva dalla natura dell' essere in universale , oggetto di quel primo suo atto, che la costituisce intelligente. Conciossiachè, essendo quell' oggetto così universale che abbraccia ogni entità, e per conseguente anche l' entità stessa dell' anima e di tutti i suoi atti, ella può in esso trovare sè stessa e gli atti propri, e i suoi oggetti; il che è riflettere. E poichè l' essere è oggetto della sua intuizione e insieme mezzo di ragionare, ella può applicare l' essere, come mezzo di ragionare, all' essere come oggetto dell' intuizione, e così riflettere sopra l' essere stesso, e per mezzo dell' essere ragionare dell' essere. Se dunque è semplice il principio sensitivo ed è semplice il principio intellettivo, e se questi due principŒ s' identificano nell' anima razionale, l' anima razionale è semplice. Infatti, come già dicemmo, l' Io stesso, che fa un atto, è quegli che fa tutti gli atti; l' Io, che opera per mezzo del corpo in uno spazio, è quegli che opera in tutti gli altri spazi dove gli piace operare; l' Io, che opera in un tempo, è quegli che opera in altri tempi; l' Io, che patisce, è l' Io che fa; l' Io, che sente, è l' Io che intende; egli è sempre il medesimo, uno e semplicissimo Io. Dunque l' Io, cioè l' anima razionale dell' uomo, si dimostra per l' identità sua costantissima, variando gli accidenti, semplice e spirituale. Ma se la semplicità dell' anima, di ogni anima, è indubitabile e manifesta, quanto è manifesto l' assurdo di supporla estesa; se si hanno altresì dimostrazioni irrepugnabili che l' uomo è uno e non può avere che un' anima sola; ciò nonostante ritorna una cotal dubbiezza nelle menti, che fa vacillare la persuasione nelle trovate verità, e questa dubbiezza si genera dalle seguenti considerazioni: La prova dell' unità dell' anima umana, che si deduce dalla coscienza, cioè dall' unità dell' Io, non toglie il dubbio che fuori dell' Io, e in connessione coll' Io, potesse essere un' altra anima sensitiva. La coscienza non dimostra che tutte le azioni, che si fanno nell' uomo, sieno fatte dall' Io, sicchè l' Io sia il solo principio operativo nell' essere umano; che anzi molte cose avvengono nell' uomo, che l' Io non sa di fare, ed altre a cui l' Io espressamente ripugna, come i movimenti della parte inferiore appartenenti all' animalità; che finalmente certe operazioni vitali, come la circolazione del sangue, si sottraggono quasi interamente al libero dominio della parte razionale, e però sono fatte da un altro principio. L' uomo stesso, quando opera secondo l' intelligenza, sembra un essere diverso d' allora che opera secondo l' animalità; e talora egli brama di perdersi nella voluttà della sensazione fino a rimanere in lui sospese le funzioni dell' intelligenza, il che non potrebbe bramare se fosse solo un' anima razionale. La prova che si deduce dall' unicità del principio dell' intelligenza e della sensazione (oltrecchè non sempre si avvera che ogni atto sensitivo si debba attribuire al principio degli atti intellettivi), altro non conchiude se non l' esistenza d' un principio unico intellettivo, che talora nel suo operare si associa ed immedesima col principio animale; ma non prova che questo principio animale non dimostri talora, e però non abbia un' attività sua propria; e però sia in tali casi un principio diverso dal principio dell' intelligenza. Sembra che, mossi da queste ragioni, alcuni gravi filosofi abbiano dato all' uomo due anime, l' una intellettiva e l' altra sensitiva, e che quelle ragioni medesime, in sostanza, o simili, conducano al dì d' oggi i fisiologi, quasi universalmente, a distinguere il principio della vita animale dall' anima umana. Queste difficoltà non sono dispregevoli e contengono qualche cosa di solido, ma nulla provano contro la tesi dell' unicità dell' anima dell' uomo. Perocchè sono due questioni ben distinte: 1 se è unica e semplice l' anima dell' uomo; 2 se quest' anima, benchè unica e semplice, abbia due attività diverse, divisibili fra loro, ma così fattamente congiunte che, durante lo stato ed atto d' unione, il principio dell' una s' identifichi col principio dell' altra, cioè abbiano un solo principio, al qual principio si dia il nome di anima. Ora le prove da noi addotte dimostrano che entrambe queste questioni si debbono risolvere affermativamente. Perocchè: La prova dedotta dall' unità dell' Io dimostra che, se qualche cosa avvenisse nell' uomo che non si potesse attribuire al principio intellettivo, quell' attività non sarebbe un' altra anima dell' uomo; ma sì una attività, che all' anima dell' uomo non apparterrebbe. La prova, tratta dal fatto che gli atti sensitivi si possono talora ridurre al principio stesso che intende, dimostra che in tal caso uno solo è il principio delle due specie di atti, i sensitivi e gli intellettivi; e che questo principio unico è l' unica anima umana; onde tutto ciò che rimane fuori di questo principio unico, non costituisce un' anima umana. Noi abbiamo conceduto che il principio sensitivo per sè considerato è diverso dal principio intellettivo; ma dicemmo che questi due principŒ sono atti a congiungersi in uno solo, se non a quella guisa che due punti matematici, movendosi e unendosi, diventano un punto solo, almeno a quella che il principio d' una retta, a cui si aggiunge un' altra retta nella stessa direzione, non si raddoppia, ma rimane un principio solo, ove incomincia tutta la linea così allungata. Abbiamo detto che la base di questa unione del principio intellettivo e del sensitivo è la percezione fondamentale del sentimento animale; la qual percezione è un atto del principio intellettivo, che con ciò acquista il nome di razionale . E veramente, data questa percezione, ne viene che lo stesso principio intellettivo divenga in pari tempo sensitivo, benchè senta in altro modo più elevato da quello che sente il principio meramente sensitivo. Perocchè il principio intellettivo percepisce il sentimento sostanziale (termine e principio) sotto la natura di ente, come una maniera, un atto dell' ente (giacchè anche il sentimento sostanziale è una attualità speciale dell' essere in universale). Ora egli non potrebbe percepire il sentimento come ente, se non lo percepisse come sentimento; onde ciò che percepisce è il sentimento7ente. All' incontro il principio sensitivo ha per termine il sentito come sentito e non come ente, e neppure il sentimento (principio e termine). Ora il principio sensitivo, che forma identità col principio intellettivo, è appunto questo, cioè è lo stesso principio intellettivo che, percependo l' ente7sentimento , ne sente il termine, il sentito, con sentimento inchiuso nell' ente, che è suo proprio oggetto; all' incontro il principio sensitivo, in quanto soltanto aderisce al termine esteso e produce il sentimento, e di conseguente non percepisce l' ente, nè sè stesso, non s' identifica coll' anima umana, e non è l' anima umana. Ed è a questo che si debbono attribuire quei movimenti che si fanno nell' uomo senza che vi concorra il principio intellettivo, o contro la volontà di questo principio. Così il principio meramente sensitivo non perde la sua attività, perocchè l' unione si fa per via di percezione intellettiva permanente, che non altera la natura della cosa percepita, benchè possa agire sopra di lei ed anche signoreggiarla. Onde accade che il sentito sia termine ad un tempo del principio meramente sensitivo e del principio intellettivo7sensitivo, ossia razionale. Di che si spiega come sull' identico sentito operino due poteri: il potere del principio meramente sensitivo e il potere del principio percettivo, ossia razionale, e talora i due poteri vengano in lotta fra loro. Si spiega ancora come il principio sensitivo ed il principio percettivo , ossia razionale, possano influire l' uno sull' altro. Perocchè, se il principio meramente sensitivo per la propria spontaneità (dato il conveniente stimolo) immuta il proprio sentito, con ciò si cangia anche il termine della percezione, e così indirettamente può modificare e muovere l' atto del principio razionale. All' incontro, se il principio razionale vuol mutare il sentito , che percepisce attualmente insieme col principio senziente, egli lo immuta operando direttamente su questo principio; e ciò perchè, quantunque la percezione, quando è attuale, non immuti la natura del percepito, tuttavia dà al percipiente la forza di agire su di lui e di mutarlo. Così quand' io, toccando colla mano, percepisco attualmente un corpo esterno, posso immutarlo, dandomene comodità l' attuale percezione, che meco quel corpo congiunge. Questa è la ragione per la quale l' uomo può mutare il suo proprio corpo, che percepisce immediatamente come sentito. Con ciò rimangono disciolte le obbiezioni, prima, seconda e quarta. Che se l' uomo talora ama di perdersi nella voluttà della sensazione, che è la terza obbiezione, rispondo che col perdersi nella voluttà della sensazione, benchè rimangano sospesi gli atti riflessi, non è a credersi che si perda la percezione immanente e fondamentale, e che resti la sola sensazione, la quale sola e divisa non può essere appetita dall' uomo, che è il principio razionale; anzi la percezione con ciò si rinforza, ed è quel sentimento che nella percezione si comprende, l' oggetto dell' appetizione. Non è dunque che si appetisca la mera sensazione, ma fra gli atti razionali si appetisce tanto il primo, quello della percezione intensa, che si brama anche col sacrificio degli altri atti riflessi. Finalmente gioverà osservare che nella percezione il principio razionale non è propriamente attivo , ma piuttosto ricettivo , benchè abbia la forma e la comunichi; onde egli è causa informante (1). Se dunque si considera la sola percezione fondamentale, non si trova a dir vero come il principio razionale sia anche principio che modifichi il sentire. Ma se si procede più oltre, se si riflette che ogni percezione attuale dà al principio razionale una facoltà attiva (rispondente alla ricettiva della stessa percezione), per la quale egli può esser causa di modificazione nel percepito, si vedrà come l' attività del principio razionale sul sentito animale non è così attuale e permanente come la stessa percezione fondamentale; ma possa attuarsi e rimettere dall' atto suo; sia insomma potenza e non atto. E fino che quest' attività del principio razionale si tiene nello stato di potenza, il principio sensitivo può operare indipendente da lei e modificare il sentimento animale; modificazioni che vengono tutte ricevute dal principio percipiente nella sua ricettività, e da lui informate, cioè ridotte a condizione razionale. Alle quali riflessioni ne soggiungeremo un' altra sulla definizione platonica dell' uomo, « « una intelligenza servita da organi » ». Ne abbiamo già detto il difetto (2). Qui vogliamo indicare il lato vero di questa definizione, pel quale fu suggerita alla mente di Platone, parendoci sempre bello il ripetere che gli errori dei grandi uomini non sono che verità grandi o sottili, disguisate e imperfette. Quella definizione adunque si trovò manchevole da Aristotele, seguito dagli Scolastici, perchè pareva che ella unisse l' intelligenza al corpo come motrice , e non come forma (3). Ora è al tutto erroneo considerare l' intelligenza come motrice del corpo anzichè come forma ? Il rispondere a questa interrogazione dipende certamente dal modo di definire e di determinare la natura rispettiva dell' intelligenza e del corpo organico; ed appunto perchè questi due termini si trovano posti nella definizione senza tale determinazione, perciò ella è manchevole. Ma se invece di adoperare la voce generica d' intelligenza si ponesse un' intelligenza percipiente l' animalità , e se invece di corpo organico o di organi si ponesse animale , la definizione rimarrebbe aggiustata, uscendone che l' uomo sarebbe « un' intelligenza percipiente per natura l' animalità, servita dalla stessa animalità ». In tal caso la relazione fra una tale intelligenza e l' animalità potrebbe essere di motrice a mossa; perchè la forma razionale data all' animalità è già espressa nell' intelligenza così determinata. Nè male starebbe che in quella definizione l' animalità ricorresse due volte; perocchè l' animalità, cioè il sentimento sostanziale animale, ha nell' uomo veramente due modi di essere; infatti egli è come percepito nel principio razionale, e intanto è da questo informato; ed è in sè stesso come mero sentimento, e intanto è mosso. Così l' uomo consta di due parti, l' una essenza di lui e l' altra condizione; queste due parti non sarebbero l' anima e il corpo , ma sì l' anima razionale e il corpo vivente. A queste due parti sembrano rispondere nelle sacre carte lo spirito e la carne , perocchè la parola carne nelle Scritture non significa la carne morta, ma la carne viva e sensata. Veniamo ora alla questione dell' origine dell' anima intellettuale, tanto agitata dagli antichi filosofi e dai Padri della Chiesa, ed abbandonata poscia dai moderni, allassati da sì lunghe ricerche e sfiduciati di riuscirne allo scioglimento. Se non si trattasse che di spiegare la generazione di un' anima meramente sensitiva, come nei bruti, le difficoltà della questione sarebbero molto minori; noi abbiamo già veduto che ella è moltiplicabile mediante la divisione del suo termine sentito. Abbiamo ancora veduto che questa maniera di moltiplicarsi niente pregiudica alla sua semplicità. Ma quando si tratta d' un principio intellettivo cresce immensamente la difficoltà. Aristotele stesso se ne accorse, poichè nell' opera che scrisse sulla generazione degli animali, dopo aver detto che le anime dei bruti non vengono loro dal di fuori, nè possono esistere senza corpo, perchè ogni loro operazione si fa coll' aiuto d' organo corporale, soggiunge parlando dell' intelligenza: « « Rimane adunque che la sola mente s' aggiunga dal di fuori, ed ella sola sia divina, poichè l' azione corporale non ha niente di comune coll' azione di lei »(1) ». Infatti tutti i più solenni filosofi hanno riconosciuto che nell' uomo v' è qualche cosa di divino, cioè di tale che non può esser dato che da Dio stesso immediatamente. Onde lo stesso Aristotele in altro luogo dice: « « solo l' uomo fra gli animali essere partecipe della divinità »(2) », e parlando della vita contemplativa non dubita affermare che ella « « supera la natura umana »(3) », volendo significare che l' uomo colla contemplazione esce dai confini della sua natura ed attinge le cose divine, quali sono le idee. Onde aggiunge che « « l' uomo non vive a quel modo per via di ciò per cui egli è uomo, ma per via di ciò per cui v' è in lui un quid divino »(4) »; e ancora: « « quanto dunque questo » (principio intellettivo) «differisce dallo stesso composto, tanto anche l' operazione di lui differisce da quella che viene da altra virtù. Che se la mente è rispetto allo stesso uomo elemento divino, anche la vita, che da questo procede, è divina rispetto alla stessa vita umana » ». Di che insegna: « « noi non dovere troppo pensare alle cose mortali, ma quanto mai fia possibile, far noi stessi immortali »(5) ». E` per questo che noi dicemmo non potersi in modo alcuno spiegare l' umana generazione, senza ricorrere all' intervento di Dio medesimo (6). Ma ciò che restava a determinarsi con precisione si era quale fosse quell' elemento divino, che videro e confessarono tutti i maggiori pensatori intorno alla natura umana; per non confondere con esso ciò che ad esso non appartiene. E di vero gli antichi si contentarono dire che divina era l' umana mente, nè so se più distintamente e accuratamente mai si esprimessero (1). Tolta dunque a fare da noi questa investigazione, trovammo che nella stessa umana mente due cose si dovevano distinguere, che chiamammo il soggetto e l' oggetto . Vedemmo quindi che il soggetto non poteva dirsi in alcun modo divino, perchè limitato e contingente; e che al solo oggetto spettava d' essere annoverato fra le cose divine, come quello che era veramente illimitato, eterno, necessario, e di altre qualità fornito al tutto divine. Poichè questo, che sta immobilmente dinanzi al soggetto umano, è lo stesso essere in quanto è ideale. E per questa comunicazione, che l' oggetto fa di sè al soggetto umano, si può dire di lui solo ciò che disse S. Agostino della natura dell' anima intellettiva, che « vicina est substantiae Dei (2) », ma non che sia divina ella stessa. Anzi, come egregiamente scrisse Claudio Mamerto, ella è simile a Dio come «l' intellettuale è all' intelligibile (3) ». L' oggetto adunque, ossia la forma dell' intelligenza, non può essere generata, ma è Dio stesso che la disvela all' anima, che viene resa così intelligente; il che Iddio fece rispetto a tutta l' umana natura, quando infuse l' anima in Adamo, nel quale l' umana natura si conteneva, e questa non ebbe poscia che a svolgersi in più individui per via di generazione (4). Poichè, come al cominciamento impose leggi fisse a tutte le cose create, così allora fissò anche questa, che ogniqualvolta l' uomo moltiplicasse colla generazione gli individui, a questi fosse presente l' essere , sì fattamente che attirasse e legasse a sè il loro intùito. Il nuovo individuo, a cui risplende l' essere, conviene che sia un animante organato al modo stesso del generatore. Questa organizzazione è certamente la più perfetta, che possa ricevere l' animalità; quella probabilmente in cui l' eccitamento è sommo, l' armonia di questo sommo eccitamento perfetta, la potenza centrale del senziente recata al più alto grado; sicchè il soggetto animale, giunto all' estremo di sua perfezione, dovesse trapassare i confini dell' animalità e attingere le cose eterne, l' idea. Non si creda qui che fra la perfezione specifica del detto organismo animale e la visione dell' essere passi alcun tempo in mezzo; ma nello stesso istante che è naturato l' animale umano, egli è anche fatto intelligente, perchè ammesso alla visione dell' essere, per legge di natura stabilita dal Creatore a principio. Neppure si creda che l' organismo proprio dell' uomo già formato si possa rinvenire scompagnato dal principio intellettivo. No; perchè questo principio intellettivo, tostochè s' unisce al corpo, gli dà l' ultima formazione e modificazione, che lo rende così tutto proprio dell' uomo; e continua ad esercitare la stessa attività, influenza e dominio sul corpo, secondo ciò che abbiamo detto, gli atti dell' anima razionale operare sul corpo, e dargli una certa attualità che prima aver non poteva. Sicchè v' è un organismo tutto proprio dell' uomo formato, che non potrebbe essere senza l' anima intellettiva, perchè questa, informandolo, lo produce, ossia gli dà l' ultimo atto. Conviene adunque che l' animalità e il suo organismo sia recato alla maggior perfezione, acciocchè l' anima intellettiva e razionale vi si aggiunga; ma questa coll' aggiungervisi dà poi a tale organismo quel cotale finimento, quell' attualità, quell' indole di movimento, quel guizzo, quella vita, che in niun ente che fosse meramente animale potrebbe essere. Dopo di ciò, niente ripugna che il soggetto , di cui si parla, si moltiplichi per via di generazione, conciossiachè il soggetto come soggetto (prescindendo dall' oggetto) non è che un animante. Ma onde, si dirà, questo principio animale torrà la virtù da intuire l' essere ? - Rispondo: gli è creata dall' essere stesso col congiungersi a lui; perocchè, essendo l' essere intelligibile per essenza, egli non può congiungersi a niun soggetto senza essere inteso, giacchè la sua congiunzione è questa: essere inteso. Ha dunque l' essere stesso questa virtù di creare le intelligenze. E che ripugna che un principio senziente, come direbbe Aristotele, sia in potenza intelligente? cioè, che ripugna che egli venga elevato a condizione d' intelligente? Quel principio è semplice, non è corpo, anzi il corpo è suo termine; se gli viene dato un altro termine, la sua attività si amplifica necessariamente; si deve dunque concepire come una capacità che riceve, come una potenza rimota tratta ad un nuovo atto. Al principio, a cui era dato un termine esteso, ora è dato altresì un termine inesteso e di natura superiore. Che se questo secondo termine non si può confondere col primo, non può da esso venire modificato; è insomma un oggetto essenzialmente conoscibile, e l' effetto che ne nascerà, sarà appunto questo che quel principio con ciò è divenuto intellettivo; ha perduto certo la sua identità come principio, si è attuato in un altro principio; ma questo trasnaturamento, bene inteso, non ha nulla di ripugnante. Quindi, come S. Tommaso diceva che l' anima sensitiva è un atto del corpo (il che riesce vero, tostochè per atto s' intenda principio del corpo, che rispettivamente è termine), così noi possiamo dire che l' intelligenza è un atto che esce, quanto all' origine, dall' anima sensitiva; e la cosa è pur vera, purchè s' aggiunga che questo atto costituisce un soggetto indipendente dal corpo e dallo stesso principio sensitivo, perchè già sostenuto da un nuovo termine che non perisce. Dopo di che svanisce una difficoltà, che altrimenti si potrebbe fare così: « Nell' uomo vi è un' anima sola razionale. Ma l' uomo è anche un animale, e come tale ha un principio sensitivo. La natura dell' animale e del principio sensitivo è di moltiplicarsi per via di generazione. Questa legge universale degli animali non può essere annullata per l' uomo. E di fatto l' uomo genera. Se dunque genera e così moltiplica l' individuo animale, forza è che moltiplichi anche l' anima razionale, che è una ed identica in lui all' anima sensitiva ». - Diciamo che così è appunto, ma solo presupposta la prima legge, per la quale fu decretato che l' essere universale si unisca a tutti gli individui dell' umana natura; legge stabilita da Dio nel momento che Iddio inspirò in Adamo lo spiracolo della vita. I Padri, infatti, a quel primo atto attribuiscono costantemente l' origine delle anime umane. « « L' uomo » - dice S. Atanasio - «in generale ricevette dall' ispirazione divina l' anima sua, e perciò conosce le cose divine, persegue le superne, intende le superne, ed è razionale e di mente fornito »(1) ». Con che rimane anche confermata la sentenza di Atenagora, che « « non l' anima genera l' anima, onde possa a sè vendicare perciò il nome di genitrice, ma l' uomo genera l' uomo »(2) ». Laborioso libro riuscì il precedente per le questioni difficili, a cui la semplicità dell' anima porge occasione; è uno di quei veri, i quali vengono facilmente confermati con argomenti diretti, molti ed irrepugnabili, siccome si è veduto; e tuttavia lasciano dopo sè non poche oscure e misteriose ricerche a farsi, quasi germi nella mente deposti, che, sebbene già fecondati, rimangono tuttavia chiusi, come in durissimi gusci, i quali non s' aprono, se la stessa mente con lungo e generoso amore non li caldeggia e li cova; di cui sospettosa da prima, poscia ella gode, quando usciti i vivaci figliuoli, li ravvisa e li riconosce chiaramente non adulterina prole di bella verità. E il lettore nel libro presente avrà via più ragione di confortarsi della sostenuta fatica e di quella che gli rimane, in quanto che ora il suo intelletto è già bene apparecchiato e disposto a sollevarsi alla considerazione di quel vero nobilissimo, di cui quest' ultimo libro ragiona, cioè all' immortalità dell' anima intellettiva; che è la condizione della umana dignità e della felicità a cui l' uomo, con irresistibili e non domabili voti, continuamente aspira. Conciossiachè, benchè mortale per sua propria natura, l' uomo desidera l' immortalità e ne cerca avidamente la certezza; e niuna cosa più lo turba che pure il solo dubbio o il sospetto che gli venga meno tanto suo bene. Ora, quantunque la ragione e l' esperienza gli dimostri il suo corpo corruttibile e destinato a disciogliersi, e la sola rivelazione che ha da Dio stesso gli possa promettere sicuramente che lo stesso corpo gli sarà un giorno restituito non più soggetto a morire, tuttavia riesce a lui verità dilettosa e sommamente preziosa anche quella che sola gli può dare la filosofia; voglio dire che immortale e non mai peritura è per natura sua propria la miglior parte di lui, cioè l' anima sua intellettiva; la quale verità gli deve essere anche lieto presagio e messaggere di quel più, che egli deve aspettarsi dalla magnifica liberalità del suo Creatore. Incominciamo adunque a trattare questo argomento, quasi frutto gentile e saporoso, che coltivammo e riducemmo a maturanza col travaglio delle precedenti nostre investigazioni. Ma per innalzarci al discorso dell' immortalità dobbiamo prima discendere a considerare la morte, che si rannoda col principio della vita, cioè colla generazione, di cui trattammo in sulla fine del libro precedente. E come la chiarezza dei concetti è il fondamento di ogni limpido ragionare, così è uopo incominciare a richiamarci il concetto, che già noi abbiamo dato della morte, come della cessazione dell' animazione del corpo. Onde la morte non si può concepire in modo alcuno quale passione delle anime, ma solo dei corpi. Così abbiamo già provato che in niun modo cessano per via di morte le anime, o sieno queste sensitive o di più intellettive. Ma rimane a domandare se le anime potessero cessare naturalmente di esistere in altro modo, e così da sè medesime annientarsi od essere annientate da qualche cangiamento, che accadesse nella natura in virtù degli agenti che la costituiscono, o per atto positivo dello stesso Creatore. Vediamolo, e prima delle anime sensitive, poscia delle intellettive e razionali. Quanto abbiamo ragionato precedentemente intorno alla natura delle anime sensitive ci conduce a distinguerne di due maniere, che si possono chiamare anime elementari , aventi per termine il continuo elementare, ed anime organiche , aventi per termine il continuo organato, agitato da intestini e continui movimenti che le eccitano. Queste seconde pullulano sulle prime, sono attuazioni e individuazioni diverse dalle prime. Ma le prime hanno tutto ciò che richiedesi ad ottenere la denominazione di anime; perocchè hanno: 1 un principio senziente, in cui sta l' essenza dell' anima, 2 ed un termine esteso, in cui sta la condizione essenziale dell' anima medesima. Quindi la questione presa in generale, « se le anime si annullino », riguarda propriamente le anime elementari; perocchè il rifondersi le organiche nelle elementari per la dissoluzione del corpo organato, non fa cessare l' esistenza delle anime, ma solamente le trasforma. Così questa sentenza tiene la via mediana fra quella che le anime belluine vuole annullate, e quella che le dichiara immortali. Ora, che le anime elementari non possano annullarsi per via di agenti naturali parmi potersi dimostrare da più argomenti, due dei quali sono i seguenti: Se le anime sensitive, cioè i principi senzienti si potessero separare dal continuo, certo è che si annullerebbero, perchè mancherebbe la loro condizione e relazione essenziale. Ma ciò che abbiamo detto nell' « Antropologia » intorno alla natura della materia, la cui esistenza non si può concepire che come termine del principio senziente, dimostra che in tal caso si annullerebbe con esse insieme la materia. Ora è ammesso da tutti che la materia, la quale può sofferire diverse passioni, non può tuttavia annullarsi da cause agenti della natura. Dunque neppure i principŒ sensitivi, che sono i relativi essenziali di essa. La congiunzione del principio senziente col suo termine, cioè colla materia, è immediata; nel suo concetto non entra alcun agente naturale, che, quasi mediatore, ne operi od aiuti la congiunzione. Ella si fa dunque per le azioni e passioni reciproche del principio inesteso e senziente, e del termine esteso e sentito. Ora, se a questa congiunzione è straniero ogni altro agente, niente dunque può operare su di lei, niente può discioglierla. Quindi la dissoluzione di tal nodo non potrebbe avvenire se non per opera dello stesso principio sensitivo, o di ciò che può operare su di lui; o per opera della materia, o di ciò che può operare sulla stessa. Ma il principio sensitivo e la materia, congiunti insieme, non possono spontaneamente dividersi, perchè nessun ente annulla sè stesso; quella congiunzione è loro naturale; e l' attività loro naturale è volta ad attuarla e mantenerla, nessun' altra attività è in essi. Dunque se la disunione è possibile, deve nascere per un' azione straniera sul principio sensitivo o sulla materia immediatamente. Ma neppure queste azioni sono possibili. Non è possibile che li disunisca un agente naturale, che operi sul principio sensitivo, perocchè niente opera sul principio sensitivo se non il principio intellettivo. Ora il principio intellettivo non ha altra virtù sul sensitivo che di muoverlo alle sue operazioni. Ma fra le operazioni del principio sensitivo non vi è quella del distruggersi, disunendosi dalla materia; dunque per questa via non si ottiene la disgiunzione. Ma neppure per l' altra, poichè niente opera sulla materia immediatamente (escluso il principio sensitivo), se non la materia stessa. Ma le forze materiali, applicate alla materia, non hanno altra virtù che di dividerla o di unirla fra sè per via di moto. Ora il dividerla o l' unirne le parti, niente influisce sulla congiunzione, che ha con lei il principio sensitivo. Non v' è dunque nella natura alcun agente, che possa far cessare di esistere le anime elementari. Verranno dunque distrutte queste anime da un' azione immediata del Creatore? La Teologia naturale ha questa proposizione (confermata dalla Rivelazione) che « niente s' annichila di ciò che fu una volta da Dio creato ». E veramente ripugna che il Creatore annienti la propria opera, la quale, appunto perchè sua, è da lui rispettata ed amata pel rispetto ed amore che porta a sè stesso. Le anime sensitive adunque per niun modo periscono. E qui si consideri che l' ipotesi del sentimento annesso ai primi elementi dei corpi, riceve nuovo rinforzo. Perocchè se la vita fosse separabile dai corpi, ella perirebbe; e contraddirebbe la tesi che niente s' annulla di quanto è venuto all' esistenza per mano del Creatore. All' incontro, qualora sia vero che ogni elemento materiale ha seco essenzialmente congiunto un principio senziente, e che unendosi più elementi in virtù del continuo e di altre leggi, parte delle quali furono da noi esposte, più principŒ senzienti s' identificano in uno; rimane vero che il sentimento creato non perisce giammai, ma solo collo scomporsi dei corpi e col ricomporsi si modifica in mille maniere continuamente, e prende mille forme diverse. Le quali mutazioni, essendo prevedute e provvedute dalla sapientissima provvidenza, debbono esser volte a ridurre lo spirito della vita, che anima il mondo, a stato e condizione sempre migliore, a perfezionarsi senza posa. Come poi la tesi che « niente s' annulla »conforta l' ipotesi dell' animazione degli elementi della materia, così la stessa ipotesi riceve nuova verosimiglianza dalla teoria della generazione dell' animale. Perocchè se è vero che l' animale si moltiplica , dividendosi il continuo sentito, secondo certe leggi, è manifesto che per l' opposto deve esser vero altresì che la vita si semplifica coll' unirsi debitamente di più continui sentiti. Questa non è che l' operazione inversa della generazione. Se l' una si ammette, l' altra non si può escludere. Adunque, la morte dell' anima, cioè dell' organismo animato, non è la distruzione del sentimento, ma una modificazione di lui; è soltanto la dissoluzione dell' individuo , ossia dell' anima organica , che è quanto dire di « quell' armonico sentimento d' eccitazione continuamente riprodotto, avente un centro d' attività prevalente, di cui è manifestazione extra7soggettiva l' organizzazione ». A questo luogo giova che noi consideriamo l' origine della metempsicosi . Pare doversi, almeno in gran parte, attribuire un tal sistema, a non avere saputo i primi filosofi distinguere il principio intellettivo dal sensitivo (1), riguardando perciò l' uomo siccome animale più perfetto, e non altro. Ora, avendo essi creduto alla generazione spontanea e osservati altri consimili fatti frequenti nella natura, ne indussero che ogni corruzione era generazione, e che disciogliendosi un animale se ne formavano altri coi brani suoi; il che aveva l' apparenza d' una cotale trasmigrazione di anime. Nel piacevole opuscolo che scrisse, Hermias, Padre della Chiesa del secondo secolo, pungendo i filosofi gentili delle loro incertezze e contraddizioni, tocca le dottrine da essi professate intorno alle vicende dell' anima umana, così: [...OMISSIS...] . L' errore di questi filosofi è doppio: 1 aver parlato dell' uomo come se egli non avesse che un' anima sensitiva, come fosse meramente un animale; 2 avere molti di essi ignorato che l' individualità del sentimento cessa alla morte dell' animale, e che ciò che rimane è il sentimento stesso dei continui soprastanti; benchè Eraclito, l' oscuro , sembri aver ciò traveduto, avendo egli posto un' anima comune e universale, in cui si rifondessero le anime particolari; e gli Stoici, che da lui presero, vennero dicendo poscia lo stesso (2). Ma questi stessi errarono di nuovo, facendo che quest' anima comune fosse una, e non tante, quanti sono i continui; di che passarono all' altro errore dell' anima del mondo, e all' altro, immensamente maggiore, di dichiarare che quell' anima è Dio stesso. Esclusi adunque questi errori, dopo aver veduto in che consista la morte dell' animale, domandiamo in che consista la morte dell' uomo. Il senso comune risponde consistere nella separazione dell' anima dal corpo; ed ottimamente. Ma in che consiste questa separazione? Dall' aver noi veduto in che stia l' unione dell' anima razionale e del corpo, procede che possiamo intendere altresì la loro disunione. Conosciuto il nodo che forma la vita umana, n' è conosciuto lo snodamento, n' è spiegata la cessazione. Il nodo dell' anima intellettiva col corpo fu da noi riposto in una percezione intellettiva, naturale e immanente, del sentimento fondamentale, e conseguentemente del corpo. Cessando dunque questa percezione primitiva del sentimento fondamentale, l' anima umana è sciolta dal corpo, il corpo umano è morto, l' uomo è disciolto. Ma affine di chiarire ancor più questo vero, riassumiamo il fatto della composizione dell' uomo, e le sue condizioni. Vi è un soggetto, all' atto del quale sono dati due termini, l' esteso sentito e l' essere intelligibile. In quanto quel soggetto ha per termine del suo atto l' esteso sentito , in tanto dicesi principio sensitivo , animale. In quanto ha per suo termine l' essere intelligibile , in tanto è principio intellettivo . Il principio intellettivo, avendo per termine l' essere, conseguentemente ha per oggetto ogni entità, che nell' essere universale si comprende. Quindi egli ha per oggetto anche il sentimento sotto la relazione di entità; e in quanto il principio intellettivo ha per oggetto il sentimento come entità, in tanto dicesi principio ovvero anima razionale . Ma nel sentimento v' è il principio animale senziente ed il sentito, cioè il corpo. Così nella prima percezione del sentimento fondamentale vi è la percezione (1) del corpo, ossia l' unione dell' anima intellettiva col corpo, e ad un tempo col principio animatore prossimo di lui. Ma qual' è la condizione, alla quale il soggetto, oltre essere animale, diventa intelligente? Noi abbiamo detto che a ciò si esige che il sentimento animale acquisti la sua maggiore perfezione specifica, la maggiore unità ed armonia, mediante opportunissima organizzazione. Il determinare questa unità e quest' armonia è ricerca profonda, a cui ora noi non intendiamo por mano, nè ce ne crediamo sufficienti. Domandiamo in quella vece: Perchè l' intuizione dell' essere è data solo ad un soggetto, la cui animalità ha tale perfezione di sentimento, e perciò di organizzazione? Se noi ci contentassimo di riferirci alla volontà del Creatore, diremmo una cosa assai vera e giusta; ma questo non farebbe procedere innanzi lo scioglimento della questione, che propriamente domanda « se il Creatore ebbe qualche ragione di necessità naturale, o almeno di convenienza, a così statuire ». E quanto alla convenienza, facilmente si scorge che alla dignità dell' essere ideale spettava che si manifestasse ad un soggetto animale perfetto, e non ad un soggetto animale imperfetto; si scorge che, essendovi questa legge in tutta la natura, che le cose imperfette si riducano alla perfezione per gradi successivi (1), conveniva che il sentimento corporeo fosse lasciato procedere per quella scala graduata di perfezione, che è sua propria, e che solo toccato l' ultimo gradino di essa, a cui l' adduce un' ottima organizzazione, non potendo il principio senziente perfezionarsi oggimai più oltre, conseguisse altra nuova perfezione, uscendo di sè e attingendo l' oggetto, che lo solleva a condizione di essere intelligente. Ma più difficile impresa torrebbe a fare chi dimostrar volesse che una necessità di natura così richiedesse, vale a dire che, considerata la natura del principio sensitivo e dell' idea, si scorgesse che quel principio non poteva intuire l' idea, se non a condizione ch' egli avesse prima acquistato la migliore organizzazione specifica, o di più ancora, che pervenuto a questa, già dovesse essergli l' idea svelata e manifesta. Sull' una e sull' altra proposta possiamo fare congetture non improbabili, ed ecco quali. Che un principio animale non possa intuire l' idea se non giunto alla maggior potenza di animalità, si può congetturare, supponendo che ogni virtù del principio sensitivo, quando non sia giunto alla maggiore potenza specifica, rimanga spesa ed assorbita nella tendenza a conseguire lo stato di perfezione organica che gli manca, e quindi non possa assurgere a riguardare l' essere ideale, per sè intelligibile essenzialmente ed ovunque presente (poichè se non è veduto, è per difetto del soggetto, a cui non resta la virtù da volgere a lui) (1). Infatti, se si supponga che la virtù di un principio sensitivo tutta si esaurisca nell' organizzare la materia, niente più rimane di esso col quale possa attuarsi verso l' ente. Ma dopo che la perfezione specifica dell' organismo e del sentimento è a pieno conseguita, il principio non adopera più quella virtù e forza, che impiegava nella fatica dell' organizzazione; ella allora incontra l' essere presente dappertutto, come dicevo, e prendendolo a termine del suo atto, si rende intelligente. Perocchè è da considerare, per dirlo di nuovo, che l' essere è dovunque ed è dovunque intelligibile, non potendo esser altro; tale è la sua propria essenza. Onde, se poniamo esistere una virtù universalmente sensitiva (un soggetto), atta cioè a sentire ogni cosa che le sia presente, avverrà che questa virtù sentirà l' essere, il quale non manca mai, a sola condizione che essa non sia occupata ed esaurita in altro, e col solo sentirlo sarà resa intelligente; perchè la natura del principio senziente viene determinata dal sentito, e questa è la natura dell' essere, che, venendo sentito rende intelligente il senziente, appunto perchè egli è l' intelligibilità stessa dell' essere, e non può mescersi con altro, essendo oggettivo per essenza. A intendere questo fatto basta dunque supporre che la virtù o principio sensitivo, che chiamiamo soggetto, possa terminare il suo atto ad ogni cosa presente, ma che, essendo quella virtù limitata, talora s' arresti nell' atto suo per esaurimento di forza, talora poi gli avanzi vigore da sentire l' essere intelligibile. S' intenderà ancor meglio questo pensiero, se invece di considerare la potenza del soggetto senziente, che tende ad accrescersi quanto più essa può, e giunta al grado massimo trova forze da spingere il suo atto fuori della materia, si consideri il nesso che ha il corpo coll' ente . Perocchè il corpo , termine dell' atto del principio senziente, ha diversi gradi di essere, e si apprende dal principio senziente in questi suoi diversi gradi successivamente. Nel primo grado è come un sensibile7esteso; e fino che il principio senziente non apprende il corpo che come sensibile7esteso, ossia, come abbiamo altrove detto, sotto la relazione di sensilità, tale apprensione rende il principio solo senziente, non intelligente. Nel secondo grado il sensibile7esteso, che si chiama corpo, è un ente , e tostochè il principio senziente apprende il corpo come ente, egli è già reso intelligente e razionale. E veramente, che cosa è apprendere il corpo come ente ? Altro non è che apprendere il corpo come una cotale realizzazione determinata e limitata, come un cotal termine dell' atto dell' essere (1). Se adunque si suppone nel principio sensitivo una prima tendenza ad apprendere il corpo al maggior segno possibile, ne avverrà che egli, dopo avere appreso il corpo, ossia il sentito esteso, nella maggior sua perfezione, tenderà ad apprenderlo meglio ancora nella sua entità, e in virtù di questo istinto sarà condotto ad apprenderlo nell' ente in universale, poichè l' ente in universale è ciò che forma l' ente7corpo; perocchè l' ente7corpo è un oggetto, il cui principio è lo stesso essere ideale, che dicesi anche iniziale, e il cui termine è il sensibile7esteso. La tendenza adunque di apprendere il corpo condurrà il principio senziente ad apprenderlo come ente, e così sarà condotto dal sensibile7esteso alla sua essenza, che appartiene all' essere in universale, e conseguentemente a vedere lo stesso essere universale. In tal modo sembra che si possa spiegare il passaggio, che fa il principio senziente dall' ordine della mera sensitività all' ordine dell' intelligenza, come da uno stato meno perfetto a uno stato più perfetto (2). E` dunque pel bisogno che ha il principio senziente di divenire razionale, che egli si fa intellettivo; è un bisogno di perfezionarsi circa l' apprensione del suo proprio termine (il corpo), che lo spinge all' essenza ideale per sè unita intimamente ad ogni realità sensibile, la quale per tale unione diventa ente, cioè oggetto. Non può adunque il principio senziente apprendere il corpo nel suo maggior grado di essere, se non spingendo la sua virtù fuori del corpo ad un altro termine più ampio, in cui il corpo è contenuto e reso intelligibile; e questo termine, nel quale il corpo è colla sua essenza, è l' essere in universale. Ora, come è vero che l' essere universale contiene l' essenza del corpo, così non è egualmente vero che il corpo contenga l' essere universale; perocchè il più contiene il meno, ma non viceversa. Il principio senziente adunque, mediante questo progresso, acquistò un nuovo termine della sua attività, un termine superiore al corpo, indipendente dal corpo, che è per sè, è la stessa idealità. Ma il termine del principio attivo è quello che determina la natura di questo. Dunque il principio sensitivo, coll' aver acquistato questo nuovo termine, cangiò natura, ne acquistò una infinitamente più nobile, attinse una forma perfetta e divina. E` pertanto degno di considerarsi esser questa legge ontologica, che « ogni ente, per la virtù stessa per la quale egli è, tende a conservarsi e a perfezionarsi, e però niun ente ha alcuna virtù volta a distruggere sè stesso ». Questa legge si dimostra nell' Ontologia, e qui dobbiamo noi prenderla a prestito. Se dunque niun ente, niuna natura distrugge sè stessa, ogni distruzione degli enti viene dal di fuori, da qualche attività straniera. Di più, ogni ente compiuto è un principio semplice, il quale ha un suo termine naturale e immanente. Se il principio ha il suo termine, egli è; ma se gli è tolto il termine, cessa; perchè il termine naturale e immanente è la condizione del primo atto, pel quale il principio è, secondo la nota legge del sintesismo. Questo principio, spogliato di tutti i suoi termini, rimane una mera astrazione, una mera capacità, un ente simile alla materia prima degli antichi, che supponevasi spoglia di ogni forma. Non resta dunque che la potenza creatrice di Dio, la quale non è un ente esterno determinato. La distruzione adunque di un ente contingente non avviene se non in questo modo, che sia distrutto il termine in cui finisce il suo atto primo. Ora, quale è il termine dell' ente uomo? Abbiamo veduto che i termini sono due, il corpo e l' essere in universale. Ora, qual ente straniero potrebbe distruggere questi termini dell' ente uomo? Gli enti stranieri sono Iddio e le cose contingenti. In quanto a Dio, abbiamo già supposto che egli non annienti alcuna delle cose da lui create; dunque la distruzione dell' uomo non può venire da Dio. Ma che cosa possono a distruzione dell' uomo le attività, di cui sono fornite le cose contingenti? Che cosa possono a distruzione dei due termini dell' atto primo, pel quale l' uomo è? Il corpo dell' uomo, uno dei termini, è un complesso di elementi organizzati nel più perfetto modo specifico, e così individuati. Ora le forze della natura possono disciogliere questa organizzazione, e quindi distruggere con essa il sentimento animale proprio dell' uomo. Ma sull' essere universale tutte le forze della natura nulla possono; perocchè l' essere universale è impassibile, immutabile, eterno, nè soggiace all' attività di alcun ente. Dunque quella virtù, colla quale l' uomo intuisce l' essere universale, non può perire. Ma questa virtù, questo primo atto è l' anima intellettiva; dunque l' anima intellettiva non può cessare d' esistere nella sua propria individualità giacchè ha la realità sua propria che la individua (1); il che volgarmente si esprime dicendo che è immortale. L' anima intellettiva dell' uomo, quanto alla sua origine, è dunque sorta nel seno dell' anima sensitiva, fu una virtù di lei; ma questa virtù divenne atto principale ed acquistò l' immortalità, tostochè attinse l' essere in universale, perchè questo essere è al tutto imperibile, immodificabile, cosa eternale. Dalla quale teoria si può cavare questo corollario, che quella sentenza degli Scolastici, che S. Tommaso esprime così: « « Primum autem, quod intelligitur a nobis secundum statum praesentis vitae, est quidditas rei materialis , quae est nostri intellectus obiectum »(2) », può ricevere una interpretazione che la rende vera. Poichè da ciò che abbiamo detto risulta che il principio sensitivo, venuto alla sua perfezione, tende a conoscere la natura del corpo ( quidditas rei materialis ), cioè a percepire il corpo siccome ente; onde il primo oggetto reale dell' intelligenza è il corpo. Si dirà che noi non facciamo propriamente essere il corpo l' oggetto appreso colla prima fondamentale percezione, ma il sentimento animale. Ciò è vero; pure, se si considera che il principio senziente non è divisibile dal sentito, e che perciò si percepisce nel sentito e col sentito, rimane che il corpo sentito, il corpo vivo, sia veramente il termine della percezione. Si dirà ancora che S. Tommaso parla del corpo extra7soggettivo percepito coi cinque sensorii speciali. Rispondo che io non pretendo che la sentenza da me esposta sia precisamente quella dell' Aquinate, ma le due sentenze s' avvicinano. Ed è da osservarsi che la sentenza nostra porge la ragione, per la quale, tostochè un corpo esterno agisce sui nostri organi sensorii, noi lo percepiamo intellettivamente quasi per un istinto; ragione che si trova nella prima percezione immanente; giacchè se il principio razionale percepisce per natura il sentimento animale fondamentale, forza è che percepisca pure la sue modificazioni, e l' azione d' una forza straniera che cade in esso. Per questo dicemmo che la proposizione degli Scolastici riceve dall' esposta teoria un' interpretazione, che la rende vera. Finalmente si dirà che il primo inteso per noi non è il corpo, ma l' essere in universale, pel quale intendiamo il corpo. A cui rispondiamo che se si va al fondo della dottrina di S. Tommaso, egli viene a insegnare lo stesso. Poichè a quel modo che noi diciamo di percepire il corpo coll' idea dell' essere , così S. Tommaso, dopo S. Agostino, dice che l' uomo percepisce il corpo colla luce della prima verità . Infatti S. Tommaso non manca di farsi egli stesso l' obbiezione: « « Ciò in cui tutte le altre cose conosciamo e per cui delle altre cose giudichiamo, è conosciuto dapprima siccome la luce dall' occhio, e i primi principŒ dall' intelletto. Ma noi conosciamo tutte le cose nella luce della prima verità , e per essa giudichiamo di tutte le cose, come dice S. Agostino »(1) ». Ora come risponde l' Angelico? Nega forse che noi conosciamo le cose nella luce della verità? No certo; anzi lo ammette pienamente. «Nella luce della prima verità noi intendiamo e giudichiamo tutte le cose, in quanto lo stesso lume del nostro intelletto è una certa impressione della prima verità (2). Ma lo stesso lume dell' intelletto nostro non si riferisce all' intelletto come ciò che s' intende , ma come ciò con cui s' intende »(3) », in una parola come il mezzo del conoscere. E noi appunto dichiarammo che cosa sia questo mezzo universale del conoscere , dichiarammo cioè che egli non è altro che l' essere in universale . Tale è l' intento del « Nuovo Saggio , » col quale assumemmo di chiarire ciò che gli antichi avevano detto oscuramente. Si consideri dunque che S. Tommaso concede che l' impressione del lume dell' eterna verità è il principio quo intelligitur , e concede pure che « « illud, in quo omnia cognoscuntur, est primo cognitum a nobis » ». Dunque, quando dice che la quiddità del corpo è la prima cosa che s' intende, parla d' un altro modo di conoscere, diverso da quello secondo il quale si conosce per primo il lume dell' intelletto, ossia l' essere. Che abbiamo fatto noi? Abbiamo denominato con parole proprie questi due modi di conoscere, chiamandoli intuire e percepire , e abbiamo detto che l' essere in universale è il primo conosciuto per intuizione; e il corpo è il primo conosciuto per percezione. Così abbiamo conciliato S. Tommaso seco stesso. Ricapitoliamo ora quanto fu detto fin qui intorno alla morte dell' uomo. L' anima apprende il corpo successivamente come sensibile, e come ente; e in quest' apprensione del corpo come ente intuisce l' essere, e in lui il corpo7sentito. La virtù dell' anima, elevandosi così all' ultimo grado di attività, non perde i primi gradi acquistati, e perciò nello stesso tempo che intuisce l' essere in universale, ella seguita a percepire il corpo come sensibile, e quindi a percepirlo come ente nell' essere. L' atto più elevato dell' anima, cioè l' intelletto, rimane dominante di tutti gli atti inferiori, e quindi diventa la sostanza dell' anima, perocchè la sostanza è quel primo atto d' un ente a cui quasi s' appendono tutti gli altri, quel primo atto che domina gli altri, i quali così sono per quel primo ed in quel primo. Nella generazione dell' uomo pare che, in sul cominciamento, l' atto del principio senziente non abbia l' ultimo atto, che è quello che si porta nell' essere, e che lo rende intellettivo e razionale. Questa almeno fu la sentenza degli antichi e di S. Tommaso; onde nell' ordine della generazione l' atto senziente sembra anteriore di tempo all' atto intelligente; ma quando l' uomo è a pieno maturato, questo che fu l' ultimo è il primo dell' ente, cioè quello che nell' ente prevale e da cui gli altri dipendono, onde egli acquista condizione di sostanza. L' anima, in quanto è sensitiva, sente il corpo, ma in quanto è intellettiva, percepisce il corpo sentito; di modo che l' unione dell' anima intellettiva e del corpo sentito si fa per via di percezione naturale, immanente. Nella morte dell' uomo l' anima intellettiva cessa di percepire il corpo sentito, ma non cessa d' intuire l' essere in universale, che la costituisce intellettiva, e quindi rimane senza corpo; onde si dice che la separazione dell' anima dal corpo è la morte dell' uomo. In altre parole quello che secondo l' ordine della generazione era il primo atto dell' anima, ma che divenne poscia un atto subordinato, cessa colla morte dell' uomo. Ma rimane l' atto che secondo l' ordine generativo fu l' ultimo a costituirsi, ma divenne il primo per natura, ed acquistò condizione di sostanza, di soggetto e di persona. Quindi nella morte dell' uomo il principio rimane identico; ma perdendo un termine, riceve mutazione nella sua natura, mutazione sostanziale e non personale. L' identità di un tal principio consiste nella conservazione della sostanza intellettiva, e quindi dello stesso soggetto e della stessa persona. Ma perchè, si dirà, l' anima dell' uomo non percepisce più il corpo, quando questo si discioglie? Dalle cose dette si può raccogliere che noi abbiamo considerata l' anima dell' uomo, unita al corpo, nei tre suoi atti speciali: 1 nell' atto con cui sente il corpo sensibile; 2 nell' atto con cui intuisce l' ente in universale; 3 nell' atto con cui in questo ente in universale vede il corpo, ossia percepisce il corpo come ente. Ora questi due ultimi atti hanno certe condizioni alle quali incominciano, e hanno certe condizioni alle quali sussistono. La condizione, alla quale l' anima dall' atto con cui sente il corpo come sensibile passa all' atto con cui sente il corpo come ente, e quindi intuisce prima l' ente, si è che il sentimento corporeo abbia conseguita la sua specifica perfezione. Ora, collo sciogliersi l' organizzazione, si scioglie il sentimento perfetto ed umano in più sentimenti imperfetti, nessuno dei quali può avere un principio idoneo a intuire l' ente. Cessa dunque a questi nuovi principŒ sensitivi, nati dalla distruzione del corpo umano, l' attitudine a veder l' ente; e perciò niuno di essi è l' anima umana; essi hanno perduto l' identità con quest' anima. All' incontro l' atto che intuisce l' ente, quando è già posto, non ha più bisogno del sentimento animale per sussistere, perchè egli è al tutto indipendente da lui; e questa è l' anima umana, che prima era identica col principio sensitivo. Come dunque diversi principŒ sensitivi si possono unificare in uno solo, così un dato principio sensitivo si può unificare e identificare col principio dell' atto intellettivo. Ma come un principio sensitivo si può moltiplicare, così egli può anche separarsi dal principio intellettivo, e in tal caso perde l' identità sua, non è più principio umano. Il principio umano resta il principio di quell' atto che intuisce l' essere; perocchè dove vi è un atto, ivi vi è un principio, e dove vi è un principio, ivi vi è un soggetto, una sostanza; tale è l' anima separata. S' intenda però bene in che modo noi parliamo d' identificazione del principio sensitivo col principio intellettivo. Non è che quel principio si confonda coll' intellettivo, ma è la percezione razionale che in qualche modo li identifica; perocchè nella percezione si fa una cosa sola del percepito e del percipiente, senza che i due elementi si confondano. Ora la percezione suppone che esista innanzi a sè ciò che deve essere percepito, che nel caso nostro è il sentimento; percepisce dunque il sentimento sotto la relazione di entità. Perciò sembra che il principio razionale sia quello che sente, benchè egli non sia il principio prossimo del sentire. L' essenza dell' anima umana insomma è di essere intelligente, e di percepire il corpo, solo allora che un principio senziente del corpo con essa s' identifica, e diventa una sua facoltà. Il sentire semplicemente non è atto dell' uomo, ma dell' animale; l' uomo non è quegli che sente fino che non sa in qualche modo di sentire, nè sa di sentire se non apprendendo il corpo come ente, l' essenza del corpo; perchè tale apprensione è atto dell' anima razionale, che è l' anima sua (1). Se si considera che il principio intellettivo è scevro dalla legge dello spazio, non trovasi in lui ragione alcuna che lo determini a congiungersi piuttosto ad un corpo che ad un altro, e piuttosto a un solo che a molti. Ma la ragione sufficiente, che determina il principio intellettivo ad essere congiunto piuttosto con un corpo che con un altro, si rinviene nella maniera con cui abbiamo dichiarata la formazione del principio razionale. Noi abbiamo veduto che egli era da prima un soggetto sensitivo, animale, che andava perfezionandosi fino a tanto che attinse l' essere universale. Ora il soggetto animale è determinato dal continuo, che è il suo sentito, e quindi è legato allo spazio e ad uno spazio determinato. Di più, questa è legge del soggetto animale che egli non può terminare in più continui divisi fra loro, anzi dati più continui, i soggetti, ossia i principŒ sensitivi, si moltiplicano. Nascendo dunque l' atto intellettivo, onde ha esistenza l' anima intellettiva, nel seno del sentimento corporeo, individuato, egli rimane obbligato nella sua formazione alle stesse leggi del principio sensitivo, che fu sua radice. Egli non può dunque percepire, cioè informare altro sentimento animale, nè altro corpo che quello di cui egli cominciò coll' essere atto e forma. Noi abbiamo fin qui lasciata sospesa la questione « se la morte dell' uomo possa accadere senza disorganizzazione del corpo ». Ora ripigliamola, ricercando unicamente se dai principŒ posti fin qui, certi o verosimili, se ne possa indurre alcuna probabile soluzione. Abbiamo detto che il principio animale, qualora sia giunto alla massima sua potenza mediante la perfezione specifica dell' organizzazione del suo sentito (corpo), si solleva a percepire il corpo come ente, e quindi ad intuire prima (in ordine logico, se non cronologico) l' ente in universale, supposta la legge fatta da Dio nell' istituzione primitiva della natura umana. Da questo conseguita che, fino a tanto che il sentimento animale ritiene la sua specifica perfezione, egli da parte sua non può dividersi dall' anima intellettiva in lui sorta. Che se egli ritiene questa sua perfezione fino che dura intatta l' organizzazione, seguita che non può aver luogo la morte dell' uomo senza lesione organica. Rimane adunque a ricercare se il sentimento fondamentale ritenga sempre la sua perfezione fino che non è alterata l' organizzazione. Ora è indubitabile che l' unità e l' armonia di quel sentimento non si può alterare, se l' organizzazione è illesa, perchè questa è il fenomeno extra7soggettivo, che a quell' unità e a quell' armonia corrisponde. I dubbi adunque, che possono nascere, si riducono a questi: Il principio intellettivo può egli tanto alienarsi dalle cose corporee, che esaurisca tutta la sua virtù nelle incorporee, sia per contemplazione, sia per amore? Rispondo che naturalmente (1) non può, perchè l' oggetto naturale, essendo un essere meramente ideale, questo non appaga intieramente lo spirito, nè lo può rapire totalmente a sè. Oltre di che, niuna natura con un atto tendente alla perfezione si può distruggere. Finalmente, se l' anima potesse abbandonare il corpo spontaneamente senza disorganizzarlo, ne seguirebbe che nel corpo lasciato rimarrebbe il sentimento animale individuale, il quale darebbe origine di nuovo all' anima intellettiva. Ma poichè questa nuova attività si continuerebbe alla prima, non potendo esservi alcun intervallo nè di tempo, nè di natura fra essa e la prima, perciò sarebbe la prima, che solo si ritroverebbe cresciuta di forza; il che avviene in tutti gli uomini elevati e ingranditi per la contemplazione amorosa delle eterne verità. Dunque l' anima intellettiva non può staccarsi spontaneamente dall' animalità (2). Il principio intellettivo può abbandonare il corpo per isdegno di vedersi unito ad un corpo corrotto? Non può naturalmente per le ragioni medesime. Non si dà la morte di puro spasimo, senza alcuna alterazione organica7specifica? E in questo caso l' istinto vitale non cesserebbe di operare e di animare il corpo? (1). Che vi possa essere un estremo dolore senza che la specifica organizzazione sia alterata, ma per soli movimenti nervosi che non alterano specificamente l' organismo, ci sembra indubitato; perchè anzi la piena disorganizzazione trae seco la cessazione del dolore. Che questo dolore sia tale che possa arretrare, per così dire, l' attività dell' istinto vitale in modo che cessi dall' atto suo spontaneo con cui eccita il corpo organato, perchè il sentimento del continuo non potrebbe mai in ogni caso cessare, questo mi sembra dubbioso; ma quando fosse, ne seguirebbe un' immediata disorganizzazione intima del corpo; perocchè è l' istinto vitale medesimo che all' organizzazione dà il suo atto ultimo. Onde, quantunque non apparissero nei cadaveri segni manifesti di disorganizzazione, si dovrebbe ritenere che questi vi fossero. E veramente la disorganizzazione dovrebbe incominciare per questa via nella testura degli stessi elementi, e però dovrebbe nei primi suoi passi riuscire del tutto impercettibile. Che se si volesse supporre che il dolore potesse essere tale e tanto, che l' istinto vitale cessasse dal produrre il sentimento d' eccitazione, restando per qualche momento del tutto intatta l' organizzazione, in tal caso sembra che, non avendo più l' anima intellettiva il sentimento perfetto ed armonico da percepire, ne seguirebbe una momentanea sospensione della vita. Ma cessato con ciò stesso il dolore, la vita ritornerebbe; nè l' anima intellettiva, che percepirebbe nuovamente il corpo, sarebbe diversa dalla prima; perocchè questa, essendo immune da luogo, non sarebbe stata nè vicina, nè lontana dal corpo; anzi ella (l' atto intuitivo) sarebbe sempre rimasta tuttavia un atto dello stesso principio senziente, avente per termine il continuo del corpo organato; il qual principio senziente, come ritirando la sua attività eccitatrice, avrebbe sospesa la percezione e non però l' intuizione, così rimettendo fuori di nuovo quella attività, avrebbe restituito all' anima l' oggetto corporeo, cioè il corpo sentito da percepirne l' essenza. E tutto ciò non toglie che l' anima razionale colle sue spirituali passioni di tristezza, di gioia, di desiderio, ecc., possa assaissimo sull' organizzazione, o distruggendola più o meno celermente, o conservandola altresì più o meno a lungo, quando ella per altre cause tende a disordinarsi. E l' esperienza per vero dimostra che una sorpresa dolorosa o gaudiosa può cagionare disorganizzazione, e produrre l' apoplessia. Per lo contrario, io non dubito che talora la vita umana si prolunghi per sola virtù e forza del principio intellettivo, dominatore del sensitivo, senza il qual dominio questo secondo si distorrebbe forse dalla sua azione individuante ed eccitante. Quando io leggo la descrizione che fa la Genesi della morte di Giacobbe, mi confermo in questo pensiero. Il vecchio padre, sentendosi venir meno, chiama al suo letto i figliuoli, e raccolte le stanche sue forze, tiene loro un lungo ed animato discorso, che il sacro storico riferisce con questa conclusione: « « E finiti i comandamenti nei quali egli istruiva i figliuoli, raccolse i suoi piedi sul letticciuolo e morì »(1) ». Perchè la morte non lo sorprese prima che finisse il suo lungo ragionare? Perchè, ultimato questo, ella fu così pronta? Perchè raccolse così tranquillamente i piedi, e spirò con atto così spontaneo? Questa prolungazione della vita per virtù dell' anima intellettiva fu osservata anche da più medici, uno dei quali scrive che l' anima [...OMISSIS...] . A conferma di ciò, si noti che non accade giammai di vedere nei bruti certi fenomeni, che preannunziano la morte nell' uomo. E` l' uomo solamente, che, delirando per febbre, dichiara di voler mutare di casa e andarsene altrove, onde cerca di uscire dal letto e di fuggirsene. Nelle febbri dei naviganti spesso per questo desiderio d' andare altrove, essi si gettano in mare. E` questo tutta cosa propria dell' anima intellettiva, che sentendo di non istar bene, tenta di mutare di condizione colla propria sua attività; il quale sforzo produce nell' animalità il conato di mutar luogo (3). L' anima meramente sensitiva non tende mai a mutare la sua condizione, ma solo rimette alquanto dal suo atto individuante, e però un tal fenomeno non s' avvera nelle bestie. Il che ci conferma che l' anima intellettiva ha il sentimento della propria immortalità (4). E gli ammalati di tisi, benchè giunti all' ultimo grado di marasmo, non prevedono la loro dissoluzione imminente, e sembrano voler vivere molti anni, e vanno ideando progetti da eseguirsi nel futuro; ciò che deve attribuirsi alla vivacità, che conserva in essi l' organo della fantasia. Non è propriamente un sentimento che loro indetta quelle speranze, ma è il pensiero che si lascia illudere volentieri dietro le immagini, senza però che concepiscano una vera persuasione di loro guarigione. Quindi si spiega ancora la ripugnanza che l' uomo ha a morire, cioè la ripugnanza che l' anima intellettiva prova a sentirsi togliere il sentimento animale, che essa per natura apprende. Se la morte dell' animale non avviene se non per disorganizzazione del corpo o per estremo dolore, e se l' atto col quale l' anima avviva il corpo organico, è quello onde l' istinto vitale produce l' eccitamento, l' organizzazione, il sentimento individuo, e se questo istinto ha tendenza naturale a porsi in questo modo; dunque tanta deve essere la ripugnanza dell' animale a morire, quanta è la forza dell' istinto vitale. La morte dunque è l' estremo dei mali per l' animale; e vi deve ripugnare tutto quanto è, quanto è forte l' atto con cui esiste. Ma il principio razionale percepisce il sentimento come entità, tale qual' è; dunque lo percepisce, o godente, o paziente. Tutto ciò dunque che patisce l' animale nella morte, è percepito dal principio razionale. E perciò al principio razionale deve riuscire naturalmente la morte tanto ripugnante, quanto è ripugnante al principio animale; salvo che, avendo il principio razionale un' altra attività oltre quella di percepire il sentimento animale, egli può, con questa attività che gli rimane e che è la più eccellente, consolarsi di quel che perde. Egli perde, ma non perisce; l' animale perde tutto, perisce. Oltre di che, la percezione del corpo è il primo atto del principio razionale, il primo atto della ragione, quello nel quale gli è data la realità che naturalmente conosce. Ora la perfezione di ogni essere sta nell' atto suo, perocchè « in tanto una cosa è, in quanto è in atto ». Ma ogni ente ha una forza per la quale è; questa forza, per la quale è, è quella che gli fa ripugnare a cessare di essere; è un istinto di essere, e perciò di conservarsi. Se dunque il principio razionale viene impedito dal fare il suo primo atto a lui naturale, che lo costituisce quello che è, e che virtualmente contiene tutti gli altri, egli deve ripugnare oltre misura a vedersi ciò impedito. Laonde il principio razionale a vedersi sottratto il corpo ripugna con tanta forza, quanta è la forza che lo sospinge naturalmente a fare quell' atto, col quale egli percepisce il sentimento animale, e pone sè stesso come razionale. Il principio razionale, adunque, deve sentire una somma ripugnanza a doversi dividere dall' animalità; benchè questa divisione non gli tolga per intero il suo primo atto, rimanendogli l' atto con cui intuisce l' essere in universale, pel quale è intellettuale, ed altresì quello con cui apprende lo spazio puro. E` sentenza teologica che l' anima separata dal corpo conservi qualche tendenza ad unirvisi nuovamente (1). La filosofia intorno a ciò ha ella nulla da dire? A primo aspetto sembra che una tale questione, riguardante lo stato dell' anima separata, oltrepassi il confine della filosofia. Considerata però più profondamente, si trova che la filosofia può dirne alcuna cosa, almeno per via di non improbabile congettura. Perocchè, se colla meditazione filosofica si perviene a conoscere: 1 di quali elementi si costituisca l' anima umana, cioè l' anima razionale; 2 e quali elementi ella perda colla morte dell' uomo; appare che si dovrà parimente conoscere quali elementi le rimangano, sottratti quelli che le vengono meno per la morte. Ora, mettendosi il pensiero in questa ricerca, incontanente s' abbatte a tal ragionamento, che sembra condurlo ad una conclusione contraria alla mentovata sentenza teologica (1). Poichè l' anima razionale perde per la morte il termine corporeo, non le resta dunque più che il solo termine dell' essere essenziale. Ma ogni attività e realità d' un principio è determinata unicamente dal suo termine. Dunque non le può rimanere altra attività fuori di quella per la quale intuisce l' essere. Se dunque le è tolto affatto il termine corporeo, il principio sensitivo stesso è venuto meno; il principio intellettivo s' acqueta nell' idea; non rimane perciò alcuna attività, che possa essere principio dell' inclinazione a riprendere il corpo. Poichè la memoria stessa del corpo precedente deve essere del tutto abolita, non potendosi conservare memoria dei corpi senza qualche vestigio fantastico di essi, e la fantasia cessa, perdendo il suo organo proprio, che è il cervello (2). Così sembra che si possa ragionare; ma questo ragionamento è difettoso, perchè dimentica un fatto importante da noi rilevato nell' anima umana. Noi abbiamo dimostrato che ogni anima sensitiva, che abbia per termine un corpo occupante una porzione limitata di spazio, deve ancor prima (in ordine logico) avere per termine lo spazio puro, solido, illimitato; e ciò perchè nel concetto di uno spazio corporeo limitato, che sia termine ad un sentimento, s' acchiude già uno spazio illimitato, onde quel sentimento non si può pensare senza di questo; e per altre ragioni ancora. Quindi anche l' anima razionale dell' uomo, che è sensitiva ed intellettiva, deve avere lo stesso termine dello spazio semplice, illimitato. Ma che nasce pel fatto della morte? Niente altro, come vedemmo, se non la dissoluzione dell' organismo corporeo, e quindi la dissipazione del sentimento corporeo7organico; è il solo organismo che perisce, e con esso il sentimento a lui relativo. Ora il corpo, che limita lo spazio, è cosa essenzialmente diversa dallo spazio che viene limitato; questo spazio è al tutto indipendente dal corpo. Lo spazio adunque non può esser tolto all' anima per questa sola ragione che ella ha perduto il termine corporeo. Quindi l' anima razionale, che ha perduto il corpo, deve mantenere tuttavia due termini, cioè: 1 l' essere essenziale che la rende intellettiva; 2 lo spazio puro, illimitato. Ne consegue che con questo secondo termine ella mantiene ancora una cotal relazione coll' universo creato, perchè ne sente l' estensione (3). Ora noi abbiamo veduto che il principio che sente lo spazio illimitato, è la radice del principio sensitivo corporeo, è come il principio del principio sensitivo, il principio remoto del sentire. E questo è già un bel risultamento aver ritrovato che l' anima umana, separata dal corpo, conserva ancora la radice della potenza di sentire. Ma questo non basta. Noi dobbiamo qui ricorrere ad un teorema ontologico o cosmologico, ed è questo: « Il principio ha l' esistenza condizionata al suo termine; ma quando egli già esiste, ha un' attività propria che riguarda lo stesso termine ». Questo teorema si prova dall' osservazione intima, che si può fare sopra ogni soggetto; perocchè se il soggetto, ossia il principio, non si può concepire esistente senza il suo termine, è però certo dall' esperienza che egli esistendo, può spiegare diverse attività ed esercitare diverse funzioni relative al suo termine. Di questo vero importante parleremo più a lungo nella seconda parte. Ora, ciò posto, nell' anima separata rimane l' identico soggetto che era, prima che cessasse di percepire il corpo. Non vi è dunque ripugnanza che, cessata la percezione attuale del corpo, questo identico soggetto, suscettivo di attività, ritenga delle abituali disposizioni e tendenze. E poichè la sensazione corporea è un atto del principio che ha per termine lo spazio, niente ripugna che questo medesimo principio conservi un' inclinazione all' atto precedente, cioè a quella precedente percezione, e che sia volto ad essa, come l' occhio, che mira un oggetto, può continuare a mirare nella stessa direzione e colla stessa intensità, anche quando gli è tolto davanti l' oggetto, e non vede più nulla. Certo a noi pare che si debba dire il somigliante che dell' occhio, del principio intellettivo, che rimane identico nell' anima separata. Questo principio fu già attuato alla percezione del sentimento corporeo; e questa attuazione gli deve rimanere, come è detto del principio sensitivo dello spazio, benchè non abbia più materia intorno a cui esercitarla. Di vero la percezione del sentimento naturale corporeo abbracciava: 1 il principio sensitivo dello spazio col suo termine, lo spazio; 2 il principio sensitivo del corpo col suo termine, il corpo; il qual principio è un atto individuante il primo, come vedemmo; 3 il principio intuitivo dell' essere. Ciò che cessa colla separazione del corpo è solo il secondo di questi tre elementi. Permane adunque la percezione intellettiva del sentimento dello spazio, cioè del principio e del termine di questo sentimento. Ma il principio di questo sentimento conserva l' attualità, che lo metteva in relazione col corpo. Dunque il principio razionale rimane, e rimane inclinato, perchè percepisce un principio sensitivo inclinato verso al termine corporeo. Questa dottrina contiene altresì la ragione perchè l' anima separata conservi per natura la propria individualità. Benchè un principio, che avesse per termine lo spazio puro e che non avesse alcun' altra realità in sè stesso, dovesse esser unico, e perciò non avesse l' individuazione propria del principio senziente il corpo, tuttavia, tostochè a questo principio s' aggiunge un' attività tendente al corpo, questa attività o realità nuova lo individua. E ciò perchè la materia, come dicemmo, essendo divisibile, è conseguentemente di natura sua moltiplicabile, sicchè una porzione di materia non è l' altra; quindi S. Tommaso è appunto dal rapporto che ha l' intelletto colla materia che ne dimostra l' individuazione, e conseguentemente la pluralità degli intelletti umani (1). Il qual vero condusse gli Scolastici a dichiarare la materia universalmente pel principio dell' individuazione; proposizione che pecca di soverchia generalità, come noi altrove già avvertimmo; perocchè ogni realità , quando può essere distinta, è già principio per sè d' individuazione, sia poi la realità materiale o spirituale. Del che essendosi accorto anche S. Tommaso, corresse quel principio con varie limitazioni, e fra l' altre con questa, che « la forma s' individua per sè stessa ». L' anima intellettiva, separata dal corpo, rimane individuata adunque primieramente per la percezione che conserva di quel sentimento che attinge lo spazio, il quale è individuato a cagione dell' attività che conserva verso il sentimento corporeo. Qui però non si deve trapassare un' osservazione importantissima, la quale si è che l' individuazione dell' anima intellettiva e l' individuazione del principio sensitivo si fa a condizioni diverse. Il principio sensitivo è individuato immediatamente dalla separazione della materia, perchè è annesso per sua propria essenza agli elementi. Quindi ogni sentimento elementare, quando gli elementi sono separati e discontinui, è un individuo diverso. Conseguentemente, se due gruppi di elementi componessero una organizzazione in tutto eguale, vi sarebbero due sentimenti organici eguali sì, ma non un solo sentimento identico. Conseguentemente le anime intellettive, che percepissero quei sentimenti organici, sarebbero due e non una sola, e due rimarrebbero del pari le anime separate. Ma all' opposto, se Iddio colla sua onnipotenza cangiasse ad un' anima intellettiva, che percepisce il sentimento organico, l' organismo, sostituendogliene un altro in tutto eguale, onde non intervenisse alcuna mutazione del sentimento organico percepito; in tal caso l' anima intellettiva non si accorgerebbe in modo alcuno della mutazione, avvenuta unicamente nella materia, ma non nel sentimento, che è quello solo che ella immediatamente percepisce. Onde quell' anima non perderebbe per tale cangiamento in modo alcuno la sua identià. Questo si vede anche coll' esperienza, la quale dimostra che coll' età si cangia la materia, che compone il corpo umano, senza che venga meno perciò l' identità dell' anima. Che anzi coll' età non pure si cangia la materia, ma ben anche il sentimento organico, benchè non mai specificamente. L' individualità dunque dell' anima intellettiva non nasce immediatamente dall' individuazione della materia come tale, ma dall' individualità del sentimento; e solamente quando questi sentimenti individuali sono più, più sono le anime intellettive che ad essi si riferiscono, perchè un' anima intellettiva non può percepire due o più sentimenti organici, ma uno solo, traendo anche da uno solo l' origine, benchè originata e costituita stia per sè stessa. Ma, dopo di tutto ciò, l' individualità dell' anima intellettiva già costituita, trae ancora da un' altra parte la sua individuazione. Ella fa più atti razionali, e questi atti sono un metter fuori nuova attività, e così si differenzia e individua coll' acquistare un' aggiunta di realità, che nell' attività consiste. Ora, quantunque, perduto il sentimento organico, cessino all' anima separata i termini di questi atti, tuttavia, sussistendo ella ancora identica, ritiene quell' attività pel principio indicato, che un principio costituito se esiste, ha un' attività sua propria indipendente dal suo termine. Laonde, quantunque naturalmente periscano all' anima, col separarsi dal corpo, tutte le cognizioni ricevute nella vita presente quanto al loro atto, che abbisognava d' organo corporale, tuttavia ritiene l' attività acquistata, la quale basta ad individuarla (1). Alla quale dottrina si possono fare certamente alcune obbiezioni; ma pare a noi non punto insolubili. Faremo menzione di quelle sole che ci sembrano più rilevanti, a cui rispondendo, si chiarirà meglio e compirà la dottrina stessa. Voi avete detto che l' anima intellettiva ritiene la percezione del sentimento dello spazio. Ma in tal caso gli elementi del corpo umano, che si discioglie, e che pur hanno i loro sentimenti corporei, ne rimarranno essi privi? No, ma il sentimento dello spazio rimane unito egualmente all' anima intellettiva ed agli elementi od organismi superstiti; appunto perchè quello, essendo un sentimento di natura unico, può moltiplicarsi, cioè rimanere unito sì al soggetto, anima intellettiva, come ai principŒ sensitivi corporei separati dall' anima. Egli conserva la sua unicità e identicità in sè stesso, ma può essere congiunto a più soggetti che lo individuano. Niente vi è in ciò che ripugni, o che non sia consentaneo alla natura dei principŒ sensitivi. Voi avete detto che, quando il termine è identico, e quando il principio, che a lui si riferisce, non ha alcun' altra realità che quella che gli viene dall' essere principio di quel termine, anche questo principio deve essere uno ed identico. Ora le anime intellettive hanno per loro termine l' identico essere. Dunque per sè non potranno essere più, ma una sola. Vero; ma quando il principio è una volta messo in essere, può avere una realità e attività sua propria, diversa da quella che si racchiude nel nudo concetto di principio. Qualora adunque il detto principio spieghi qualche sua propria attività, incontanente acquista da questa l' individuazione. E però le anime umane sono più, sì perchè hanno per loro termine sentimenti organici distinti, sì perchè hanno una propria attività razionale, che si spiega negli atti di ragione, che senza posa emettono fino dal primo momento della loro esistenza. Se poi si supponessero delle intelligenze diverse dalle umane, che non avessero alcun altro termine eccetto l' identico essere intelligibile, e tutte lo intuissero nello stesso grado, e non avessero altra attività nè realità, se non quella che loro viene da questa intuizione; in tal caso mancherebbe certamente il principio della loro individuazione, e non sarebbero che una, perchè una sola realità di tal natura si può concepire. Dall' obbiezione adunque altro non si può dedurre se non che le anime, oltre avere in sè ciò che le individua e distingue, ritengono tutte un comune e misterioso legame, una radice soggettiva comune, sì dalla parte del senso che da quella dell' intendimento; la quale radice fonda l' unità della specie umana anche nella realtà , e in gran parte è la ragione della simpatia che sentono fra loro gli individui della stessa specie; onde agli uomini pare in alcuni momenti d' essere un uomo solo. Se le anime separate tengono una inclinazione alla percezione corporea fondamentale, questa non soddisfatta impedirà loro d' essere felici. La dottrina rivelata insegna che le anime giuste, che ricevono la mercede eterna, trovano in Dio per Cristo ogni cosa. Se poi si considera l' anima in sè, senza le appendici che riceve dalla divina bontà o dalla divina giustizia, è a dirsi esser vero che l' anima umana separata dal corpo rimanga imperfetta, appunto perchè priva di un naturale suo atto; ma è da aggiungere che ella non sente tuttavia di ciò alcun dolore, perchè niuna tendenza abituale è dolorosa, quando ella non fa alcun conato per essere soddisfatta. Ora ogni possibilità di conato è tolta via, giacchè è tolto via affatto il termine corporeo; e niuno può sforzarsi di operare se non ha presente il termine di sua operazione, giacchè il conato stesso ha bisogno di qualche cosa per formarsi, non si fa mai verso il nulla. E qui soffermiamoci a considerare come la dottrina esposta intorno al nesso dell' anima umana col corpo, nello stesso tempo che risponde ai fatti e li spiega, cansa gli scogli contrari, nei quali, con più o men di rovina, ruppero gli altri sistemi. Non ripeterò il detto, o lo ripeterò ponendolo sotto nuova luce. I sistemi intorno all' unione dell' anima umana col corpo sogliono dare in due errori estremi. Alcuni, sentendo troppo bene che l' anima umana è una sola, nella via che presero per unificarla, neglessero l' uno dei due principŒ attivi nell' uomo, il sensitivo o l' intellettivo, e però non colsero il nodo della loro unione. Altri, ponendo mente alla duplicità di quei due principŒ d' azione, li lasciarono separati, e così posero più anime nell' uomo. I primi si possono dividere in tre sistemi, o erronei, o imperfetti. Perocchè vi furono di quelli che, non sapendo come spiegare l' unione del principio razionale col corpo, ridussero ogni cosa all' anima sensitiva. Questo sistema di sensismo rimane da noi affatto escluso, avendo dimostrato ampiamente la differenza specifica fra il principio sensitivo e il principio intellettivo dai due loro termini specificamente diversi, il sentito e l' essere universale. Altri, fissando l' attenzione esclusivamente al principio razionale, e bene scorgendo che questo è ciò che è proprio dell' uomo, nè sapendo come conciliare con esso il principio sensitivo, dissero che l' anima sensitiva pur col sentire ragionava, che il sentire stesso era un conoscere, ossia che si sentiva coll' intelletto. Così talora sembra che concepisca la cosa Platone. Ma questo sistema razionale pecca dello stesso errore del sistema sensistico , poichè toglie la distinzione specifica fra il principio sensitivo7animale e il principio razionale. Vi furono finalmente alcuni, che ben conobbero che il sentire non è l' intendere, nè l' intendere è il sentire animale; ma dissero che quelle erano come due attività immediate della stessa anima. Essi partivano da principŒ veri, cioè dal principio che l' anima intellettiva « virtute continet inferiores formas », e dall' altro che « unius rei est unum esse substantiale, et una substantialis forma (1) »; e miravano ad evitare l' errore delle due anime nell' uomo, delle due o più forme sostanziali. Ma se il sentire e l' intendere fossero meramente due attività dell' anima intellettiva, ne seguirebbe non piccola difficoltà. Sentire non è intendere, senso non è intelligenza; se queste due cose entrassero nell' anima come parte dell' essenza, sarebbero due forme che comporrebbero una sola forma; il che ripugna all' unità della forma. Se il sentire all' opposto è una semplice facoltà dell' intelligenza, ella non può stare senza il soggetto; e però converrebbe, o rendere intelligenti i bruti, o renderli macchine. Il dire che nei bruti s' aggiunge a questa facoltà un soggetto proprio è gratuito; giacchè il sentire dell' uomo e il sentire del bruto, considerato come sentire, è cosa della stessa natura; onde s' aggiungerebbe al sentire nel bruto qualche altra cosa oltre al sentire, mentre non altro si scorge nel bruto che il sentimento. D' altra parte l' anima è intellettiva unicamente in quanto fa atti d' intelligenza. Se l' intelligenza è l' essenza di quest' anima, ella non può essere il principio immediato del sentire; perchè il senziente immediato, in quanto è senziente, non è intelligente, non è anima intellettiva. Oltredichè l' intelligenza non può percepire il sentimento, se questo non è già formato; si richiede dunque un principio che lo formi (che senta), e così somministri all' intelligenza la materia della percezione. S' aggiunge che se l' anima intellettiva fosse il principio prossimo, immediato ed unico del sentire, le sensazioni e i movimenti animali conseguenti verrebbero sempre quali sequele di atti d' intelligenza; il che è opposto all' esperienza, movendosi nell' uomo il senso anche senza precedenti atti intellettivi (1); onde il principio che lo muove, non è sempre l' anima intellettiva. Conviene dunque trovare un sistema, nel quale s' avveri che vi sia nell' uomo un' anima sola, una sola forma sostanziale; e rimangano i due principŒ attivi del sentire e dell' intendere così connessi da non potere costituire due anime, e tuttavia così separati da potersi muovere il senso, anche senza che sia l' attività intellettiva quella che lo muove. I filosofi, che vollero mantenere questa seconda condizione, caddero spesso nell' errore opposto a quello dei sistemi enumerati, all' errore voglio dire di dare all' uomo più anime (2). Io non voglio dire che, quando tutta l' antichità distinse l' anima dall' animo , ella intendesse di porre due anime nell' uomo. Il senso comune non pronunciava, ammetteva quella distinzione, trovandosi espressa nello stesso linguaggio; ma niente si curava decidere sulla questione; ed io considero l' uso di quelle due parole o di equivalenti, come una testimonianza del genere umano a favore non delle due anime, ma bensì di due principŒ attivi dell' uomo, ciascuno dei quali avente un' attività propria, ma l' uno ricevente in sè l' altro e dominante. Acciocchè si veda meglio come questa distinzione dei due principŒ attivi venne riconosciuta, riferiamo alcune autorità. Nella Scrittura si distingue continuamente la carne e lo spirito come due avversari; e non certamente si parla della carne morta, ma viva. S. Paolo distingue l' anima dallo spirito, parlando dell' efficacia della parola di Dio, « « pertingens usque ad divisionem animae et spiritus »(3) ». Appresso Platone in un frammento del «Timeo » si legge: « « Intelligentiam in animo, animam conclusit in corpore »(4) ». Giuseppe Ebreo: « « Immisitque (Deus) in hominem spiritum et animam » (5) ». Giovenale: « « Principio indulsit communis conditor illis Tantum animam , nobis animum quoque »(6) ». Un illustre savojardo, che si mostra forse un po' troppo inclinato al sistema delle due anime, dopo avere addotte le autorità da noi trascritte, accenna nel seguente passo non meno il pensare degli antichi che alcuni fatti fisiologici, che dimostrano l' esistenza di due attività nell' uomo, benchè non dimostrino punto nè poco l' esistenza di due anime (1). [...OMISSIS...] . Rappresentandosi l' anima sotto l' immagine d' un occhio, secondo l' ingegnoso paragone di Lucrezio, lo spirito era la luce dell' occhio (3). In altro luogo egli lo chiama « anima dell' anima (4) », e Platone con Omero lo appella il « cuore dell' anima (5) », espressione che Filone ripete (6). Quando Giove in Omero decide di rendere vittorioso un eroe, il Dio ha pesata la risoluzione nel suo spirito (7); egli è uno; non può esservi in esso combattimento. Quando un uomo conosce il suo dovere e l' adempie senza esitare in un' occasione difficile, egli vide la cosa, siccome un Dio, nel suo spirito (.). Ma se, agitato lungamente fra il suo dovere e la sua passione, egli già sta in sul commetter una inescusabile violenza, allora egli ha deliberato nella sua anima e nel suo spirito (9). Alcune volte lo spirito riprende l' anima e la fa arrossire di sua fiacchezza. - Coraggio, le dice, anima mia! tu hai sostenuti più gravi malori (1). E un altro poeta di questa lotta trasse un dialogo per vero piacevole: - Io non posso, egli dice, accordarti, o anima mia, tutto ciò che tu brami: pensa che tu non sei già la sola, che voglia ciò che tu ami (2). Che si vuole egli dire, domanda Platone, quando si dice che un uomo ha vinto sè medesimo, che si è mostrato più forte di sè stesso, ecc.? Qui s' afferma che egli è ad un tempo e più forte e più debole di sè, perchè egli è il più debole, ed egli è ancora quegli che fu più forte; s' afferma l' una e l' altra cosa dello stesso soggetto. Ora la volontà, supposta una , non potrebbe venire in contraddizione seco stessa meglio di quello che un corpo potesse muoversi ad un tempo con due movimenti attuali ed opposti (3); chè niun soggetto può unire due contrari simultanei (4). Se l' uomo fosse uno, disse eccellentemente Ippocrate, non sarebbe mai ammalato, e la ragione n' è semplice; perchè, soggiunse, non si può concepire una cagione di malattia in ciò che è uno (5). Scrivendo dunque Cicerone che, quando ci viene imposto di comandare a noi stessi, si vuol dire che la ragione deve comandare alla passione, o egli intendeva che la passione è una persona , o egli non intendeva sè stesso (6). Pascal ebbe certo in veduta le idee di Platone, quando diceva: « Questa duplicità dell' uomo è così visibile che vi fu chi pensò che noi abbiamo due anime; un soggetto semplice pareva loro incapace di tali e sì subite varietà »(1). Tutte le quali osservazioni non possono dimostrare la duplicità dell' anima dell' uomo, ma sì bene di due principŒ attivi, e se si vuole di due vite (2). La difficoltà adunque, che Lattanzio chiama « inestricabile (3) », consiste nel trovare un sistema, nel quale i due principŒ attivi rimangano nell' uomo distinti, e tuttavia sia evitato l' errore delle due anime; e noi crediamo che a questa condizione soddisfaccia il sistema proposto. E veramente noi abbiamo detto: Che l' unione dell' anima col corpo si fa per via di una percezione naturale immanente, per la quale il principio razionale percepisce il sentimento fondamentale7animale , e che nella percezione si dà nesso fisico per sì fatto modo che ex percipiente et percepto fit unum . Ora, benchè l' unione fra il percipiente ed il percepito sia fisica, di guisa che ne risulta una medesima sostanza composta, tuttavia i componenti ritengono una distinzione reale (benchè non una separazione), giacchè il percepito non è il percipiente e viceversa, Che il percepire razionalmente è un atto del principio razionale , e perciò proprio dell' uomo che, come l' abbiamo definito, è « un soggetto razionale »; quindi ciò che si unisce come forma al sentimento animale è l' anima razionale, sola anima propria dell' uomo. Ma ciò che si percepisce si conosce, e perciò l' anima razionale conosce il sentimento animale. Per conoscerlo poi deve parteciparlo, altrimenti non lo percepirebbe. Dunque nell' anima razionale vi è il sentimento, ma non il mero e nudo sentimento, bensì il sentimento nella sua condizione di ente; onde il principio razionale è anche sensitivo, ma non a quel modo che è tale il principio animale, il quale è principio immediato del sentimento, bensì in un modo assai più elevato, in quanto egli percepisce l' essere in tutti i suoi gradi, e però anche nel grado di sentimento7animale. E così riesce avverato quanto dice S. Tommaso, che l' anima razionale « VIRTUTE CONTINET animam sensitivam et nutritivam (4) ». Ora poi, nello stesso tempo, il principio meramente sensitivo, benchè percepito, conserva la sua differenza dal principio razionale percipiente, intanto che è egli il principio immediato del sentimento animale, perchè l' essere percepito non lo confonde col percipiente. Il che si vede considerando che il sentimento animale non potrebbe essere percepito dal principio intellettivo, se non esistesse, perocchè ciò che viene percepito deve esistere; onde non è il principio razionale che faccia esistere il sentimento, ma si è il principio immediato dello stesso sentimento quello che fa esistere il sentimento; e questo, tosto che esiste, è percepito. Così si spiega come il sentimento animale si disciolga, senza che intervenga in ciò il principio razionale; e disciolto, cessi d' essere percepito; onde accade la morte dell' uomo. Che se il sentimento animale fosse prodotto immediatamente dal principio razionale, egli non si dissiperebbe giammai; perocchè, non cessando la causa, non cesserebbe l' effetto, e la morte sarebbe inesplicabile. E così è anche spiegata la lotta che si combatte nell' uomo, la quale suppone due attività. Conciossiachè rimane un' attività nel percipiente, ed un' attività rimane nel percepito, benchè congiunti sostanzialmente nella percezione. E nello stesso tempo si spiega il dominio, che di natura sua deve avere l' anima razionale sopra l' animalità; perocchè nell' unione fra il percipiente e il percepito, l' attivo è il percipiente. Il che maggiormente apparisce a chi considera che qui si tratta di percezione razionale , in cui il percepito (sentimento animale) è appreso sotto la sua condizione di ente , e perciò più intimamente e perfettamente di quello che il percipiente sensitivo percepisca la materia, dalla quale in parte dipende come da una terza attività straniera (extra7soggettiva). Ma perocchè nel sentito, cioè nel corpo, l' immediato agente è il principio senziente, perciò il principio razionale domina il corpo pel dominio che ha sul principio senziente, unito a sè colla percezione. Scorgesi nello stesso tempo che, potendo nascere nel sentimento animale alterazioni e cangiamenti indipendenti dall' attività razionale, sia per l' azione propria del principio senziente, sia per l' azione della materia (extra7soggettiva), tali passioni non s' attribuiscono all' uomo, come a sua causa; perchè l' uomo non è che il principio razionale, e il resto sono condizioni ed appendici (1). Il principio razionale, adunque, è l' unica forma sostanziale costituente l' uomo, che nella virtù sua contiene le altre forme; e però il principio sensitivo, come tale , appartiene alla materia dell' uomo e non alla forma. Onde come la forma dell' uomo è il principio razionale, così la materia che rimane informata non è il corpo morto, ma il corpo animale vivo, ossia il sentimento animale, il quale viene informato per via di percezione, venendo per essa sollevato a condizione di ente , oggetto dell' anima razionale, e dall' azione dell' anima variamente modificato. Ma v' è di più. Il sentimento animale, percepito o non percepito dall' anima intellettiva, è identico; non avviene già che col percepirsi si raddoppi; solamente esiste in due modi, cioè in sè stesso e nel percipiente. Se dunque il percipiente non altera la natura del sentimento animale col percepirlo, egli non altera neppure il suo principio e il suo termine. Ma il principio del sentimento animale è un' attività semplicissima. Dunque col percepire quest' attività senziente la riceve in sè come ente. Dunque il percipiente, semplice com' è, riceve per la percezione in sè un' altra attività, semplice anch' essa. In questo sta l' identificazione dei due principŒ, il sensitivo e l' intellettivo; e questo principio, risultante da due principŒ identificati, è l' anima razionale unita al corpo, di cui si può dire con un autore antico: « Unus et idem spiritus, et ad se ipsum SPIRITUS dicitur, et ad corpus ANIMA - Anima dicitur in quantum est vita corporis; spiritus autem in quantum est vita substantiae spiritalis (1) ». E poichè sono due attività identificate, in quanto che un' attività è andata a crescere la virtù dell' altra, perciò può cessare l' attività sensitiva senza che cessi l' attività razionale; onde la Scrittura insegna a perdere l' anima per salvare lo spirito . « In qua vita », dice l' autore sopra citato, « ANIMA perditur, ut SPIRITUS salvus fiat (2) ». Nè la distinzione delle due attività al modo spiegato si distrugge a cagione di quel che dicemmo, il primo atto intellettivo sorgere nel seno dell' attività animale, ed essere come una nuova attuazione del medesimo soggetto. Questo prova bensì che il principio dell' una e dell' altra attività è il medesimo anche per la ragione dell' origine comune, ma non toglie che le due attività non sieno specificamente ed infinitamente diverse, perchè la natura dell' attività è sempre formata dal suo termine e non dal suo cominciamento generativo ed imperfetto, e il termine qui varia quanto dall' esteso sentito si differenzia l' essere in universale. Onde, una volta nata l' attività intellettuale e razionale, è già una natura del tutto nuova, una sostanza non peritura, così diversa dalla sensitiva che da questa rimarrebbe al tutto separata, se non vi si riunisse per via di percezione, la quale è quella che congiunge i due termini, cioè il sentimento animale e l' essere intellettivo; e così impedisce che la virtù intellettiva si separi dalla sensitiva. Aggiungiamo ora alcune altre prove, che confermano la perpetua durazione dell' anima intellettiva. Noi abbiamo data la prova dell' immortalità dell' anima umana, partendo dal principio che « « la natura di ogni soggetto è determinata dal suo termine » », onde l' anima umana, avendo a termine l' essere in universale di natura eterna ed impassibile, forza è che ella pure duri perpetua. Questa è la fondamentale, a cui si riducono tutte le altre prove, che furono date fin qui dell' immortalità dell' anima. Aggiungiamo tuttavia ancora le principali fra quelle, di cui più sopra non abbiamo fatto espressa parola. L' immortalità dell' anima fu provata dall' aver ella un elemento celeste e divino, e benchè non sia stato espresso chiaramente in che questo elemento divino e celeste consistesse, fu nondimeno riconosciuto essere in lei, e risiedere nella parte intellettiva. [...OMISSIS...] . L' immortalità dell' anima umana fu provata in secondo luogo dal non avere in sè elementi contrari, poichè la distruzione nasce mai sempre per via di lotta dei contrari. Ora ogni soggetto sostanziale ha un principio e un termine, che determina la sua natura. Nel principio del soggetto non possono mai cadere contrari elementi, come quello che non può esser altro che un' attività semplice; dunque solo nel termine si può introdurre la lotta. E così avviene infatti rispetto alla vita animale; il termine molteplice ed organico, l' esteso, riceve agenti contrari, che lo possono straziare e distruggere. All' incontro l' anima intellettiva, avendo a suo termine l' essere , e questo abbracciando ogni cosa sotto la stessa relazione di entità, non ammette elementi contrari; perchè anche le entità contrarie in lui vengono unificate e pareggiate. Così l' argomento che l' intelligenza non ammette in sè lotta di contrari, e che perciò non soggiace alla morte, si riduce sempre all' argomento tratto dall' essere intuìto. Simile a questo è l' argomento comune, pel quale dalla semplicità dell' anima si prova la sua immortalità. Non basta provarla semplice nel suo principio, poichè semplice nel suo principio è anche l' anima delle bestie; conviene di più provare la semplicità del suo termine onde viene naturata, acciocchè l' argomento sia valido, e perciò conviene ricorrere all' essere universale , il quale è semplicissimo. L' argomento della semplicità trovasi esposto da S. Ireneo (1), da S. Gregorio Taumaturgo, e ripetuto da tutti i posteriori. Noi recheremo le parole di quest' ultimo Padre: [...OMISSIS...] . Dice che se le parti sono più, debbono essere differenti, perchè se non avessero qualche differenza, non sarebbe discernibile la loro pluralità, nè al tutto sarebbe. Dice che se le parti sono differenti, dunque l' ente, che di esse si compone, non è il medesimo, non è in tutto eguale a sè stesso; ammettendo differenze, ammette contrarietà. Ma nell' oggetto dell' intelletto non v' è differenza, perchè tutto concepisce l' intelletto nell' unità del medesimo essere. Il Santo Vescovo di Neocesarea giunge quasi qui a toccare le speculazioni della Scuola d' Elea. Un quarto argomento, e validissimo, traggono gli scrittori ecclesiastici, dopo i greci filosofi, come Origene (3), Lattanzio (4), Leonzio (5), ed altri, dai diritti della giustizia, che, non vedendosi sempre in questa vita guardati, conviene che ve ne sia un' altra, dove si appareggino le ragioni di ciò che hanno goduto i tristi oltre al dovere in questa, o patito oltre il merito, i buoni. Ma e donde questa necessità che la giustizia trionfi? Dall' essere la giustizia di natura immutabile ed eterna. Ora questa eternità della giustizia in altro non si fonda che nell' eternità e immutabilità dell' essere, che splende nell' umana mente, siccome dimostrammo nelle opere morali. Con una ragione somigliante Socrate nel Fedone prova l' immortalità dell' anima, ragionando che, essendo l' uomo fatto per la giustizia, e questa potendo egli e dovendo amare, conviene che sia immortale, perchè fatto e ordinato a cosa immortale. E contende dimostrare il corpo essere un cotal velo, che separa il nostro intendimento dal meraviglioso aspetto della giustizia, a cui per natura è unito; il che era pure un sentire e confessare un Dio Santo, il Dio Ignoto degli Ateniesi (1). Essendo dunque termine all' intendimento umano l' essere, che è cosa immortale, e da questa immortale essenza venendo naturato e informato, non fa meraviglia se egli abbia il sentimento della propria immortale natura. E da questo sentimento si ritrae nuova prova del vero di cui parliamo; perocchè il sentimento, essendo opera di natura, egli non erra, od inganna. Questo sentimento della propria immortalità l' uomo lo manifesta di continuo, sia in azioni ed imprese durevoli al di là della vita presente, sia nell' amore d' una gloria presso gli avvenire, sia nel dispregio della morte, sia nello stesso suicidio, di cui solo l' uomo e non la bestia è capace; sia in quella forza di pensiero e d' animo finalmente, che dimostra spesso l' uomo morente. Dai quali sentimenti sì naturali all' uomo, se non si soffocano e spengono nel vizio, nacque principalmente il consenso universale di tutti i popoli a favore dell' immortalità dell' anima; che è un altro efficace e persuasivo argomento di sua verità. E qui pervenuti, chiudendo questa prima parte della Psicologia, così crediamo di poter dire: l' uomo adunque non ha da pentirsi della fatica che sostiene per giungere al conoscimento di sè, se quella lo scorge a sì lieto risultamento, e lo accerta che la sua parte più nobile, l' anima, con cui vive ed intende, durerà in perpetuo. Questo vero lo innalza al di sopra di tutte le smisurate moli che compongono l' universo, destinate a sciogliersi, e gli rivela che una sede immortale deve accogliere lui sopravvivente alla dissoluzione della materia. Giunto qui, egli può domandare a sè stesso: perchè dunque è ella fatta questa mia anima? a qual fine esiste? quali beni sono proporzionati alla sua natura? Ed a questioni tanto sublimi, tanto necessarie (perocchè solo tali che l' umana natura non può rassegnarsi a viverne ignara od incerta) oggimai può rispondere sicuramente colui che, collo studio di sè stesso, si è procacciato un' indubitabile certezza dell' immortalità della propria anima. Perocchè è manifesto che ad un essere immortale non sono proporzionati, e non possono convenire, se non beni immortali e divini. Laonde alla ricerca di questi beni prepara ed adduce la Psicologia. Vi sono degli uomini, scienziati nella propria opinione, nel fatto nemici della sapienza, i quali abbondano di rimbrotti contro coloro che levano la mente alle più nobili investigazioni, innalzandosi sopra i sensi. Questi queruli ed accosciati ingegni non si ristanno di rampognare l' industria e la diligenza di quegli alti intelletti, siccome volessero fare l' impossibile e logorassero il tempo in vane speculazioni; chè vane giudicano tutte quelle, le quali procacciano all' uomo la notizia e gli preparano il possesso delle cose eterne, perchè esse non si restringono ad aumentargli i beni temporali. I quali uggiosi hanno certi loro canoni e sentenze, che senza prova alcuna pronunciano siccome indubitabili, le quali cominciano tutte da queste parole: « non si può sapere », o « non si può conoscere ». Una solennissima, mille volte ripetuta, fra cotali sentenze è questa: « non si può conoscere l' essenza delle cose »; e particolarmente: « non si può conoscere l' essenza dell' anima ». Allorquando Zenone impugnava l' esistenza del moto, Diogene non fece altra confutazione che togliendo a muoversi. Noi abbiamo trattato nei cinque libri che precedono, dell' essenza dell' anima, invece di contrastare se quella essenza sia conoscibile. L' argomento di Diogene non era veramente efficace, perchè contrapponeva un fatto fisico a speculazioni metafisiche; ma rimane tuttavia verissimo il principio supposto da quel filosofo, che « ciò che è, non si può dire che sia impossibile ». Laonde noi crediamo, colla prima parte di sopra esposta della Psicologia, nella quale si dimostra qual sia l' essenza dell' anima, di aver guadagnato questo: che d' ora innanzi coloro soltanto potranno dire che l' essenza dell' anima non si possa conoscere menomamente, i quali avranno prima provato che quell' essenza, che noi abbiamo indicata, ripetendo la dottrina che di secolo in secolo pervenne a noi, non è veramente l' essenza dell' anima. E confidiamo che cotesti invidiosi del bene del genere umano, per quanto dicano e facciano, non potranno rapirgli una dottrina così preziosa e di così suprema necessità, sulla quale posa la certezza dimostrativa della vita nostra immortale. Perocchè certo chi ignorasse del tutto l' essenza dell' anima, non potrebbe sapere per ragione ch' ella fosse piuttosto immortale che mortale. Non è dunque insoave, nè di poco momento, il frutto raccolto da questa prima parte della Psicologia, nella quale dall' essenza e dalla natura dell' anima si cavarono indubitabili prove della sua immortale permanenza, a cui s' attengono di necessità eterni destini. I quali destini dell' anima saranno pure in ogni caso eterni, ma non consegue che debbano essere felici. Una necessità di giustizia, evidente a tutti, promette beata sorte solo all' anima virtuosa, la minaccia infelicissima alla viziosa. Ora la virtù, che perfeziona lo stato dell' anima, è opera di lei stessa; come pure ella colle sue proprie operazioni diviene autrice del vizio, che tanto intimamente la guasta e deteriora. Ed è troppo palese che quell' anima, che si è guastata e disordinata da sè stessa, non possa ottenere una condizione egualmente avventurata siccome l' anima che si è perfezionata, aggrandita, nobilitata con sue belle e degne operazioni. L' Etica tratta di queste operazioni, distinguendo, col riferirle alle leggi morali, le buone dalle ree. Ma innanzi di considerarle sotto l' aspetto morale, conviene sieno considerate in sè medesime e nelle attività che le producono. E questo è ciò che intende fare la seconda parte della Psicologia, la quale discorre il naturale sviluppo dell' anima umana, e dimostra come dall' essenza di lei escano le sue varie potenze e molteplici operazioni. Il perchè la seconda parte della Psicologia, che ci resta ad esporre, non porgerà all' uomo studioso un servigio meno nobile della prima, se lo condurrà ad intendere sè stesso in quelle sue interiori attitudini e facoltà, l' uso delle quali convenientemente fatto gli rendono oltre modo desiderabile e caro di avere un' anima immortale, perocchè, arricchendolo di virtù, gli assicurano beati gli eterni destini di essa. Entriamo dunque sicuri ed alacri nella nuova ricerca, che ci siamo proposti.

Psicologia Vol.II

641953
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Imperciocchè, siccome l' anima naturalmente progredisce alle sue operazioni, simigliantemente l' ingegno degli uomini, che si applicano a meditare su di sè stessi, tiene questo naturale andamento e progresso (e lo dimostra la storia della filosofia) di attendere prima ad investigare che cosa sia l' anima, e poscia com' ella si modifichi, che faccia, come lo faccia. Ma corre questa notabilissima differenza tra il progredire dell' anima al suo spontaneo svolgimento nella vita dell' uomo, e il progredire della scienza psicologica per le varie età della vita dell' umano genere, che l' anima, per quantunque si svolga fino agli ultimi atti, non abbandona mai sè medesima, rimanendosi gli atti anche estremi congiunti necessariamente alla radice che li produce; laddove la considerazione e l' attenzione del filosofo, che s' allontana per lungo cammino dal primo argomento, dimentica in fine, per una cotale sua limitazione e stanchezza, la meta onde mosse, la quale è quella stessa a cui dovrebbe pur ritornare. E questa obblivione è il decadere della filosofia, che, abbandonate le essenze delle cose sì avidamente e generosamente cercate al cominciamento, non s' occupa oggimai più che delle loro efficienze e dei loro effetti, i quali, separati dalla loro prima e sostanziale cagione, si rimangono fenomeni vani, apparenze inesplicabili. Il qual fatto rende manifesto il perchè, dopo essere stati periodi fiorentissimi di filosofia profonda, nei quali risplendettero a tutta la terra ingegni nobilissimi, ardimentosi, sublimi, rapiti di divino entusiasmo nella contemplazione del vero, varcando i secoli, accada quello che nel primo aspetto parrebbe impossibile ad avvenire; cioè che lo stesso progresso adduca altri periodi di tempo, ove la filosofia, erede di tanti monumenti, di tante antiche verità, appaia nulladimeno al tutto superficiale, materiale, priva della sua vita, senza una favilla di genio che la riscaldi. E in sì tapino aspetto cenciosa e smemorata, orgogliosa non meno, noi la vedemmo nel secolo XVIII andarsene per le nostre contrade. Al quale miserevole termine, benchè più cause insieme concorse la riducessero, tuttavia prima e profonda causa ci pare quella psicologica che noi accennavamo, di cui le altre sono per avventura effetti e cause seconde. Ci pare che ciò non sia stato per manco di naturali ingegni, compartiti da natura ad ogni secolo con equa mano; anzi, che gli ingegni abbondassero ben lo dimostrano i grandi svolgimenti sociali, allora compiuti, e le naturali scienze, le arti e i commerci fiorentissimi; ma sì per la legge di quel mentale progresso che accennavamo, il quale nell' umanità di generazione in generazione trascorre una serie dei pensieri così ordinata, che il primo anello si ferma alla natura delle cose, e gli altri di mano in mano riguardano le operazioni e gli atti delle diverse nature; di maniera che gli ultimi dal primo lontanissimi, occupando intieramente di sè le menti, le distolgono dagli anteriori, e soprattutto allontanano l' attenzione dal primo di tutta la serie generatore; pel quale allontanamento, rotta la catena delle scientifiche verità, trovasi l' umana scienza esser divenuta, nè ben si vede il perchè, superficiale ed ignobile; e il perchè misterioso è questo, appunto, che gli ultimi veri, le estreme conclusioni non hanno valore, nè stabilità, nè ragione, tostochè al principio immobile non si attengono, cioè alla natura ed all' essenza delle cose. E che alla filosofia del secolo precedente mancasse cotesta fermissima base, ella stessa lo confessava con vanto di sua vergogna. Di niuna cosa si gloriavano più quei filosofi che di « non voler entrare a discutere l' essenza delle cose », pronunciando con presuntuosissima ed orgogliosissima modestia che « l' essenza delle cose è inescogitabile ». La qual massima è il vero principio, il fonte di ogni sapere superficiale (1). Ma quel vanissimo periodo di superficialità filosofica, il che viene anche a dire di materialità e di sensismo, siane lode a Dio, è ora passato, o certo si sta in sul passare; e già ciascheduno sente il bisogno di rannodare la infranta catena, e raggiungerne gli anelli saldamente fra loro dagli ultimi sino al primo. Ad aiutare il quale utilissimo e necessarissimo lavoro, noi abbiamo posto, come meglio potemmo, l' ingegno; e però alla parte moderna della Psicologia che ci resta ad esporre, trattante dello sviluppo dell' anima, noi anteponemmo la parte antica dell' essenza, quasi del tutto dimenticata nei trattati comuni, rifacendola però e ristorandola in modo, se non ci fallì il consiglio, che non dovesse offendere il gusto dei nostri contemporanei. Di che qual vantaggio raccolga la scienza e qual perfezione ella ne acquisti, apparirà nel progresso; ora, senza più poniamo sotto gli occhi dei lettori la principale divisione di questa seconda parte, nella quale entriamo, delle psicologiche ricerche che ci siamo proposti. Volendo noi accuratamente descrivere lo sviluppo dell' anima umana e porgerne la dottrina, due questioni ampie del pari e del pari necessarie ci si presentano: Quali atti, potenze, funzioni, abiti, produca di sè l' anima umana. Quali leggi ella segua in questo suo continuo produrre ed operare. Delle quali ricerche, la prima addimanda un ragionare analitico , perchè ella intende a spezzare, quasi direbbesi, l' essenza dell' anima in tutte le sue diverse attività, ove ella si rifonde; la seconda poi esige una via sintetica , perocchè ella vuole adunare sotto certe leggi universali le maniere del diverso operare, in cui l' anima continuamente si espande, riducendo così la moltitudine infinita degli atti suoi alla semplicità delle norme prescritte loro da natura, dalle quali essi mai non deviano. Di che si scorge che tutta la materia che noi abbiamo alle mani, si distribuisce da sè stessa in due sezioni, la prima delle quali, movendo dall' essenza dell' anima, procede alle sue svariatissime operazioni, quando la seconda muove anzi dalle operazioni di lei per ricondurle tutte nella fine a quell' unità medesima di essenza, ond' elle uscirono, ed in cui riposando si giacciono. Poniamo mano alla prima ricerca delle attività dell' anima umana. Noi ci proponiamo in essa non pure di annoverare quasi storicamente coteste attività, ma più ancora di dedurle, di farle scaturire dalla essenza del soggetto, a cui elle appartengono. Laonde il nostro lavoro di nuovo si biparte in due questioni: « qual sia il modo nel quale le diverse attività sono contenute nell' essenza dell' anima, e da lei si distinguono »; e « quali elle sieno, come queste attività si possano enumerare e classificare ». Dissero gli antichi che le potenze dell' anima non si conoscono che pei suoi atti (1). Anzi si levarono alla sentenza più generale, che [...OMISSIS...] : principio dialettico ed ontologico nobilissimo (2). Quindi l' errore da noi notato di quei filosofi che, parlando dell' anima, dalle potenze, siccome da cosa cognita, incominciarono, invece di muovere dall' osservazione degli atti (3). Perchè dunque, ci si dirà, avete voi tolto in prima d' ogni altra cosa a parlare dell' essenza dell' anima? Rispondo esser vero che gli atti vengono alla nostra cognizione prima delle potenze, tuttavia non prima dell' essenza. Perocchè insieme cogli atti si conosce l' essenza, che negli atti indivisa rimane. Che se l' atto e l' essenza si conoscono ad un tempo, nulladimeno queste due notizie tengono fra sè un ordine logico, pel quale l' essenza è prima conosciuta, e in essa e per essa gli atti accidentali. Veramente è una illusione il credere che si possa conoscere l' atto, senza conoscere in qualche modo l' ente di cui egli è atto, cioè senza riferirlo al suo subbietto. Conciossiachè niun atto possiamo noi percepire, nè conoscere se non come una entità, e però, o dobbiamo pigliare lui stesso per un ente, una sostanza, ovvero dobbiamo pensare qualche cosa d' altro, in cui e per cui egli sia: il che altrove abbiamo dichiarato (1). Noi dunque ci giovammo degli atti, in cui esce l' essenza dell' anima, come di occasione ad acquistare il conoscimento di essa essenza; ma di questa, come di primo e naturale fondamento ad ogni altra cognizione psicologica, dovemmo prima di tutto parlare. Il che dimostra vie più il difetto di quei trattati psicologici, che, od omettono al tutto di ragionare, o ragionano assai leggermente dell' essenza dell' anima come di cosa poco importante ed inutile; ovvero anche dichiarano apertamente non sapere che pronunciarne. Ai loro autori manca oltracciò il principio onde dedurre razionalmente le umane potenze e facoltà; laonde essi non possono altro che venirne facendo una cotale enumerazione empirica, arbitraria, casuale, senza deduzione; non possono mostrarne il nesso e l' unità, che loro si deriva dalla comune origine; non giustificarne il numero; non additarne le intime relazioni, senza le quali cose non si dà una scienza dell' anima. Ancora, come potranno cotesti trattatisti risolvere l' apparente contraddizione fra la semplicità dell' anima e la moltitudine di sue potenze ed operazioni? Riesce facile all' opposto il risolverla, ove si sappia che la essenza dell' anima si sta unicamente nell' essere ella primo principio di sue operazioni; e di più, che un principio reale può avere un' unica attività idonea a produrre più effetti. Ma noi sappiamo ancora che un ente, un' entità o più entità, possono inesistere in un altro ente, qualora questo secondo sia di natura spirituale, al contrario di quanto accade nelle reciproche relazioni dei corpi, la cui natura è di essere impenetrabili. Abbiamo trovato questa verità ontologica importantissima, considerando immediatamente il fatto con quella osservazione intellettiva, che sola somministra i primi dati della scienza. Dalla quale poi ce n' è venuta la dottrina dell' individualità, perocchè un principio s' individua in virtù delle relazioni attive, passive, ricettive, che egli mantiene con ciò che ha in sè di straniero, e più generalmente con ciò che è suo termine. I quali veri discoperti, ci condussero a disaminare quali termini e quali entità straniere inesistano nell' anima semplicissima, e la costituiscano in gran parte coll' individuarla; trovate le quali entità ed accuratamente descritte ed annoverate, elle ci spiegano siccome avvenga che l' unica virtù dell' anima riferita ad esse, che sono più, si vada moltiplicando, e così apparendo anch' ella molteplice nei suoi atti ed effetti, senza nulladimeno cessar mai di essere unica in sè stessa, cioè nel principio che ne forma l' essenza. Laonde nella medesima essenza dell' anima rinvenimmo tutti gli elementi, che occasionano e spartono le attività di lei, tutti i germi di sue potenze. Perocchè noi vedemmo che nell' anima umana trovano loro sede permanente queste entità da lei diverse, e a lei in diverse intime relazioni connesse: 1 l' essere ideale , unito a lei per via d' intuizione; 2 l' animalità , a lei copulata per una fondamentale ed immanente percezione. Nell' animalità medesima distinguemmo più elementi: 1 un principio sensitivo , che contiene anch' esso altre entità straniere, a cui egli si lega con sue proprie relazioni; 2 l' esteso corporeo , contenuto nel detto principio colla relazione immanente di sensilità; 3 la materia , ossia una virtù che non agisce immediatamente sul principio sensitivo, ma sull' esteso corporeo, e violentemente lo immuta, onde mediatamente si fa sentire allo stesso principio sensitivo. Ed ecco qui nel seno dell' essenza dell' anima tutte le radici della umana attività; ecco la ragione di tutte le varie potenze e facoltà; le quali per quelle loro radici sono distinte e determinate a dover essere piuttosto queste che quelle, tante, e non una di più, non una di meno. Tale è la deduzione delle potenze umane dalla stessa essenza dell' anima; l' essenza perscrutata a fondo somministra dunque il principio della loro legittima deduzione. Ma qui, prima d' innoltrarci più avanti, posciachè lo sviluppo dell' anima è un cotal movimento che la conduce da uno stato ad un altro, ciò che in essa si giace in potenza uscendo al suo atto, appare dover essere necessario ed utile il chiarire le stesse nozioni di potenza e di atto , e ancor prima quelle di materia e di forma , provvedendo altresì che l' imperfezione del linguaggio filosofico non c' impedisca il passo, siccome sterpo che trova il piè tra via, o non trattenga la mente di chi prende con noi il faticoso e pure ameno viaggio di queste investigazioni, dal tenere la diritta via, senza che, trasviata dagli equivoci, si smarrisca per avventura a destra od a sinistra. La parola atto significa ogni entità; e sotto questo aspetto ella non si può definire, ma si deve supporre conosciuta (1); però non significa l' entità mera, ma con di più la relazione mentale alla potenza . Ora, la mente è condotta a questa distinzione fra atto e potenza dall' esperienza che ella prende delle cose contingenti, colle quali trovasi in comunicazione. Toglie dunque questa distinzione dalle realità finite, che cadono sotto ai sentimenti, la trova nel sentimento stesso, il quale è realità. Di che apparisce che l' uomo non potrebbe mai dedurre a priori cotale distinzione dall' « essere ideale », che egli intuisce per natura senz' altro aiuto; perocchè l' essere ideale, dall' uomo intuìto, fa conoscere l' essere puro , non per sè solo il modo dell' essere, non l' ordine che l' essere interiormente contiene; il quale ordine appartiene del tutto alla realità , che si esperimenta nel sentimento (2). Di qui è che l' ordine interiore dell' essere non si rivela mai tutto all' uomo; perocchè l' uomo, essendo un reale limitato, non comunica se non con una parte della realità, e con essa in modo limitato (3). E questo è ciò che limita essenzialmente la cognizione umana, e che impone al filosofo di proporre le dottrine ontologiche, che meditando raccoglie, colla modestia che si addice all' essere umano, « cioè non pretendendo di descrivere a fondo tutto l' essere e tutto l' ordine dell' essere, ma sapendo e confessando di non abbracciare col suo pensiero più di una particella di quest' ordine immenso, quella che fu data a conoscere alla umana intelligenza ». La quale modestia è religioso dovere di ogni uomo, come uomo; quanto più dell' individuo umano, per quanto si voglia fornito di eccellente intelletto, il quale deve pur credere, se non folleggia, di rimanersi ancora colle sue investigazioni molto al di qua dal segno, a cui può giungere l' intendimento della sua specie? Consapevoli noi adunque di raccogliere quei soli elementi dell' ordine dell' essere, che sono presentati al nostro conoscere in quella limitata porzione di realità , che ci è data quaggiù a percepire e sperimentare, e anche ciò quanto le forze della nostra individuale intelligenza lo consentono; dobbiamo di questi, quasi frammenti di dottrina, comporre quella ontologia imperfetta, che sola all' uomo e a noi particolarmente è conceduta. Ora, la realità comunicataci sta compresa nel sentimento nostro; dove, come dicemmo altrove (1), quasi sopra scena apertale innanzi, può la mente cogliere gli esseri reali; e tutti quelli che su questa scena del sentimento non si rappresentano, ella non può in modo alcuno percepire, nè riconoscere come sieno fatti. Conviene dunque che ci domandiamo: quali sono quelle realtà che si comunicano a noi nella realtà nostra? Già noi trovammo che esse si riducono a tre, le quali sono i corpi, l' anima in quanto è sensitiva in modo corporeo, e la stessa anima nostra in quanto è intellettiva. Ecco le uniche realità a noi percettibili . Oltre di queste tuttavia noi abbiamo ancora l' idealità che è intuibile, ed è il mezzo col quale conosciamo per via di percezione le dette realità . Come dunque tutte le nozioni ontologiche che riguardano l' ordine dell' essere , così medesimamente le nozioni di materia e di forma , di potenza e di atto , noi dobbiamo cavarle dall' esperienza che abbiamo della materia, del sentimento animale e del sentimento intellettivo; le quali realità, essendo tutte finite e contingenti, dar non ci possono che nozioni appartenenti all' ordine dell' essere finito e contingente; che di conseguenza non si adeguano all' essere infinito se non per un cotal modo di analogia, che altrove più chiaramente dichiareremo. Prendiamo ad esaminare le condizioni di quell' ente che si chiama corpo; il che noi faremo accennando e rimettendo pel di più i lettori all' Antropologia , dove ampiamente se ne ragiona. Ma primieramente s' avverta che noi dobbiamo considerare il corpo tale quale a noi immediatamente si rappresenta; perocchè questo solo significa il vocabolo corpo , e non altro. Che se pur vogliamo col raziocinio argomentare che ciò che noi percepiamo supponga qualche altra virtù antecedente o entità, causa del percepito, conviene ricordare che noi abbiamo riserbato a questo immediato principio del corpo, che non cade nella percezione, ma sembra nascondersi quasi giocolatore dietro alla parete, la denominazione di principio corporeo (1). Non dunque da questo essere occulto, ma dal corpo percettibile noi dobbiamo cavare le nozioni ontologiche, che andiamo cercando. Nell' Antropologia fu distinto il sensifero , che è la causa prossima delle sensioni corporee, dal sentito o sensibile, che è il termine esteso e proprio del sentimento. Ma ivi si raccolse sotto la denominazione di sensifero tanto quella virtù, che produce immediatamente il sentito nel sentimento fondamentale, quanto quella virtù che, operando nel sentito fondamentale, lo immuta e così occasiona la sensazione. Dovendo ora noi spingere l' analisi più innanzi, ci è necessario distinguere queste due virtù (che pur si riducono alla stessa attività che opera in due modi, come vedremo) mediante due vocaboli, e però riserbando la denominazione di sensifero alla virtù che soggiace al sentito del sentimento fondamentale, chiameremo forza esterna quella che altera il sentimento fondamentale medesimo, provocandovi la sensazione passeggera. Ora, dichiarata così la maniera di parlare che seguiremo in appresso, diciamo che la percezione del corpo ci somministra tre entità strettamente connesse: 1 un sentito esteso; 2 un' attività, che concorre a produrre immediatamente quell' esteso sentito nell' anima, ossia il sensifero; 3 una forza straniera, che con violenza immuta il sentito esteso. Il concetto di sentito esteso, unito a quello di sensifero, è propriamente il concetto di corporeità , laddove il concetto di agente, che immuta il sentito, è il concetto di materialità . Il sentito esteso si percepisce come una cotal proprietà del sensifero, e con esso forma il nostro proprio corpo; se non che noi non gli imponiamo il vocabolo di corpo, se non quando siamo giunti a conoscere la sua solidità; e non ne conosciamo la solidità, se non aggiungendo all' esperienza soggettiva del sentito esteso i dati dell' esperienza extra7soggettiva , per la quale percepiamo i confini del nostro proprio corpo mediante le sensazioni superficiali (1). Ma in ogni esperienza extra7soggettiva , oltre percepire il nostro corpo, noi percepiamo anche la forza straniera, ossia la materia; perocchè sentiamo un impulso che muta il nostro sentimento corporeo, di maniera che nello stesso luogo dove nasce la nuova sensazione, ivi appunto percepiamo un agente estraneo al nostro sentire, il quale non si fa conoscere per alcun' altra proprietà che per questa virtù d' immutare il nostro sentito. Di più, ben presto ci accorgiamo che il sensifero, immediata causa del sentito in noi, ha la virtù di immutare con violenza qualche altra parte del sensifero, e così qualche altra parte del nostro sentito medesimo; di che concludiamo che il nostro proprio corpo è materiale , ossia che ha la stessa proprietà della forza straniera di operare con violenza. Ma pur questa non parrà una rigorosa dimostrazione della identità della forza straniera e del sensifero, potendo concepirsi nello stesso luogo due entità diverse, il sensifero e la forza straniera, e spettare al primo la produzione del sentito, alla seconda l' immutazione violenta del sensifero; fra le quali entità la sapienza creatrice avesse posto una armonia di operare così ammirabile, da manifestarsi entrambe nel luogo medesimo, simultaneamente, con certe leggi. Perocchè, quantunque il sensifero producendo il sentito si dimostri essere un agente sul principio senziente, che è l' anima, tuttavia la sua azione è grandemente diversa da quella che viene esercitata sull' agente stesso, e lo fa operare sull' anima in modo diverso. Pare adunque che qui intervenga una serie di quattro termini: l' anima , che al suo modo è passiva; il sentito , che è prodotto nell' anima; il sensifero , che lo produce; una forza straniera , che immuta il sensifero, la quale si manifesta ora nel luogo stesso dov' è il sentito e il sensifero, ora in luogo diverso. Dai quali quattro elementi noi certo raccogliamo ogni concetto di corpo e di materia, che abbiano gli uomini. Cerchiamo, adunque, se fra il sensifero e la forza straniera vi sia o no quella identità di sostanza che parrebbe, considerando l' identità del luogo che occupano, e non parrebbe, considerando la diversità dell' effetto. Acciocchè la ricerca proceda con ordine, nè lasci indietro difficoltà atte a intralciare il ragionamento, o turbare l' attenzione di chi con noi ragiona, cominciamo a ben notare la differenza fra l' anima ed il sensifero. Primieramente l' azione dell' anima, movente il proprio corpo, deve essere immediata almeno su qualche parte di esso, perocchè si deve trovare un luogo nel corpo nostro, dove il primo moto venga comunicato. Infatti, supponendo anche che noi moviamo la mano mediante il movimento dei nervi, che per essa si allungano, e che il movimento impresso a questi nervi si comunichi longitudinalmente, conviene in fine ricorrere ad una o più estremità nervose, alle quali da prima il moto sia comunicato dalla stessa anima. In secondo luogo, si consideri che l' azione dell' anima sul corpo non ha per suo termine immediato il sentito , ma il sensifero , ossia la forza che produce il sentito. Poichè il sentito stesso non si cangia, se non cangiandosi, ossia movendosi, la virtù o forza che immediatamente lo produce; giacchè il sentito , essendo passivo, suppone un sensifero che con azione immanente o transeunte lo produca. Ma il sensifero si dà a noi a percepire in tre modi: Quale immediata cagione del sentito, e come tale agisce immediatamente sull' anima, senza alcuna violenza, perchè la violenza è quando l' azione, che si fa sull' anima, è in opposizione all' azione spontanea dell' anima stessa, e nel sentito l' anima concorre anzi con quella prima spontaneità, che abbiamo chiamata istinto vitale (1). Quale ricevente l' azione dell' anima, che lo immuta. Infatti, quando l' anima, a ragion d' esempio, colla fantasia produce a sè stessa un' interna sensione, ossia immagine, allora essa opera sul sensifero e lo modifica in modo che le produca quell' immagine, o che cessando di produrre un' immagine ne produca un' altra; e in tutte quelle azioni, colle quali l' anima produce a sè stessa nuovi sentimenti corporei, o li cangia (il che ella fa col movimento del proprio corpo), l' anima, immutando il sensifero, immuta il sentito dal sensifero immediatamente in essa prodotto (2). Il quale fatto pure accade senza violenza rispetto a ciò che riguarda l' azione immediata dell' anima, perocchè il mutamento, che avviene nel sensifero, lungi d' essere opposto all' azione spontanea dell' anima, è ad essa conforme. Ora che questo sensifero, immutato dalla azione immediata dell' anima, sia identico al primo è manifesto; perocchè egli è quello appunto che produce immediatamente i sentiti dall' anima. O quale ricevente l' impulso d' una forza esterna, che lo immuta con violenza, senza che l' anima da principio vi concorra colla sua spontaneità; la quale, essendo sempre attiva, se non concorre alla azione, già per questo solo le è opposta (3). Ora qui, in questi due ultimi casi, già noi scorgiamo la differenza che passa fra l' anima ed il sensifero , essendo quella attiva, e questo passivo. Vediamo ancora la differenza che passa fra l' anima e la forza straniera; poichè, quantunque tanto l' anima, quanto la forza straniera abbiano virtù d' immutare il sensifero, tuttavia questa è azione violenta , e quella spontanea; il che è quanto dire che l' anima umana nel primo caso ha la coscienza di essere ella che opera; nel secondo ha la coscienza di essere passiva da un agente diverso al tutto da lei. Ora, se si considera che il sensifero, che produce immediatamente il sentito, viene immutato da due agenti, l' uno dei quali è l' anima, e l' altro è una forza totalmente all' anima straniera, s' intende primieramente non essere ripugnante che questa stessa forza straniera abbia un principio spirituale; giacchè anche l' anima è un principio spirituale, e tuttavia ella ha virtù di operare e di mutare il sensifero producente il sentito, senza che a ciò ponga ostacolo l' estensione del sentito, la quale estensione ha di natura sua l' esistere nel semplice (1). Ma dell' operare dell' anima noi conosciamo non solo il termine che vediamo esteso, ma ancora il principio che riconosciamo semplice; laddove noi non conosciamo la forza straniera che nel suo termine, e non ne percepiamo il principio, conciossiachè non la percepiamo che nel sentito , il quale rimane da lei mutato. Percependo adunque questa forza nel suo effetto, che è l' immutazione del sensifero, causa immediata del sentito, non possiamo determinare la natura del suo principio stando alla sola percezione che noi ne abbiamo; cioè non possiamo affermare che ella sia spirituale, ma possiamo bensì affermare che non ripugna che sia. Lasciando dunque da parte per ora la questione: « che cosa sia in sè stesso il principio di questa forza immutante il sensifero, causa immediata del sentito », passiamo all' altra: « se si possa provare l' identità di questa forza straniera colla forza immediatamente sensifera ». Noi abbiamo osservato che ciò che è immediatamente sensifero, in quanto egli è tale e non in quello che può essere in sè stesso, presenta l' estensione commisurata perfettamente a quella del sentito, che produce nell' anima (2); il che di nuovo prova che il sensifero, come precisamente tale, non è l' anima, la quale è semplice. Ora lo stesso argomento prova altresì che anche la forza esterna, che immuta ciò che è immediatamente sensifero, deve avere l' estensione ed una estensione medesima, anzi identica a quella del sensifero immediato; ancora prova che neppure la forza esterna, in quanto è precisamente tale, è spirito. Ma l' identità dell' estensione non è propriamente l' identità della forza, poichè la identità della forza non si può desumere che dall' identità dell' effetto; e qui l' effetto è diverso, poichè l' effetto del sensifero immediato è quello di produrre il sentito, laddove l' effetto della forza esterna è quello di mutare il sensifero. Converrebbe dunque giungere a dimostrare che anche la forza esterna ha virtù di produrre immediatamente il sentito, ed allora solo si sarebbe trovata la dimostrazione della cercata identità. Ma per questa via non si va molto innanzi. Vero è bensì che, se una parte del mio proprio corpo agisce sopra un' altra parte, sorge una sensazione in un modo del tutto simile a quella che sarebbe prodotta da un corpo esterno, ossia dalla forza straniera. Chiamo mio proprio corpo, come è chiaro, quello dove sento, dove è continuamente prodotto un sentito (fondamentale). Dunque nello stesso luogo dov' è il sentito, vi è una forza che produce lo stesso effetto della forza esterna, cioè che immuta ciò che è immediatamente sensifero. Possiamo dunque intanto raccogliere che questa forza è della stessa natura della forza esterna, giacchè abbiamo detto che la natura identica di tali forze si desume dall' identità degli effetti. Un altro effetto identico si trova ancora in queste due forze, ed è che tanto il mio corpo, quanto il corpo esterno, producono effetti eguali sopra un terzo corpo esterno. Ma circa l' identità del sensifero e di questa forza straniera e violenta rimane sempre il dubbio, che dicevamo prima, non forse nello stesso luogo dov' è il sentito vi fossero contemporaneamente due forze diverse, l' una sensifera, l' altra immutante il sensifero, e che questa seconda fosse identica alla forza esterna, e non la prima. Conviene dunque prendere un' altra via a dimostrare che è identica la forza sensifera e la forza immutante il sensifero; non provando tutto ciò se non l' identità dello spazio che occupano, e la inesistenza della stessa forza straniera nel sentito. Andiamone in cerca. Tutta l' azione dell' anima sensitiva ha per suo principio formale il sentito; comincia dunque nel sentito; quella stessa spontaneità con cui concorre a sentire, è quella che ha virtù d' immutare il sensifero (1). Ritenuto adunque che la sua azione non può eccedere il sensifero, perchè non può eccedere il sentito, a cui quello inerisce come causa prossima o formale, converrà vedere se l' anima possa anche mutare immediatamente la forza straniera od esterna. Perocchè se l' anima coll' immutare il sensifero immuta anche la forza straniera, converrà dire che il sensifero e la forza straniera sono identici, cioè sono attività d' un medesimo subbietto. Ora così appunto avviene; perocchè l' anima non muta mai il proprio sentito, se non per via di movimento prodotto nelle parti del corpo. Ma il movimento è un fenomeno appartenente alla forza straniera. Se dunque l' effetto dell' anima non può eccedere il sensifero, e tuttavia ella immuta la forza straniera, convien dire che la forza straniera e il sensifero sieno identici, ossia appartengano allo stesso subbietto sostanziale. Questa prova è fondata sul principio che, « se l' effetto di un' azione, determinato e limitato ad una entità, apparisce anche in un' altra entità, conviene dire che le due entità sono identiche di sostanza » (1). Un altro argomento, appoggiato allo stesso principio, si trae dal considerare che s' intende bensì come la forza esterna, nella quale non si conosce né sentito, nè sensifero, possa produrre il movimento, che non è che uno spostamento della stessa forza esterna, ma non s' intende poi come ella possa agire sul sensifero, senza supporre che il sensifero formi una stessa sostanza colla forza straniera. Infatti, l' immaginare che la forza straniera produca due azioni così diverse come sono: I spostare un' altra forza esterna (moto); II e immutare il sensifero; sarebbe confondere in uno due concetti di forze affatto diverse, e quindi un mutare il concetto della mera forza straniera, e moltiplicare questa in due forze, le quali si debbono escludere anche pel principio che vieta moltiplicare gli enti senza necessità. Conviene dunque dire che la forza esterna in questi due effetti così diversi operi sopra una stessa sostanza, e però il sensifero e la forza esterna siano identici di natura. Un terzo argomento ci è somministrato dalla vita dei primi elementi, che noi crediamo di aver munita di sufficientissime prove. La quale ammessa, toglie via dalla radice la difficoltà; perocchè non vi è più una forza meramente straniera, ma ogni forza straniera è divenuta sensifera. E questa stessa conseguenza sembra una nuova prova di quella nostra sentenza. Ma supponendo il contrario, supponendo che una parte della materia non sia animata, è ancora argomento, atto a provare l' identità del sensifero e della forza straniera, il fatto dell' animazione che in questa ipotesi la materia bruta riceve; scorgendosi che quella stessa forza straniera, che prima non presentava altri fenomeni che quelli dello spostamento di un' altra porzione di simile forza, diviene ella stessa sensifera. E che sia ella stessa quella che diviene sensifera, si deduce da questo, che quando la forza bruta immuta ed altera il sensifero per mezzo di un certo contatto, ben presto il sentito si distende a lei; e poichè dov' è il sentito, ivi è il sensifero, quindi dove è la forza bruta, appariscono pure i fenomeni del sensifero. E` vero che hoc post hoc, ergo propter hoc , non è valido argomento; ma se si unisce questo argomento al primo, e si considera che la forza bruta diviene così in potere dell' anima, la dimostrazione riesce rigorosa. Un quarto argomento si può trarre dalla natura del contatto . Se due forze estese fossero semplicemente di posizione contigue, non si potrebbe ancor dire esservi fra esse contatto. Il concetto del contatto suppone un' azione reciproca delle due forze, la quale, trattandosi di forze brute, si manifesta col fenomeno della coesione. Ma se si applica una forza bruta ad un nervo, l' effetto di questa coesione, od anche impulso, è la sensazione . Sia pure che la sensazione nasca per un movimento intestino dell' organo sensorio, ma questo movimento non potrebbe nascere, se il movimento della forza bruta non fosse passato nel sensifero, il quale così produce l' alterazione nel sentito. Se dunque il sensifero comunica colla forza bruta per via di moto, e ne riceve l' azione, uopo è che sia anch' egli un esteso capace di moto e di impulsione; al che si riduce appunto il concetto della forza bruta, ossia straniera. Questi argomenti provano l' identità di sostanza fra la forza straniera (materia) e il sensifero, il quale ha concetto di corpo animato, laddove la forza bruta non presenta che il concetto di corpo inanimato. Ora qui, dopo aver veduto il rapporto d' identità che ha quello che è immediatamente sensifero, con quello che da prima si presenta alla nostra esperienza come pura forza straniera o bruta, vediamo come tanto il sensifero , quanto la forza bruta , siano, quasi direi, vestiti del sentito; sicchè il sentito si mescoli col sensifero, e se ne abbia il concetto di corpo, e colla forza bruta, e se ne abbia il concetto di materia . Quanto al sensifero, è manifesto come egli debba apparire vestito di sensazione, dappoichè, essendo il sensifero l' immediata e prossima cagione del sentito, egli è presente dovunque v' è il sentito medesimo, e da lui indiviso e termine dell' atto dell' agente che lo produce. Ma riesce alquanto più difficile intendere come questa unione intima ed individua nasca fra il sentito e la forza straniera o bruta; il qual nesso non è mai considerato abbastanza. Primieramente questo avviene perchè l' anima, immutando il sensifero, lo immuta là appunto dov' egli è, cioè nello stesso luogo che tiene il sentito (1). Questa identità di luogo fa sì che il sensifero appaia necessariamente vestito dell' estensione stessa, e delle qualità del sentito. Ora, alla forza straniera e bruta, che produce le sensazioni, s' unisce individualmente il sentito per una ragione simile, e di esso si veste. Perocchè, quando l' immutazione del sentito viene da un principio straniero all' anima, allora questa forza non si sente che dov' è il sentito, che ella immuta. Quindi è pel luogo stesso, in cui ella agisce, che il sentito si unisce a lei; ed ecco la cagione, per la quale noi attribuiamo alla materia esterna il colore, il sapore, il gusto e tutte le qualità seconde, che a dir vero sono nostre proprie sensazioni, o per dir meglio, sono il nostro sentito. Ma in questo sentito, manifestandosi la forza straniera, del sentito e di lei facciamo una cosa, poichè percepiamo le due entità coll' atto stesso e nell' identica estensione. Quando poi i corpi esteriori cessano dall' agire sui nostri corpi, noi non li possiamo immaginare se non a quel modo nel quale ci comparvero nell' atto del percepirli; perocchè la percezione di essi è l' unica nostra maniera originale ed immediata di conoscerli. Quindi ad essi, anche separati dai nostri sensi, diamo le qualità sensibili, delle quali noi li abbiamo investiti nell' atto della percezione; poichè la memoria di essi non è che la memoria della percezione. Quando i corpi esterni sono già staccati e separati dal nostro sentito, non più nell' atto di agire in esso, noi allora li consideriamo come agenti in potenza . Ora, come li immaginiamo noi separati? Che cosa vuol dire separati dal nostro sentito? Vuol dire esistenti in altro luogo diverso da quello in cui esiste il nostro sentito; il che accade per cagione del movimento, come abbiamo dichiarato nell' Ideologia e nell' Antropologia. E tuttavia, quantunque noi li pensiamo esistenti non più nel luogo del sentito , ma in altro spazio, immaginiamo però che abbiano portato seco il nostro medesimo sentito, per la ragione detta, che nel primo percepirli occupavano lo stesso luogo del sentito, e ne abbiamo percepita la forza insieme con questo, con un atto solo di percezione. Ma perocchè il considerarli in potenza ad agire su di noi, e il considerarli vestiti e accompagnati dal sentito è cosa contradittoria, perciò i filosofi col ragionamento spogliano giustamente i corpi7materiali delle qualità sensibili in atto, e non le lasciano loro che in potenza; concepiscono cioè i corpi come agenti, atti a modificare il nostro sentimento in modo da produrre le sensazioni, ma non già aventi seco il colore giallo o verde, il sapore agro o dolce, il suono acuto o grave, ecc.. E tuttavia è difficilissimo a fare questa separazione colla mente nostra; perocchè la potenza non è determinata e conosciuta se non dall' atto che essa produce, onde è necessario che noi riferiamo sempre la potenza materiale alla sensazione, ossia al sentito, se vogliamo pure formarcene un concetto determinato; riferir poi la potenza di modificare il sentito al sentito medesimo non possiamo, se non pensando la potenza congiunta a questo nell' atto di modificarlo, e però in quel modo stesso nel quale noi l' abbiamo da principio percepita e conosciuta come tale; il qual modo importa che la potenza sia in atto, unita individualmente al sentito per l' identità del luogo. Quindi ci tornano sempre i corpi a riuscire colorati, sonori, saporosi e delle altre maniere di sentito rivestiti od accompagnati, anche quando noi ce li immaginiamo chiusi in un armadio, dove non entra raggio di luce, né da essi può venire a noi alcuna sensazione; e il filosofo stesso difficilmente si libera da una cotale immaginazione. Ma in appresso, facendoci la riflessione conoscere che queste qualità non possono essere annesse ai corpi separati dal nostro sentito, si ritorna colla ragione a concepirli da esso divisi, e così l' uomo si forma finalmente il concetto d' una materia7bruta, inanimata, priva di sentito (1). Nè basta; il sentito è opposto al senziente, ma si trova nel senziente, altrimenti non sarebbe sentito. Ma la forza corporea esterna che modifica il sentito, quando è separata da questo, è meramente in potenza d' agire, non è nè sentito, nè senziente; ella rimane dunque una mera potenza . Quindi se si osserva attentamente il ragionare degli uomini intorno ai corpi, facilmente si scorge che essi usano alternativamente di due concetti di essi, senza accorgersene; talora parlano della materia come di cosa inanimata, a cui non danno punto di ciò che appartiene a sensazione; altre volte attribuiscono al corpo sensibili qualità, come fosse sentito in atto, senza pensare che il sentito è nel senziente, e che se si dà ad un ente il sentito, forza è dargli ancora un principio senziente. Ma la mera potenza è un concetto, che non racchiude alcuna relazione se non all' atto o effetto che ella produce, relazione esterna a lei; dunque la potenza da sè sola non racchiude l' atto del proprio sussistere . Ora niuna cosa si può concepire dall' intelletto, se non si concepisce l' atto pel quale ella sussiste, pel principio di cognizione . Dovendo dunque l' intendimento concepire una potenza di modificare il sentito, e non potendo egli dare a questa potenza nè l' atto onde sussiste il sentito, perchè separata da questo, nè l' atto onde sussiste il senziente, perchè aliena affatto dall' attività senziente; trovasi obbligato di supporre nella potenza di modificare il sentito un atto suo proprio, altrimenti non la potrebbe concepire. Ma questo atto non si conosce punto, nè egli è termine di alcuna percezione, altrimenti non si avrebbe più il concetto della potenza, ma d' un atto; dunque l' atto è meramente supposto in virtù della legge dello stesso intelletto; nè questa supposizione è tuttavia senza ragione o meramente soggettiva; anzi si fa per logica necessità, cioè pel principio di cognizione , come dicevamo (1); pure quell' atto di sussistere rimane una cosa del tutto incognita, di cui non si sa altro che l' esistenza. Ebbene, questo atto così concepito per via di supposizione, è la sostanza materiale , la cui esistenza riesce certa per logica necessità, ma la sua natura rimane occulta. Tuttavia l' uomo determina questo occulto da lui scoperto, in modo da non poterlo confondere con altra entità, mediante la sua relazione; perocchè egli sa che una tale sostanza, o atto di sussistenza, è il soggetto di quella potenza che immuta il sentito come sensifero, e che immuta il sensifero come forza straniera; essendo il sensifero e la forza straniera potenze, che convengono nella medesima sostanza, come fu dimostrato. Il principio di sostanza può prendere anche questa enunciazione, più comoda al nostro presente ragionamento: « Un atto, che passa in un ente, non può essere concepito senza un altro atto fisicamente anteriore che non passa; e questo atto che non passa è la sostanza, per la quale esiste l' atto che passa ». L' atto, che non passa in un ente, chiamasi anche atto primo, ed è l' atto per cui tutto l' ente (l' essenza piena) sussiste. L' atto che passa dicesi atto secondo. Come conosciamo l' atto che passa? Percependo l' effetto che egli produce in noi, il quale effetto ci si presenta come passivo. Così il sentito, che esperimentiamo in noi stessi, è una passività nostra, un modo nostro che ci viene imposto, il quale suppone l' atto che ci produce quella passività, o che c' impone quel modo; e tale atto è il sensifero. Ma il sensifero, come tale, esprimendo un atto che passa, ed essendo pure un atto che passa quello della forza straniera che immuta il sensifero, e quello che immuta la forza straniera, tutti questi tre atti non si possono concepire se non supponendo un atto primo, che è la sostanza; i ragionamenti poi, che prima abbiamo fatto, dimostrano che tutti e tre quegli atti appartengono ad una medesima sostanza; la quale è la sostanza dei corpi. Solamente qui conviene avvertire, che non si deve già credere che la mente passi dal sentito al sensifero, dal sensifero alla forza straniera, da questa ad un' altra forza straniera, e finalmente a trovare la sostanza per via di raziocinio; no, anzi con un solo atto semplicissimo, quale è la percezione , ella abbraccia contemporaneamente tutti questi termini, e comincia a conoscerli ed a conoscere il corpo, solo quando li ha abbracciati tutti e non prima, siccome abbiamo dichiarato nel Nuovo Saggio , ed altrove (1). La sostanza materiale, ossia l' atto primo, è adunque un quid incognito, di cui non si conoscono che gli atti secondi (il sentito, il sensifero, e la forza straniera). Ma l' atto primo, l' ente materiale supposto a tutta ragione dalla mente, non essendo per noi determinato che dai suoi atti secondi, noi lo pensiamo individualmente con questi unito. E poichè l' effetto di questi atti secondi sono i sentiti, il cui modo è l' estensione, perciò noi uniamo individualmente questi effetti, benchè prodotti in un altro ente, cioè nel senziente ossia anima, agli atti secondi, e quindi anche alla sostanza materiale; la quale ci riesce così estesa e fornita di tutte le qualità sensibili. Ma qui è da considerarsi bene la differenza fra l' estensione e le sensazioni . Noi abbiamo definita l' estensione « « il modo del sentimento corporeo »(1) »; tale infatti ce la presenta l' osservazione, che ne coglie il concetto alla sua origine, « « giacchè la vera natura degli oggetti del nostro pensiero non si rileva, se non risalendo alla prima origine della formazione dei loro concetti » ». Quindi anche l' estensione misurata appartiene al sentimento, e da questo non si divide che per astrazione. Come dunque l' abbiamo noi posta fra le qualità primarie del corpo, cioè fra quelle che ce ne somministrano l' essenziale concetto? (2). E` da confessare che se noi spogliassimo il concetto di corpo da ogni sentito, noi con questo stesso lo spoglieremmo anche della sua estensione; perocchè la sua estensione non si pensa che come il modo del sentito, e però come sentita. Ma in tal caso ci svanirebbe affatto di mano il concetto di corpo e di materia, quale tutti gli uomini lo si formano ed esprimono con quei vocaboli. Noi all' incontro ci proponemmo sempre « di parlare delle cose, quali l' uomo le percepisce e le esprime »; giacchè, dovendo usare i vocaboli comuni, e quelli esprimendo le cose concepite dal senso comune degli uomini, che si fonda sulla percezione, qualora noi volessimo adoperare quei vocaboli a significare altro, ne falseremmo il significato, e introdurremmo equivoci senza fine, e questioni in cui non ci sarebbe più possibilità d' intenderci. Quindi noi già definimmo il corpo « « la causa prossima delle sensazioni e il subbietto delle qualità sensibili »(3) ». Secondo questa definizione il corpo è il sensifero, identico, come abbiamo veduto, alla forza straniera. Ora al sensifero, come causa prossima delle nostre sensazioni, benchè si spogli delle qualità sensibili, forza è attribuire la estensione; perocchè noi lo consideriamo per tutto là, dove è il sentito; ma il sentito è esteso, dunque la sua causa prossima deve essere « una virtù che, quanto al suo atto, si diffonde nella estensione medesima del sentito, essendo l' attivo dov' è il passivo ». Questa è la dimostrazione da noi data dell' estensione del corpo (4). Si opporrà che il sensifero, non essendo proprio la sostanza, ma un atto della sostanza, che si conosce a cagione del suo termine, e corpo essendo un nome sostantivo, cioè esprimente sostanza, non si può attribuire al corpo (sostanza) quell' attributo che appartiene al termine della sua azione sensifera. A cui noi rispondiamo, che noi pigliamo il sensifero come sostanza, pel bisogno che abbiamo di far ciò volendolo concepire; il che non ci autorizza ad aggiungere, nè a togliere nulla al sensifero. L' aggiunta non è, non deve essere se non puramente il mezzo di conoscere, deve essere puramente quanto a noi basta per arrivare a percepire intellettivamente il sensifero come ente . Ci rimane dunque il concetto di corpo, quale ce lo dà la percezione e quale viene nominato dalla parola, tutto racchiuso nel sensifero; al quale, come vedemmo, appartiene il concetto di « forza operante nella estensione, e però estesa ». Ma se dopo di ciò noi colla riflessione vogliamo salire più su, troveremo benissimo che l' ente subbietto della virtù sensifera, considerato in sè stesso e non come lo percepiamo, potrebbe essere un ente inesteso; e ciò anzi s' induce al vedere che l' estensione appartiene originariamente al sentito e al senziente, e però all' inesteso (1). Ma in tal caso noi non avremmo già più in mano il concetto di corpo, ma di altra cosa che non percepiamo, e che nominammo principio corporeo . Fin qui abbiamo sufficientemente dichiarato che cosa sia corpo , tale quale la percezione ce lo somministra, come sensifero e come forza straniera. Abbiamo veduto come questa forza, o si manifesti come sensifera o come straniera, si dà a percepire a noi per estesa nel termine della sua operazione; e come è per questa estensione che chiamasi corpo (sensifero), o materia bruta (forza straniera). Abbiamo veduto come questa forza estesa venga rivestita delle qualità sensibili, e propriamente del sentito. Abbiamo veduto finalmente come la meditazione filosofica salga dal corpo ad un principio corporeo , che è la cagione incognita producente il corpo, quale da noi si percepisce. Possiamo dopo di tutto ciò passare a dichiarare come nascano i concetti opposti di forma e di materia , i quali non sono alieni dal senso comune, e di cui i più antichi filosofi, generalizzandoli, fecero sì grande uso nelle loro filosofie. A far questo convenevolmente ci bisogna primieramente osservare in che modo diverso noi vestiamo il corpo (secondo il concetto datoci dalla percezione) di estensione e di sentito . L' estensione misurata, noi abbiamo detto, è il modo del sentito; e questo modo vi è sempre, benchè ne variano i limiti, e quindi la figura e la grandezza; ma lo stesso sentimento varia oltracciò specificamente, varia del tutto, perocchè il colore è cosa specificamente diversa dal sapore, e nella medesima specie di sensazione, per esempio nella sensazione del vedere, il sentito può variare frequentemente, senza che varii il modo dell' estensione (1), giacchè una stessa superficie può presentare successivamente colori e gradazioni diverse all' infinito. Se dunque noi prendiamo l' estensione misurata in genere, questa è cosa invariabile nella sensazione corporea; cioè ogni sensazione corporea ha sempre qualche estensione. La quale costanza dell' estensione, nella variabilità di tutte le altre note o caratteri del sentito, fa sì che noi ravvisiamo nell' estensione qualche cosa di permanente, un esteso permanente. E poichè l' atto onde una cosa sussiste, ossia la sostanza, si considera permanente relativamente agli atti suoi accidentali, quindi noi attribuiamo al corpo l' estensione, come qualità a lui essenziale e precedente a tutte le qualità variabili in esso. Nominando dunque forza, o forza corporea, tanto il sensifero, quanto la forza straniera, che abbiamo dimostrati identici, diremo che « una forza estesa »è ciò che v' è di permanente e di sostanziale nei corpi. Non si dimentichi però mai che, quando diciamo la forza estesa essere la sostanza dei corpi, la mente nostra ci suppone l' atto primo necessario alla sussistenza della « detta forza estesa », e l' immedesima colla forza estesa, perchè altro ella non vuole che percepire questa forza estesa, e non cercare ciò che esser vi possa oltre di essa. Quindi il principio corporeo non è la sostanza corporea, di cui tutti gli uomini parlano pronunciando il nome sostantivo corpo , ma è un principio incognito al di là di questa sostanza. Conviene adunque qui, prima d' inoltrarci, considerare attentamente in che modo l' uomo si formi il concetto delle varie sostanze, che egli percepisce. Essendo la percezione un' azione, che viene esercitata in noi esseri suscettivi di riceverla, cioè di sentirla e d' intenderla, questa azione in noi è la prima cosa che conosciamo dell' agente, e perciò in quella ci fermiamo colla mente, perchè anteriormente ad essa nulla percepiamo; quindi l' azione percepita diviene base, atto primo, della sostanza che pensiamo; il che è quanto dire, noi erigiamo quell' azione in un ente, supponendovi il mero atto del sussistere, che è la sostanza; il quale atto certamente non manca, perchè di fatto quell' azione sussiste. L' azione prima adunque, l' azione percepita nel senso e pensata come sussistente, tale è il concetto umano delle sostanze (1); e questo concetto è vero, benchè limitato, non ascendendosi con esso all' atto assolutamente primo, il quale è a noi impercettibile, ma solo all' atto primo relativamente a noi, che è quello che percepiamo, il quale indubitatamente sussiste, e come a tale poniamo un nome sostantivo. Ciò che percepiamo, in una parola, è l' agente in atto, e questo atto può essere atto secondo rispetto all' agente in potenza, ma rispetto a noi è primo, e però è a noi l' agente stesso. La ricerca poi degli atti anteriori alle sostanze percepite appartiene alla Filosofia trascendentale, ossia alla Teosofia. Veniamo al concetto di materia prima . Il sensifero e la forza straniera appariscono a noi vestiti: 1 di estensione limitata; 2 di limiti a questa estensione, ossia di figura; 3 di quelle qualità sensibili, che dicemmo secondarie. Queste qualità sensibili non si percepiscono mai che in una figura; la figura non si percepisce mai che nell' estensione; l' estensione limitata poi ci si presenta siccome indivisibile dal sensifero e dalla forza straniera, in modo che noi non possiamo in alcuna maniera nè percepire, nè pensare il sensifero o la forza straniera senza una qualche estensione, per guisa che nella stessa immediata percezione vi è sempre ed invariabilmente l' estensione; mentre può variare la figura e le altre qualità sensibili. Appartenendo dunque l' estensione limitata (in generale) invariabilmente a ciò che di primo pensiamo e percepiamo, ed essendo l' essenza sostanziale appunto « ciò che di primo pensiamo », noi, come si è detto, dichiariamo il sensifero e la forza estesa un' essenza sostanziale, di cui la figura e le altre qualità sensibili siano accidenti, e quell' essenza sostanziale la chiamiamo corpo. Ma quantunque questi accidenti sieno variabili, alcuni di essi accompagnano sempre il corpo. Ond' è che l' essenza sostanziale del corpo non esiste mai sola; e acciocchè possiamo pensarla da sè, dobbiamo farla divenire un oggetto di nostra mente, dal quale separiamo tali accidenti. L' essenza sostanziale del corpo non è adunque separata che nell' idea nostra, è un astratto che non può essere realizzato se non a condizione d' essere vestito di certi accidenti. Quindi si dice che « l' essenza sostanziale del corpo ha in potenza i suoi accidenti »; il che è quanto dire che « una tale idea, quando viene realizzata, può e deve essere vestita di accidenti, benchè non debba essere vestita di tutti i possibili, ma solo di alcuni ». Ma se il corpo è « una forza estesa », non si può ben conoscerne la natura, se non si conosce quella dell' estensione. Ora tale è la natura dell' estensione che colla immaginazione si può dividere in parti; onde la forza, che è vestita d' una parte di questa estensione, è al tutto separata dalla forza, che è vestita di un' altra parte contigua alla prima o no; il che vuol dire che le forze corporee non operano punto l' una nell' altra, ma nella propria estensione, senza eccedere un punto da quella. Quindi « l' essenza sostanziale del corpo »ha la proprietà pure essenziale di essere divisibile in parti; di modo che ella non ha per sè unità, poichè il suo principio agente non si vede, non è il corpo, e se esiste, appartiene alla filosofia trascendentale, come dicemmo, ma è anzi l' azione percepita da noi nel suo termine; questo termine adunque, che è l' azione da noi percepita, è essenzialmente divisibile in modo che quell' entità che si mostra attiva in una parte, in una estensione, non è identica di numero (ma solo di qualità) a quella entità, che si mostra attiva in un' altra parte, in un' altra estensione. Ora qui abbiamo tutti i dati, dai quali possiamo raccogliere il concetto di materia prima. Se noi spogliamo la forza corporea di ogni estensione, ella ci si annulla, non operando oggimai più in luogo alcuno (1): ella dunque non può essere la materia prima, perchè la materia prima non è il niente (2). Di poi la materia prima non può essere la mera estensione, perchè questa per sè non si divide; ma si divide solo per immaginazione, laddove la materia è subbietto di reale divisione. In terzo luogo la materia prima, da Dio creata e realmente esistente, non può essere infinita; nuova prova che essa non è l' estensione, la quale si percepisce naturalmente immensurabile e così infinita, come pure si concepisce immobile e non in potenza ad alcuna figura; ed è soltanto la mente che disegna le figure nella pura estensione con dei segni immaginari, i quali non sono l' estensione stessa. In quarto luogo la materia prima non ha confini determinati, perocchè in tal caso avrebbe figura; ma è tuttavia un ente reale concepito dalla mente, astrazione fatta dai suoi confini; ha dunque confini e figure in potenza. In quinto luogo la materia prima ha parti sostanziali e reali in potenza; cioè può essere divisa in parti indefinite, ciascuna delle quali è materia nel concetto eguale, in realtà diversa; e ciò a cagione della qualità estesa, che è il suo modo di essere; il qual modo è in potenza a qualunque dimensione (1), figura, forma e moltiplicità (2). Dal che concludiamo: Che il concetto della materia prima è un concetto astratto, che nondimeno dimostra alla mente un primo elemento dei corpi ancora indeterminato, appartenente alla loro realità, ma che non può sussistere se non aggiungendovi le determinazioni. Dove si noti che l' astrazione fa due uffici: I) fa pensare qualche elemento realizzabile, ma privo delle sue determinazioni ( astrazione tetica ); II) fa pensare altresì un quid non realizzabile, come allorquando separa di quelle cose, le quali non si possono al tutto separare, senza che ciò che rimane sia del tutto inconcepibile, come sarebbe il centro del circolo senza la circonferenza, la forza corporea senza alcuna estensione neppur generica, ecc. ( astrazione ipotetica ). Questa seconda specie di astratti, se vogliamo ridurla ad una formula generale, si può definire così: « astratti, nei quali l' astrazione ha tolto via anche la potenza di ricevere le determinazioni necessarie a divenire reali ». Ora, il concetto della materia prima non si ha coll' uso di questa seconda astrazione, ma della prima. Quindi: La materia prima è una forza estesa, la quale è in potenza: 1) ad avere una quantità determinata di estensione; 2) ad avere una determinata figura; 3) ad essere divisa in parti, ciascuna delle quali ha la sua quantità determinata e la sua figura; 4) ad avere un determinato sensibile. Ancora, la materia prima è la sostanza dei corpi , e in questo senso ha ragione Aristotele attribuendole il nome di sostanza; e le determinazioni della quantità, figura, numerosità quantitativa e sensibilità, sono altrettante condizioni, alle quali ella può avere l' atto del sussistere. Le quali condizioni, insieme prese, costituiscono la forma del corpo. Ora queste determinazioni possono variare, ma ad ogni modo le une o le altre sono necessarie. In quanto sono necessarie, costituiscono la forma sostanziale del corpo unitamente all' atto della sostanza. Cioè l' estensione determinata o quantità, la figura e il sensibile, in quanto terminano e perfezionano l' atto che le fa sussistere, che è l' atto della sostanza materiale dal quale ricevono unità, in tanto si dicono forma sostanziale dei corpi (1). In quanto poi sono variabili, in tanto costituiscono altrettante forme accidentali o accidenti; e come tali, non si considerano nell' unità della sostanza che le fa sussistere, ma separate le une dalle altre coll' astrazione (2). I diversi elementi della natura corporea hanno un ordine fra loro, e l' ordine è questo: 1 vi è la forza, il cui modo essenziale è la quantità estensiva. La forza non si può considerare divisa dalla quantità estensiva se non per via dell' astrazione di secondo genere, cioè ella in tal caso rimane un assurdo, poichè è la forza, e pur le manca l' elemento necessario a costituirla, è la forza in potenza, e la forza in potenza non è la forza da noi concepita, la quale è in atto; 2 la quantità estensiva ha dei confini, i quali le determinano una figura; la figura adunque è nell' estensione, come i limiti sono nel limitato; 3 la figura non si presenta a noi senza qualche sentito, e quantunque coll' astrazione si possa prescindere da ogni sentito, tuttavia non si può prescindere da un sentito in genere; sicchè la figura astratta non è già una figura senza sentito, ma una figura che « si pensa come possibile a sentirsi, senza determinare qual sia questo sentito che racchiude, poichè può racchiuderne separatamente diversi ». Quando dunque si pensa l' astratto della forza, si pensa insieme l' estensione, ma questa si lascia indeterminata; e questo è il concetto di materia prima dei corpi. Quando si pensa l' astratto minore della forza con una estensione o quantità estensiva determinata, si pensa insieme la figura, ma questa si lascia indeterminata; e questa è la materia con una sua dimensione (materia non prima). Quando si pensa l' astratto ancor minore della materia con quantità determinata e con figura, si pensa insieme il sentito, ma si lascia indeterminato qual sia la qualità, o quali sieno le qualità sensibili che vi si appongono. Quando finalmente si pensa la materia con quantità, figura e sentito determinato, allora si pensa il corpo formato, la materia insieme alla forma, la specie piena , l' idea universale, ma non astratta del corpo (1). Il corpo stesso poi reale si percepisce intellettivamente, quando si unisce la percezione sensitiva all' idea che a lei corrisponde, cioè alla specie piena. Ciò che si pensa anteriormente alle sue determinazioni si dice il subbietto delle determinazioni; quindi la materia prima è il primo subbietto di tutte le determinazioni corporee; la quantità estensiva si prende come subbietto dialettico della figura; la figura come subbietto dialettico delle qualità sensibili. Ma si osservi bene che il ragionamento umano percorre due vie opposte, o per meglio dire, percorre la stessa via in due direzioni, va e viene. Quando va, procede per l' ordine naturale e comune, e questa è una direzione analitica dal tutto alle parti; quando ritorna, procede coll' ordine scientifico o dotto, e questa è una direzione sintetica dalle parti al tutto; questo ritorno della mente suppone quella prima andata, la sintesi dotta suppone l' analisi volgare. Quando dalla materia prima si discende fino al corpo reale, dalle parti si ritorna al tutto; lo spirito prima di fare il cammino in questo senso dovette farlo nel senso contrario, dal tutto alle parti; ed in tal processo si cangia l' ordine dei predicati e dei subbietti. Prima dunque si ha il sentito, poscia la sua figura, poscia la sua quantità. Quindi si predica la figura del sentito e la quantità della figura, ossia si dice che la figura è un modo del sentito, la quantità estensiva un modo della figura. Ma la materia, essendo la causa prossima attuale del sentito, non si può predicare; ma di lei si deve predicare tutto ciò che si predica del sentito, che è il termine del suo atto, in cui ella si percepisce; e perciò rimane sempre che della materia si predichi la figura, e la quantità, e il sentito come suo effetto. Onde in ogni direzione in che vada la mente, la materia ha sempre ragione di primo subbietto, ossia di sostanza; non può essere mai predicata, ma solo subbiettata. Dalle cose dette apparisce che la materia è l' atto, nel quale e pel quale esistono i corpi (1), cioè l' atto, pel quale e nel quale sussistono le qualità corporee; è ciò che primo s' intende col pensiero, quando si concepiscono i corpi. Ma poichè questo atto non può essere realizzato nudo e solo da tutte le qualità corporee, che in lui si concepiscono essere potenzialmente, perciò v' è qualche cosa che lo perfeziona, e sono queste qualità corporee determinate, le quali si chiamano forma . Ma poichè alcune sono variabili, perciò in quanto esse sono al tutto necessarie a poter pensare la materia realizzata, esse si chiamano forma sostanziale del corpo, perchè anch' esse concorrono a costituire quell' atto, pel quale il corpo si può concepire come idoneo ad essere realizzato; e in questo senso si dice che la forma è anch' essa sostanza, cioè entra a formare parte della sostanza. In quanto poi queste qualità sono variabili, sicchè ciò che è necessario alla sussistenza d' un corpo rimane indeterminato, perchè basta che delle dette qualità ve ne sia l' una o l' altra, in tanto diconsi forme accidentali . Ma posciachè si possono concepire dei corpi forniti di tutte le qualità sì sostanziali e sì accidentali, a cui nulla manchi acciocchè sieno realizzati, e tuttavia possono essere realizzati con grandezze maggiori e minori, e anche può ripetersi la stessa grandezza un numero qualunque di volte; perciò dicesi che la quantità continua o discreta della materia non è determinata nè dal concetto di materia , nè da quello di forma , ma da quello di realizzazione; la quale dipende dall' arbitrio dell' Autore, che realizza i corpi. La ragione prima adunque, onde tutto ciò che v' è in un corpo si concepisce come sussistente, si è la materia, che perciò riceve per la prima il nome di sostanza e di primo subbietto; quindi essa è anche il subbietto della forma sostanziale, come questa è il subbietto degli accidenti. La realizzazione poi non ha la sua ragione nel corpo, ma nella causa creatrice; e non è subbietto del corpo, ma quella che fa sussistere il subbietto. Ora che abbiamo svolto il concetto di materia prima , e veduto che questa si trova nei corpi, nei quali la perfezione di questa materia e gli ultimi atti di essa si chiamano forma , possiamo dimostrare (avvegnachè ciò risulta anche dalle cose dette nella prima parte) che nell' anima una tale materia non si rinviene. Ma per evitare le questioni di parole, e porgere altresì una chiave per intendere i maggiori filosofi sanamente, gioverà che prima accenniamo come quei filosofi non sempre parlano della materia prima con precisione, nè fissarono accuratamente il suo concetto, come noi abbiamo tentato di fare, adoperando il vocabolo di materia o di materia prima in varie significazioni; onde avvenne che incorsero in apparenti contraddizioni, ed agitarono fra loro caldissime ed inutili questioni. E primieramente quasi tutti confusero la materia prima colla realità sussistente , da cui noi l' abbiamo distinta. Così accadde a Platone, facendo che il quanto sia una dipendenza o conseguenza della materia, laddove il quanto non si trova punto inchiuso nel concetto di materia, ma è posto dalla realizzazione di essa, ed è determinato dall' arbitrio del realizzatore. Così pure accadde ad Aristotele, il quale pose la materia essere il principio dell' individuazione; il qual principio noi dimostrammo doversi anzi porre nella realità sussistente (1), che è sempre pienamente determinata. Come noi abbiamo veduto, se dal concetto di materia leviamo ogni pensiero di estensione in genere, quel concetto non esprime più cosa alcuna; noi allora consideriamo la forza coll' astrazione ipotetica e non più colla tetica. Quindi anche S. Tommaso insegna che, qualora si astragga da ogni estensione, si astrae con ciò stesso da ogni materia. Consideriamo le sue parole: [...OMISSIS...] Noi abbiamo veduto che v' è una materia prima , che è « la forza che opera nell' estensione », la quale è in potenza: 1 all' estensione determinata o quantità, che può essere una o più, e quindi ancora numerizzabile; 2 alla figura; 3 alle qualità sensibili. Che cosa sono le specie matematiche? Sono le figure e i loro termini, la superficie, la linea, il punto. Le specie matematiche non sono adunque la materia prima , ma una materia già ridotta all' atto della quantità e della figura, e però in parte informata; solamente che si prescinde dal considerare le qualità sensibili, alle quali è in potenza; ed appunto perchè è in potenza, si chiama ancora materia . Questa è la materia matematica degli Scolastici. Quando dicono adunque che nel concetto della materia matematica si astrae dalla materia sensibile, tanto individuale, quanto comune, intendono che si astrae dalla potenza alle qualità sensibili, tanto considerate come reali, quanto considerate come ideali. Quando poi dicono che si astrae dalla materia intelligibile individuale , intendono per materia intelligibile individuale la quantità determinata e figura (con ciò che appartiene alla figura) realizzata; ma questo dicono in modo improprio, poichè gli Scolastici stessi già posero che l' individuo non si concepisce dall' intelletto, onde incoerentemente alla propria dottrina ponevano una materia, che fosse intelligibile insieme ed individuale . Ma essi davano il nome d' intelligibile a questa materia, perchè la quantità e la figura, astratta dal sensibile, è puramente oggetto dell' intelletto; non vedendo poi che, come tale, non è mai individuale, se non si fissa arbitrariamente ad un luogo dello spazio. Tuttavia, perchè ciò che è nell' intelletto possiamo riscontrarlo nella realità, non è del tutto vana una tale denominazione. Dicendo poi che il concetto di materia matematica non astrae dalla materia intelligibile7comune, vengono a dire che la quantità e la figura è considerata dai matematici non solo astrattamente dalle qualità sensibili, ma ben anche senza riferirla a un corpo reale, come possibile a realizzarsi. Ora vediamo quel che segue: [...OMISSIS...] . Ed ecco qui come, se si prescinde dalla estensione e da ogni quantità continua, già siamo fuori da ogni materia; il concetto di materia ci svanisce al tutto dalle mani, ed altro non ci rimane che alcuni astratti ultimi, i quali possono essere realizzati nella materia o fuori di essa. Vi è dunque qualche cosa di anteriore alla materia, vi è qualche cosa di atto e di potenza attiva (2). Il concetto dunque della materia non comincia nella nostra mente, se non allora che si pensa ad « una potenza sensifera nell' estensione ». Ma questo concetto non fu ritenuto sempre, come dicevamo. Onde, quando alcuni Scolastici dicono della materia che « talis potentia non est ad operationem, sed ad esse (3) », invece di dire ad formam , allora allargano il concetto della materia in modo che la materia già può appartenere ad ogni creatura, perchè ogni creatura anche spirituale, prima di essere, ha la potenza ad esse , il che equivale a dire: potenza di ricevere la sussistenza. Secondo questo principio inteso letteralmente, la materia si converte nella « cosa possibile », che è l' idea; il che non conviene di fare, poichè si ha idea non meno delle forme che della materia, come abbiamo detto di sopra. Di che alcuni Scolastici fecero che tutte le cose, tanto visibili, quanto invisibili, tanto mobili, quanto immobili, tanto corporee, quanto incorporee, sieno composte di materia e di forma; ma, come assai bene osserva S. Tommaso, questo è un prendere la parola materia in due significazioni, e non nella sua propria e vera significazione (1). Quelli che prendono la materia come sinonimo di « ciò che è in potenza », escludendo dal suo concetto ogni relazione coll' estensione, ne fanno di necessità un ente, da cui è già astratta la stessa materia, e perciò rimane indivisibile, come osserva lo stesso S. Tommaso, il quale scrive: [...OMISSIS...] , dove per quantità conviene intendere non una particolare quantità determinata, ma qualunque sia. I filosofi accennati non si accorsero che il concetto di materia dimostra all' intelletto tal cosa, che ha relazione coll' estensione; e però con una soverchia astrazione, togliendo via questa relazione, distrussero il concetto di materia, non restando loro in mano che il concetto di cosa immateriale ed indivisibile, che precede a quello della materia. Vi furono altri, i quali non abolirono intieramente la relazione coll' estensione, accordando alla materia di poter essere mossa nello spazio; ma le tolsero la facoltà di muovere e la dissero inerte. Ebbero questi ragione? La cagione logica, che condusse costoro a un tal pensiero, si fu che posero la loro attenzione ai fenomeni della mole materiale , la quale si presenta a noi come un mobile, un' entità ben diversa dal sensifero. Ora, essendo la mole materiale talora in moto, talora in quiete, dedussero rettamente che dunque il moto non le è essenziale, che esso non entra nel suo concetto, che la materia riceve il moto da un altro principio attivo da essa diverso. E certo è indubitato che niun corpo muove sè medesimo, onde il principio del moto si deve trovare altrove. Ma i fenomeni extrasoggettivi del moto non sono i primi che ci si presentino nel concetto di corpo; come vedemmo, il primo fenomeno è il sentito, dove abbiamo la percezione intellettiva del sensifero, il concetto del quale è quello di un' attività sull' anima nostra, che si espande nell' estensione del sentito. Questa attività dunque, che produce il sentito, è indubitabile, ed è prima nel concetto del corpo; perciò è quella che costituisce l' essenza conoscibile e nominabile di lui. Ora questa attività medesima è anche il subbietto del moto, il quale moto altro non è se non « la manifestazione del sensifero in un sentito, che occupa una estensione successivamente diversa ». Sotto questo aspetto è dunque vero che il sensifero è passivo, cioè atto a ricevere il moto ed a trasmetterlo, non a darlo. Dove dunque troveremo noi il principio del moto? Primieramente noi lo troviamo nell' anima, la quale muta di luogo il sensifero. Noi intendiamo altresì che fuori dell' anima umana deve esservi qualche altro principio che lo produca; ce lo dimostra il fenomeno dell' attrazione. Noi intendiamo in terzo luogo che questo principio del moto, fuori dell' anima umana, non può essere la mole, nè la forza straniera; perocchè se questa non riceve il moto, non lo può trasmettere ad un' altra forza; ella deve dunque aver ricevuto già in sè stessa il moto, e non produrlo, non esserne il principio. Sarà dunque principio del moto quello che noi abbiamo denominato principio corporeo? Per rispondere a ciò dobbiamo esaminare quale è il concetto di principio corporeo. Noi abbiamo dedotto questo concetto dal vedere che il sentito , come pure la forza sensifera che in esso noi percepiamo, non è che il termine di un' azione, che viene fatta nell' anima nostra, e l' agente è incognito quale è in sè stesso, cioè nel suo principio, non conoscendolo noi che dall' azione viva nel suo termine. Ignorando dunque il principio di questa azione, noi gli abbiamo dato il nome di principio corporeo . Ora secondo questo concetto, noi sappiamo che il principio corporeo è il principio di quell' azione, che chiamammo sensifero , denominandola come un ente pel bisogno di concepirla intellettivamente. Ma questa azione sull' anima non è ancora il moto, la cui natura consiste nello spostare il sensifero. Dunque non possiamo neppure affermare che sia il principio corporeo . Noi non vogliamo qui parlare della facoltà di trasmettere il moto, che costituisce propriamente la forza straniera e la mole; la quale facoltà si deve indubitatamente attribuire al principio corporeo, come a suo subbietto. Ciò che qui cerchiamo unicamente si è il principio del moto. Ora l' opinione che abbiamo esposta nella prima parte, che ogni elemento materiale sia termine di un principio senziente, colloca un principio di moto nella natura; spiega i movimenti naturali dei corpi, senza bisogno di fare intervenire Iddio quasi causa seconda; e concilia la grande questione agitata sempre sull' inerzia e sull' attività della materia. Perocchè alcuni filosofi, ponendo mente al concetto di materia, trovarono ripugnante con essa l' essere causa di moto; e questi, secondo noi, hanno piena ragione; altri, vedendo che tutta la natura si muove, e che non solo ci si presentano i fenomeni dell' urto meccanico dei corpi, ma quelli delle attrazioni, dell' espansione, dell' elasticità, ecc., ripugnanti di ricorrere ad un' azione immediata di Dio per ispiegarli, nè sapendo a quale altra causa appigliarsi, fecero la materia attiva; senza avvedersi che l' attribuirle tale attività cozza col concetto, che di essa ci porge la percezione; e tuttavia avevano ragione in questo, che riconoscevano sparso in tutta la natura un principio di spontaneo moto. Il che conferma l' opinione indicata dell' animazione della materia, come quella che spiega con somma facilità e senza assurdo tutti i fenomeni naturali (1). La ragione per cui il concetto di materia (e neppur quello di forma del corpo) non ci somministra il principio del moto, si è che il concetto di materia e di corpo noi l' abbiamo dalla percezione, e la percezione ci mostra l' atto nel suo termine (il sentito), e non il suo principio. Questo termine (il sentito) è esteso, e quando questa estensione sentita si sposta, allora vi è il moto; ma questo spostamento del termine non è nel termine stesso, perchè il termine si percepisce quando è già costituito, e non prima, perchè prima non è termine, non è sentito. All' incontro l' azione che sposta il termine, trasportandolo da un luogo ad un altro, è un' azione anteriore alla costituzione del termine (al sentito), e quindi non cade sotto la percezione. Ora, se noi consideriamo che il termine (il sentito), da cui solo caviamo il concetto di mole, di corpo, di materia, e anche di forza straniera, perchè è quello solo di cui abbiamo esperienza, è tal cosa cui noi sentiamo nello spirito nostro, nel principio senziente; non possiamo dubitare che lo stesso spirito non concorra insieme col sensifero a produrlo, giacchè il principio senziente riceve l' azione nel modo suo proprio, che è quello di essere principio attivo. Ma in che concorre a ciò il principio senziente? Certo vi concorre in tutto, cioè in entrambi gli elementi, che sono: 1 il sensibile; 2 il suo modo, cioè l' estensione; concorre a produrre il sensibile, perchè dove non è principio senziente, ivi non può essere sentimento; concorre a produrre il suo modo, cioè l' estensione, perocchè l' estensione, ossia il continuo, non può essere che nel semplice. Che cosa dunque può fare il sensifero? Certo non altro se non suscitare lo spirito a produrre il sentito col suo modo, cioè coll' estensione. Ma questo è il concetto trascendente del sensifero, concetto che dimostra il sensifero nel suo principio, nel principio corporeo. Questo dunque giova a spiegare come si genera la materia ed il suo concetto, ma non è il concetto della materia. Vedesi pertanto che la materia, quale ci viene data dalla percezione (concetto comune o volgare), involge non poco del soggettivo; e che conviene tenersi in guardia per non ragionare di lei, come se il detto concetto della materia avesse una verità anche fuori della percezione. Esso è vero, ma nella percezione. Se noi cerchiamo che cosa sia la materia al di là della percezione, la materia ci sfugge; non parliamo più di quello, di cui parla tutto il mondo, che parla sempre della materia quale è percepita. Così anche i sensi non illudono, se la ragione riconosce in essi quello che ci danno e non più; ma se noi pretendiamo che i sensi ci somministrino quello che non sono nati a somministrarci, incontanente cadiamo nell' inganno; e non sono già i sensi, ma la ragione che erra, giudicando al di là di ciò che portano i dati sensibili. In secondo luogo giova assai meditare sul concetto trascendente della materia, o per dir meglio sul concetto trascendente di quella entità, che risponde al concetto comune di materia; perocchè intendiamo per esso quanto sieno connesse l' una coll' altra le cose della natura, e nel caso nostro lo spirito e il principio corporeo; e come dalla loro connessione e mutua azione vengano prodotte alcune entità (1), le quali noi concependo isolatamente, le consideriamo come enti o sostanze; e con ragione, perchè con ciò non pronunciamo sulla loro natura, ma altro non diciamo se non che esse sono « quell' atto primo che noi percepiamo, nel quale e pel quale sussistono molti atti secondi »; giacchè « la sostanza è l' atto primo, che fa sussistere la cosa ». Onde questa parola di sostanza ha due significazioni: l' una trascendente, che esprime quell' atto che è assolutamente primo, e fa sussistere tutte le cose; e in questo significato la parola sostanza non conviene che a Dio; l' altra comune, che esprime « quell' atto dell' entità da noi percepita, che è primo nella percezione nostra »; e in questo significato relativo a noi, noi distinguiamo più sostanze, che possiamo acconciamente chiamare sostanze relative e non assolute; in tal senso anche la materia è sostanza. Finalmente la distinzione dei due concetti, cioè del concetto di materia e del concetto trascendente, a quello corrispondente, giova oltremodo a spiegare come nacquero le diverse sentenze dei filosofi sulla materia, ed a conciliarle insieme. Ora che abbiamo chiarito il concetto di materia e di materia prima, ci è facile dimostrare che l' anima umana è scevra interamente di ogni materia. Infatti il concetto di materia, per riassumere il detto, risulta da più elementi. Esso: 1) ci presenta un' attività in atto nel suo termine , e non nel suo principio; 2) ci presenta un' estensione, una mole, come modo di questa attività in atto nel suo termine; 3) ci presenta mobilità, cioé attitudine a ricevere il moto e a trasmetterlo, non attitudine a produrlo; perchè il ricevere e trasmettere il moto appartiene al termine; il produrlo, al principio dell' attività. Ora tutte queste cose ripugnano all' anima. E veramente l' anima, come noi l' abbiamo definita, « è il principio senziente, razionale e attivo, secondo il sentimento e la razionalità ». Ora questa definizione pone non solo una differenza, ma una vera opposizione fra il concetto dell' anima e quello della materia. L' anima è il principio dell' atto, e la materia non ha ragione che di termine . L' anima come principio è inestesa, e la materia ha per sua propria ed essenziale condizione l' estensione, la mole. L' anima come principio è movente, ma non è mobile; è principio di moto, ma ella stessa è immobile. Dunque l' anima esclude da sè tutti gli elementi, che entrano a costituire il concetto della materia. Forse a primo aspetto non s' intenderà come l' anima sia immobile . Ma per intenderlo basta considerare attentamente che ogni cosa mossa ha ragione di termine , perchè il movimento è il termine dell' azione movente. In secondo luogo, il moto non si fa che nell' estensione. Ma l' anima non è nell' estensione, nè come continuo solido, nè come le linee e i punti, che altro non sono se non i confini astratti del solido, e perciò al solido appartengono. Infatti il solido, e perciò anche i suoi confini, non esistono che nel semplice, onde l' anima è detta dai maggiori filosofi contenente il continuo, e non da lui contenuta (1). Onde come il continuo solido è nell' anima senza che esso sia l' anima, essendo anzi in opposizione con essa, come il termine è in opposizione col principio, e l' obbietto col soggetto (e ciò per quella connessione e comunicazione di sostanze, che costituisce il sintesismo della natura); così si può ben dire che il moto avvenga in quel continuo che è nell' anima, ma non mai nell' anima stessa, che ha in sè il continuo, suo termine. Si opporrà che, trasportando il corpo da un luogo nell' altro, si trasporta anche l' anima. Ma ciò non è vero; l' anima non si trasporta; altro non nasce che una nuova sua relazione fra il suo corpo e il luogo dal corpo occupato; perchè è questo che si cangia e non l' anima. Ma trovandosi il corpo dell' anima in relazioni con altri oggetti esteriori e con altro spazio, sembra che l' anima sia trasportata insieme col suo corpo, mentre non si è mosso altro che il sentito dell' anima, e non il principio senziente. Perocchè tutto il sentito, che sopravviene all' anima pel movimento, è nell' anima come il sentito che è passato via; dove per sentito si avverta bene che s' intende anche il luogo del proprio corpo, e che l' anima d' altra parte è presente a tutto lo spazio (2). La nozione adunque di materia importa un' attività considerata nel termine della sua azione. E poichè il termine dell' azione e ciò che viene fatto e non ciò che fa , quindi la materia ha in sè il concetto di potenza passiva e non di potenza attiva (1). Ma il concetto di materia non importa solo l' attività giacente nel suo termine, ma questo termine considerato come ente, un ente termine. Poichè l' intendimento non concepisce nulla se non come ente, pel principio di cognizione. E l' ente si aggiunge a ciò che primo di una entità si percepisce. Se si percepisce dunque un' entità termine, e niente di anteriore, il concetto nostro ha per oggetto un ente7termine; e in questo ente7termine ciò che si concepisce come primo atto dell' ente, contenente tutto il resto che in quello si può distinguere, dicesi atto, o sostanza, o subbietto. In due modi adunque noi percepiamo gli enti: come principio e come termine. Noi percepiamo gli enti come termine, quando noi siamo passivi e riceviamo nel nostro sentimento la loro attività; allora noi percepiamo l' attività in noi come nel termine dell' azione, e desumiamo la natura dell' ente percepito dalla natura del termine dell' azione di lui, unica cosa da noi percepita. Questo è ciò che avviene nella percezione dei corpi. L' ente poi, che percepiamo come principio di attività, altro non è che noi stessi, l' anima; essa si percepisce come un proprio sentimento, nel quale ciò che pensiamo come primo atto, in cui sussiste tutto il resto che in esso si distingue, è la sostanza, il subbietto. L' anima umana, dunque, è un ente7principio. Vero è che, oltracciò, l' anima percepisce sè stessa anche come termine, appunto perchè percependosi come sentimento, il che involge una passività, intende che la sua stessa esistenza deve avere una causa; e così si solleva al pensiero del Creatore. Ma ella si percepisce tuttavia anche come principio attivo; ed è sotto questo aspetto che il suo concetto ha opposizione col concetto del corpo, il quale si percepisce unicamente come ente7termine, e non come ente7principio. La considerazione adunque della materia fatta sotto la guida dell' esperienza, cioè della percezione, colla quale il nostro intendimento è posto in comunicazione con essa, e quindi ne ha il concetto, ci dimostra quale sia l' ordine intrinseco dell' essere nell' entità corporea. Noi vediamo che in tale entità, che corpo e materia si dice, vi è un atto anteriore agli altri, sul quale si fondano gli altri, un atto senza di cui non ci è possibile pensare gli altri; e il quale noi possiamo ben pensare senza gli altri, benchè dobbiamo insieme sottintendere che, venendo realizzato, egli s' accompagni con altri, e questi in parte variabili. Ora questo atto primo concepito è la sostanza, e gli altri, che hanno quel primo come loro subbietto, noi li pensiamo di poi e li chiamiamo sostanziali , in quanto sono al tutto necessari alla sussistenza di quel primo, benchè non al concetto di lui (e questi atti nella loro unità diconsi forma sostanziale ); li chiamiamo poi accidentali in quanto non sono necessari, in quella parte cioè nella quale essi possono variare, senza che venga meno la sostanza, nè gli atti sostanziali; e sono le forme accidentali o accidenti . A cui s' aggiungono certe determinazioni estrinseche venienti dalla realità e non dall' idea dell' ente. Tale è dunque l' ordine intrinseco dell' ente materiale, che in esso si distinguono coll' intendimento: Un atto primo, sostanza, senza del quale non s' intendono gli altri atti, e al quale si riferisce la denominazione di ente . Atti o forme sostanziali, che hanno per subbietto che li regge la sostanza, ma che sono necessari al concetto compiuto dell' ente. Atti o forme accidentali, che hanno per subbietto le forme sostanziali. Determinazioni non comprese nella idea specifica7piena dell' ente, ma venienti dalla sua realità . Il primo atto adunque, che si concepisce nell' oggetto della percezione, è la sostanza. Ma questo primo atto talora ha ragione di principio , talora ha ragione di termine . Di più talora quel primo atto (s' intenda sempre primo, rispetto all' ordine intrinseco dell' entità percepita, o concepita) ci si presenta come essenzialmente e unicamente principio; talora ci si presenta come essenzialmente ed unicamente termine dell' atto medesimo, di cui ci rimane occulto il principio; talora come avente in sè i due rispetti di termine d' un atto e di principio di un altro atto. Quindi tre specie di sostanze, l' una delle quali è l' atto primo (nell' oggetto concepito), che ha e non perde mai la natura di principio; l' altra è l' atto primo (nell' oggetto concepito), che ha e non perde mai la natura di termine; la terza è atto primo (nell' oggetto concepito), che ha ragione di termine rispetto ad un atto precedente a sè (che è perciò una sostanza diversa da sè), ed ha ragione di principio rispetto all' atto proprio e agli atti susseguenti, dei quali soli essa è atto primo ed atto7principio. L' essere atto, essenzialmente ed unicamente principio, appartiene a Dio solo; l' essere atto primo, essenzialmente ed unicamente termine, appartiene alla sostanza materiale; l' essere atto primo, termine rispetto ad un' attività precedente a sè e principio rispetto all' atto del proprio sussistere e agli atti secondi, appartiene alle creature spirituali, e quindi all' anima umana. E` bene notare che questa è classificazione di sostanze, ossia di atti primi (intendendo per primo quello che nel concetto di un ente, noi, secondo l' ordine logico, prima degli altri concepiamo); e non è classificazione degli atti in generale. Se non si pone mente a ciò, si farà l' obbiezione che anche i corpi sono principii di loro operazioni. Ora non è così, perchè in tutte le apparenti operazioni dei corpi si considera sempre il termine; onde abbiamo provata già innanzi l' inerzia della materia. Le mutazioni dei corpi adunque non sono operazioni della sostanza corporea, ma modificazioni di essa; onde l' attività si percepisce sempre nel suo termine, e mai nel suo principio. Noi abbiamo detto che l' anima si può considerare come termine di un' azione precedente a sè (del Creatore); ciò ha bisogno di spiegazione. Altro è il dire che l' anima sia termine di un' azione precedente a sè, altro è il dire che questa azione, giacente e operante nel suo termine, sia l' anima. Il dir questo sarebbe errore manifestissimo. Il che non solo si scorge dall' assurdo che ne verrebbe, giacchè in tal caso l' azione creatrice sarebbe l' anima; ma si prova anche direttamente, com' è dovere del filosofo, dalla percezione dell' anima, confrontata colla percezione che abbiamo della materia. I corpi si percepiscono come effetti immediati di un' azione straniera nell' anima; il concetto di essi adunque risulta dalla loro azione in un altro ente che si percepisce; quindi è che si percepiscono, in quanto l' attività loro è nel suo termine, nelle passività dell' anima. Ma questa attività dei corpi nell' anima, come in loro termine, non è il principio che li fa sussistere come enti in sè stessi, il quale principio noi non percepiamo. All' incontro l' anima non si percepisce come agente in un altro ente diverso da sè, ma come essente in sè; si percepisce adunque tutta intera fino nel principio della sua attività. L' azione dunque, di cui ella è termine, è cosa straniera a quel principio che si chiama anima, ed a questo anteriore. Ciò che è principio di un atto non può essere termine dello stesso atto, ma di un atto precedente. Dunque il concetto dell' anima è quello di essere principio; e non è termine rispetto allo stesso suo atto primo (sostanziale), ma è termine rispetto ad un altro atto diverso da lei, che non si percepisce. Abbiamo veduto quale sia l' ordine intrinseco dell' ente che si chiama corpo. In quest' ordine abbiamo distinto: 1 la materia, primo subbietto delle altre qualità, o sostanza; 2 la forma sostanziale ecc.. Ma nell' anima umana non v' è materia. Non vi sarà dunque alcuna distinzione fra la sostanza e la forma sostanziale dell' anima? Come in ogni questione, così in questa conviene prima ben intendersi sul valore delle parole, cioè conviene definirle accuratamente, e quindi procedere conseguenti alla data definizione. Che cosa dunque si intende per forma sostanziale? Per forma sostanziale noi intendiamo « un atto perfezionante un altro atto, per modo che da questa perfezione, che il nuovo atto riceve, viene denominato con un nome sostantivo ». Così la materia non si chiama col vocabolo sostantivo corpo , se non concepita con quelle determinazioni che si concepiscono necessariamente nei corpi, come sarebbe una data grandezza, una data figura, ecc.. Ciò posto, è da notarsi che « l' atto perfezionante un altro atto »può concepirsi in due modi; cioè in modo che « l' atto perfezionante dia perfezione e finimento ad un atto, nel quale e pel quale egli stesso esiste », come accade pure della materia, nella quale, come in subbietto, e per la quale sussiste la sua determinazione, cioè la sua grandezza, la sua figura, che la compie e perfeziona. Ovvero l' atto perfezionante può intendersi in modo che dia perfezione ad un altro atto, pel quale e nel quale egli non esiste, ma sia un atto diverso da quello, in cui e per cui esso esiste; e così l' anima si concepisce essere forma del corpo extrasoggettivo, in quanto che il corpo animato presenta all' osservazione esterna i fenomeni della vita, che si hanno come una sua perfezione (relativa a noi). Considerato poi il corpo soggettivamente, esso risulta: 1 da un' azione di un agente nell' anima; 2 dalla natura dell' effetto che questo produce nell' anima, che è il sentito ed il suo modo, cioè l' estensione. E poichè questi effetti avvengono nell' anima e per la natura essenzialmente sentimentale dell' anima, quindi ancora l' anima è quella che si modifica, in modo da presentare in sè stessa tali sentimenti. Quando dunque il pensiero dell' uomo prende questi sentimenti e li unisce all' agente, cioè al sensifero, questo riceve dall' anima le qualità sensibili colla loro estensione; e quindi è ancora l' anima, che col suo atto veste il corpo (il termine dell' agente) di ciò a cui s' aggiunge il vocabolo sostanziale corpo; e perciò è l' anima, anche sotto questo aspetto, che dà alla materia la sua forma sostanziale. Dico che dà alla materia la sua forma sostanziale, perchè in questa operazione la forma sostanziale del corpo è piuttosto un effetto dell' anima e il termine interno della sua operazione, e però non è l' anima stessa che sia la forma sostanziale del corpo. Se si considera dunque l' anima come perfezionante e informante il corpo, ella è forma sostanziale non di sè, ma d' un altro ente, cioè del corpo; ed in sè stessa considerata, piuttosto che forma sostanziale si deve chiamare sostanza senza più (1). Si dirà che l' anima ha per sua essenza di essere forma o entelechia del corpo. Sebbene noi abbiamo già dichiarato come ciò si debba intendere nella prima parte, tuttavia conviene che, a dissipare l' obbiezione, qui si aggiunga qualche cosa. Se per corpo s' intende un ente diverso dall' anima, in tal caso non si può dire che l' essenza dell' anima consista nell' essere forma del corpo, perchè l' azione o la relazione di due enti non costituisce mai l' essenza, nè la sostanza di niuno di essi. Questa relazione può bensì conseguire necessariamente alla sostanza di uno d' entrambi questi enti; ma ciò che consegue alla sostanza, non è sostanza. Dico che consegue alla sostanza, perocchè le sostanze sono così fra loro unite e quasi costipate nella natura dell' universo che le une colle altre si sostengono e producono, sicchè diventano condizioni reciproche della loro esistenza; e queste conseguenze noi le chiamiamo conseguenti sintetici delle sostanze . Ma se noi consideriamo la sostanza dell' anima in sè e non in questi suoi conseguenti sintetici , in tal caso noi dobbiamo primieramente distinguere fra l' anima meramente sensitiva dei bruti e l' anima umana. E in quanto all' anima sensitiva, ella deve avere certamente, oltre il principio, anche il termine (sentito7esteso) del suo atto; ma la sua sostanza non istà in questo termine, ma nel principio; e questo termine non è che condizione di sua esistenza e ragione della sua individuazione. Che se questo termine si vuole tuttavia chiamare forma dell' anima, in quanto perfeziona l' atto pel quale ella è e lo individua, non ne viene però che l' informante sia la materia; perocchè ciò che informa ha ragione di principio e di atto, quando è essenziale alla materia essere termine. Ma la materia, intesa come sensifero, è occasione suscitatrice della forma , cioè del sentito fondamentale che individua l' anima, e che è dove si svolge e dimora il principio senziente. Il sentito adunque può dirsi forma sostanziale dell' anima, ma non la materia; perocchè egli non riceve la perfezione sua dal principio, ma piuttosto la dà al principio, al contrario di ciò che fa la materia, che è quanto d' imperfettissimo e di sommamente indeterminato (1) si può pensare nei corpi. Onde in ogni modo la nozione di materia non può convenire all' anima. Tanto più ciò s' intenderà, quando si considera che lo stesso termine dell' anima è in essa come in suo principio, come dichiareremo più ampiamente in appresso. Onde nell' anima dei bruti vi è sostanza e forma sostanziale indivise, in modo che non si può pensare l' una senza l' altra, ma non vi è materia. Se poi si parla dell' anima umana sensitiva ed intellettiva ad un tempo, noi vedemmo che la sua essenza sta nell' essere un principio razionale, e che lo stesso principio sensitivo riceve natura di termine a tal principio, in quanto è unito al principio razionale con naturale e continua percezione. Onde rispetto all' anima razionale si possono fare tutte le riflessioni, che facemmo rispetto all' anima meramente sensitiva per escludere da essa la materia; oltre agli argomenti particolari, che provano l' intelletto essere immune da ogni materia, per la ripugnanza che passa fra i caratteri essenziali di questa e i caratteri essenziali di quello. Per le quali cose convien dire che se nell' anima si distingue la sostanza dalla forma sostanziale, ad ogni modo la sostanza dell' anima non ha ragione di materia, ma di atto7principio, benchè in questo atto7principio si possa distinguere qualche cosa che lo perfezioni e individui, e che ha ragione di termine, rimanendo però l' anima anche in questo suo termine essenzialmente principio; e questa perfezione e termine si può chiamare forma sostanziale. Sotto la parola atto noi intendiamo qualsivoglia entità . Tuttavia la parola atto esprime l' entità con di più una relazione, cioè colla relazione a potenza , onde è necessario ricorrere al concetto di potenza acciocchè sia dichiarata pienamente la nozione di atto. E` nondimeno da osservarsi che la nozione di atto involge la relazione con quella di potenza, talora in un modo positivo, e talora in un modo negativo. La involge in un modo positivo , contrapponendosi la potenza all' atto , quasi che la potenza non sia ella stessa un atto. La involge poi in un modo negativo , escludendo la potenza dall' atto, come quando si parla di un atto, a cui non risponde alcuna potenza. Noi abbiamo detto che l' ordine intrinseco dell' ente non si può dedurre a priori, ma si deve rilevare dall' esperienza di quegli enti, che cadono nel nostro sentimento, i quali sono i corpi e l' anima propria. Abbiamo quindi posta la nostra attenzione su questi enti per conoscerne l' intrinseco loro ordine, ovvero come essi siano internamente costruiti e quasi organati. Noi rilevammo, da questa attenta osservazione, che ogni ente ci presenta una unità, ma che la mente in questo uno discerne più elementi con tale ordine fra loro, che taluno si concepisce anteriormente a tal altro, di modo che questo non si può pensare esistente se non insieme con quello che nell' ordine logico lo precede; onde questo secondo si dice che esiste nel primo e pel primo. Il primo poi di tutti, che si può concepire da sè innanzi agli altri, si dice che contiene gli altri, li sorregge e li fa esistere; e a lui si dà il nome di sostanza . Ma fra quegli elementi (che diciamo anche entità) non tutti e in egual modo sono necessari a pensare l' ente, e a denominarlo con un nome sostantivo. Quegli elementi o entità, che possono variare senza toglierci il concetto dell' ente, e senza aver bisogno di mutare all' ente il nome sostantivo che gli abbiamo dato, furono da noi chiamati forme accidentali o accidenti . Gli accidenti dunque sono certe attualità o entità non necessarie al concetto dell' ente, le quali però lo perfezionano; ovvero sono le privazioni di tali attualità o entità, che soggiacciono a variazioni. Ma anche queste attualità accidentali non si possono concepire senza la sostanza e la forma sostanziale dell' ente, onde si dice che esistono nella sostanza e per la sostanza. Di qui avviene che si possa concepire l' ente, ora fornito di queste attualità, ed ora privo di esse. Quando noi concepiamo l' ente privo di tali attualità, allora noi vediamo ad un tempo che egli può averle, e che, avendole, rimane lo stesso ente; e questo è considerare l' ente come una potenza . Diciamo ancora che quelle attualità esistono nell' ente in potenza e non in atto, volendo con ciò significare che quell' ente è suscettivo di tali attualità, benchè non le abbia. La potenza adunque è quella relazione, che la mente concepisce in un ente colle sue attualità accidentali, o colle variazioni e privazioni di esse. Dal quale concetto scaturiscono più conseguenze. E in primo luogo si scorge che non vi può essere potenza, la quale sia mera potenza senza alcun atto, poichè la potenzialità d' un ente suppone sempre l' ente, e quindi l' atto ond' egli esiste come sostanza e come forma sostanziale. In secondo luogo si vede che l' atto precede, assolutamente parlando, alla potenza, giacchè la sostanza è un primo atto, e la forma sostanziale ne è la sua perfezione necessaria a costituirlo; e la potenza non è, come dicevamo, se non la relazione che concepisce la mente fra quel primo atto e gli atti accidentali, e loro variazioni e privazioni. In terzo luogo è manifesto che ogni potenza è congiunta ad un atto, e che non forma un ente diverso da quello dell' atto a cui aderisce. All' incontro gli atti possono dipendere e ricevere la loro esistenza da altri atti a loro precedenti, in modo che questi atti precedenti costituiscano enti diversi. Di che si scorge perchè S. Tommaso con molta acutezza insegni che [...OMISSIS...] (1). Ora, se noi seguitiamo a considerare l' interna costruzione degli enti, che cadono sotto la nostra esperienza, facilmente conosceremo che le potenzialità, di cui parliamo, hanno tre modi; di che nasce la divisione delle potenze in tre classi. Poichè talora vediamo che un ente può riceverne in sè un altro senza confondersi con lui, come, a ragion d' esempio, gli oggetti conosciuti sono nell' anima che li conosce; e questa potenzialità dà luogo ad una classe, che chiameremo di potenze recettive (2). Talora un ente, ricevendo l' azione d' un altro ente, ne rimane in qualche cosa modificato, e questa sua passività dà luogo ad un' altra classe, quella di potenze passive (1). Finalmente l' ente stesso può porre degli atti che gli sono accidentali, e così gli si attribuisce quella relazione, che noi chiamiamo potenze attive . Ben si noti che tutto ciò che si dice degli atti in potenza, si dice, in senso contrario, anche della loro privazione, onde il poter essere privato di tali attualità prende forma di potenze negative . Dappertutto dove vi è una sostanza (unita all' idea), vi è un ente, perchè la sostanza è il primo atto che concepiamo, il quale fa sussistere gli altri nel modo detto. Ora le sostanze, e conseguentemente gli enti, furono da noi distinti in due classi, chiamate degli enti7principio e degli enti termine . Gli enti7termine sono quelli che non si concepiscono come senzienti; tale è la materia. Gli enti7principio sono quelli che si concepiscono come senzienti; tale è l' anima e tutte le intelligenze. Tanto gli enti7principio, quanto gli enti7termine sono sostanze, perchè si concepisce in essi un primo atto, pel quale esistono tutti gli altri atti (attivi e passivi) in essi discernibili col pensiero. Questi atti distinti (attivi e passivi) dalla sostanza, altri sono necessari (forme sostanziali), altri accidentali (forme accidentali). Essendovi dunque tanto negli enti7principio, quanto negli enti7termine atti accidentali, si distingue in essi la potenza dall' atto . Di più possono cadere, tanto in enti che appartengono alla classe degli enti7principio, quanto in enti che appartengono alla classe di enti7termine, delle potenze ricettive, attive e passive; e quindi possono soggiacere ad uno sviluppo, cioè a modificazioni e attualità che li perfezionino, come pure, al contrario, che li deteriorino (privazioni, potenze negative). Ma è da osservarsi che l' ente7principio conserva la sua natura di principio in tutto il suo sviluppo; e parimente l' ente7termine conserva la sua natura di termine in tutto il suo sviluppo, poichè l' essere principio o termine appartiene alla sua essenza, che non può variare senza cessare di essere quell' ente che era prima, e divenirne un altro. Dalle cose dette apparisce manifesto come anche nell' anima umana, oltre l' atto , vi sia la potenza . Anzi, dandosi in essa molti atti accidentali, conviene che molte sieno le potenze, che ad essi si riferiscono. Le quali potenze dovendo noi trar fuori e diligentemente descrivere, come ci siamo proposti a principio, ci conviene prima d' ogni altra cosa investigare in che modo nell' anima sì gli atti che le potenze possano essere contenute. Gravissima e difficile questione, come sono tutte quelle che considerano l' interna costruzione dell' ente, si trova esser questa: « come gli atti accidentali sieno contenuti potenzialmente nell' ente ». Conviene anche qui che noi cominciamo dalla lunga. In prima, si rammenti che, quando noi parliamo di un ente per riconoscerne la natura e l' interna costituzione, l' ente, di cui parliamo, è quello che esiste innanzi alla mente nostra, e non alcun altro; poichè se non l' avessimo concepito, non potremmo riflettere su di lui, nè parlarne; chè altra cosa è l' esistenza d' un ente non concepito, ed altra l' esistenza d' un ente concepito, essendovi in questo secondo di più la concezione nostra, l' opera del nostro spirito. In secondo luogo si rammenti ancora che noi conosciamo in diversa guisa l' ente e il modo dell' ente, ossia il suo ordine intrinseco. Poichè, come abbiamo detto, l' ente lo conosciamo per un naturale intuito; il suo ordine intrinseco poi lo raccogliamo a posteriori, dall' esperienza, percependone la realità. In terzo luogo si avverta bene alla regola, non mai abbastanza ripetuta, colla quale si distingue ciò che v' è di oggettivo e ciò che v' è di soggettivo nell' ente da noi percepito, la quale si è: « tutto ciò che riguarda l' ente, e che è somministrato dall' intuito, è oggettivo essenzialmente; e tutto ciò che riguarda l' ordine intrinseco dell' ente, e ci viene dall' esperienza, è soggettivo ». Il quale principio si potrebbe fraintendere; lo si fraintenderebbe, se si volesse inferirne che tutto ciò che è soggettivo nel nostro conoscere fosse falso; poichè in tal caso niente vi sarebbe più di vero intorno al soggetto. All' incontro, tutto ciò che sappiamo del soggetto e sue pertinenze è vero, allorquando non pretendiamo che il soggetto e sue pertinenze siano l' oggetto. E così ciò che sappiamo soggettivamente è pur vero, se noi l' affermiamo soggettivamente, come sarebbe falso, se noi affermassimo a noi stessi di conoscerlo oggettivamente. E tuttavia il vero nasce sempre dall' oggetto come da sua causa formale, a quel modo che dall' oggetto nasce ogni cognizione, sì fattamente che il solo soggetto, e tutto ciò che è soggettivo, non sarebbe neppure conosciuto, nè come soggetto, nè come soggettivo, senza il lume dell' oggetto. A ragion d' esempio, quando dico: « Io soggetto esisto », allora affermo l' esistenza del soggetto Io. Ora l' esistenza è oggettiva, benchè la cosa cui ella si riferisce sia il soggetto; e ciò vale tanto rispetto all' esistenza possibile, quanto rispetto all' esistenza reale. Che se io non annettessi al soggetto nè l' esistenza possibile, nè la reale, il soggetto rimarrebbe cosa sconosciuta al tutto, e quindi per me essere intelligente non esisterebbe in modo alcuno. Di che procede questa conseguenza, che non solo a noi uomini, ma ad ogni altra intelligenza altresì, esiste la realità solamente in tanto, in quanto è conosciuta; poichè l' atto stesso del conoscere è quello che aggiunge al reale soggettivo l' idea, cioè l' essere oggettivo che si chiama esistenza, e quindi altresì egli è quello che vi aggiunge la verità, perchè la verità non è altro se non ciò che è (1). Premesse queste cose, veniamo alla nostra questione: « in che modo gli atti accidentali sieno contenuti virtualmente nell' essenza dell' anima ». E` chiaro che è una di quelle questioni che riguardano l' ordine intrinseco dell' ente, e che perciò non si possono sciogliere se non ricorrendo all' esperienza del fatto. Tutto ciò che si può dire di più, riducesi a dimostrare che nel fatto non vi è contraddizione o assurdo; poichè questo appunto avviene talora, che il fatto ci apparisca a prima giunta pregno di elementi ripugnanti fra loro. Nel caso nostro l' apparente contraddizione non manca, e sta in questo che, mentre l' anima da una parte è un ente solo e semplice, dall' altra presenta pluralità di atti e di potenze. A quello che noi abbiamo detto su di ciò nella prima parte, è ora d' aggiungere altre considerazioni. Lume ci viene in sì arduo argomento dal principio ontologico annunziato, che « le sostanze, di cui si compone l' universo, stanno tutte coerenti e costipate insieme, così fattamente che l' una sorregge l' altra, e la fa essere quasi informandola, senza però che niuna di esse perda la propria distinzione e si confonda coll' altra ». Di che nasce una legge di continuità fra le sostanze, tale però che non distrugge la loro specifica distinzione. Ne deriva altresì quello che abbiamo chiamato sintesismo della natura. A ragion d' esempio, la natura dell' anima sensitiva non si può concepire senza ammettervi un esteso, che è il sentito o il sensifero, onde ci viene il concetto di corpo. Eppure l' anima è sostanza al tutto diversa dall' esteso e dal corpo. Alla sua volta il sentito esteso non si può intendere, nè concepire, se non si suppone che egli esista nel semplice, onde riceve l' unità; eppure di nuovo l' esteso corporeo è sostanza al tutto diversa dall' anima. Sono dunque due sostanze, l' una delle quali sorregge e fa esistere l' altra, niuna delle quali si concepisce senza l' altra; eppure l' una è dall' altra differentissima. Se noi parliamo dell' anima razionale troviamo la stessa legge. E` impossibile concepire un' intelligenza senza un oggetto primitivo (1). Ora l' oggetto essenziale dell' intelligenza è l' essere in universale, al quale non conviene a dir vero la denominazione di sostanza, perchè è più di sostanza. Quindi fra la sostanza dell' anima razionale e l' oggetto che la informa vi è una infinita distanza di natura, sicchè si rimangono cose al tutto inconfusibili; ad ogni modo l' anima razionale non è se non in virtù di quest' altra cosa, che non è lei, e che in lei a suo modo dimora; e l' essere in universale non di meno, benchè si possa intendere senza l' anima umana od altra intelligenza contingente, tuttavia, essendo essenzialmente intelligibile, l' intelligibilità stessa, non si può concepire se non in quanto per l' essenza sua propria è inteso; onde deducemmo a priori l' esistenza di Dio, cioè d' una realità intelligente, che non ha natura diversa dallo stesso essere intelligibile, anche se quella si distingua da questo per intima relazione (2). Se noi dunque consideriamo questa coerenza ontologica delle sostanze, onde risulta il creato, riceverà lume maggiore quanto abbiamo detto, venendocene la seguente classificazione: Talora due sostanze si sorreggono e si attuano reciprocamente, in modo che una di esse ha ragione di principio, la quale si dice sostanza7principio, e l' altra ha ragione di solo termine, la quale si dice sostanza7termine. Che queste sieno due specie di sostanze diverse apparisce da ciò, che l' idea prima di ciascuna di esse è non solo diversa dall' idea prima dell' altra, con cui tiene sintetica relazione, ma ben anche opposta; il che si riscontra nelle due sostanze di anima e di corpo. Talora la sostanza è sorretta ed attuata da un termine, che, come dicevamo, non è propriamente sostanza; il che si avvera nell' anima intellettiva, il cui termine è l' essere ideale, per essenza oggetto. Ora nella concezione dell' essere noi non troviamo già un atto diverso da lui, anzi chiaramente intendiamo che l' atto, con cui è l' essere, non può essere che l' essere stesso; quindi in questa elevata regione cessa quella comunicazione di più sostanze che, quasi facendo l' una puntello all' altra, si sorreggono a vicenda, ed altro non v' è che l' essere a tutte le sostanze superiore. L' anima intellettiva, adunque, s' appoggia a questo essere, e così appoggiata, per così dire, ella esiste. Dalla quale ispezione, per noi fatta nell' interno delle sostanze contingenti affine di scorgervi l' ordine della loro costituzione, ci scaturisce un' altra classificazione di esse, che rientra nella prima, ma che è degna di essere distintamente accennata. Alcune sono extrasoggettive, non hanno che un' esistenza relativa ad altre sostanze finite. Il che si riconosce vero, qualora tengasi presente che noi dobbiamo parlare della sostanza secondo quel concetto che ce ne presta la percezione, al quale s' appoggia l' imposizione dei vocaboli di cui usiamo. Ora nel concetto della sostanza corporea o materiale, sostanza7termine, escludendosi qualunque principio sensitivo, rimane escluso anche l' atto di una soggettiva e propria esistenza, e non rimane a tale sostanza che l' esistenza relativa ad un principio senziente, non percependosi ella che come sentita. E` solo l' intendimento nostro che le aggiunge l' atto dell' esistere in modo assoluto; ma già notammo che lo fa, perchè altrimenti non potrebbe concepirla; nè intende egli con ciò di mutarne la natura o di aggiungervi cosa straniera; sicchè l' atto dell' esistenza subbiettiva, che vi deve certamente essere, non è più cosa che appartenga alla realità corporea da noi percepita, ma è supposto virtualmente dal pensiero per necessità del conoscere, è un atto non specificato e non specificante, sul quale riflettendo poi, si può indurre che appartenga a qualche altro ente fuori del corpo, in una parola a ciò che abbiamo chiamato principio corporeo. Alcune sono soggetti perché sono principŒ; e il principio, quantunque abbia col termine suo una relazione sintetica, tuttavia si concepisce avanti il termine, e quindi la sua esistenza reale non è fisicamente relativa a cose precedenti a lui, ma solo a cose che a lui conseguono. Tali sono le anime sensitive. Tuttavia queste non hanno ancora una suità, ad esse non compete il sè , e però neppure propriamente il suo , nè loro si addice in proprio alcun pronome personale. Ma l' uomo pensa e parla di loro, come avessero un' esistenza in sè, e loro applica i pronomi personali. Il che egli fa di nuovo, non a fine di trasnaturarle, ma di concepirle; non vuole con ciò attribuir loro la propria suità, ma quel modo oggettivo e soggettivo di essere, senza il quale egli nulla concepisce. Perocchè questo modo suppone che « l' ente abbia un atto suo proprio, sia in sè stesso qualche cosa, e però abbia un sè , una personalità ». Infatti non si dà essere completo, se non è persona; la persona è condizione ontologica dell' essere. Onde le anime meramente sensitive sono soggetti, ma soggetti incompiuti; e però non hanno tutta quella realità, che è necessaria a costituire un ente reale. Alcune finalmente sono soggetti perfetti, perchè hanno il sè , e quindi si può a tutta ragione dire di esse che hanno un' esistenza in sè; queste sono le sostanze intellettive, le quali sono enti7principio e non dipendono da niuna sostanza contingente, nè antecedente, nè conseguente ad esse; ma dipendono soltanto dall' essere eterno e divino. Queste sole hanno la suità, e possono dire Io a quel modo che abbiamo spiegato; ed esistendo un Io, esiste una vera causa, onde sono veri agenti, dotati di libertà. L' atto, con cui queste sostanze esistono, è indipendente da ogni sostanza creata; esse possono quindi sovrastare a tutte, ed operare in modo da non essere necessitate dall' azione di alcuna creatura; intendasi sempre in quanto sono pure intelligenze, e non legate all' essere sensitivo o corporeo, come accade dell' uomo, essere misto di sensitività corporea e d' intelligenza. Classificate così le sostanze secondo l' intrinseco loro ordine, giusta il quale sono costruite, noi possiamo finalmente riprendere la questione propostaci: « come gli atti accidentali sieno contenuti nell' essenza dell' anima umana », la quale dipende dall' altra più generale: « come gli atti accidentali sieno contenuti nell' essenza delle sostanze ». E la risposta generale a questa questione nasce dalle cose dette, e si può esprimere così: « Posciachè le diverse sostanze contingenti sono reciprocamente così unite che l' una sorregge l' altra e la fa esistere, basta concepire una mutazione in questa unione ontologica, acciocchè si concepisca altresì come le sostanze debbano riuscire variamente modificate, e queste modificazioni sono gli atti accidentali di esse ». Gli atti accidentali adunque delle sostanze dipendono dalle connessioni ontologiche , che esse hanno fra loro, e quindi si può dire che siano ad esse estrinseci. In questo modo l' unità della sostanza è mantenuta nella moltiplicità e varietà dei suoi atti, e così è sciolto uno dei più difficili problemi dell' Ontologia. Perocchè tale è la natura di quell' atto, che si chiama sostanza contingente , che egli si congiunge ad un' altra sostanza, e per questa congiunzione sussiste. Onde, quantunque non si ponga alcuna mutazione nell' atto stesso della sostanza in sè considerato, tuttavia se si cangia il contatto ontologico che ella ha con ciò che è diverso da lei, ella acquista un altro modo, viene ad essere attuata diversamente. Sicchè, quantunque il cangiamento non istia nelle sostanze, ma nella diversa loro congiunzione ontologica, tuttavia ne risulta un cangiamento nella sostanza, in quanto che la sua attualità dipende dal modo di quella congiunzione. Vediamo adunque in quante maniere si può concepire variata tale congiunzione. In prima si può pensare tale congiunzione affatto distrutta; e in tale supposto si annullano le stesse sostanze sintesizzanti. Così se noi separiamo il senziente dal sentito, si annulla l' anima sensitiva, poichè non è più anima sensitiva dove è spento affatto ogni sentimento ed ogni possibilità di sentire. Se noi separiamo il sentito dal senziente, si annulla la sostanza corporea e materiale; poichè non troviamo più nè estensione, nè forza sensifera, nè forza esterna, che immuta la sensifera, nè qualità sensibili, che sono gli elementi costituenti il concetto di corpo. Se noi separiamo l' anima intellettiva dall' essere ideale, quella già non è più, perchè ciò che nulla affatto intende non è in alcun modo anima intellettiva. Ma se noi separiamo l' essere ideale dall' anima, noi intendiamo tuttavia che egli deve essere inteso per essenza, e quindi non si annulla, perchè è indipendente dall' anima e da ogni altra sostanza mondiale, ma suppone un reale che abbia con esso lui un' identica esistenza. In secondo luogo possiamo concepire che la sostanza congiunta ad un' altra, a cui dà l' attualità, si cangi, o venendole sostituita un' altra, o venendole aggiunta un' altra, ovvero congiungendosi con lei un' altra parte sostanziale, come accade trattandosi di materie le cui parti sono sostanze numericamente separate, benchè della stessa natura. Il primo di questi casi è impossibile; perocchè se la sostanza che dà l' attualità ad un' altra, si cangiasse interamente, anche la sostanza che riceve l' attualità non sarebbe più, ricevendo ella la sua natura e formale esistenza dalla congiunzione con quella. Così se l' anima non avesse per suo termine il sentito corporeo, ma un essere intelligente, non sarebbe più anima. Il secondo caso, in cui trattasi che ad una sostanza se ne aggiunga un' altra della stessa specie, è possibile, ed è possibile in più modi. Qui trattasi di sostanza corporea e materiale, e però di porzioni diverse della stessa sostanza. Si considerino le diverse specie di animali bruti. Propriamente parlando, tutti gli animali non intelligenti costituiscono una sola specie, sono sostanze specificamente eguali, concependosi in tutti un primo atto eguale di esistere, che consiste nell' unione del principio senziente col sentito armonicamente eccitato. Ora gli animali appariscono di tante maniere diverse, perchè varia la quantità del sentito, dell' eccitamento e dell' armonia, colla quale il principio senziente è eccitato, che sono i tre elementi della sostanzialità degli animali. Questa variazione adunque nella connessione fra le due sostanze (anima e corpo) non cangia propriamente la sostanza, ma la mette più o meno in atto, onde si hanno animali più o meno perfetti, senza tuttavia che si possa dire che queste varietà sieno accidenti passeggieri, perchè si è cangiato sostanzialmente e stabilmente il sentito; onde il senso comune le considera come specie diverse. Che se si volessero chiamare varietà, converrebbe in tal caso distinguere due specie di varietà, chiamando le prime varietà costitutive , e le seconde consecutive o passeggiere, che sono accidenti rispetto alle prime. Se ad un animale si aggiungesse un senso nuovo (il che è possibile a concepirsi negli animali imperfetti, benchè non credo che si possa affermare possibile nei perfetti, se parlasi di sensi corporei), in tal caso seguirebbe in lui una mutazione costitutiva e stabile a cagione dell' unione d' un nuovo sentito, il quale differirebbe dai precedenti non pure per la quantità, ma ben anche per la qualità della congiunzione. Dalla quantità e dalla qualità, che può variare nelle sostanze congiunte ontologicamente ad altre, nasce altresì il concetto di quelle che si chiamano parti integrali d' un tutto; poichè l' uomo, a cui fu recisa una gamba, sofferse un cangiamento costitutivo e stabile, in quanto che non gli aderisce più una parte di quella sostanza, che a lui doveva aderire secondo il suo tipo ideale; eppure l' essenza dell' uomo rimase intatta, poichè non si cangiò nulla di ciò che cade nell' idea prima di uomo, cangiò bensì la congiunzione ontologica per la quale l' uomo sussiste. Finalmente la congiunzione ontologica talora non muta in modo che l' una delle due sostanze si cangi stabilmente, ma muta solo in questo, che l' una si unisce più o meno, o in diversa guisa alla sua compagna, e ciò per modo passeggiero e variabile, onde nascono quei cangiamenti accidentali, che sono gli accidenti comuni, a cui le sostanze create soggiacciono. Applicando tutto ciò all' anima umana, due sono gli elementi che la informano, il sentito corporeo (sostanza corporea), in quanto l' anima è sensitiva, e l' essere ideale, in quanto è intellettiva. Che l' anima umana sia sensitiva in un modo perfetto risultante dall' organismo umano, questa sembra una predisposizione necessaria all' intelligenza, come abbiamo veduto. Ma l' organismo umano che è il sentito, benchè debba avere una data conformazione acciocchè l' anima sia sensitiva al modo umano, cioè a quel modo al quale si aggiunge l' intelligenza, tuttavia quella conformazione non è tanto determinata che non possa menomamente variare. Quindi le diversità del sesso, delle età, dei temperamenti, dello stato diverso di salute, della maggiore o minore perfezione dell' organismo, ecc., le quali diversità: 1) parte sono stabili, e appartenenti perciò alle varietà o accidenti costitutivi secondo natura , come il sesso; 2) parte sono mutazioni di parti integrali , come accade nei mostri, a cui manca qualche parte o qualche parte si è aggiunta; e questa è un' altra classe di varietà o accidenti costitutivi contro natura; 3) parte non sono che di qualità , come la maggiore o minore robustezza, o il colore nero o bianco della carnagione. Ora poi, essendo la costituzione animale una predisposizione necessaria alla razionalità, in quanto che l' uomo riceve dall' animalità la materia della cognizione e le segnature secondo le quali ragiona, e quindi anche l' attitudine a ragionare con più o meno di perfezione, dipendente dalla facilità di avere, richiamare, mantenere, o mescolare a sua voglia le segnature sensibili delle cose; risultano nella facoltà ragionatrice ed affettrice altrettante varietà, quante sono le varietà indicate spettanti all' animalità umana. Che se poi l' essere, dall' uomo intuìto, acquistasse una realità, il suo stato intellettivo si cangerebbe sostanzialmente; ed è il passaggio che fa l' uomo dallo stato naturale allo stato soprannaturale; il quale argomento appartiene alla Teologia. A questo cangiamento però, risguardante la forma soprasostanziale dell' uomo, seguita un cangiamento relativo nella sua facoltà ragionante e nello stesso suo corpo, per l' attività che ha la parte intellettiva sulla parte animale, di che parlammo. Ma queste varietà secondo, o contro, o sopra natura, integrali o qualificative, che in qualche senso accidentali si dicono, cioè nel senso che non si racchiudono nell' idea di uomo, riguardano tutte varietà di stato , e non sono atti transeunti , dei quali noi dobbiamo parlare. La materia corporea, avendo ragione di termine, è necessariamente inerte; perciò non si avvera rispetto a lei che vi sia passaggio dalla potenza all' atto; ma tutte le mutazioni di lei procedono dal di fuori; ella è meramente passiva; onde non ha che atti passivi, che non sono propriamente atti, ma passioni. Le passioni poi dell' ente corporeo riguardano sempre la quantità, e quindi cagionano mutamento nella pluralità, nelle forme, nelle località dei corpi, ecc.. L' essere sensitivo pare che abbia degli atti accidentali, e così si possono chiamare. Ma se si considera attentamente come egli è costituito, si scorge che questi atti non hanno la loro ragione sufficiente in lui, ma nella sostanza che lo sorregge e lo attua, che è la sostanza corporea. L' essere egli adunque sorretto ed attuato diversamente, è ciò che cangia il modo accidentale della sua attività. Poichè egli è un' attività, giacchè, come vedemmo, è un ente7principio. Ma questa attività è sostenuta, informata ed attuata dal suo termine, cioè dal sentito; onde al cangiarsi di questo, quell' attività diventa maggiore o minore, e spiegasi in diverse guise, ma senza che muti la legge o il tema della medesima. A ragion d' esempio, se noi teniamo aperti gli occhi sopra una superficie, sulla quale trapassino diverse figure variamente colorate e disposte, la ragione della mutazione successiva giace al tutto fuori dell' occhio; l' attività dell' occhio inteso a riguardare rimane la medesima, benchè cangino quelle rappresentazioni; l' occhio vede sempre colla stessa virtù, collo stesso atto; pur egli pare che cangi l' atto visivo, ma non cangia da parte sua, sì bene è il termine che cangia. E tuttavia questo termine dell' atto dello sguardo è necessario al vedere, ed è ciò che fa che l' occhio veda attuando la visione. Onde secondo il cangiare della superficie veduta, cangia di conseguente anche l' atto dell' occhio, ma restando immutabile il suo tema, cioè il principio veggente e la legge del vederla. Ora è indubitato che se sulla superficie rimirata dall' occhio diminuisce il numero delle figure e s' impiccioliscono, l' occhio vede meno cose di prima, e se cessano affatto quelle rappresentazioni, l' occhio non vede più che una superficie uniforme. Ma se questa superficie visibile all' occhio andasse restringendosi, anche l' atto del vedere diminuirebbe, e se la superficie visibile sparisse del tutto, l' atto del vedere insieme con lei cesserebbe, non rimanendo più visione alcuna. Il che nasce perchè l' atto visivo non dipende unicamente da sè, ma è condizionato al suo termine, onde l' attività visiva non aumenta, nè cala, nè cessa per sua propria deficienza, ma per deficienza del termine che l' attua ed informa. Così ogni principio sensitivo, risultando da questa duplicità di sostanze, cessa col cessare della sostanza che gli presta il servigio di forma e di termine, e muta col mutare di questa sostanza, non che egli muti o cessi per propria deficienza, o per ispontaneo accrescimento e diminuzione di attività. Nè si opponga che da ciò verrebbe la conseguenza che il senziente fosse unicamente passivo, e perciò che rimarrebbero inesplicati tutti quei fenomeni animali, dove si manifesta l' azione del principio sensitivo sul corpo, come, per esempio, la circolazione del sangue; perocchè tutti questi movimenti hanno la loro ragione appunto nell' attività primitiva del principio senziente, la quale attività è sempre agente sul suo termine, secondo la legge stessa e secondo lo stesso tema. Onde se un' irritazione, poniamo un veemente dolore, cagiona aumento di circolazione, il che significa, secondo noi, crescimento di azione nel principio senziente, non nasce già questo perchè il principio senziente abbia da sè medesimo aumentata la propria attività, ma unicamente perchè l' attività, che egli aveva prima, trovò un altro termine che maggiormente l' attuò ed informò, e quindi potè spiegarsi a quel modo. Così se dinnanzi ai raggi del sole io pongo qualche corpo opaco, e poi vi sostituisco uno diafano, i raggi del sole percuotono il corpo loro opposto colla stessa loro legge, colla stessa celerità e veemenza; ma nel primo caso s' arrestano e danno indietro, e nell' altro trapassano, non perchè essi stessi abbiano modificato la propria attività, ma perchè la loro propria attività nel modo dello spiegarsi è condizionata a quei corpi di diversa natura, che incontrano nella loro via. Gli atti accidentali dell' uomo sono sensitivi ed intellettivi . E in quanto sono sensitivi, si spiegano al modo detto. In quanto poi sono intellettivi, non si possono spiegare se non ricorrendo al termine loro proprio, che è l' idea che attua l' attività intellettiva, l' oggetto, l' essere in universale. L' essere in universale è semplicissimo e per sè stesso immutabile; onde l' intelletto, come tale, è pure immutabile nell' ordine della natura, e non suscettibile che di una mutazione soprannaturale, quando l' essere ideale gli si realizza dinnanzi; il che non accade che nell' ordine della grazia e della gloria, fatto superiore all' umana filosofia. E` vero che si può dubitare se lo stesso essere ideale risplenda di egual luce a tutti gli intelletti umani; ad ogni modo io inclinerei a dedurre la primitiva diversità degli ingegni dall' ordine razionale, anzichè dal solo ordine intellettivo. L' ordine razionale comincia colla percezione fondamentale e il suo sviluppo, tostochè l' uomo percepisce le realità esteriori nell' idealità. Gli atti delle percezioni dipendono adunque dalle realità, che cadono nel suo sentimento; e quindi si spiegano anch' essi ricorrendo alla varietà del termine della percezione e all' attività razionale primitiva, per la quale l' anima è sempre tesa e per così dire inarcata verso il termine percettibile, che gli si presenta nel sentimento, senza bisogno di riporre alcuna mutazione spontanea cominciante in questa stessa attività primitiva. I bisogni poi determinano la riflessione dell' uomo, e questi atti riflessi rimangono spiegati allo stesso modo, perocchè i bisogni si fanno sentire dapprima nell' animalità. Solamente quando l' uomo è giunto all' uso della propria libertà (1), si presenta in lui un genere di atti affatto nuovo, la cui spiegazione sembra richiedere che l' agente si muova siffattamente da sè, che il passare dalla potenza all' atto non dipenda dal termine, ma dal principio operante. E qui sta appunto la difficoltà maggiore, nello spiegare cioè come quegli atti accidentali non tolgano l' unità del principio agente. La quale difficoltà è tanta che colui, che pur giunge ad intendere lo scioglimento di questa specie di mistero filosofico, trova somma difficoltà ad aprire il suo pensiero in parole per modo da farsi altrui ben intendere. Il che tuttavia noi tenteremo di fare. In prima si ricordi che la libertà (parliamo di libertà bilaterale) è la facoltà di eleggere fra due volizioni (2). Di poi si consideri come non vi ha luogo a vera libertà bilaterale se non nell' ordine morale, quando si tratta di eleggere fra una volizione consentanea alla legge e la sua contraria; perocchè fuori di questo caso non vi è ragione che possa indurre l' uomo a posporre il bene al male soggettivo, o il maggior bene al minore bene soggettivo (3). Ma qualora si tratta di porre a confronto l' ordine soggettivo coll' ordine oggettivo7morale, allora s' intende come possa essere che l' uomo anteponga il minor bene oggettivo7morale al maggiore fra i beni soggettivi; ovvero anche faccia il contrario, anteponendo il bene soggettivo a qualsivoglia gran bene oggettivo7morale. La ragione di ciò si è che l' ordine soggettivo e l' ordine oggettivo7morale non appartengono alla stessa categoria, nè i gradi loro si possono confrontare o commisurare insieme; onde niente hanno di comune, nè la specie, nè il genere, e però neppure vera somiglianza, nè manco vera analogia. Quindi se si considera il bene morale puramente tale (il quale si scorge nella necessità dell' obbligazione morale), egli non ha forza per sè solo di staccare l' uomo dal bene soggettivo, col quale venisse in collisione, se l' uomo stesso non vi pone della sua forza, e a favor suo non si determina; nel che consiste appunto la libertà. L' ordine morale adunque, ossia l' ideale7morale (la legge), è il termine dell' attività morale, come il bene soggettivo è il termine dell' attività reale. Essendo questi due termini categoricamente distinti, anche le due attività che sorreggono ed attuano, sono categoricamente distinte, e ciascuna di esse varia i suoi atti accidentali secondo le mutazioni del proprio termine. Ma poichè l' anima ha questo doppio termine, ella ha una doppia attività categoricamente distinta, i cui termini non potendosi commisurare insieme, quando vengono in collisione, non possono determinarla a spiegare piuttosto l' una che l' altra, onde ella stessa deve entrare in campo e decidersi; e in questo, per dirlo di nuovo, sta la libertà. Ora tutta la difficoltà consiste nello spiegare come l' anima, essendo unica, abbia queste due attività sì distinte, e possa liberamente aderire piuttosto all' una che all' altra, senza essere da niuna di esse determinata. Ora, che l' anima umana, essendo unica, abbia due termini, non è assurdo, poichè la duplicità sta nei termini e non nel principio; che in lei si suscitino due attività, è conseguente alla duplicità del termine, poichè abbiamo detto che il termine aderente attua il principio a cui aderisce; essendo dunque i termini categoricamente distinti, devono suscitare nell' anima due attività categoricamente distinte. Ma il difficile sta primieramente a spiegare come queste due attività, essendo categoricamente diverse, possono avere un unico principio, cioè l' anima. A tal uopo conviene considerare che le categorie conseguono alle forme dell' essere. Noi abbiamo detto che l' essere identico è in tre forme o modi, cioè nel modo reale, ideale e morale . Nell' essere dunque, nell' unità dell' essere convengono le tre categorie, benchè distinte fra loro assai più che genere da genere, ed incomunicabili. Trovato il nesso, ossia la sede unica delle categorie, dove vi è un' unità semplicissima con una trinità distintissima, si potrà intendere ancora come l' essere, che si comunica all' anima sotto la categoria reale e sotto la morale, possa mantenere nell' anima l' unità e non distruggerla, solo che si concepisca nell' anima anteriormente all' attività reale ed all' attività morale, e contemporaneamente una attività che riguarda l' essere nella sua unità; e questa attività si prova di fatto essere nell' anima, solo considerandosi l' intelligenza che ha per termine l' essere. Poichè, quantunque questa facoltà abbia per termine l' essere sotto la forma ideale, tuttavia ella ha prima ancora per oggetto l' essere puro , non potendosi comunicare colla forma ideale dell' essere senza comunicare coll' essere stesso, che in questa forma si manifesta. Onde anche nell' anima vi è unità e trinità di efficienza, vestigio manifestissimo della divina Trinità. In quanto adunque l' anima comunica coll' essere, ella ha un' unica attività, dove si unificano tutte le altre anche categoricamente distinte, siccome sono le due attività, reale e morale, di cui parlavamo. Non è dunque assurdo che come l' essere, essendo unico e semplicissimo, tuttavia ha tre forme, così l' anima, a cui l' essere si comunica, benchè semplicissima, abbia nell' unità sua tre attività categoricamente distinte. Ma rimane sempre a spiegare come quella attività unica che risponde all' essere, nella quale si unificano le due attività reale e morale, che rispondono alle due categorie dell' essere, possa determinarsi da sè stessa a preferire gli oggetti dell' una agli oggetti dell' altra quando vengono in collisione, per modo che non possa abbracciare gli uni e gli altri ad un tempo. A giungerne a capo (ed è l' intento di tutto il nostro ragionamento), conviene considerare che nell' essere intero, completo, assoluto, le sue forme non possono venir mai in collisione fra loro (1). E come la forma reale ha ragione di principio, la forma ideale di mezzo, e la forma morale di fine, così l' ordine di questo essere è tale, che la forma morale sta alle altre quasi loro compimento e perfezionamento. Quindi anche dove l' essere è partecipato con limitazione, la forma morale ha questo di proprio, che non può mai perdere la ragione di fine e di perfezione, che ne forma il concetto. Qualora dunque ella fosse posposta alle altre, e fatta servire siccome mezzo, o al tutto negletta, vi sarebbe disordine, cioè distruzione dell' ordine intrinseco e naturale dell' essere; vi sarebbe intestina lotta nell' essere medesimo, tendente a distruggerlo, poichè l' essere non può esistere se non coll' ordine suo proprio. Quindi l' anima, o una intelligenza qualunque avente a suo termine l' essere colle sue categorie, deve necessariamente nel suo primo atto serbare quell' ordine che gli somministra l' essere, il quale la sostiene e la attua colla comunicazione di sè stesso. Di che seguita che, qualora l' anima (non guasta ancora) operasse secondo questa sua prima attività così ben ordinata, nelle sue operazioni conserverebbe un ordine del tutto analogo e corrispondente all' ordine dell' essere stesso; e dall' ordine dell' essere sarebbe determinata ad operare con morale perfezione. Si deve dunque supporre che vi sia nell' anima una spontaneità di moralmente operare, cioè di tenersi sempre al bene morale, senza mai sacrificarlo al bene reale. Con ciò si restringe la nostra questione, poichè ella si riduce a spiegare come l' anima possa abbandonare l' ordine morale per correr dietro al bene semplicemente reale o soggettivo, cioè come sia possibile il peccato; perocchè spiegato questo, rimane spiegata altresì la libertà e gli atti suoi accidentali. E` dunque da considerarsi che l' anima, in quanto possiede l' attività reale, è mobilissima, cioè basta qualunque bene e qualunque male, quantunque piccolo egli sia, per determinarla all' operazione (1). E fino a tanto che questa operazione non si oppone all' ordine morale, ella opera secondo la spontaneità propria della sua attività reale. Ma allorquando l' operazione si oppone all' ordine morale, allora vengono in collisione dinnanzi a lei due attività, che la determinano in senso contrario, ciascuna delle quali, se fosse sola, basterebbe a farla operare, ma essendo l' una in opposizione dell' altra, quale vincerà? L' attività morale è superiore in quanto all' eccellenza e all' ampiezza del termine che la produce, poichè il suo termine è l' essere nel suo completamento e nella sua ultima perfezione, la quale abbraccia tutto. Onde se quest' ordine morale operasse nell' anima con quella efficacia di cui sarebbe capace, dovrebbe prodursi una spontaneità sempre mai prevalente. Ma questo ordine, benchè sia il termine dell' anima, non opera su di lei con sì piena efficacia. Quindi è che ella intende bensì la dignità di lui e la necessità assoluta di preferirlo, ma non ritrae indi la forza necessaria a reprimere la spontaneità dell' attività reale. Tuttavia ella può riuscire a ciò, ma ad una condizione, che da sè stessa si unisca più strettamente al termine morale che la informa e la attua, e così cresca la forza salutare di questo termine su di lei, onde ella stessa s' avvigorisca moralmente. Di ciò fare ella ne vede la necessità, come dicemmo; e il vederne la necessità non la determina certamente, ma la avvisa che, se ella vuole, può determinarsi da quella parte; dico se ella vuole, cioè se ella cresce il vigore della sua spontaneità morale con istringersi più intimamente al termine morale, con che riceve aumento di forza (2). Così il vedere la necessità morale , questo speciale termine della sua intelligenza, è il fonte della sua libertà, perchè sa per esso di potere e di dovere, benchè non sia determinata a volere. L' intelligenza adunque è il fonte della libertà, poichè l' intelligenza rappresenta all' anima l' ordine morale e la sua necessità suprema; le rappresenta che da quest' ordine le può venire quella forza che non ha, e che dipende da lei l' avere. Come dunque le altre attività dell' anima si determinano ai loro atti dagli oggetti o termini loro, che le attuano e le sorreggono, perchè tali oggetti sono determinati, così la libertà è determinata dal suo oggetto; ma questo oggetto, che è quello dell' intelligenza, abbracciando le due parti opposte, il reale e il morale, non la determina all' uno di essi; ma trovando l' anima in questo oggetto la possibilità di far prevalere il morale, perchè gliene viene rivelata l' eccellenza suprema, ed anche la necessità, e finalmente la potenza illimitatamente attuabile, ella rimane capace di determinarsi da sè stessa dalla parte migliore, o di cedere alla peggiore. Concludiamo: ogni sostanza reale, quando per la congiunzione ontologica sostiene ed attua un' altra sostanza, le dà un' attività determinata; ma l' essere ideale, congiunto ontologicamente con un' altra sostanza (l' anima), non le dà un' attività determinata, ma solo la potenza di determinarsi. Ma le potenze, che si rinvengono nell' anima, sono esse distinte dall' essenza dell' anima? In primo luogo si distingua fra la potenzialità generale dell' anima e le potenze speciali . Ora noi dobbiamo parlare della potenzialità dell' anima in genere, e cercare come ella si distingua dall' essenza dell' anima; perocchè della distinzione delle potenze fra loro parleremo nei libri seguenti. La potenzialità dunque dell' anima si concepisce dai filosofi in due modi: I - Come il principio dell' anima separato dal suo termine; e questa nozione rappresenta al pensiero un principio informe, il quale non è più anima, nè cosa dell' anima, perchè non ha alcun atto proprio dell' anima, neppur quello di suo principio, chè non è più se si stacca dal suo termine. Che se questa potenzialità si considera in relazione col suo termine, e non da lui separata, in tal caso cessa di essere potenzialità, perchè è atto primo, è l' anima (1). II - O come il principio dell' anima informato dal suo termine, ma da un termine, come già dicemmo, variabile . - Ora questa variabilità, che è la causa delle potenzialità, spetta al termine dell' anima e non al principio, che è l' anima stessa, la quale dal suo termine viene diversamente attuata. Onde questa, che è la vera potenzialità, rimane distinta dall' essenza dell' anima, la quale si potrebbe concepire anche se il termine non variasse giammai. A ragion d' esempio, non si può concepire anima sensitiva senza un sentito , ma questo sentito può essere vario in mille modi, e variare da un modo all' altro. Quindi ciò che si esige a concepire l' anima (a pensare la sua essenza) è un esteso sentito, ma senza bisogno di determinare la qualità di questo sentito esteso. Nel concetto dell' anima adunque, in cui si pensa l' essenza e non più, rimane indeterminato il sentito. In quanto adunque l' anima ha un sentito esteso qualunque, ella si concepisce nella sua essenza; in quanto l' anima può avere l' uno o l' altro sentito, si concepisce nella sua potenzialità . La potenzialità dunque è diversa dall' essenza dell' anima. Lo stesso ragionamento si può fare dell' oggetto, che è termine dell' anima intellettiva, solamente che l' anima intellettiva ha un oggetto determinato, che è l' essere in universale; e la variabilità non cade in lui propriamente, come quello che è immutabile, ma nelle realità, che in lui e per lui si conoscono (2). Ma perchè i termini dell' anima sono variabili? La ragione si è perchè i termini suoi sono limitati; giacchè in ogni limitato si può concepire variazione, e più e meno. Se all' incontro esistesse un ente, il cui termine fosse tutto l' essere e conseguentemente tutto l' ordine dell' essere, questo ente non avrebbe potenzialità di sorte alcuna, ma sarebbe puro atto. Perocchè tutto l' essere con tutto il suo ordine è perfettamente uno ed immutabile; il che si prova all' uso dei matematici, per l' assurdo che ne verrebbe dal supporre il contrario. Infatti supponiamo che nascesse variazione nel tutto. Ogni variazione appartiene all' ordine dell' essere. Dunque il termine dell' ente non era tutto l' essere con tutto il suo ordine, contro il supposto; perocchè dall' ordine mancava quella variazione, che ne è seguita. Quindi Iddio solo di necessità non può avere alcuna potenzialità, ma egli è atto puro; perocchè il suo termine è tutto l' essere con tutto l' ordine dell' essere, perocchè è sè stesso. Quindi ancora ciò che si concepisce in Dio come potenza, non può distinguersi dalla sua essenza senza errore. Deriva ancora da ciò quest' altra conseguenza, che se si concepisce una potenza che sia la stessa essenza dell' essere, anche gli atti, che si attribuiscono a questa potenza, debbono identificarsi coll' essenza dell' essere, dovendo essere un atto solo, che abbia per termine tutto l' essere nella sua perfetta unità e semplicità (1). E tuttavia l' essenza dell' anima è il fonte delle sue potenze, poichè consistendo l' essenza dell' anima nella natura di principio , il quale viene attuato dal suo termine, è chiaro che è il principio , cioè l' anima , che, attuata diversamente dai diversi termini, fa tutti quei diversi generi di atti, a cui si riferiscono le potenze; onde l' anima è dichiarata dal sommo filosofo italiano il principio degli atti, ma il principio remoto, laddove le potenze il principio prossimo (2). Rimane che parliamo degli abiti, e che dimostriamo come la loro moltiplicità non nuoccia all' unità dell' anima, a quel modo che abbiamo dimostrato questo stesso della moltiplicità degli atti e delle potenze. E la via ci è aperta da quello stesso che abbiamo fin qui ragionato. Ma per procedere più chiaramente, cominciamo dal definire che cosa s' intenda per abito, fissandone bene la natura. L' abito , in generale, è una certa disposizione acquisita ed accidentale dell' anima, per la quale ella è posta in uno stato migliore o peggiore, ed è più atta ad operare in un dato modo (1). Quindi la parola abito riceve due significati principali: o si considera relativamente all' essenza dell' anima, o relativamente alle sue potenze. Se l' abito si considera relativamente all' essenza dell' anima, egli è quello che aggiunge qualche cosa in meglio od in peggio allo stato naturale di lei, e perciò pone l' anima in uno stato migliore o peggiore di quel che ella avrebbe priva di lui. Se poi si considera relativamente alle potenze dell' anima, l' abito è una disposizione che dà loro maggior facilità di operare in un dato modo, ordinato o disordinato, buono o cattivo. Ad esempio del primo di questi due significati, recheremo la condizione dell' anima resa moralmente migliore da un atto di virtù o dall' acquisto di un merito, ovvero resa peggiore da un peccato o dalla commissione di una colpa. Ad esempio del secondo, valgano tutte le arti, le quali altro non sono che disposizioni acquistate di operare facilmente in un dato modo, per produrre ciò che l' arte intende produrre. Ora, se ben si considera, non sarà difficile accorgersi che l' abito in entrambi i significati conviene propriamente all' anima intellettiva e morale, e che all' anima sensitiva non conviene, in senso proprio, se non nel secondo significato. La ragione di ciò si è che l' anima meramente sensitiva, non avendo alcuna personalità, nè essendo causa delle proprie azioni, nè avendo alcuna norma ideale da seguire, non è suscettiva se non della perfezione naturale di fatto. Onde un' anima sensitiva può essere più o meno perfettamente naturata di un' altra, ed anche la stessa anima può acquistare e perdere, ma ella acquista e perde della natura, e non dell' abito che la rende migliore o peggiore. A ragion d' esempio, se un' anima sensitiva ha un termine maggiore, più molteplice, più organato a conservare la vita, più eccitante, quell' anima è maggiormente attuata; ma questa maggiore attuazione è della stessa indole dell' attuazione naturale; onde si deve dire che la sua natura è cresciuta o diminuita, non che ella è migliorata o peggiorata, se non in un cotal senso traslato, in quanto si riferisce dall' uomo alla idea archetipa di quell' animale. Così pure un corpo se è più grande, non è che sia migliore, o che abbia un abito; soltanto egli ha più quantità di materia. All' incontro le potenze dell' anima sensitiva possono avere degli abiti, intendendo la parola abito nel secondo significato, cioè come una disposizione della potenza ad operare in un dato modo. L' anima razionale poi, avendo una norma ideale da seguitare, non è solamente suscettiva di avere più o meno attività naturale, ma ben anche di essere migliore o peggiore, secondo che è più o meno conformata alla sua norma, dalla conformazione alla quale ella riceve dignità, merito, diritto al bene eudemonologico; il che non appartiene alla sua natura propriamente, poichè è una relazione con cosa diversa da lei; e perciò appunto si dice abito, perchè ella acquista una condizione migliore o peggiore in virtù di tale relazione, la quale relazione è migliore o peggiore; onde la bontà o malvagità della relazione si riflette sull' anima. Ove ancora rimane chiarito come l' anima possa avere degli abiti soprannaturali, se si congiunge a lei Iddio, il quale, non essendo oggetto naturale, non appartiene alla natura dell' anima, ma è cosa che le viene dal di fuori, benchè in qualche modo questa maniera di abiti aggiunga all' essenza dell' anima ciò che niun altro abito le aggiunge, quasi una nuova natura. Venendo ora a parlare degli abiti nel secondo significato, cioè come disposizioni delle potenze ad operare in un dato modo, conviene circa la loro natura più cose osservare. E primieramente è da osservare che la classificazione degli abiti delle potenze deve seguire necessariamente la classificazione delle potenze. Ora le potenze sono di due maniere: altre hanno uno scopo solo, altre poi, superiori, sono ordinate a reggere e a dar ordine alle inferiori. Quindi anche gli abiti o perfezionano la potenza rispetto al suo proprio scopo, o perfezionano l' ordine fra le potenze, disponendo bene ed avvalorando quelle che debbono reggere le altre. Quantunque poi l' abito di sua natura perfezioni la potenza, tuttavia talora produce indirettamente un danno ed un disordine nel soggetto; e ciò avviene quando l' abito perfeziona quelle potenze, che debbono essere dirette e subordinate, dando loro una forza e prontezza di agire maggiore di quella che non abbia la potenza ordinatrice; nel quale caso la potenza perfezionata dall' abito rimane sbrigliata, e adduce il disordine, e talora la distruzione dell' ente. Vediamo ora come gli abiti si producano; al che ci fa strada l' aver veduto come si producano e costituiscano le potenze e i loro atti accidentali. Noi abbiamo detto che gli atti accidentali nascono pel cangiamento accidentale del termine che informa l' ente; questi atti secondi suppongono l' atto primo, cioè l' ente stesso informato. Ora nell' ente informato vi è principio e termine; e il termine è quello che suscita l' attività del principio, qualora il termine si cangia accidentalmente in modo da suscitare l' atto accidentale e secondo. Ora, benchè questo atto sia transeunte, tuttavia, anche cessando, lascia nel principio un resto di attualità; onde il principio più attuato si fa più pronto; perciò è più energico a rispondere ad un nuovo eccitamento che egli riceva dal termine, che s' immuta per la seconda volta nel modo stesso in cui si è immutato la prima, quando suscitò la prima volta l' atto accidentale. Secondo questa legge apparisce come la frequenza degli atti, quanto è maggiore, debba produrre un abito maggiore, benchè l' abito incominci pure col primo atto accidentale. Forse si dirà non potersi capire come il principio di un ente debba rimanere più attuoso quando cessa l' atto accidentale, posciachè il cessare di questo atto involge che sia tolto il termine che lo suscitò. Che se la cosa fosse tuttavia così, non sarebbe più vero che l' attualità nel principio di un ente dipenda, come si supponeva, dall' azione e dall' inerenza del termine; ma si dovrebbe cercare un' altra cagione della maggiore o minore attuosità del principio, indipendente da quella che gli viene dal termine, se, anche cessato questo, egli resta più attuoso. Al che rispondiamo che quando cessa l' atto transeunte, non cessa del tutto l' inerenza del termine. E ciò si vede sì negli atti delle facoltà sensitive, come in quelli delle facoltà razionali. E veramente in quanto alle facoltà sensitive, dopo avuta una percezione esterna o provato un sentimento passivo od attivo, rimane nel senso il vestigio dell' una e dell' altro. Infatti è cosa indubitata che il principio sensitivo conserva nel suo sentito una modificazione prodotta dall' azione dei corpi esteriori sul corpo da lui avvivato, anche quando essi hanno cessato di agire; è indubitato che una passione qualsiasi o una inclinazione istintiva rimane, anche dopo cessata un' azione nel nostro sentito. E queste modificazioni permanenti sono la cagione degli abiti, o piuttosto sono la stessa attività abituale del principio sensitivo. Il che meglio s' intenderà, quando si consideri che l' attività del principio sensitivo è più ampia ed estesa che non sembri, non terminando ella già nella sola sensazione, nel solo sentito, ma operando sul sensifero. Ad ogni mutazione del sentito, ella sorge ad operare sul sensifero, per accomodarlo a sè siffattamente da trovarsi il meglio che ella possa; di che le viene la sua virtù organizzatrice. Quindi, dopo avere ella provate certe sensazioni, e, coll' attività per esse in sè suscitata, avere accomodato a sè medesima il sensifero nel modo più opportuno che per lei si possa, ella è rispettivamente migliorata di condizione. Il che via più si scorge, se si considera la legge dell' istinto sensuale , che è una parte di sua attività. Poichè il principio senziente prima d' aver provato una piacevole sensazione, non può volgere la sua attività a produrla a sè stesso; ma quando l' ha provata, allora mette tutte le sue forze a ritenerla; e non potendo ritenerla del tutto, perchè gli è tolto lo stimolo esterno che la suscita, egli la ritiene in parte, accomodando, più che egli può, ad essa il proprio sensifero, che non gli è tolto; onde si rimane in conato e tensione per riprodurla tostochè egli possa; e però allorquando gliene torna l' occasione, coll' essergli applicato nuovamente lo stimolo esterno, egli è già pronto ed avido di cooperare subitamente con esso a riavere lo stesso piacere; e ad essere in tale attività maggiore lo aiuta, come dicevamo, il sensifero da lui ritenuto in quell' atteggiamento che fa bisogno per esserne così attuato, od averlo pronto all' effetto. Poichè la piacevole sensazione non sorge già per la sola opera dello stimolo esterno; ma intervengono principalmente a suscitarla i movimenti del sensifero, i quali pure dipendono da quella disposizione dell' anima, che sorge durante l' atto accidentale, e che, cessato, non cessa interamente, non cessando il sensifero da rimanersi attuato al bisogno, quantunque cessi lo stimolo esteriore. Della qual dottrina è conferma il vedere che gli abiti sensitivi cessano, ove il corpo umano e però il sensifero sia mal disposto, come cessa la stessa attività sensitiva, se quello le venga disorganizzato e distrutto. Così adunque si spiegano gli abiti delle facoltà sensitive e tutto lo sviluppo dell' istinto sensuale, che appartiene principalmente ad un' attività abituale. Quanto poi agli abiti delle facoltà razionali, essi si spiegano in un modo somigliante, per via di quel termine che rimane quasi infisso nell' anima, anche cessati i sentimenti corporei che occasionano il ragionamento. E veramente nell' ordine della razionalità vi è: Un termine costante e immutabile, il quale è l' essere indeterminato nella sua forma ideale. Di poi vi sono le percezioni, le quali sono atti transeunti. Ma posciachè esse lasciano nel sentimento, come abbiamo detto, dei vestigi, degli istinti suscitatori d' immagini e di altri sentimenti attivi e passivi, in questi vestigi e rimasugli si contiene lo stimolo agli atti dell' intelligenza, coi quali si suscita l' attività dei concetti, ecc.. Il linguaggio pure appartiene all' ordine sensibile, in quanto si compone di suoni e di altre sensazioni, le quali lasciano i loro vestigi del pari nella sensitività interiore. Cogli abiti adunque delle facoltà sensitive e cogli istintivi movimenti si spiega come la potenza razionale sia suscitata e tratta a molti suoi atti dal sensibile, anche quando niuno stimolo esterno opera nella sensitività. In terzo luogo avviene dell' attività razionale quel medesimo che della sensitiva; dopo fatto un atto, ella ritiene la propensione a ripeterlo, e ciò a cagione che rimane qualche cosa dell' oggetto nell' intelligenza. Questo s' intende quando si considera che l' oggetto della ragione è il sensibile, considerato come ente. L' ente appartenendo unicamente all' intelligenza, ella ne ritiene il concetto (ideale), anche passato l' atto del percepirlo. Ma due cose qui rimangono da investigare: Se il concetto ideale possa rimanere, senza che vi sia alcun vestigio sensibile a cui riferirlo. Se possa rimanere la percezione dell' esistenza reale dell' ente concepito. Quanto al primo, noi teniamo che il concetto determinato di un ente non si possa pensare attualmente, senza che egli si riferisca a qualche vestigio della realità. Tuttavia, durante questo vestigio è certo che l' attività intellettiva acquista degli abiti rispetto a lui. Contro la prima parte di questa nostra posizione nulla prova il fatto degli astratti , i quali non sembrano riferirsi a nessun vestigio di realità; poichè, se ben si considera, essi si appoggiano e si riferiscono pure a qualche elemento di vestigio, benchè non all' intero vestigio. Laonde pare che la mente possa pensare attualmente gli astratti, solo allora che ella venga a ciò aiutata da qualche vestigio di loro realità. Quanto poi alla persuasione della loro sussistenza esperimentata in passato, si richiede qualche prova a convincersi che un ente, di cui si esperimentò la sussistenza in passato, sussista anche in presente, ed ogni prova involge qualche percezione di realità. Del pari ad essere persuaso di avere percepito in passato un sussistente (cioè ad averne memoria), sembra indispensabile l' aiuto di qualche sensibile vestigio, giacchè il sensibile talora è la materia propria della cognizione razionale, talora è lo stimolo al suo atto, come si dirà a suo luogo. Quindi è che gli abiti delle singole potenze razionali dovrebbero interamente cessare, se venisse tolto all' anima ogni sentito corporeo, e non gliene fosse dato alcun altro, che avesse con quello alcuna relazione. Non procede però da questo che cessino interamente gli abiti remoti del principio razionale, perocchè l' anima separata conserva, come abbiamo detto, il principio dello spazio, che è il principio remoto del corpo, e questo principio può essere subbietto di abiti remoti, reliquie degli atti del vivente. Conosciuta così la natura degli abiti, e come essi sieno attività mantenute dai termini dell' anima che suscitano gli atti e le potenze, è chiaro che neppure la loro moltiplicità pregiudica all' unità dell' anima; conciossiachè la moltiplicità non dipende dall' anima, ma dai suoi termini; e le diverse sue attività si riducono all' identico principio, che astrattamente si può concepire come una cotale attività per sè indeterminata, che variamente si attua secondo il variare dei termini suoi. Il quale pure, unito ai suoi termini, ha un' attività propria, perchè egli è sostanza dai suoi termini distinta; e però cresce di attuosità e di tensione; ma diviso interamente dai suoi termini già non è concepibile, e per ciò stesso neppure possibile. E` ammesso da tutti che l' anima è il principio di tutte le sue operazioni e di tutte le potenze; ma alcuni dicono che il subbietto delle potenze, che hanno bisogno di organo corporale, è il composto, e non l' anima sola (1). Il che è vero sotto un aspetto, cioè in quanto che l' anima non potrebbe avere una speciale sensazione, se non fosse fornita del corpo organico; le sensazioni speciali adunque (e lo stesso dicasi d' ogni altro atto, a cui abbisognano organi corporei) non si hanno dall' anima per un' attività sua propria, e non in lei suscitata. Ma noi abbiamo dimostrato che gli atti, le potenze e gli abiti, dipendono dalla stessa legge, cioè « sono attività suscitate nell' anima da entità diverse dall' anima, ma ontologicamente a lei unite come forma e termine ». Di che avviene che il composto non possa essere il soggetto nè delle potenze, nè degli atti, nè degli abiti, perchè ciò che nel composto non è l' anima, ha ragione di termine e non di principio, e il soggetto ha sempre ragione di principio (1); ma l' anima sola, appunto perchè ella è in egual modo il principio di tutte queste sue attività. Solamente che alcune hanno bisogno di un termine, ed altre di un altro termine. Così la potenza intellettiva deve avere per termine l' essere ideale, le potenze sensitive il corpo colle sue mutazioni, e le potenze razionali l' uno e l' altro annodati. Dissero gli antichi la Filosofia andar contenta di pochi giudici (1). E a fine di cessare da lei la moltitudine, i maggiori savi in segreto affidavano ad orecchi sceltissimi di provati discepoli il più sincero frutto di loro meditazioni. Noi all' opposto amiamo il popolo, parliamo a tutto il genere umano; quello che crediamo poter dire a un uomo, ci rallegriamo che sia detto a tutti. E ciò nonostante, il solo giudizio di pochi ci appaga; chè gli uditori o i lettori hanno tutti diritto di giudicare, a condizione che sappiano; ma i più non sanno, e questi provvederebbero alla propria dignità e all' avanzamento della scienza, se udissero tacendo. Perocchè anche gl' ingegnosi, che non ebbero voglia od agio di cercare il fondo delle questioni, distratti dai negozi della vita o da altri studi, ovvero che non credettero necessario impiegarvi diligente meditazione (volgare pregiudizio e comune consuetudine!), e però non giunsero a produrre a sè stessi una chiara ed intima persuasione della verità, profitterebbero meglio al decoro proprio ed a quello della filosofia, astenendosi dall' infrascarla e confonderla con imperfetti ragionamenti. E tuttavia molti di questa medesima schiera, invece di fare ingombro, potrebbero esserle di gran pro, qualora fra noi una critica severa castigasse gli scrittori troppo confidenti ed incuriosi, e una novella educazione, rendendo viva e gagliarda la morale nazionale (come oggimai pare indubitato che avverrà), accrescesse la dignità degli scrittori, e facesse loro sentire onesta vergogna di scrivere quanto non ebbero maturamente pensato e lungamente meditato. La qual vergogna nobilissima chi è ora che senta? Chi dimostra persuasione che all' ufficio dello scrittore debba presiedere la coscienza? O almeno quanto pochi stimano essere un dovere morale il ben pesare, prima di comunicarle al pubblico, le proprie opinioni, e ridurle a quella chiarezza e certezza, che possono ricevere da pazienza di assiduo studio, e il non confondere con concetti indigesti le menti altrui? Laonde io non mi prenderei meraviglia, se udissi condannare, con quella sicurtà che sogliono, non tutti per grazia del Cielo, ma pure alcuni dei nostri connazionali, le questioni svolte nel libro precedente siccome inutili, difficili, e però fastidiose; quasicchè le verità, che riguardano l' umanità ed altri esseri, si potessero rendere facili o difficili a nostra volontà; o convenisse meglio appagarsi di quella superficialità di scienza, che è dottrina mentita e presuntuosissima, anzichè adoperarvi fatica ed amore, e farsi discepoli alla natura, disposti di seguitarla coraggiosamente, quanto ci basta la lena, per tutto dove ella si avvolge fino addentro ai suoi più cupi recessi. Il che se fosse, lasciando noi giacere cotesti Italiani in su quei loro morbidi origlieri, e cantarci eziandio fra la veglia e il sonno il « pochi compagni avrai », noi riprenderemo il filo interrotto del nostro ragionare, sordi al dileggio, e così ci verremo continuando: Fin qui, o miei generosi lettori, noi svolgemmo la distinzione fra l' essenza dell' anima e le sue potenze o attività, e vedemmo come quella sia unico principio, queste sieno molteplici; di che ci diede ragione una bellissima legge ontologica della comunicazione degli esseri, per la quale molti e diversi possono comunicare con uno, e suscitare in lui medesimo diverse attività relative alla loro varietà. Il che non toglie l' unità del principio; chè egli si rimane sempre un primo ed unico atto, che abbraccia virtualmente gli atti secondi e molteplici; così essendo fatto l' ordine dell' essere, che quelle entità che sono molteplici considerate in sè stesse, sono une, considerate nel loro comune principio. Ora poi ci rimane a distinguere le attività dell' anima fra loro, deducendole dall' essenza, cioè dimostrando come di mano in mano vengano fluendo da quell' atto primo, uno ed ampissimo, che in virtù le contiene. Al quale intento rammentiamoci che l' anima non si può dividere realmente, senza distruggersi. E tuttavia, noi lo vedemmo, ella ha una costituzione sì fatta che le bisognano due entità per esistere, l' una principio , e questa è ella stessa; l' altra termine , il quale non è dessa, ma sì è suscitatrice di sua attività, condizione senza la quale ella stessa non è. Quindi se il principio si stacca da ogni suo termine, ci svanisce in nulla; ma unito al suo termine, egli è qualche cosa di ben distinto da questo; ha un' attività sua propria, benchè ella sia suscitata dal termine quasi causa della forma. Altra è dunque l' attività suscitata dal termine, che pone in essere il principio; altra è l' attività di questo principio già posto in essere. Le potenze sono determinate dal termine, e variano secondo il variare di esso; gli abiti procedono, come da loro fonte, dall' attività propria del principio già costituito. Ora quali sieno le leggi, secondo le quali l' attività propria del principio cresca, diminuisca, si modifichi indipendentemente dal termine, questo, noi dicemmo, non si può dedurre a priori, ma si deve rilevare dall' attenta osservazione. L' osservazione poi ci attesta che il principio ha tal virtù, per la quale egli si sforza di tenere a sè unito il termine suo, e di conservarlo in quell' atteggiamento e in quella disposizione che più gli piace, od anche di modificarlo alquanto per atteggiarlo così, ed anche stringerlo a sè con più intenso legame; i quali sono quattro modi diversi, in cui il principio, ossia l' essenza dell' anima, spiega la sua attività. E da questi modi nascono gli abiti, pei quali le potenze operano più facilmente , più prontamente , più efficacemente e più dilettosamente . Poichè, quando l' anima esercita qualche sua attività, sente diletto; chè ogni attività è in lei essenzialmente sensibile e dilettevole, in quanto è attività; e l' esercizio dell' attività è attività anch' esso, e però anch' esso è dilettevole. Ora, cessato l' atto accidentale, rimane nell' anima un resto del provato sentimento; la quale ritentiva del sentimento dilettevole cresce l' attività, che intende a riprodurlo rinnovando l' atto accidentale; questa propensione attiva è appunto l' abito. Come poi perdura nell' anima quel rimasuglio di sentimento provato nell' esercizio dell' attività? Per l' attività propria dell' anima stessa, che tiene seco unito, come dicevamo, e a sè stringe, quanto mai può, quel termine che le suscitò l' atto dilettoso; e lo tiene nell' atteggiamento convenevole a riprodurlo, ed anche l' aiuta a mettersi in tale atteggiamento, che sono i quattro modi detti, in cui il principio, cioè l' essenza dell' anima, è attiva. Nè osta a ciò, parlandosi dell' anima sensitiva, la cessazione dello stimolo esterno, che suscita la sensazione attuale. Perocchè non è lo stimolo esterno che immediatamente la suscita, ma il corpo vivente, che è termine costante dell' anima; onde, cessato lo stimolo esterno, cessa è vero la sensazione attuale, ma non cessa la disposizione del corpo animato, mantenuto dall' anima in quell' atteggiamento e mobilità necessaria a riavere prontamente e vivacemente la sensazione, tostochè lo stimolo esteriore si raccosti. Oltre di che rimangono i vestigi nella fantasia, in cui l' anima coll' aiuto degli interni movimenti casuali, che accadono nel corpo vivo dove tutto è movimento, risuscita facilmente le immagini; le quali pure appartengono agli atti accidentali della sensitività, e prestano all' anima razionale nuovo ossia variato termine, come fanno le sensazioni. Ma l' anima razionale stessa ritiene i rimasugli degli atti suoi, che costituiscono la memoria, anche cessati quegli atti accidentali. Onde i rimasugli sensibili e intelligibili, che restano nell' anima dopo gli atti accidentali, sono accrescimento del suo termine e aumento in lei di attività abituale. Quando poi l' anima razionale è pervenuta ad aver presente attualmente un fine, allora ella è fatta arbitra di molti atti sensitivi e intellettivi, che le valgono di mezzi a quel fine, onde può muoversi da sè, e accostarsi e stringersi più al suo termine, e applicare a sè gli stimoli esteriori. Il termine adunque dell' anima può ricevere cangiamento o modificazione da due parti: dal principio stesso, che è l' essenza dell' anima, e da una causa diversa dall' anima. Il cangiamento del termine si può concepire in diversi modi. Può concepirsi diviso intieramente dal suo principio, e in tal caso non è più termine. Può concepirsi che sia tolto un termine e sostituito un altro specificamente diverso, e in tal caso l' essenza dell' anima è cangiata, l' anima non è più quella di prima. Può concepirsi che il termine sia specificamente ingrandito, e in tal caso l' essenza dell' anima è quella medesima, ma ingrandita anch' essa. Ma ora noi mettiamo da parte questi cangiamenti concepibili, per parlare di quelli che non pur si possono concepire, ma avvengono ogni dì come l' esperienza ci attesta. Circa questi è da dire: Che il termine dell' anima in parte è costante e invariabile, e specifica l' anima umana, ne determina la natura. La parte invariabile del termine è duplice: a ) un esteso sentito, dove vi è continuo cangiamento di parti, causa del sentimento di eccitazione, e vi è organismo determinato; b ) l' essere ideale indeterminato. Che il termine dell' anima in parte è variabile. La quale variabilità consiste: a ) rispetto al corpo, nel cangiamento dell' estensione, del movimento intestino, causa dell' eccitamento, e dell' organismo, causa della perpetuità della vita; b ) rispetto all' essere ideale, la mutazione è soltanto dalla parte dell' anima, in quanto questa vede in lui i reali percepiti nel senso, e ne cava la dottrina della realità, onde così si arricchisce il suo oggetto, non cangiandosi in sè stesso, perocchè è l' anima che vede in esso ciò che prima non ci vedeva. Ora tutti questi cangiamenti danno luogo agli atti accidentali, i quali, cessando, lasciano gli abiti nell' anima. Gli atti accidentali adunque nascono pei cangiamenti che avvengono nei termini dell' anima, senza che si mutino questi termini specificamente. Ma questi cangiamenti, o avvengono in virtù dell' attività propria dell' anima, nel quale caso sono atti attivi , o avvengono in virtù d' una causa straniera all' anima, nel qual caso sono atti passivi . Gli abiti nascono da quel rimasuglio di attività, che resta nell' anima al cessare degli atti accidentali. Le potenze , finalmente, nascono dalla specifica diversità dei termini, accoppiata all' attività dell' anima stessa. Alla sentenza che l' attività dell' anima sorge in virtù dell' azione del termine, consegue che nell' ordine logico si concepisce prima nell' anima la passività e la ricettività , poscia l' attività . Dico nell' ordine logico , poichè non sempre nell' ordine cronologico è posteriore l' attività alla passività. Si distinguano dunque gli atti secondi e accidentali dall' atto primo, che mette in essere l' anima stessa. Negli atti secondi l' osservazione dimostra che la passività precede nell' anima l' attività, non solo nell' ordine logico, ma anche nel cronologico; giacchè prima l' anima sente e riceve, e poscia si muove ed opera. Ma questo non è possibile che avvenga rispetto all' atto primo, che è quello pel quale l' anima esiste, giacchè prima d' esistere ella non può essere passiva; ond' è forza che rispetto all' atto primo la passività e l' attività sieno contemporanee. Ma posciachè si vede che la relazione, che hanno fra loro la passività e l' attività nell' atto primo, è simile a quella di causa ed effetto, sicchè l' atto primo sorge in virtù dell' azione del termine; quindi si dice che nell' ordine logico precede la passività e l' attività sussegue, quantunque fino a che non vi è l' attività, non vi è l' ente. Nascendo dunque l' attività dalla passività, rimane a cercarsi se le potenze passive si possano dire specificamente distinte dalle attive. Stando a quello che abbiamo detto, che le potenze si distinguono secondo la distinzione specifica dei termini, propriamente parlando, la passività e l' attività non costituiscono potenze diverse, ma piuttosto diverse facoltà o funzioni della stessa potenza; perocchè l' attività è una continuazione di quel movimento che incomincia nella passività, quasi come la linea è continuazione del punto (1). Infatti il termine è nel principio come agente; quindi il principio appare passivo, ma nello stesso tempo è sorto all' atto ed alla sua operazione, e così si fa attivo, così è divenuto principio individuato. Quando poi il principio è già posto in essere, egli può da prima essere passivo al suo modo, e successivamente attivo; onde non v' è difficoltà a concepire che nel processo degli atti secondi una cotale passività preceda l' attività non solo logicamente, ma anche cronologicamente. Essendo dunque nella passività il cominciamento dell' attività dell' anima, onde nasce lo spontaneo o libero movimento del principio attivo costituente l' anima, la facoltà passiva e l' attiva, che le corrisponde, costituiscono una sola potenza, avente un solo termine, distinta però in due facoltà pel diverso modo ond' ella si esercita. Dove conviene aver presente che nell' intelletto in luogo di passività vi è ricettività , poichè il termine non è nè in tutto, nè in parte prodotto dall' attività del principio; che egli è di natura sua immutabile, inalterabile, onde fra lui e l' anima non v' è propriamente relazione di azione e passione, ma di presenza e d' intuizione. Tale è l' essere ideale; laddove il sentito riceve natura di sentito dallo stesso principio senziente, come abbiamo dichiarato, e però dal principio stesso egli è posto e costituito come tale, cioè come sentito. Si distinguono adunque le potenze come si distinguono i termini dell' anima umana, con questa sola avvertenza che i termini primieramente informano l' anima, cioè le danno il suo primo atto; di poi, modificandosi senza perdere la propria natura specifica, suscitano ed occasionano gli atti secondi. Ora l' attività dell' anima, considerata rispettivamente a questi atti secondi, si chiama potenza . Di che deriva ciò che abbiamo altrove detto, cioè che v' è nell' anima un sensibile ed un intelligibile, che appartiene alla sua natura, perchè ne mette in atto l' essenza; e vi è un sensibile ed un intelligibile, che appartiene alle sue potenze, cioè alle potenze di sentire e d' intendere. Ma se la diversità dei termini è fondamento alla diversità delle potenze, noi non potremo classificare a rigor filosofico le potenze, senza indagare come i termini diversifichino specificamente fra loro. Entriamo in questa ricerca. I termini sono entità agenti nell' anima; il cercare come essi diversifichino fra loro è questione che riguarda l' ordine intrinseco dell' essere, il quale, noi abbiamo detto, non si può inventare, nè discoprire a priori, ma si deve rilevare quale egli è dall' attenta osservazione; e tanto lo conosceremo, quanto l' osservazione ci aiuta, nè un capello di più; onde dobbiamo restarci contenti a ciò che ci dà l' osservazione, se non vogliamo comporre la filosofia di vani deliramenti. Ora, tutto ciò che dall' osservazione si raccoglie circa l' ordine primitivo dell' essere, viene a questo; che qualsivoglia entità, che noi possiamo pensare, si riduce in una di queste tre categorie: 1 o ella è sentimento , oppure cosa che cade nel sentimento, per esempio la forza che immuta il sentimento; 2 o ella è idea; 3 o ella è ordine fra il sentimento e l' idea. In ciascuna delle quali categorie noi troviamo l' essere identico; e in quanto egli appartiene al sentimento, lo chiamiamo essere reale; in quanto appartiene all' idea lo chiamiamo essere ideale; in quanto appartiene all' ordine completo fra l' essere reale e l' ideale, lo chiamiamo essere morale . Riducendosi adunque a tre categorie tutte le entità possibili, forza è che anche i termini dell' anima, che sono entità, si riducano prima di tutto a questi tre modi dell' essere. Di che potremmo agevolmente scorgere che la trinità dell' anima deve apparire sì nella sua essenza , e sì nelle sue potenze; e ciò senza impedimento dell' unità, poichè in tutti questi tre modi vi è l' essere uno ed identico, non partito, ma intero. Solamente è degno di considerarsi che l' essere morale, risultando dall' unione dei due primi, nell' ordine logico sembra ai due primi posteriore. Ma è da distinguere l' ente finito dall' ente assoluto. In questo l' essere morale non è posteriore, perocchè il completamento e la perfezione è essenziale all' ente assoluto. Ogni ente finito e intelligente all' apposto è costituito dall' essere sotto forma di realità, e dall' essere sotto la forma di idealità; ma non è necessario che vi concorra attualmente l' essere sotto la forma di moralità. Tuttavia, laddove si trovano unite le due forme di realità e di idealità, non può mancare una ordinazione fra loro; perocchè l' essere sotto questi due modi tende necessariamente a completarsi e congiungersi seco stesso, facendone risultare la terza forma, che è la forma morale in atto. Donde, se negli esseri intelligenti finiti non vi è necessariamente l' ordine morale in atto, che è ciò che si dice anche bene morale , non può tuttavia mancare la potenza di conseguirlo, ed anche la tendenza , e finalmente la necessità , acciocchè sia perfetto. Dico che non può mancare la potenza, perchè questa è annessa alla compresenza dell' essere reale ed ideale; poichè l' essere reale e ideale, come termini dell' anima, suscitano in lei due potenze. Ora queste, congiunte insieme nell' unità dell' anima, fanno luogo prima ad una terza potenza, cioè alla ragione , e poi questa alla potenza morale. Perocchè la ragione congiunge l' ideale col reale, appercependo questo nel lume di quello; e quindi ella vede quale sia l' ordine dell' essere, a cui l' anima, aderendo con tutta la sua razionale attività, si fa moralmente buona, o a quell' ordine contrastando, si fa malvagia. Ma l' anima non possiede a principio questa potenza se non virtualmente, perchè ella non ha l' ordine dell' essere presente per natura, ma soltanto ha l' essere nella sua forma ideale e in parte nella sua forma reale altresì. Onde nell' anima la potenza morale è posteriore e solamente virtuale. Conviene dopo di ciò considerare in che maniera l' essere reale e l' essere ideale concorrano a costituire l' anima; perocchè non vi concorrono al modo stesso. La differenza sta qui, che l' essere reale è principio e termine dell' anima; e in quanto è principio, egli costituisce l' essenza stessa dell' anima; all' incontro l' essere ideale non è principio, ma soltanto termine; ond' egli non costituisce l' essenza dell' anima, ma concorre a produrla siccome causa formale, o, se più piace, causa della forma, in quanto suscita in essa l' atto dell' intelligenza. Dal sapere poi che l' essere reale rispetto all' anima è di due guise, cioè principio e termine, si chiarisce via meglio come si generi l' atto dell' essere morale, perocchè l' essere morale si radica nell' essere reale in quanto egli è principio, e non in quanto egli è termine; chè la moralità ha propriamente ragione di principio e non di termine, consistendo nel compiacersi che fa un intelligente dell' essere conosciuto, in quanto è essere; nel quale compiacimento consiste l' ordine compiuto fra il reale e l' ideale. Ma quest' ordine deve essere prima presentato all' uomo dalla ragione, quale oggetto della sua attività razionale, cioè della volontà, e così costituisce il termine della potenza morale. Ora l' ordine morale nasce così: L' essere reale intelligente conosce nell' ideale l' essere sotto tutte le forme, e proporzionatamente se ne compiace. Perchè se ne compiace? Perchè lo conosce, o, che è il medesimo, lo trova nell' ideale; onde per mezzo dell' ideale si compiace dell' essere, in quanto è essere sotto tutte le forme. Questo compiacersi è l' ordine morale nell' anima, è il bene. Raccogliendo ora quanto abbiamo detto in questo capitolo, intenderemo facilmente che, essendo due i termini attuati nell' anima, due altresì debbono essere le potenze primitive, cioè la sensitività e l' intelligenza; ed essendovi un terzo termine solo virtualmente compreso nei due primi, deve esservi una terza potenza virtuale, la quale è quella della moralità. Al che aggiungendo ciò che abbiamo veduto nel capitolo precedente, cioè che ogni potenza incomincia dall' essere passiva o recettiva, e passa all' essere attiva, le due potenze della sensitività e dell' intelligenza avranno ciascuna due facoltà: la facoltà passiva e la facoltà attiva. Quanto poi alla potenza morale, non avendo termine in atto, ma solo in virtù, cioè dovendosi produrre questo termine dagli atti delle altre due potenze, o, per dir meglio, dell' anima stessa razionale che le dirige; ella non può avere passività, e quindi si rimane potenza puramente attiva; giacchè la passività, che a lei si riferisce, non è altro che quella delle potenze che la producono. E` dunque necessario distinguere due sorta di potenze nell' anima, le attuali e le virtuali , intendendosi per attuali quelle, di cui l' anima reca seco il termine nella propria natura; e per virtuali quelle, di cui l' anima non reca seco stessa il termine, ma lo produce ella medesima operando. Vero è che anche le potenze che chiamiamo attuali, fino a che si stanno immerse nell' essenza dell' anima non si distinguono, unificandosi nell' unità del principio, in cui si giacciono come quiescenti; o certo almeno non si possono distinguere come potenze, il cui concetto involge una relazione a diversi generi di atti accidentali, che sono ordinate a produrre. Ma quando gli atti accidentali nascono, quando s' immuta quel termine che è già nell' anima senza cangiare la specifica sua natura, allora appariscono le potenze, che si dicono attuali. Ora, come due sono i termini propri dell' anima umana, il sentito e l' inteso , così due sono le potenze attuali e primitive, il senso e l' intelletto , dotata ciascuna di facoltà passiva ed attiva; il senso della facoltà attiva dell' istinto, l' intelletto della facoltà attiva della volontà. Ma posti nell' anima il sentito e l' inteso, in cui terminano le due potenze del senso e dell' intelletto, sorge il termine di una nuova potenza, il quale si è l' accoppiamento del sentito e dell' inteso; pel quale accoppiamento « il sentito si conosce nell' inteso », cioè nell' idea, e conseguentemente si può volere ed amare, in quanto è conosciuto; quindi una potenza derivata, che è la ragione , il cui officio è quello di apprendere l' unità dell' ente, ossia l' identità del medesimo ente nel sentito e nell' inteso, ossia nella realità e nell' idea, come pure nell' ordine suo. Ora questa potenza, benchè sia conseguente alle due prime, e perciò si possa chiamare derivata , non è tuttavia nella natura dell' uomo solamente in virtù, ma è in atto; perocchè, come abbiamo veduto, nell' anima umana vi è una prima percezione fondamentale della propria animalità, in cui consiste l' unione dell' anima intellettiva col corpo, onde risulta il composto umano; e questa prima e fondamentale percezione è l' atto primo, pel quale la ragione esiste. Ma non basta avere nell' anima il reale e l' ideale, termini del senso e dell' intelletto; non basta neppure avere il loro accoppiamento logico, termine della ragione, a far sì che sia posta in atto la potenza morale . All' esistenza di questa è uopo che almeno esista la percezione di un essere intellettivo, a cui si possa porre tanto affetto, quanto egli si merita; il che viene a dire che lo si possa stimare ed amare per sè, non quale semplice mezzo a noi stessi, il che niente vieta di fare cogli esseri bruti. Ora in questa misura giusta della nostra stima comincia la moralità. La natura poi della moralità inchiude certa relazione a tutto l' essere, perocchè ella è quell' atto che lo compie e perfeziona, e quindi non può avere per oggetto se non l' essere intelligente che ha ragione di fine, ed ha ragione di fine perchè attinge l' infinito (1). L' uomo adunque, benchè senta, non percepisce però, nè conosce per natura alcun essere intelligente, e neppure sè stesso; giacchè la propria animalità, di cui ha la naturale percezione, non è sè stesso. Il perchè gli manca il termine della potenza morale, e se lo deve procacciare coll' uso di sua ragione. Onde la potenza morale giustamente da noi si chiama non pure conseguente e derivata , ma ben anche virtuale , non trovandosi nell' umana natura se non la virtù di produrre il termine di questa potenza, e così metterla in essere. Lo stesso è a dirsi della libertà bilaterale, che consegue all' ordine morale, come abbiamo dichiarato. Lo stesso della riflessione , che suppone dinnanzi la percezione, ed è una funzione della ragione. Dal che si raccoglie che le potenze, come pure le facoltà e le funzioni, nascono l' una dall' altra, allorquando le potenze, e facoltà, e funzioni precedenti cogli atti loro accidentali danno un prodotto, che diviene termine anch' esso dell' attività dell' anima; e termine variabile, onde l' attività, che a questo suo variare si riferisce, acquista ragione di potenza, di facoltà o di funzione. E qui stimiamo opportuno, prima di dire alcuna cosa delle potenze speciali, di porre sotto gli occhi del lettore una tavola sinottica delle potenze attuali, derivate e virtuali, acciocchè egli, considerandola, se ne rappresenti il complesso, e possa più comodamente seguirci nel viaggio che siamo per fare. Uno dei termini dell' anima umana, noi abbiamo detto, è il sentito esteso. A questo termine si riferisce la sensitività corporea. Ma non è a credersi che ogni sensitività dell' umana natura finisca qui; la sensitività corporea non è che una sensitività speciale. Si richiami alla mente che l' anima ha natura di principio, il quale non si può concepire senza concepire insieme il suo termine correlativo, di maniera che un principio senza termine è un assurdo, perciò nulla. Ma se noi concepiamo il principio unito al suo termine, abbiamo tosto il concetto di cosa, che ha la sua propria esistenza distinta essenzialmente dal termine a cui va unita, e quindi che è fornita di attività sua propria. La natura di questa attività è quella di essere sentimento, onde noi abbiamo anche definita l' anima umana un sentimento sostanziale . Ora un sentimento non si può concepire senza quei due quasi poli, che noi abbiamo nominati senziente e sentito . Se dunque l' anima umana da una parte è essenzialmente sentimento, e dall' altra ha natura di principio e non di termine, conviene dire che è essenzialmente sentita come principio, e non come avente natura di termine. Ma poichè il sentito, come tale, ha natura di termine, perciò nel principio sentito s' identificano il principio ed il termine; il che viene a dire che quell' anima stessa che sente è quella che è sentita nel suo termine, sicchè il principio, nel termine sentito, diventa sentito anch' egli, il che è quanto dire, s' individua. Si debbono adunque distinguere due maniere di sentire, quella che spetta al principio del sentimento, e quella che spetta al termine. Il principio è sensibile in altra maniera da quella in cui è sensibile il termine. Ciò che si sente è propriamente il termine, ma nel termine si trova il principio; sicchè questo viene ad essere sentito unicamente perchè aderisce e giace nel termine, la cui essenza è di essere sentito. Quindi l' anima, cioè il principio, non ha già una sensibilità propria, ma mutuata dal suo termine. Eppure il suo termine, in quanto è suo termine proprio e non straniero, è prodotto da lei stessa, appunto perchè ella ne è il principio. Ma se si considera l' anima in quel momento, nel quale ella non ha ancora prodotto il suo termine, ella è cosa del tutto insensibile, e non è anima. E quantunque quel momento si possa e si debba concepire colla mente, perchè infatti appartiene all' ordine dell' essere, tuttavia sarebbe un errore il credere che quel momento fosse un istante di tempo diverso da quello, in cui l' anima è naturata e individuata per avere prodotto il suo termine. Perocchè l' anima si natura in un solo istante, di guisa che l' anima, che produce il termine, e l' anima, che ha prodotto il termine, non si dividono per alcuna mora di tempo; ma in quel medesimo istante in cui il termine è prodotto, in quello l' anima è producente; sicchè nel prodotto si sente l' anima producente. Il principio adunque dell' atto che produce, e il compimento dello stesso atto, cadono nel medesimo istante senza pausa di sorte alcuna; e tuttavia questi sono due momenti ontologici distinguibili alla mente, la quale negli enti vede un' azione intrinseca, e in questa azione un ordine, e in questo ordine un prima e un poi diverso affatto dal prima e dal poi del tempo, non cronologico in una parola, ma ontologico. Tornando dunque al nostro proposito, quando l' anima è già formata, ella sente il principio ed il termine; ma la maniera, con cui è sensibile il principio senziente, differisce oltremodo dalla maniera, in cui è sensibile il termine sentito. Poichè: Il principio senziente non è sensibile in sè come semplicemente producente, ma pel sentito e nel sentito da lui prodotto; laddove il sentito è sentito, e perciò sensibile per sua propria essenza. Il senziente è sensibile egualmente in ogni sentito, perciò si può dire senso universale; laddove vari sono i sentiti che si escludono a vicenda, la cui sensibilità può dirsi senso speciale . Il senziente come tale è sempre identico, quantunque varii il sentito; perchè, avendo natura di principio, egli è come il vertice di un angolo uno e semplice, quantunque le due linee che lo formano sieno più o meno divergenti, e più o meno lunghe. E tuttavia il senziente si sente coi suoi nessi ai diversi sentiti, e così l' anima sente le sue potenze, funzioni, facoltà, atti, ecc.. A questa maniera, con cui l' anima sente sè stessa e tutto ciò che ella fa, noi diamo il nome di sensitività psichica . Rimane che noi diciamo qualche cosa delle sensitività speciali. Nell' anima umana noi possiamo concepirne quattro, almeno come possibili, che chiameremo corporea, pneumatica, ideologica, teorica . La sensitività corporea e l' ideologica non ammettono alcun dubbio; la pneumatica e la teorica non sono egualmente evidenti a tutti. La natura della sensitività speciale esige che il sentito sia un' entità diversa da quella del senziente. Quindi in ogni sensitività speciale vi è un' alterità , cioè l' anima sente un diverso da sè. Quest' alterità è carattere comune a tutte le sensitività speciali possibili. Ma ella si manifesta in due modi, come passività e come mera ricettività . La passività si riscontra nella sensitività corporea e nella pneumatica; la ricettività nella sensitività ideologica e nella teorica . Conviene accuratamente distinguere la passività e la ricettività , che sono i due modi pei quali l' anima sente e percepisce l' alterità, cioè un' entità diversa dalla propria. Ecco il doppio carattere che le distingue: Nella ricettività la cosa ricevuta non soffre alcuna modificazione dall' anima che la riceve, perchè è immutabile; come una moneta d' oro, che si mette in una borsa, non cangia natura, nè cessa di essere quella di prima perchè fu ivi collocata. Così l' essere ideale è nell' anima umana (1). All' incontro nella passività l' entità, che agisce nell' anima, prende qualche cosa dalla natura e dall' attività del paziente, cioè dell' anima stessa, che contribuisce a dare a quell' entità il suo essere. Così l' esteso sentito riceve dall' anima l' estensione (2) e la forza straniera che lo cangia, benchè, contro la tendenza dell' anima, produce l' effetto coll' aiuto di questa, che è suscitata a terminare spontaneamente il suo atto in un' altra estensione. Nella ricettività l' anima non è, propriamente parlando, modificata, solo acquista ciò che non aveva prima. Così la borsa, in cui si mette la moneta d' oro, non cangia natura, ma la borsa vale più piena che vuota. E se pigliamo un' asta e vi attacchiamo un ferro a forma di dardo, l' asta primitiva non è cangiata, nè modificata; ma ne è uscito uno strumento nuovo, a cui si dà nuovo nome ed ha nuova virtù. E così coll' aggiungersi l' essere ideale ad un principio senziente, il principio propriamente non s' è modificato; ma acquistò quel che non aveva prima, e da anima sensitiva divenne anima razionale. All' incontro la passività modifica propriamente l' anima, come accade nel senso corporeo. Intanto, se il sentito è posto in atto dall' anima stessa, ella fa più che ricevere, opera; e l' operazione di lei si riduce al concetto generale della modificazione. Di poi quando le viene cangiato il sentito, ella ha nuovamente bisogno di concorrere a ciò, e per un poco può ripugnare; ora il ripugnare, e poi l' essere indotta ad una operazione, è già una modificazione del soggetto operante. All' essere ideale l' anima non può opporre resistenza di sorte alcuna; neppure può cooperare a formarlo; deve dunque unicamente ricevere senza più, poichè rispetto a lui, ella non è prima che egli sia venuto in essa, e però non può opporsi a lui, perchè prima di essere non può operare. Dunque niente in questo fatto interviene nell' anima che abbia natura di modificazione; ma soltanto di nuovo acquisto da parte dell' anima, e di creazione da parte di quella virtù, che pone in lei l' essere ideale. Alla passione risponde dunque il fare; alla ricezione risponde il dare . Gli Scolastici confusero talora questi due modi, il che introdusse nelle loro dottrine qualche vena di sensismo , venendo tratti a parlare dell' intelletto come fosse una potenza interamente passiva, quando è ricettiva, e quindi ad assomigliarlo troppo al senso. La sensitività corporea ha per termine l' esteso e le sue passioni e modificazioni, cioè il movimento intestino dell' esteso sentito e l' organizzazione, ossia un dato collocamento delle parti, e quindi l' armonia dei movimenti sensibili. L' esteso sentito suppone il continuo , ed un solo continuo (1); perocchè se fossero due, i due sentiti non avrebbero alcuna attinenza, nè comunicazione fra loro. E poichè dove è il sentito, ivi è il senziente, perciò anche i senzienti sarebbero due, pari ai continui, senza attinenza, nè comunicazione fra loro. Ma se le parti del continuo si muovono con certa legge, senza cessare d' essere continue, nasce l' eccitamento del senziente, e la sensazione viva rispondente al moto intestino delle parti sentite. I quali moti e le corrispondenti sensioni possono essere molti in uno stesso tempo e in luoghi diversi; e la ragione si è che essi sono congiunti dal continuo sentito unico, in cui nascono, e quindi dall' unicità e semplicità del principio senziente. L' attenzione attuale e riflessa dell' uomo si reca assai più facilmente sulle sensioni eccitate, che rispondono ai movimenti intestini locali, che non sia al sentimento universale ed uniforme di tutto il continuo; indi a noi pare di sentire contemporaneamente in più luoghi separati, quando il vero si è che sentiamo un unico esteso continuo in modo non uniforme, in certe parti di esso più vivamente e variamente, a cagione dei minimi moti, come dicevamo, che ivi si suscitano. Il sentito esteso fondamentale è limitato , ma per sè solo non è figurato , giacchè a percepire la figura è necessario distinguere le linee o le superfici, che la circondano e formano; e queste non sono distinte nel sentimento fondamentale, nè possono distinguersi se non colla percezione di qualche cosa al di là dei suoi confini (2). Ora il sentimento fondamentale non va al di là dei confini del suo esteso, e perciò neppure distingue i confini dell' esteso, oltre i quali cessa il sentimento. Per intendere la differenza che passa fra i confini segnati con una linea o superficie percepita , dai confini determinati dalla cessazione del sentimento, si può recare un esempio tolto dalla visione. Se io guardo la tavola quadrata alla quale sto scrivendo, distinguo le linee con cui la tavola finisce; e le distinguo perchè coll' occhio abbraccio anche ciò che va al di là di quelle linee, un resto della stanza. Ma se io, tenendo gli occhi aperti, voglio vedere i confini della mia visione, cioè dello specchio visivo, io non posso vederli nè precisarli, molto meno confrontare lo specchio visivo con altro spazio maggiore, perchè oltre lo specchio visivo non si estende la visione, ma cessa; onde mi è impossibile il dire che lo specchio, a cui si stende la mia visione, sia piuttosto rotondo che quadrato, o d' altra figura, se pretendo desumere questa figura dalla sola visione e non dal raziocinio. Ora poi, come le sensioni speciali nascano dall' eccitamento del sentimento fondamentale fu da noi altrove ragionato. Ma è da confessare che la filosofia non è ancora giunta a conoscere la ragione di tutte le varietà singolarissime delle sensioni, e neppure a classificarle ed enumerarle compiutamente. Noi le abbiamo distinte in figurate e non figurate . Le figurate le abbiamo anche chiamate superficiali , perchè costituiscono la superficie o parte della superficie del corpo nostro e dei corpi al nostro esteriori, quali sono quelle del tatto, della visione, ecc.. Le non figurate furono quasi dimenticate dai psicologi, con più attenzione le considerarono i fisiologi. E` necessario osservare che il sentito figurato non si sente in noi, cioè non si sente riferendolo a noi, ma si sente in sè stesso come una superficie; la quale certo non è in noi come una superficie piccola sarebbe in una grande, anzi per sè non ha luogo, o, se si vuole, ella stessa è il suo luogo. Così lo specchio visivo non è già in un altro spazio più grande di lui, poichè egli è tutto lo spazio che si vede, nè più nè meno. Il luogo, in cui sono le sensazioni, si viene adunque formando, quando si considera una parte della sensazione superficiale in relazione a tutta intera la superficie sentita; ovvero quando più superfici sentite si pongono insieme colla immaginativa, formandosene una superficie sola, se non sentita, almeno immaginata o intesa, a quel modo che abbiamo detto formarsi da noi per via di moto il concetto dello spazio illimitato (1). Ma della località delle sensioni abbiamo ragionato nell' Antropologia . Qui solamente vogliamo osservare che da questa proprietà delle sensazioni figurate e superficiali, di non avere per sè altro spazio in cui sieno che sè stesse, s' intende come il senso interiore della fantasia può riprodurle; giacchè quelle sensioni non hanno per sè rapporto locale al nostro corpo, cioè esse non ci appaiono nè come collocate alla superficie del nostro corpo, nè come collocate nell' interno del nostro corpo; ma, come dicevamo, in sè medesime. Quindi niente osta che ai movimenti, per esempio, di quella parte del nostro cervello, che è l' organo della fantasia, risponda l' apparizione d' un campanile e d' una chiesa; giacchè il sentito non è già il cervello, quale anatomicamente lo conosciamo, ma è ciò che ci apparisce; e non apparisce già nel cervello che non si vede, anzi non ha altra località che quella, che nell' immagine stessa o nella visione apparisce. Come dunque, si dirà, percepiamo noi la superficie del corpo nostro? Come sappiamo che la superficie del corpo umano, che ci apparisce, è la superficie del corpo nostro e non dell' altrui? - Certo, la sola sensione superficiale non ce lo dice; ma lo sappiamo dalla sensione superficiale in rapporto con altre sensioni; per esempio, se io sono toccato da un corpo straniero ho una sensione sola, ma se io tocco me stesso ho due sensioni, che riferisco allo stesso luogo; di che conchiudo che io non sono solamente il toccato, ma anche il toccante. Così se io vedo un corpo, e quando questo corpo è toccato da un altro corpo qualunque in un punto da me veduto, provo una sensazione tattile, conchiudo che il corpo che vedo è il mio. Ma anche di ciò più a lungo fu ragionato nell' Antropologia . Ora la ragione delle diverse maniere di sensione, come dicevo, non fu ancora investigata. Il principio generale da cui dedurla, si può nondimeno raccogliere da tutta la nostra teoria dei sentimenti corporei, ed annunziare così: « Essendo il movimento intestino che avviene nel continuo sentito, se non la causa, almeno il fenomeno extrasoggettivo correlativo alle sensioni, alla varietà nelle sensioni deve rispondere altrettanta varietà in esso movimento; e questa varietà del movimento se non è, può almeno rappresentare la ragione di quella varietà delle sensioni ». Per applicare un tal principio conviene enumerare tutte le varietà, che si possono concepire nell' intestino movimento del continuo sentito e dei vari organi; e di poi, coll' aiuto dell' esperienza, ricercare quale sia la varietà di sensione, che corrisponde a ciascuna di quelle varietà. Quest' opera appartiene ai futuri progressi della filosofia; noi, che siamo ben lontani dal poterla intraprendere, ci contenteremo di soggiungere solamente qualche cenno, che aprirà forse la via al grande studio da porsi nell' applicazione del detto principio. Il moto intestino riesce diverso primieramente, secondo che è diversa l' organizzazione. Che anzi la diversa maniera di organizzazione non solo occasiona diversità nei movimenti intestini, ma prima ancora fa luogo ad una diversità nel sentimento fondamentale, e ciò in più maniere. A ragione d' esempio, in quelle parti del corpo sensibile dove la tessitura è più fina e compatta, è mestieri che si trovi accumulato maggior sentimento fondamentale che non in altro spazio di eguale grandezza, dove la tessitura è più larga e porosa, e meno compatta. La stessa grandezza totale del corpo animale sensibile determina l' estensione del sentimento fondamentale, e questa è varia siccome quella. Il moto intestino, che produce le sensioni acquisite, varia altresì secondo che nelle diverse parti del corpo animale varia il moto intestino fondamentale, prodotto dall' istinto vitale e dall' istinto sensuale. Che anzi l' operare stesso di questi istinti riceve di nuovo la legge dall' organizzazione. Ad ogni modo si può dire che il moto intestino, che risponde alle sensioni acquisite, trova la ragione di tutte le sue variazioni in queste tre cagioni: 1 nella varia organizzazione del corpo e delle singole sue parti; 2 nella varia attività dell' istinto animale; 3 nella varietà degli stimoli suscitatori di quei moti. Ma il movimento intestino, di cui parliamo, è un fenomeno meramente extrasoggettivo? o è anche un fenomeno soggettivo? - Per rispondere con chiarezza, descriviamo il fatto. Le sensioni dei colori e dei suoni seguitano ad un tremare od oscillare del nervo ottico e del nervo acustico; questo tremare od oscillare è il movimento intestino, di cui parliamo; i colori ed i suoni sono le sensioni. Ora in queste sembra che non si percepisca punto nè poco l' oscillare o il tremare dei nervi sensorii. Dunque il movimento intestino, di cui parliamo, è fuori della sensione, non è il sentito; dunque egli è extrasoggettivo. Ma come sappiamo noi che avvenga quel tremore nel nervo ottico ed acustico? - Noi lo sappiamo per ragionamento. Tuttavia non è assurdo l' immaginare che quel tremore potesse essere materia all' osservazione esterna; e certo quando noi immaginiamo un tremare ed un oscillare, noi parliamo di cosa che conosciamo per via di osservazione esterna; poichè se nessun tremore avessimo mai veduto od esperimentato, non potremmo immaginare che tremassero i nervi della vista o dell' udito. Questo tremore, adunque, è fenomeno della natura di quelli che cadono sotto la vista e gli altri organi esteriori. Applichiamo perciò l' occhio a riguardare i movimenti oscillatorii di una molla a spira. In tal caso qui abbiamo un' altra sensione visiva, nella quale il sentito è la detta molla col suo movimento. Ma un movimento simile ad esso è appunto il movimento intestino del nervo ottico, a cui rispose la prima sensazione del colore. Ora questo movimento intestino, che rispetto alla prima sensione abbiamo veduto essere extrasoggettivo, rispetto a questa seconda sensione è divenuto soggettivo, perchè ne forma il sentito medesimo. Ogni movimento intestino adunque, a cui risponde una sensione, è cosa extrasoggettiva relativamente a quella sensione; ma può divenire stimolo ad una seconda sensione, che lo prende per suo termine. E qui è da riflettersi che circa la seconda sensione si può fare lo stesso ragionamento, che si fece circa la prima; poichè se la seconda sensione ebbe a suo termine il movimento intestino della prima, non ebbe già a suo termine il proprio movimento intestino, che può divenire termine ad una terza sensione. Così l' occhio, che vedesse il movimento frequente che fa la molla a spira accorciandosi ed allungandosi, o vedesse anche il tremore dell' altrui nervo ottico, non vedrebbe perciò il tremore suscitato nel nervo ottico del suo proprio occhio, a cui risponde la sua propria sensione. Si può dunque andare all' infinito colla serie delle sensioni, rimanendo sempre vera in generale questa proposizione, che « il movimento intestino di ciascuna sensione non è il sentito della stessa, ma può avere natura di sentito per la successiva; e però essere cosa extrasoggettiva rispetto alla prima, e soggettiva rispetto alla seconda ». Qui si deve bene considerare come il movimento possa appartenere al sentito. Il movimento nel sentito non è già un' unica e semplice sensione; è una successione di sensioni eccitate nello stesso esteso sentito. Posciachè dunque con un organo, poniamo coll' occhio, noi percepiamo un movimento, per esempio vediamo cadere una stella filante, è necessario supporre che il nostro organo sia organizzato di un complesso di parti, ciascuna delle quali si possa muovere liberamente indipendente dall' altra, e così egli sia quasi un complesso di organi distinti. Tale infatti noi abbiamo descritta la costruzione del nervo ottico, non come un nervo solo, ma come un fascicolo di filamenti, quasi piccoli tubi, ciascuno dei quali può tremare dentro e fuori con diversa frequenza, e così occasionare un diverso colore e diversi colori successivi, secondo i successivi tremori dei vari filamenti (1). Ed ecco come la diversa organizzazione rende diversa la maniera di sentire, giacchè se l' occhio non fosse così fabbricato, che i minutissimi fili componenti il cordone non si potessero muovere ciascuno a parte con proprio moto, ma si dovessero muovere tutti insieme con uno stesso metro e nello stesso tempo, non si avrebbero le varietà dei colori, nè la sensazione del movimento. I vari colori e i vari suoni rispondono al numero dei tremiti o delle oscillazioni dei nervi, che a loro presiedono. Ora è chiaro che la prontezza e celerità, colla quale si muovono alcune parti del corpo nostro più che altre, dipende: 1 dalla loro organizzazione speciale, che contribuisce a renderle più pronte e celeri al moto; 2 dall' attività maggiore dell' istinto animale, che in esse si manifesta. Onde, di nuovo, la diversa organizzazione e la diversa azione conseguente dell' istinto rappresentano la ragione dei diversi sensorii. Ma quale rapporto ha mai il numero dei tremiti con la sensazione del suono, quale similitudine? - Nessuna; e perciò dicemmo che quello è un fenomeno extrasoggettivo rispetto a questo, che è soggettivo, d' indole tutta diversa. Pure, se si ammette che il sentimento sia annesso agli atomi della materia, non è più difficile il concepire che il movimento intestino, che non toglie la continuità, debba non già spostare il sentito, perchè ha per natura d' esser continuo e però senza parti sensibili, bensì alterarlo, producendovi quella eccitazione, che altrove abbiamo descritta, e che dipende dalle primitive leggi dell' istinto vitale, la cui ragione ultima si perde nell' abisso della creazione. La grandezza adunque del corpo sensibile, la sua forma, la forma dei singoli organi, la diversità dei tessuti, la diversità delle molecole le une incartocciate nelle altre, e quindi di ordini diversi sempre più intimi, la loro diversa minutezza, la diversa loro figura, i loro diversi contatti, la loro speciale mobilità, le varie direzioni in cui si muovono, la comunicazione varia del loro moto, il moto più o meno propagabile, la celerità e frequenza dei movimenti, ed altre simili varietà che si possono riscontrare nei corpi animali e nelle loro parti, sono le circostanze che vanno studiate in relazione alle varie maniere di sensioni, e ai modi e gradi che in ogni maniera si riscontrano; le quali circostanze rappresentano la ragione di tutte queste varietà e modificazioni. La seconda sensitività speciale, da noi distinta, fu quella che chiamammo sensitività pneumatica . Intendiamo per questa specie la facoltà di sentire gli spiriti altrui, o di ricevere da essi un sentimento, che ce li rappresenti. Questa facoltà è così poco studiata che sembrerà quasi cosa nuova; tuttavia l' osservazione mi rende probabile la sua esistenza. E` però da osservarsi che, essendo l' uomo un essere misto, la sensitività sua non può mai avere a termine immediato uno spirito puro; ma io credo che un' anima senta l' altrui anima od altro spirito coll' intermezzo del corpo e nel corpo. Infatti è certo che un corpo animato dà sensioni d' indole affatto diversa da quelle che dà un corpo inanimato. Io mi ricordo di aver letto in qualche opera del Conte de Maistre un tratto eloquente e assai fine su quel misterioso e recondito, che è nel bacio e nei sentimenti che esso produce. Pare che in tali comunicazioni vi sia qualche cosa di vivo e di spirituale, che non si possa attribuire alla sola materia. Nell' amore e nell' amicizia sembra che, nell' affezione e nell' unione dei corpi, le due anime stesse si sentano e si comunichino. Anche mi pare che questa comunicazione spirituale non si debba restringere fra esseri della stessa natura; gli angeli stessi potrebbero in qualche maniera rendersi sensibili agli uomini, operando nei corpi in modo loro conveniente. L' argomento è fecondo e meriterebbe di essere accuratamente studiato. Lasciandolo noi all' investigazione dei filosofi che ci succederanno, vogliamo qui arrestarci un poco a considerare che merito abbiano i lavori di Gall e Spurzheim, al lume delle cose fin qui ragionate. Il principio, onde muove la dottrina dei mentovati fisiologi, si è che « il cervello non è un organo unico, nel quale nascano tutte le operazioni dell' intendimento, ma un complesso di sistemi nervosi, ossia di organi distinti, a ciascuno dei quali appartenga la produzione d' una speciale facoltà ». In questo principio e nella dottrina che ne derivano i loro autori, conviene distinguere una parte vera, che rimane solida base alla frenologia, ed una parte falsa, associata con essa dall' ignoranza delle più importanti ed evidenti verità psicologiche. Le osservazioni, a cui appellano i detti autori, suffragano alla parte vera; la parte falsa che le associano, lungi dall' essere il risultato di accurate osservazioni sulla forma del cervello e delle sue parti, altro non è che il prodotto della immaginazione e dell' arbitrio, che s' intromette di continuo nei lavori di questa classe di studiosi della natura. Ecco a che si riduce la parte vera. L' anima è un principio unico, ma ella ha più termini. Uno di essi è l' esteso, che suscita nell' anima la sensitività corporea in generale. Ora è un fatto che in questo termine esteso si distinguono varii organi, i quali sono cagione che la sensitività corporea variamente modificata si sparta in diversi modi di sentire, che si considerano poi come altrettante facoltà. Quindi niente vieta che il cervello, considerato prima come un organo solo, si riconosca essere un aggregato di varii organi, ciascuno dei quali presieda ad un ramo della sensitività corporea, purchè non si creda che ciascun organo sia indipendente dagli altri, che sia un esteso continuo dagli altri diviso; giacchè è cosa indubitabile, come abbiamo veduto, che il termine di un' anima è un continuo solo, le cui parti sono variamente organate, e si muovono con tanta armonia che al movimento speciale d' una di esse concorrono tutte le altre. Questo e non altro può essere il fondamento della Frenologia , e quindi appariscono gli errori che vi hanno mescolato Gall, Spurzheim ed altri frenologi; i quali errori sono principalmente i seguenti: I errore . - Essi confondono l' ordine della sensitività coll' ordine dell' intelligenza. Le funzioni dei diversi organi, di cui si compone il cervello, possono riguardarsi come altrettante facoltà della sensitività, non mai dell' intelligenza. Ciò che produsse questa confusione si fu che, prestando la sensitività materia all' intelligenza, per ogni ramo nuovo di sensitività si spiega in un modo nuovo l' intelligenza, ricevendo nuova materia. II errore . - Essi non avvertono, o per dir meglio, taluno d' essi non avverte che, anche stando nell' ordine della sensitività, questa potenza non è produzione del mero organo, il quale non è altro che il termine del principio senziente, che si chiama anima; e la potenza di sentire nasce dall' unione del principio e del termine, dell' anima e dell' organo, e non da quest' ultimo solamente; anzi la potenza è del principio e non del termine, dell' anima, non dell' organo; perocchè il principio è il soggetto di tutti gli atti della potenza, e però della potenza stessa. III errore . - Da questa seconda confusione dell' organo col principio senziente, associata coll' altra confusione dell' ordine della sensitività coll' ordine dell' intelligenza, scaturì il falso concetto che si fecero alcuni frenologi dell' intendimento umano. Essi pretesero che come il cervello è un aggregato di organi, così l' intendimento umano fosse il complesso di una moltitudine di atti differentissimi. Se avessero attentamente considerato che colui che intende, benchè faccia molti e vari atti, è sempre il medesimo soggetto, essi avrebbero riconosciuto l' unità e la semplicità dell' intelligenza, come facoltà d' un soggetto unico e semplicissimo. L' intendimento fa bensì molti atti e grandemente diversi fra loro, ma egli non è l' aggregato dei propri atti; ne è l' autore, la causa, il principio unico, ai quali logicamente e, rispetto ai più, anche cronologicamente è anteriore. IV errore . - Quindi può conoscersi quanto sia insulso il vanto che cotesti fisiologi si danno, di avere notomizzata l' intelligenza, parendo loro che col portare il coltello sulla massa encefalica, l' abbiano proprio inserito nell' intelligenza stessa! E` poi chiaro che tali fisiologi, i quali confondono le cose più disparate, non possono essere atti a formare una retta classificazione delle facoltà dello spirito umano. Onde quando Spurzheim, per esempio, divide le facoltà dell' anima e dello spirito in affettive ed intellettive , egli non s' accorge che vi sono delle facoltà affettive, che sono intellettive; perocchè il soggetto intelligente ha degli affetti, che gli vengono dall' intelligenza. Quando poi, dopo aver diviso le facoltà affettive in inclinazioni ed in sentimenti , riduce le inclinazioni al numero preciso di nove, che, con vocaboli da fare spiritare i cani, chiama l' abitavità , l' affezionività , la combattività , la distruttività , la construttività , la mangiatività , e la secretività , e vuol dire l' inclinazione ad abitare, ad affezionarsi, a combattere, a distruggere, a costruire, a cibare, a segregare umori; egli dimentica tutte le inclinazioni intellettive e morali. Di più, egli non annovera le inclinazioni primitive dell' anima, ma solamente alcuni effetti , che vengono prodotti nell' animale dal concorso di molte inclinazioni e facoltà primitive. A ragion d' esempio, l' inclinazione ad avere un' abitazione e a fabbricarsela non è una facoltà primitiva, ma è il risultato di vari bisogni che sente l' animale, ai quali si muove istintivamente a soddisfare; e così può dirsi di ognuna di quelle inclinazioni. Venendo ai sentimenti dell' anima, Spurzheim pretende che sieno dodici in punto, quattro dei quali comuni all' uomo e alle bestie, e sono quelli dell' amor proprio , dell' approvazione , della circospezione e della benevolenza . Ma egli non s' avvede che in questi quattro sentimenti ha luogo l' intelligenza, e però al solo uomo convengono; laddove nelle bestie vi sono bensì delle affezioni corrispondenti, che simulano questi affetti, ma sono veramente tutt' altro. Ora appartiene pure alla sagacità del filosofo rilevarne la profonda ed essenziale distinzione, senza lasciarsi così grossamente illudere dall' apparente somiglianza fenomenale. Gli otto sentimenti propri dell' uomo, secondo il medesimo autore, sono quelli della venerazione , della speranza , della soprannaturalità , della giustizia; dai quali egli fa derivare le nozioni religiose e morali della perseveranza , dell' arguzia , ossia del motteggio, dell' idealità e dell' imitazione. Ma oltrechè questi sentimenti non sono gli unici, anch' essi sono tutt' altro che sentimenti primitivi; sono per lo più risultanti dall' uso di più facoltà primitive, loro produzioni ed effetti. Così l' uomo arguto e motteggiatore non trae il suo spirito arguto che da un certo temperamento e da una certa mistura di varie facoltà. S' aggiunga che qualcuno di essi, come l' imitazione , è un istinto manifestamente comune agli animali bruti, e più che in ogni altro essere manifesta la sua forza nelle scimmie (1). La stessa imperfezione si scorge nella classificazione delle facoltà intellettive, che lo Spurzheim divide in tre ordini: 1 le funzioni dei sensi esterni; 2 le facoltà percettive; 3 le facoltà riflessive . Ora le prime non appartengono all' intelligenza, ma alla sensitività corporea, che è tutt' altro. Egli divide le facoltà percettive in due gruppi, nel primo dei quali colloca quelle che riguardano la percezione degli individui , nel secondo quelle che riguardano la percezione delle relazioni degli oggetti e loro fenomeni. Mette dunque nel primo gruppo le facoltà dell' individualità , della configurazione , dell' estensione , del peso e del colorito . Ma queste cose, separate le une dalle altre appartengono all' astrazione e non alla percezione, la quale si riferisce sempre all' oggetto fornito di tutte le sue proprietà percettibili, secondo la natura delle diverse percezioni. Nel secondo gruppo egli colloca le facoltà del luogo , del numero , dell' ordine , dei fenomeni , del tempo , della melodia e del linguaggio artificiale; le quali, lungi dall' appartenere alla mera percezione, sono anch' esse altrettante funzioni dell' astrazione e del ragionamento, effetti di più facoltà primitive e secondarie, che operano e cospirano insieme a produrli. A ragion d' esempio, la facoltà del linguaggio, lungi dall' essere una facoltà primitiva, è un effetto oltremodo complesso di quasi tutte le facoltà umane, sieno quelle dei sensi esterni o quelle dell' istinto animale, sieno quelle del giudizio, del raziocinio, ecc.. Il terzo ordine delle facoltà intellettive, che è quello della riflessione, viene diviso da Spurzheim nelle sole facoltà del paragone e della causalità . Ogni filosofo, che abbia un po' meditato sullo spirito umano, può conoscere agevolmente l' insufficienza d' una tale classificazione. Oltre a ciò non esiste una facoltà primitiva della causalità, ma solo una legge ontologica, a cui ubbidisce l' intelletto, che cerca la causa di ogni contingente. Conviene adunque conchiudere: Che il cervello è un aggregato di vari organi, ma insieme armonicamente connessi in un solo continuo. Che ciascuno di essi ha delle funzioni speciali, ma solo nell' ordine della sensitività. Che nell' uomo alle diverse funzioni della sensitività corporea e al loro diverso sviluppo risponde un diverso sviluppo d' intelligenza, la quale riceve dalla sensitività la materia di sue operazioni; ma che nulla di ciò avviene nelle bestie, alle quali non è data intelligenza alcuna, ma una sensitività che simula coi suoi effetti istintivi l' intelligenza. Che le diverse funzioni della sensitività corporea, che rispondono ai diversi organi del cervello, sono funzioni primitive ed immediate, quali sono quelle del vedere, dell' udire, dell' assaporare, ecc.; alle quali succedono corrispondenti facoltà attive, come, a ragion d' esempio, alla funzione dell' udito la facoltà dei suoni vocali (non quella del linguaggio, che appartiene all' intelligenza). L' enumerazione accurata di queste funzioni primitive e immediate della sensitività corporea in relazione cogli organi del cervello, è appunto ciò che rimane a fare al frenologo. Questo lavoro è appena abbozzato; pochissime sono le proposizioni provate fino ad ora coll' osservazione, e, per indicarne una che pare ridotta a grande probabilità, citerò quella di Gall che « il cervelletto sia l' organo dell' amore fisico ». L' amore fisico infatti è una funzione primitiva della sensitività corporea. Non basta; quando si dice che un organo presiede a una funzione o a un ramo della sensitività, conviene guardarsi dal credere che egli solo basti a produrre le sensioni corrispondenti; anzi se si separa dagli altri organi, non si ha più l' effetto. Conviene adunque che il frenologo stabilisca oltracciò, moltiplicando le osservazioni e i più sagaci esperimenti, la connessione necessaria che ciascun organo ha cogli altri acciocchè possa produrre l' effetto; e più generalmente conviene che stabilisca non tanto quale sia l' organo di una data funzione della sensitività, quanto « quale sia l' apparato di organi, che è ordinato a produrla ». Di più, dopo avere dimostrato quale è l' organo speciale delle funzioni, quale l' apparato di organi che concorre a produrre effettivamente l' effetto, conviene che ricerchi finalmente: « quale sia la connessione di ogni apparato con tutto il sistema nervoso e con tutta intera la fabbrica dell' animale ». Ecco davvero un gran campo coltivato bensì dai moderni fisiologi, donde si potranno tuttavia cogliere ancora nuovi ed abbondanti frutti di solide cognizioni. La terza specie di sensitività è l' ideologica. Noi siamo consapevoli d' intuire le idee. Ora non potremmo essere consapevoli di questa nostra intuizione, se non sentissimo che siamo noi gli intuenti. Noi dunque abbiamo il sentimento di noi stessi come intuenti. Sembrerà che questa maniera di sentire si confonda colla sensitività psichica; e si può veramente concepire come un ramo di questa. Perocchè nell' una e nell' altra l' anima sente come principio; ma in quella che abbiamo chiamata psichica, l' anima sente come principio nel termine esteso , nell' ideologica sente nell' idea; giacchè i due termini dell' anima sono l' esteso e l' idea, e il principio sente nel termine. Laonde i termini essendo due, di natura disgiuntissima, il principio medesimo ha un doppio sentimento. Dove è da notarsi che il sentimento che ha l' anima, in quanto termina nell' idea, è un sentimento oggettivato, sicchè l' anima, che pure è soggetto, sente sè stessa oggettivamente, quasi perdendo nella pura intuizione la sua propria individualità. Dove giace il misterioso punto di congiunzione fra l' ordine soggettivo e l' oggettivo, fra il senso e l' intelligenza; di che ci promettiamo di poter parlare più compiutamente nella Teosofia . L' idea stessa non è tuttavia il proprio termine della sensitività ideologica, poichè ella è solo il termine dell' intuizione . La differenza fra il termine proprio del sentimento e dell' intuizione è capitale. Il termine proprio del sentimento deve essere qualche cosa che appartiene al senziente; il termine dell' intuizione è qualche cosa che s' intuisce come un diverso dal senziente, qualche cosa che è puramente in sè. Ora l' anima, che vede l' idea, sente sè stessa nell' essere ideale; e questa è la speciale sensitività ideologica, di cui parliamo. L' anima poi col sentirsi in possesso dell' idea si sente intelligente, nobilitata, e piglia un istinto intellettuale e razionale , che è la parte attiva della sensitività ideologica. Finalmente io chiamo sensitività teorica quella che Iddio produce nell' anima col darlesi a percepire. Iddio non si concede ad altra potenza che a quella dell' intelletto, qualora questa potenza si definisca in generale « la potenza dell' essere ». Questa sola ha una capacità infinita, perchè l' essere è infinito (1). Abbiamo veduto che l' essere è uno, ma in tre forme. Quindi se la potenza dell' intelletto si considera rispetto all' essere, anch' ella è una; ma se la si considera rispetto alle forme, ella pure veste tre forme, apparisce come tre potenze. Sotto la forma ideale, l' essere intuìto è il lume dell' anima, e a questa solamente si riferisce l' intelletto naturale all' uomo, che anche chiamiamo spesso intelletto semplicemente. Sotto la forma reale, l' essere contingente è limitato, non è l' essere ideale infinito realizzato. Ora, separato dall' essere ideale che è il lume, egli si rimane oscuro, non è più oggetto di alcuna potenza intellettiva. Ma unito al lume, unito all' essere ideale, anche l' essere reale si rende conoscibile, e diviene oggetto della potenza speciale della ragione . Ed appunto perchè il contingente reale non è conoscibile per sè stesso, ma ha bisogno che gli sia applicato l' essere ideale da un atto intelligente, perciò l' apprensione dell' essere reale contingente non si attribuisce alla semplice potenza dell' intelletto, ma a quella della ragione. All' incontro, se l' essere ideale infinito si manifesta realizzato, allora l' intelletto apprende lo stesso essere infinito anche come reale, indivisibile per sua natura dall' ideale, e se ne ha la percezione di Dio, che non si può avere per natura, come sognando asseriscono gli antichi e i moderni platonici. Ora questo, considerato rispettivamente alla realità, è un senso intellettuale7soprannaturale. Si dirà: come si possono avverare rispetto a Dio le due condizioni del senso, che l' agente resta mutato e che l' anima pure s' immuti? Rispondo: Iddio non è mutabile, in sè stesso niente egli patisce dall' anima a cui si comunica. Non di meno è da considerarsi che l' anima non comprende totalmente Iddio; perciò altro è Dio in sè stesso, illimitato, incomprensibile, altro è quella misura o grado qualitativo, nel quale la realità di Dio si comunica all' anima. Questo grado qualitativo è determinato dall' anima stessa, che colla sua limitazione lo forma; la limitazione poi viene dalla misura limitata nella quale Iddio si comunica. Onde si può dire che Iddio in quanto è limitatamente percepito dall' anima, in tanto viene limitato dall' anima, che ne è come il recipiente; misura o limite, che non cade punto nello stesso Dio, ma nel rapporto di connessione fra Dio e l' anima, pel quale Iddio si fa oggetto prossimo e immediato della percezione. Quanto poi alla modificazione che riceve l' anima dalla realità di Dio a lei comunicata, ella nasce dall' azione della realità di Dio nell' anima, a cui conseguono altri meravigliosi effetti. Poichè l' oggetto dell' intelletto è naturale scopo all' affetto razionale, che sta in seno alla natura umana, e della volizione primitiva, che tende al bene in universale. Onde conviene che l' affetto e la volontà, trovando un tanto oggetto, si rinforzino, si sublimino, si trasnaturino; e che l' anima riceva una potenza tanto diversa dalle altre, quanto è diverso Iddio dagli altri oggetti, cioè infinitamente. Questo è ciò che i teologi chiamano lume di grazia e di gloria . Poichè, come ogni termine specificatamente diverso suscita una nuova potenza, così è uopo che ne susciti una nuovissima quell' oggetto, che differisce da tutti gli altri non solo di specie, di genere, di categoria, ma addirittura di essere. L' intelletto umano, adunque, colla percezione della divina sostanza mantiene bensì la stessa radice, ma riceve una nuova attività, più diversa da quella che aveva prima, che non sia una potenza qualunque da qualunque altra. E qui non è tanto difficile lo spiegare come l' anima possa ricevere l' azione della divina essenza, quanto come la divina essenza possa agire nell' anima. Ma a noi basterà dire in generale che Iddio agisce nelle creature a quel modo che le creature sono in lui; perocchè è scritto che [...OMISSIS...] . Onde per agire nelle creature egli non ha bisogno di uscire colla sua azione da sè stesso. Perocchè quell' azione, che in Dio è la divina essenza, niente vieta che fuori di Dio rechi un effetto limitato. Conciossiachè le nature contingenti hanno un' esistenza relativa a sè stesse, nè Iddio, creandole od operando in esse, toglie la loro soggettività ed individualità, anzi la forma. Ora quell' atto che non distrugge i soggetti e gli individui, ma che dopo averli creati dà loro ciò che vuole, non ha mestieri d' essere limitato in sè stesso, come è limitato nel suo termine relativo. Ma questo è argomento, che appartiene alla Teologia; e noi avremo occasione di parlarne, a Dio piacendo, nella Teosofia . Ora, dopo aver noi parlato del senso dell' anima come potenza passiva, dovremmo parlare di lui come potenza attiva, cioè dell' istinto; ma ci vien meglio rimettere questa trattazione a quel libro, che espone le leggi che presiedono all' attività dell' anima, per non ripetere più volte le stesse cose. L' intelletto, in generale, è la potenza dell' essere come essere, ossia dell' essenza dell' essere. A nessun intelletto creato è naturale l' apprendere l' essenza dell' essere sotto la forma reale, bensì sotto l' ideale. L' essere nella sua trina forma non è noto naturalmente che a sè stesso. Dell' intelletto umano, in quanto è formato dall' essere ideale, ragiona a sufficienza l' Ideologia . In quanto poi gli è dato l' essere nella sua forma reale, è divenuto potenza soprannaturale, di cui tratta l' Antropologia soprannaturale . Che se si considera che nell' intelletto, a cui l' essere sia comunicato anche sotto la forma reale, deve trovarsi quella perfetta armonia e reciproca convenienza fra l' essere ideale e il reale, che costituisce l' essere morale, avente ragione di compimento, di perfezione, di bene; nasce un terzo rispetto, sotto cui si può considerare l' umano intelletto od ogni altro quale si voglia; la cui trattazione compiuta spetta all' Agatologia . Noi qui toccheremo una questione importante. Abbiamo detto, in qualche luogo, non essere assurdo che si concepisca un soggetto meramente intellettivo, non affettivo o volitivo; il che è vero, se si considera la cosa da parte del soggetto. Si avrà nondimeno una conclusione contraria, se la si riguarda da parte dell' oggetto. Di vero l' essere ha questo di essenziale, di essere bene; perciò egli non può essere conosciuto se non come bene. Il conoscerlo poi come bene importa un affetto o inclinazione a lui. Come dunque l' essere nella sua condizione di lume crea l' intelletto, quasi causa formale dell' anima (o, se meglio si vuole, causa della causa formale, causa dell' illuminazione dell' anima), così lo stesso essere nella sua condizione essenziale di bene crea la volontà primitiva, come causa finale che attua il primo affetto, la prima volizione volta all' essere in universale. E come l' intelletto è la potenza ricettiva, così la volontà è la potenza attiva che gli corrisponde. Ora, posciachè l' intelletto ha per oggetto essenziale l' essere ideale, il quale è in sè stesso immutabile, perciò esso non è suscettivo di alcuno sviluppo; ed ha natura piuttosto di atto immanente che di potenza . Solamente può essere perfezionato, accresciuto, sublimato coll' ordine soprannaturale, a quel modo che dicemmo, svelandosi l' essere essenziale nella sua realità. Vero è che l' essere ideale s' intuisce anche variamente determinato e limitato; e perciò gli Scolastici attribuiscono all' intelletto l' intuizione di queste idee, e così gli danno uno sviluppo. E dove la cosa sia prima chiara, niente vieta che si adoperi la parola intelletto a significare in generale « la potenza di intuire le idee ». Qualora però si consideri che la determinazione e la limitazione dell' essere ideale non si può avere senza la percezione delle realità contingenti e i vestigi di lei che rimangono nell' anima, si vedrà esser più esatto l' attribuire alla ragione anche l' intuizione delle idee determinate, come quella che non è intuizione semplice, ma contiene nel suo seno l' applicazione dell' essere ideale alla realità, opera della ragione. Allo stesso modo si può dire che la volontà primitiva ed universale non ha ragione di potenza, ma di atto immanente, principio e base della potenza; onde meglio che volontà primitiva a noi pare di doverla chiamare volizione primitiva. Per queste ragioni non aggiungiamo qui la tavola sinottica della potenza dell' intelletto. La potenza della ragione risulta nell' anima, principio comune del senso e dell' intelletto, quale conseguenza del sentito e dell' inteso, poichè lo stesso principio comune li unisce nell' unione percettiva , che è quella per la quale esso principio comune apprende il reale nell' ideale come nella sua essenza. Di che si trae che la potenza della ragione piuttosto che soggettiva è il soggetto stesso operante, al quale però l' idea prescrive la legge. Si trae ancora che la ragione, quanto all' ordine logico, è una potenza posteriore alle due potenze del senso e dell' intelletto, da cui risulta; non però quanto all' ordine cronologico, perocchè tosto che è l' uomo, è la ragione; il che si prova così. L' uomo è un soggetto unico composto di anima intellettiva e di corpo animale. Ma l' unione dell' anima intellettiva col corpo animale si fa per via d' una prima ed immanente percezione. Ora la prima e immanente percezione è l' atto primo della ragione, quell' atto pel quale la ragione esiste. Dunque l' esistenza dell' uomo e l' esistenza della ragione sono contemporanee. Che se la ragione è tostochè esiste l' uomo, e se prima che esista l' uomo, non esiste nè il senso corporeo, nè l' intelligenza, dunque queste facoltà primitive non sono nell' uomo anteriori di tempo all' esistenza della ragione, benchè questa risulti da quelle quasi come una conseguenza dai suoi principŒ. Vero è che il senso, o, per dir meglio, l' animale può esistere innanzi all' uomo; ma perciò appunto noi parliamo del senso e dell' intelligenza, in quanto sono propri dell' uomo. Come poi si dia priorità nell' ordine logico, senza che ne consegua necessariamente priorità di tempo, merita d' essere considerato dal filosofo. Ne abbiamo più esempi: per addurne uno dei più degni d' attenzione, accenneremo quello del sillogismo, dove l' unione dei due primi termini, ossia la conseguenza, non è posteriore ad essi di tempo nell' umana mente, benchè risulti da essi. Infatti, finchè la mente non vide il rapporto dei due termini, non c' è ancora sillogismo, nè il primo termine si può chiamar primo, nè il secondo secondo, nè c' è maggiore o minore; e tostochè ella vide la conseguenza, trovò altresì incontanente che una nozione è primo termine e un' altra è secondo; e così trovò la maggiore e la minore. Lo stesso accade, se vogliamo discendere a un caso particolare, nella percezione dei corpi, la quale, benchè paia fatta per un cotal ragionamento, pure è del tutto immediata (1), perchè ella stessa forma il suo oggetto (2). Dal qual vero importante, che « in un medesimo ente vi sono elementi che tengono fra loro una relazione di priorità e di posteriorità, e non tuttavia alcuna priorità e posteriorità di tempo », nasce un bellissimo principio ontologico, cioè che « nel seno dell' ente vi è un' azione continua, immanente »; col quale principio si riforma e corregge il concetto volgare dell' ente; poichè l' uomo, pigliandone sempre l' esempio dalla materia, suol concepire l' ente come cosa immobile e morta, non sapendo egli immaginarsi altra azione che quella del movimento locale e dell' atto transeunte. Ora qui non trattasi di azione che passa e che si fa per parti, benchè una parte sia passata e l' altra debba avvenire; ma v' è nel seno all' ente un' azione che si fa tutta continuamente, per la quale si mette in essere lo stesso ente e lo si fa permanere; onde, se non fosse fatta tutta, l' ente non sarebbe, e se non fosse continua, non permarrebbe, e tuttavia ella ha in sè un suo proprio ordine, analogo a quello della successione delle cose nel tempo, alla quale si potrebbe applicare cogli Scolastici l' appellazione di evo . Dal qual fatto deve prendersi anche la spiegazione della memoria, che suppone che ciò che è successivo in sè stesso diventi contemporaneo, rimanendo presente tutta la successione, nella quale stava il tempo. E la memoria è facoltà della ragione, perchè non potrebbe esistere senza che qualche sentimento non segnasse nell' essere ideale le entità particolari successive. Ma sulla memoria dovremo tornare in appresso, quando parleremo dell' unità dell' uomo, e del modo onde da quella unità escono le sue attività molteplici. Il fine adunque, a cui è ordinata la potenza della ragione, si è quello di mettere l' essere intelligente in comunicazione colla realità delle cose. Infatti l' uomo, in quanto è intelligente, per natura sua non comunica che coll' idealità, che costituisce il lume dell' intelligenza. La realità poi o è infinita e necessaria, o è finita e contingente. Nella pura idealità non si trova nè la realità infinita, nè la realità finita; perciò l' intelligente, che intuisce l' idealità pura, non comunica per sua natura con niuna realità. La realità dunque deve essere data all' intelligenza umana, perchè non è a questa essenziale. Ma come le può esser data? La realità infinita, Iddio, non le può venire che da una graziosa comunicazione di Dio stesso; e se le vien data, ella è intelligibile per sè stessa, giacchè è la stessa essenza dell' essere ideale7reale. Dunque ella non ha bisogno d' altra potenza per essere intesa che del solo intelletto, che intuisce l' idealità; solamente che questo viene perfezionato e sublimato, reso percettore dell' assoluta realità. La realità finita e contingente non è intelligibile per sè stessa, perchè è priva dell' essenza dell' essere. Affinchè adunque la realità finita si comunichi all' intelligenza, conviene che l' intelligenza stessa la renda intelligibile. Ora con questa operazione, che fa l' intelligenza, si costituisce una potenza nuova diversa dall' intelletto, la quale si chiama ragione . Di vero, altro è intuire ciò che è intelligibile, e altro rendere intelligibile ciò che intelligibile non è. Queste sono due maniere di atti specificamente diversi, di cui sono specificamente diversi gli oggetti formali. Ora le potenze si distinguono secondo la distinzione degli atti e dei termini formali. Dunque la ragione è potenza diversa dall' intelletto. Come poi la realità contingente, che non è l' essenza dell' essere, possa rendersi intelligibile, noi l' abbiamo svolto altrove. Ma ricapitolando diremo: Che la prima condizione a rendere intelligibile la realità contingente si è che questa sia accessibile all' essere intellettivo. La seconda, che l' essere intellettivo aggiunga alla realità l' idealità, cioè l' essenza, di queste due cose costituendo un ente, oggetto dell' intendimento. Ma quando e come può accadere che la realità contingente diventi accessibile all' ente intellettivo? - La realità accessibile all' ente intellettivo è la realità dell' ente stesso intellettivo, poichè questo è un reale. Che poi la realità dell' ente intellettivo debba riuscire accessibile a sè stesso è manifesto, poichè non è lungi da lui, ma è lui stesso. E questa realità non è morta, ma viva, perchè è sentimento. Onde il dire che un ente intuisce l' essere ideale viene quanto a dire che un sentimento è congiunto all' essere ideale. Il sentimento, dunque, e l' essere ideale sono congiunti per natura, e costituiscono un unico intelligente. Ma l' essere ideale è l' intelligibilità stessa di tutte le cose. Dunque il sentimento è reso intelligibile per l' intima unione che ha coll' intelligibilità, fondata in natura; unione tale che di lui e della sua intelligibilità risulta un solo ente, il quale dicesi intellettivo. E qui si debbono fare diverse considerazioni. Primieramente io diceva che la realità dell' essere intellettivo è un sentimento. Non si creda che da ciò nasca che l' essere intellettivo non possa percepire altro che la realità propria. Poichè, quantunque sia vero che « la percezione intellettiva non si estende fuori del sentimento proprio », tuttavia è evidente che deve abbracciare anche tutte le modificazioni di questo sentimento; e di più non è a dimenticarsi quell' osservazione ontologica, da noi fatta di frequente, che l' azione di un ente si manifesta in un altro ente, senza confondersi coll' azione dell' ente in cui si manifesta; onde avviene la distinzione dei due concetti di attività e di passività. Se dunque accade che nel nostro sentimento proprio si manifesti l' azione di un altro ente, forza è che noi percepiamo anche questo altro ente percependone l' azione, appunto per la ragione che percepiamo il nostro proprio sentimento e quanto accade in esso. Nè osta il dire che il percepire l' azione d' un ente non è il percepire l' ente, attesa la legge immutabile della percezione che « non si percepiscono le azioni degli enti, senza concepire gli enti a cui appartengono ». Che anzi, propriamente parlando, « altro mai non si concepisce ed intende che l' ente e ciò che nell' ente accade », poichè il solo ente è oggetto dell' intelligenza. Ed è perciò appunto che le realità contingenti non sono intelligibili per sè stesse, perchè non sono enti, ma sono azioni di un altro ente o, se si vuol meglio, termini delle sue azioni; di maniera che lo stesso sentimento nostro sostanziale non è ente per sè, ma è propriamente il termine dell' azione di un ente che ci rimane nascosto. Onde anche per intendere questo nostro sentimento, come pure tutte le realità contingenti che cadono in esso, noi dobbiamo supplirvi l' ente con un atto della nostra intelligenza, ed è così che noi le completiamo e le rendiamo intelligibili. Similmente le azioni che fanno in noi gli enti diversi da noi, noi le intendiamo coll' aggiungervi l' ente, cioè unendole ad un ente di cui sono azioni. In secondo luogo si scorge dallo stesso principio, onde nasca l' autorità, che ha presso ogni uomo la deposizione della propria coscienza . Questa non è, a dir vero, la prima percezione intellettiva del proprio sentimento, ma è la riflessione su questa e sulle altre percezioni. Ora, se colla prima e naturale percezione l' uomo conosce la propria animalità, colla percezione della percezione, ossia colla percezione del percipiente che è la prima riflessione, l' uomo rende intelligibile e percepisce sè stesso come intelligente, fino a formarsi l' io nel modo che abbiamo descritto. Ma se la prima percezione non fosse naturale, e in essa non si fondassero le altre percezioni, che l' uomo acquista successivamente di sè modificato, le deposizioni della coscienza non avrebbero quell' autorità che hanno in tutti gli uomini; i quali sono persuasi che esse sieno infallibili ed evidenti. E tale persuasione nasce, perchè la prima congiunzione del sentimento e dell' idea è un fatto della natura stessa; nel qual fatto l' uomo percepisce abitualmente il proprio sentimento; e la percezione non dubita mai di sè stessa, anzi la persuasione ne è il suo naturale finimento: tale è il testimonio della coscienza, che è sempre una percezione della percezione. In terzo luogo possiamo qui chiarire facilmente come nasca, e di che natura sia la riflessione . Questa nasce evidentemente dall' attività del soggetto razionale . Ora noi abbiamo veduto come il soggetto razionale sia posto in essere. Egli è posto in essere colla percezione intellettiva fondamentale , per la quale l' ente intelligente è individualmente unito al sentimento animale, nella quale unione l' uomo è costituito. Senza di ciò il soggetto, ossia principio razionale, non esisterebbe. Ma posto che egli esiste, ha un' attività sua propria, indipendente, in quanto al modo, dal termine; giacchè, come abbiamo veduto, l' attività di ogni principio esiste bensì pel termine, ma opera alla sua maniera, la qual maniera noi dobbiamo dedurre dall' osservazione. Ora l' attività del principio razionale si può chiamare generalmente attenzione , benchè questa parola non si usi con tanta generalità di significato, adoperandosi solitamente ad esprimere « l' attività intellettiva libera o di elezione, di cui si suol avere coscienza, che si applica e si concentra in un oggetto determinato ». Ma considerando noi che la virtù intellettiva, che si applica liberamente ad un oggetto scelto, non differisce da quella che si applica istintivamente a quell' oggetto, che dapprima si presenta allo spirito, noi crediamo che convenga pigliare il vocabolo attenzione intellettiva a significare in generale « la virtù dello spirito, che si applica anche senza una speciale concentrazione, anche istintivamente, ad un oggetto qualsiasi ». Così presa, diviene un primo atto di attenzione anche l' intuizione dell' essere; un atto di attenzione si acchiude anche nella percezione. Ma dopo di ciò l' attenzione seguita a dirigersi e concentrarsi con varie leggi, ora secondo l' istinto guidato dai bisogni, ora per elezione spontanea, ora anche per elezione libera fra oggetti che sono presenti allo spirito. E questa è la propria virtù del principio di poter concentrarsi sopra più oggetti, o sopra uno o una sola parte di esso, ritraendosi alquanto dagli altri o anche interamente. Si ritenga qui, adunque, che questa è legge propria dell' attività del principio o soggetto razionale di concentrarsi in un oggetto, o parte di oggetto qualsiasi, fra quelli che stanno presenti allo spirito. Come dunque accade che lo spirito possa riflettere sulle sue proprie operazioni? Stabilito che tutte le operazioni passive od attive dello spirito sono sentimento, e che ogni sentimento dell' uomo è oggetto d' una percezione naturale, si manifesta incontanente come nasca la riflessione. Poichè questa non è, come abbiamo detto, che una percezione delle percezioni e degli atti precedenti; percezioni ed atti che sono sentimento, e però capaci d' essere percepiti. Che se rimane così spiegato come l' uomo possa riflettere sugli atti del proprio spirito, ancor più facilmente si spiega com' egli possa riflettere sugli oggetti di questi atti; giacchè tali oggetti sono uniti alle percezioni e ne costituiscono il termine, di cui gli atti sono i principŒ. E` dunque percettibile il termine, come il principio degli atti intellettivi, i quali non sono senza quei due estremi; e per la forza di concentrazione lo spirito può applicare la sua attenzione agli uni o agli altri, ai principŒ o ai termini esclusivamente (1). In quarto luogo è spiegato altresì come il principio razionale possa operare sulla realità e sulla stessa materia. Poichè noi abbiamo veduto che il principio razionale è un reale egli stesso, cioè un principio di sentimento, il quale rende intelligibile sè stesso, attesa la naturale unione che egli ha coll' essere ideale, che è l' intelligibilità di tutte le cose; e percependo sè stesso, percepisce altri reali, che in esso suscitano degli effetti. Ora l' essere reale, ossia il sentimento sostanziale, ha un principio attivo, col quale può modificare sè stesso e reagire altresì su ciò che in lui agisce. Che se questo essere reale percepisce e quindi conosce sè stesso e i suoi diversi stati, per questa condizione di sè egli impara altresì a conoscere come debba muovere e adoperare la sua propria attività, per venire a capo di modificare sè stesso e le altre cose seco annesse. Se dunque il principio razionale sa come debba operare, e in pari tempo è egli stesso la virtù operativa, chiaro è che il medesimo principio razionale sarà attivo a sua volontà su di sè stesso e sui reali, che si continuano a lui, in virtù dell' azione che essi esercitano in lui, ed egli in essi. Fin qui noi abbiamo parlato dell' origine e della natura della percezione e della riflessione , che sono le due facoltà della ragione. Gioverà che aggiungiamo una breve analisi dell' una e dell' altra. La percezione ha tre gradi, che noi chiameremo apprensione, affermazione e persuasione . Nell' apprensione (intellettiva) della realità si contengono virtualmente l' affermazione e la persuasione; e a questo primo grado si ferma la percezione fondamentale della nostra animalità. Infatti l' uomo nei primi istanti di sua esistenza non afferma espressamente la propria animalità, ma molto tempo dopo, quando incomincia a far uso di un qualche linguaggio; e così si concilia colla dottrina della percezione fondamentale l' altra opinione per noi espressa, che l' uomo percepisca prima le cose esterne, e molto dopo, sè stesso colle cose sue. Noi dicevamo questo, riferendo il nostro pensiero all' affermazione espressa , che è il secondo grado della percezione, quello che la compie e trae dietro sè la persuasione distinta . Dobbiamo anche dire che la sola affermazione forma il nerbo della mente, il quale però nell' apprensione si trova in un cotal modo implicito e virtuale. La persuasione poi, anzichè un atto, è un abito dello spirito, ed è distinta ed attuale quando è prodotta dall' affermazione; allora ella è l' affermazione stessa, che abitualmente rimane nello spirito. Alla percezione tien dietro la facoltà dell' universalizzazione , ossia delle idee specifiche7piene , intorno alla quale ragionammo abbastanza nel « Nuovo Saggio (1) ». Venendo ora alla riflessione, noi abbiamo già posto il principio dell' analisi che si deve fare di essa. Il qual principio si è che lo spirito razionale ha virtù di dirigere la sua attenzione su gli oggetti percepiti, di restringerla a pochi e di estenderla a molti, o a tutti, o ad una parte di essi anche realmente non divisibile, e di concentrarla in un solo punto, per così dire, accrescendone l' intensione. Prima però di venire all' analisi è da rammentare che la riflessione, essendo sempre percezione di percezione, ha per sua legge di raffrontare l' oggetto, su cui riflette, coll' essere universale (2), ond' ella cava i principŒ trascendenti. Dal che avviene che la facoltà della riflessione non operi già per modo di semplice riflessione. In questo caso ella non aumenterebbe gli oggetti del conoscere; altro non farebbe che rivederli, riguardarli di nuovo. Ora il semplice riguardarli di nuovo non è ciò che si chiama filosoficamente riflettere; non è altro che un attuare nuovamente l' attenzione, dopo che questa rimise dall' atto suo e divenne abituale. Questo atto nuovo dell' attenzione, se si tratta di cose abitualmente conosciute, non è dunque la riflessione , ma la reminiscenza . Se poi si ripete la stessa percezione esterna avuta altre volte, neppur questa è riflessione, ma solo ripetizione della percezione. La riflessione si deve dunque distinguere accuratamente dalla memoria , che è il deposito delle cognizioni abituali, dalla reminiscenza , che è l' attuale avvertenza di quelle, e dalla percezione ripetuta . E la distinzione principale sta in questo, che nè la memoria, nè la reminiscenza, nè la percezione ripetuta aumenta il sapere dell' uomo; laddove la riflessione sì. E lo aumenta, perchè, come dicevamo, la riflessione nel percepire la percezione la rapporta sempre e confronta all' essere ideale, e ne discopre le relazioni, che si cangiano in altrettanti principŒ. Di qui nasce che la riflessione si debba dividere in parziale e totale . Chiamo parziale quella riflessione, che tende a discoprire i rapporti che dividono od uniscono gli oggetti, sui quali ella cade, senza però ch' ella tenda ad avere per risultamento del suo operare i rapporti degli oggetti collo stesso essere universale ed essenziale. Chiamo totale quella riflessione, che discopre e pronuncia i rapporti dei suoi oggetti coll' essere universale ed essenziale. La riflessione ricorre sempre all' essere universale, essenziale, ideale, senza di che non potrebbe scoprire niuna cosa nuova; ma talora raffronta i suoi oggetti coll' essere per trovare i rapporti che hanno fra di loro, e si dice parziale; talora raffronta i suoi oggetti coll' essere per trovare i rapporti che questi hanno coll' essere stesso, e si dice totale . La ragione di queste denominazioni non si trae dal diverso mezzo di conoscere, poichè la riflessione usa sempre dello stesso mezzo, che è l' essere ideale; ma si trae dal diverso risultato che se ne ha; il quale è parziale, se si ferma ai rapporti degli oggetti parziali fra loro, ed è totale, se finisce collo stabilire i rapporti che ha l' essere stesso, l' essere universale, cogli oggetti, benchè parziali. I rapporti dell' essere universale sono sempre universali, e però abbracciano in qualche modo tutto lo scibile; all' incontro i rapporti degli oggetti parziali fra loro sono parziali, e non costituiscono che una parte dello scibile. Dalla natura della riflessione parziale si traggono i diversi ordini della riflessione, cioè si trae la ragione che spiega perchè, dopo aver io riflettuto sulla percezione, posso riflettere sulla mia riflessione, facendo un secondo atto di riflessione, e con una terza riflessione posso ripiegarmi sulla seconda, e con una quarta sulla terza, e così via, ricavando sempre qualche cognizione nuova, ogniqualvolta mi elevo ad un ordine maggiore di riflessione. Ora, che la possibilità di questi diversi ordini di riflessione proceda dall' essere parziale la riflessione, si vede da questo, che se io colla prima riflessione esaurissi lo scibile, non potrei più conoscere nulla di nuovo colla seconda e colle susseguenti, e dovrei limitarmi a ripetere l' atto della prima. E quanto importantissima cosa sia lo studio di questi diversi ordini di riflessioni, solo può intenderla colui, il quale abbia saputo scorgere che indi si trae il principio supremo del metodo (1); il principio altresì che deve reggere una storia filosofica delle scienze, il principio d' una storia dell' umanità, ed infinite altre conseguenze di sommo momento nel governo morale e politico degli uomini. Ma in quella riflessione, che abbiamo detta totale , cessano gli ordini molteplici, poichè, giunta alle somme e più complesse verità, quella via resta chiusa a nuovi discoprimenti. Così se io sono pervenuto a intuire colla mente qualche supremo principio, posso bensì riflettendo trovarne le applicazioni, il che è un ricadere alla riflessione parziale, ma non posso sollevarmi più su colla riflessione totale, alla quale non rimane che di replicare l' atto, onde contempla quel principio già rinvenuto; quindi la contemplazione . Ma qualunque sia l' ordine della riflessione, i modi coi quali ella opera, riescono i medesimi. E posciachè ella si volge a trovare i rapporti , e questi ora sono tali che dividono fra di loro le cose, quali sono le differenze, le opposizioni, ecc.; ora sono tali, che le uniscono e legano insieme, quali sono le eguaglianze, le similitudini, le correlazioni, le analogie, ecc.; perciò i due modi, nei quali opera la riflessione parziale, sono primieramente l' analisi e la sintesi . L' analisi divide, e la sintesi unisce; ma qui si tratta sempre di oggetti conosciuti. La riflessione parziale talora non solo trova il rapporto fra gli oggetti conosciuti, ma nello stesso tempo produce ella stessa colla sua attività uno dei termini del rapporto. E questo ella suol farlo sempre coll' uso e coll' applicazione dell' idea dell' essere, ma in due modi diversi, o deducendolo o fingendolo; ai quali due modi noi diamo il titolo di fede razionale e di creazione razionale . Onde analisi, sintesi, fede e creazione razionale sono i quattro modi nei quali opera la riflessione; di ciascuno dei quali faremo qualche cenno. L' analisi, che spezza e divide gli oggetti conosciuti, è materiale o formale . Si dice analisi materiale quella, per la quale le parti dell' oggetto diviso riescono tutte della medesima natura e condizione logica, pigliandosi la similitudine dalla divisione, di cui è suscettibile la materia, che si suppone uniforme, le cui parti perciò non differiscono di natura, ma solo di grandezza; tale è l' analisi chimica, la divisione numerica, ecc.. Si dice all' opposto analisi formale quella, in cui le parti che si hanno coll' oggetto dalla mente diviso, variano di natura, come se si dividesse un genere in molte specie, dove il genere ha una natura logica diversa da quella della specie, e ciascuna specie ha diversa natura dalle altre. Di che si vede che la facoltà di astrarre appartiene all' analisi formale. La sintesi riceve una classificazione consimile, poichè può essere anch' essa materiale o formale , secondochè si uniscono parti della stessa natura, come accade nella somma o moltiplicazione numerica, o in un tutto formato per giusta posizione; ovvero si uniscono parti di diversa natura, come accade nel giudizio, in cui la mente unisce il predicato col soggetto. Il subbietto dunque dell' analisi e della sintesi materiale è la quantità; il subbietto dell' analisi e della sintesi formale è la qualità, la modalità, o la relazione. Ma rispetto alla sintesi formale, la cui forma generale è il giudizio , è da riflettersi che si modifica non poco, aumentandosi gli ordini della riflessione. Poichè, se dopo aver io fatto diversi giudizi con una sintesi appartenente al primo ordine di riflessione, io m' innalzo ad un' altra sintesi appartenente ad un ordine superiore di riflessione, trovando il nesso dei due giudizi fra loro, mi vien data tosto la forma del sillogismo; nella qual forma apparisce come la riflessione sia produttiva di nuova cognizione, giacchè i giudizi che unisco sono due, e il sillogismo, che me ne risulta, ne ha tre; il che è quanto dire che colla riflessione io ho guadagnato un giudizio di più, che è la conclusione del sillogismo stesso. E` manifesto che se io m' innalzo ancora ad altri ordini di riflessione sintesizzando, posso confrontare i sillogismi stessi coi giudizi, e i sillogismi fra loro, e cavarne altre conclusioni; il che mi produce il ragionamento . Ma qui non si deve tralasciare una osservazione, ed è che in ogni analisi interviene sempre qualche specie di sintesi; perocchè per trovare le differenze e le opposizioni, mediante le quali separiamo una cosa dall' altra, dobbiamo prima di tutto confrontare e paragonare le cose, che poscia distinguiamo e separiamo; e il confronto è una specie di sintesi, un primo grado di sintesi. Quindi è che la distinzione dell' analisi dalla sintesi ha luogo piuttosto nel risultato della riflessione che non nella stessa operazione del riflettere , la cui forma propria è sempre sintetica. E questa è la ragione, per la quale noi abbiamo collocato il giudizio e il raziocinio nella classe delle sintesi anzichè delle analisi, quantunque il risultato non sempre sintesizzi, ma riesca talora analitico. Infatti, quando i giudizi sono negativi, o quando è negativa la conclusione del sillogismo, il risultato suol essere analitico e dividente; ma la forma è sempre sintetica. Il che apparirà vie più chiaro a coloro, i quali sanno che la mente umana concepisce ciò che è negativo sotto una forma positiva, il nulla come un qualche cosa, e che la negazione è un' affermazione in quanto alla forma. Onde il predicato negativo fa sintesi col soggetto, quando si vuole separare e distinguere; la qual legge del pensiero condusse gli algebristi a sommare tanto le quantità positive, quanto le negative, con una stessa operazione, che chiamarono appunto somma , equivalente a unione o sintesi. Ma passiamo a quelle operazioni della riflessione, nelle quali questa facoltà discopre o finge uno dei due termini della sua analisi o della sua sintesi; le quali operazioni abbiamo detto essere due, la fede razionale e la creazione razionale . Allorquando la mente umana riflette sopra un oggetto percepito, raffrontandolo all' essenza dell' essere, e, mediante questo raffronto, trova che l' esistenza sua è condizionata ad un altro ente, che ella non ha mai percepito, di maniera che ripugna all' essenza dell' essere che l' oggetto percepito esista solo, mentre pure esiste; allora nasce in lei la fede razionale, che è quanto dire « la persuasione ragionevole che esista quell' altro termine, benchè non l' abbia mai percepito, nè conosca punto nè poco il suo modo di essere ». Questa è quella funzione, che abbiamo chiamata integrazione . A ragion d' esempio, Leibnizio, raffrontando gli esseri reali creati coll' essenza dell' essere, trova che nell' ordine dell' essere stesso giace la legge di continuità . Di poi vede nelle cose naturali, conosciute al suo tempo, mancante un anello della catena. Egli crede all' esistenza di questo anello ancora incognito, e così predice la scoperta dei zoofiti , che ebbe luogo posteriormente. Pur ora Le7Verrier scoperse in modo simile, quasi direi a priori, l' esistenza del suo pianeta, che vide, come acconciamente disse Arago, non nella lente del suo telescopio, ma sulla punta della sua penna. Dal confronto degli enti reali coll' essenza dell' essere erano già conosciuti i due principŒ di causa e di analogia . Questi produssero quella scoperta. Le7Verrier ragionò seco stesso che alcune irregolarità nel movimento dei pianeti conosciuti dovevano avere una causa, pel principio di causa. Notò che altre irregolarità e perturbazioni venivano spiegate per la mutua attrazione di tali astri. Conchiuse che le irregolarità, che rimanevano senza causa, dovevano per analogia essere prodotte dall' attrazione d' un pianeta incognito. Applicò il calcolo a trovarne la posizione, e il calcolo gliela diede. Il pianeta fu scoperto nel luogo indicato. Un ragionamento pari conduce dall' essere contingente al necessario, che non si percepisce. L' essere contingente ripugna che esista solo, senza l' essere necessario; il che è quanto un fare questo sillogismo: « Il contingente esiste, ossia è un ente. Ma l' ente non è mai solamente contingente. Dunque, perchè il contingente sia ente com' è, è uopo che esista il necessario ». Così tutto il genere umano ascende per una spontanea integrazione a credere con ragione l' esistenza dell' Ente supremo. Anche la fede positiva alle cose divine si riduce alla fede razionale, quando si supponga prima la fede razionale dell' esistenza di Dio. Poichè così si ragiona: « Se quest' uomo non fosse inviato da Dio ad annunziare la verità, egli non opererebbe tali cose, che suppongono l' intervento di Dio. Ma quest' uomo prodigioso esiste, ed annunzia queste cose divine. Dunque queste cose divine sono vere, perchè la loro verità è condizione necessaria all' esistenza e alla predicazione di quest' uomo ». In altre parole: « La verità delle cose divine, che quest' uomo annunzia, è la ragione necessaria a spiegare come e perchè quest' uomo faccia quelle opere che fa ». Le cose che quest' uomo annunzia nessuno le ha vedute; ma si debbono credere per la detta forma di raziocinio, che chiamiamo integrazione , vale a dire perchè ciò che si percepisce non potrebbe essere, se non fosse altresì ciò che quest' uomo annunzia e che non si percepisce. Con un argomento della stessa natura il cieco crede all' esistenza dei colori. Questi colori che io non percepisco, egli dice, esistono, perchè vi è uno degno di fede, che io percepisco. Se i colori non esistessero, non potrebbe esistere quest' uomo degno di fede. Ma quest' uomo degno di fede esiste; dunque anche i colori esistono. Dai quali esempi si scorge: Che l' argomento dell' integrazione è fondato nell' ordine intrinseco e necessario dell' essere , che si suole esprimere in forme di principŒ ontologici; il quale ordine nella contemplazione naturale dell' essere si rinviene, e per esso s' intende che una data parte dell' essere, che si percepisce, non sarebbe come è, se non ve ne fosse un' altra, che non si percepisce. Che la fede razionale, di cui parliamo, riguarda le entità che noi non abbiamo mai percepite, ossia che non ci furono mai comunicate nella loro realizzazione, e di cui perciò non conosciamo positivamente la natura, la quale solo per via di percezione o di similitudine coi percepiti a noi si fa nota (1). Che dunque s' avrà a dire della fede , che noi prestiamo ad un uomo, il quale ci attesta l' esistenza d' una cosa, di cui abbiamo altre volte percepita l' essenza realizzata? Appartiene una tale credenza alla fede razionale ? Per esempio, se noi prestiamo fede ai viaggiatori, che ci dicono avere scoperto nell' interno dell' Africa un nuovo fiume, è questa l' operazione che noi chiamiamo fede razionale ? Conviene, a farvi risposta, osservare che le conoscenze umane si partono in due grandi classi: quella delle essenze delle cose e quella delle sussistenze , che sono il realizzamento delle essenze. Ora, quando viaggiatori degni di fede ci dicono avere scoperto quel nuovo fiume, rispetto all' essenza del fiume nulla di nuovo ci attestano; perchè noi sapevamo già che cosa è un fiume, avendone tanti percepiti coi sensi nostri. In quanto all' essenza dunque essi non sono testimoni , ma semplici monitori o eccitatori della nostra attenzione, che tosto pensa a un fiume, cioè all' essenza d' una cosa a noi nota. Quanto poi alla sussistenza di quel fiume nell' interno dell' Africa, essi sono veri testimoni, e noi prestiamo loro una fede razionale . Ma in questa fede razionale, che riguarda la sussistenza e non l' essenza delle cose narrate, non interviene integrazione; perchè l' operazione dell' integrare è volta a contemplare l' essenza dell' essere , senza riguardo alla sussistenza. Gli esempi addotti delle scoperte di Leibnizio e di Le7Verrier riguardano la sussistenza; ma il modo di ragionare è il medesimo, e per dichiarare questo modo furono addotti. L' integrazione adunque è una specie della fede razionale; ma questa abbraccia altre specie ancora. Dalla fede razionale si diparte la creazione razionale . Come la fede dal condizionato percepito argomenta alla condizione, così la creazione assume o finge qualche cosa, di cui ha percepita altre volte l' essenza, ma di cui non crede veramente alla sussistenza. La quale assunzione o finzione si fa dall' attività dell' umana intelligenza per cagioni diverse, non sempre razionali. Quindi ella riceve tre forme, divenendo ora facoltà delle ipotesi , ora facoltà delle personificazioni , ora facoltà dell' errore . L' ipotesi, se è ben fatta, ha del razionale e si avvicina molto all' integrazione, ma se ne distingue per queste differenze: Nell' integrazione si trova un termine, la cui essenza non fu da noi percepita; laddove ciò che si assume per ipotesi è sempre cosa, la cui essenza fu percepita. Nell' integrazione l' argomento induce necessità, laddove nell' ipotesi esso è congetturale. Nell' integrazione il termine non percepito è unico ed esclude tutti gli altri, laddove nell' ipotesi il termine, che si assume per spiegare i fatti, non esclude gli altri, giacchè i fatti, che si prendono a spiegare, possono di solito essere spiegati con più ipotesi. La personificazione non è razionale; ha un' origine istintiva, e l' uomo se ne serve quasi di simbolo per eccitare in sè stesso il sentimento, anzichè per accrescere il proprio sapere. La facoltà dell' errore , finalmente, è un' affermazione arbitraria che nega la verità, e però non è punto razionale, anzi ha una relazione di contrarietà alla ragione. E` manifesto che l' attività dell' anima nella creazione razionale appartiene a quella soprabbondanza di attività, che spiega il principio (il soggetto, l' anima), quando egli è posto in essere dal termine, e che non viene precisamente dal termine stesso. Ci rimane a parlare della riflessione totale , che è quella, come vedemmo, che cerca i rapporti dell' essere universale, e non si ferma a quelli degli enti particolari. Ora la riflessione totale abbraccia un gruppo di quattro facoltà, che noi denomineremo: 1 facoltà dei principŒ , 2 facoltà degli archetipi , 3 facoltà del metodo , 4 facoltà della cognizione assoluta o trascendentale . I principŒ presi in senso assoluto, come noi li prendiamo, sono proposizioni che hanno un valore universale, e non hanno altre ragioni superiori a sè stesse; quindi essi sono la stessa idea dell' essere considerata nella sua applicazione al ragionamento, dove ella spiega la sua maggiore potenza (1). Come l' essere illustra la mente, così anche dirige l' attività umana; quindi presiede non meno alla ragione teorica che alla ragione pratica , e all' una e all' altra somministra i principŒ direttivi. Se l' essere non fosse essenzialmente ordinato e quasi organato, egli non potrebbe produrre in sè i principŒ dell' umano ragionamento, i quali tutti esprimono il suo ordine. Perocchè, se ben si considera l' officio che prestano i principii alla mente, si scorge che « ogni principio altro non fa che mostrare alla mente come l' ente debba essere, acciocchè sia ente »; per esempio, il principio di cognizione dice: « Il pensiero non è, se non ha per oggetto l' ente »; il che viene a dire che l' entità, che si chiama pensiero, non sarebbe un' entità o semplicemente non sarebbe, se non avesse l' ente per oggetto. Descrive dunque come deve essere l' entità pensiero , ossia descrive l' ordine di questa entità. Il principio di sostanza dice: « Non è l' accidente senza la sostanza ». Descrive adunque il modo o l' ordine dell' entità accidente, acciocchè egli sia entità. Il principio di causa dice: « Ogni avvenimento deve avere una causa ». Descrive dunque come possa essere un avvenimento, ossia quale debba essere l' ordine necessario dell' entità significata colla parola avvenimento. E così si può procedere trascorrendo gli altri principii; ciascuno esprime come debba essere l' ente, acciocchè sia; e questo è un esprimere il suo ordine intrinseco e necessario. L' ordine suppone sempre una moltiplicità unificata; quindi si può considerare l' unità nella moltiplicità, come pure la moltiplicità nell' unità. Da questi due aspetti si deducono due serie di principŒ della ragione teoretica, i primi dei quali indicano come l' unità si possa moltiplicare, i secondi come la moltiplicità si possa unificare. Ai primi, oltre i tre enumerati di cognizione, di sostanza e di causa, si riducono i principii d' individuo sostanziale , di soggetto , di persona , di assoluto , i quali dicono: « l' ente non sarebbe, se non vi fossero individui sostanziali; l' ente non sarebbe, se non vi fossero soggetti; l' ente non sarebbe, se non vi fossero persone; l' ente non sarebbe, se non vi fosse l' assoluto ». I quali principii si possono anche tradurre in queste altre formule: « Se vi è moltiplicità di enti, dunque vi debbono essere individui sostanziali »; questo è quello che chiamo principio di individui sostanziali . « Se vi sono individui sostanziali, dunque si sono individui soggetti (senzienti) »; questo è quello che chiamo principio di soggetto . « Se vi sono soggetti, dunque vi sono persone »; questo è quello che chiamo principio di persona . « Se vi è un ente, dunque vi è l' ente assoluto »; questo è quello che chiamo principio dell' assoluto , dal quale si trae la cognizione trascendentale ed assoluta. Dal considerarsi poi i rapporti della moltiplicità coll' unità nascono altri principii della ragione teoretica, come sarebbe: « Il tutto è maggiore della sua parte »; « Due cose eguali ad una terza sono eguali tra di loro », ecc.. E per toccare anche di quei principii, che presiedono e dirigono la ragione pratica, diremo che questa ha i due atti della contemplazione e dell' azione . Alla contemplazione presiede il principio della bellezza; all' azione poi quello della legge morale. La facoltà degli archetipi è quella che spinge col pensiero qualunque essenza conosciuta all' ultima sua perfezione possibile, determinando come ella deve essere, acciocchè sia perfettissima; questo è il fonte delle scienze deontologiche (1). E` questa un' opera nobilissima della riflessione, che, paragonando le specie imperfette delle cose, date all' uomo dalla percezione, coll' essere, trova quanto le loro essenze possono ricevere in sè dell' ordine dell' essere stesso. Questa facoltà rende sublimi gl' ingegni, fu meravigliosa in Platone, e gli procacciò il titolo di divino. Niuno può essere uomo grande che non la possegga in alto grado, perocchè le magnanime azioni dei grandi si realizzano sempre, copiando l' eccelso ideale, che nella mente loro vivo contemplano. La facoltà del metodo nasce dalla riflessione, allorquando ella si eleva su tutti gli ordini speciali di riflessione per ordinarli convenientemente fra loro; e però è una cotal riflessione universale, che abbraccia con uno sguardo tutte le possibili riflessioni, cioè un numero di riflessioni indefinito. Finalmente la facoltà della cognizione assoluta o trascendentale è pur ella frutto della riflessione totale, quando, prendendo quante cognizioni ella vuole e raffrontandole all' essenza dell' essere, distingue ciò che vi è in esse di soggettivo e di fenomenale da ciò che è la cosa conosciuta in sè stessa, senza quel che riceve dall' atto del nostro conoscere; e prova che nel fare quest' atto di separazione niente vi si intramette più di relativo al soggetto, come si può vedere dal dialogo intitolato il Moschini . Dopo aver noi considerata l' anima rispetto a ciò che patisce e che riceve, e indi dedotte quelle potenze che chiamammo passive e ricettive, dobbiamo considerarla rispetto a ciò che ella agisce, e indi dedurre le sue potenze attive. Conviene non dimenticare giammai ciò che abbiamo detto dell' interna costituzione dell' anima. L' anima, noi dicemmo, ha natura di principio; ma questo principio non è concepibile se non a condizione che abbia i suoi termini, chè principii e termini sono correlativi e sintesizzanti. Ora, in quanto il principio è affetto dal suo termine, è ricevente o passivo . Ma questa ricettività e passività involge un grado d' attività propria dello stesso principio; e così l' attività nei soggetti creati viene in parte dalla ricettività e passività, e in parte è anch' essa condizione di questa. Dato dunque che una volta sia posto in essere il principio (l' essere del quale sta, come dicevamo, nell' unione col suo termine), l' attività del principio non si limita a ricevere ed a patire, ma è tale che opera sul suo termine stesso, se pure il termine è atto a ricevere la sua azione ed a restarne immutato. Perocchè, se la natura del termine fosse di essere puro atto, ogni passività o ricettività sarebbe esclusa per la sua essenza; il che s' avvera di Dio e delle cose divine. Allora l' attività del soggetto si spiega nel soggetto stesso, allontanandosi o avvicinandosi al termine, modificando la propria unione con esso. Ora, posciachè i termini primitivi dell' anima umana sono due, il sentito e l' inteso, verso all' uno dei quali ella è passiva, verso all' altro ricettiva; due sono pure le sue attività di assai diversa natura: l' una si chiama istinto , ed è quella che nasce dalla sensitività, l' altra chiamasi volontà , ed è quella che nasce dall' intelligenza. Il termine dell' istinto è mutabile, e però l' attività istintiva, operando su di lui, lo immuta; ma il termine della volontà, in quanto è lo stesso di quello della pura intelligenza, è immutabile, perchè è cosa divina (le idee); e però l' attività, che nasce da questa, limitasi ad essere più o meno ricettiva, ovvero ripiegasi sull' anima stessa, mutando questa anzichè il termine oggetto dell' intelligenza. L' istinto adunque è il movimento della sensitività. E poichè la sensitività accompagna tutte le potenze e le operazioni anche razionali dell' anima, perciò l' istinto si stende amplissimamente, accompagnandosi a tutte le parti dell' uomo. Onde colui che volesse compiutamente descriverne la diramazione, dovrebbe derivare le speciali attività di questa potenza, classificando e diramando tutte le altre, e dimostrando che ciascuna ha il suo proprio e speciale istinto. L' istinto di sua natura è potenza cieca. Ma poichè anche le potenze razionali e morali hanno i loro istinti, perciò conviene distinguere quell' istinto, che è cieco interamente nel suo moto e nel suo termine, da quello che è cieco solamente nel suo conato e nel suo moto, ma non nel suo termine, ovvero che è cieco solamente nel suo moto, ma non nel conato e nel suo termine. Infatti, se si considera il moto istintivo della volontà, vedesi che parte da un lume e termina in un oggetto conosciuto. Ma in quanto il moto della volontà si fa per inclinazione naturale e spontanea, senza deliberazione o decreto, come talora avviene, in tanto quel moto è cieco, e solo per questo dicesi che quel movimento è istintivo. E per dare un esempio anche di quell' istinto, che è cieco nel suo conato e nel suo moto, ma non nel suo termine, indicheremo gli atti onde acquistiamo le prime nostre cognizioni, i quali tendono ad acquistare quel lume di cognizione, che dapprima non hanno. Poichè quando si muove il soggetto all' acquisto delle sue prime cognizioni, egli non le ha ancora, e però non può muoversi ad esse se non ciecamente, trattovi dal sentimento e dall' attività sua nativa, onde il principio di tal moto è cieco, benchè il termine sia la cognizione dove è luce. E` dunque mestieri distinguere primieramente queste due branche: l' istinto interamente cieco, che non si associa ad alcuna cognizione, nè nel suo principio, nè nel suo termine, e questo è l' istinto animale (che anche nell' uomo si ha, perchè anche l' uomo è animale); e l' istinto cieco bensì nel suo moto, ma tale che si associa a qualche cognizione, onde prende le mosse, o dove finisce, e questo è l' istinto umano . Se noi poniamo mente alle varie operazioni dell' istinto animale, potremo forse ridurle acconciamente a sei classi. Lasciando quel primo atto, col quale l' anima unendosi al suo termine pone sè stessa, in cui risiede virtualmente tutta l' attività istintiva, il principio dell' istinto , e non enumerando se non le conseguenti sue operazioni: L' istinto concorre alla produzione dei sentimenti animali accidentali. L' istinto ha virtù di riprodurre i sentimenti, quando questi hanno perduta la loro attualità e lasciate nello spirito solo le vestigie, le inclinazioni abituali; la quale operazione non si suol fare se non coll' aiuto delle facoltà istintive seguenti. L' istinto ha virtù di associare i sentimenti e unificarli a cagione dell' unità dell' anima; e questa è quella che chiamammo forza sintetica dell' animale, cagione di tante meraviglie, simulatrice della ragione, di che abbiamo lungamente parlato nell' Antropologia (1). Dall' associazione di più sentimenti nell' unità dell' anima ridondano in questa certe modificazioni generali, che chiamiamo affezioni , le quali sono quasi sentimenti di mezzo fra i sentimenti singolari e le passioni . Sono dunque queste affezioni i principŒ generatori delle passioni, poichè quando quelle si completano e lasciano nell' anima un' abituale inclinazione a riprodursi , allora ricevono questo nome di passioni. E le passioni sono la quinta manifestazione della potenza istintiva. Finalmente, la sesta manifestazione della potenza istintiva animale si è l' attività, con cui quella potenza modifica il sensifero, producendo in esso dei movimenti corrispondenti all' atteggiarsi attivamente di esso istinto. Accenniamo qualche cosa di queste due ultime manifestazioni, le passioni e gli atteggiamenti spontanei che prende l' istinto. Le passioni non sono meramente animali. Anzi nell' uomo si debbono diligentemente separare le animali dalle razionali. E le une e le altre ricevono acconciamente quella divisione, che troviamo in Platone, di passioni cioè proprie del concupiscibile , e di passioni proprie dell' irascibile . Intendesi per concupiscibile l' inclinazione, che trae verso il bene, e che ritrae dal male. Per irascibile poi quella subita vigoria, che si condensa e quasi s' aggruppa nell' anima, quando questa trova un esterno impedimento alla sua tendenza (1), colla quale pugna ed urta per rimuoverlo e vincerlo, e sfogare la sua tendenza concupiscibile. Ma restringendoci ora alle passioni animali, quelle del concupiscibile tendono ad avere il gradevole ed evitare il disgradevole, chè nè altro bene ha l' animale, nè altro male; e quelle dell' irascibile sono ordinate a sforzare e superare la difficoltà, che incontrano le tendenze del concupiscibile a spiegarsi compiutamente. Onde propriamente l' irascibile non è che una attività dello stesso concupiscibile , il quale s' adonta e s' arma contro gli impedimenti stranieri, che non lo distruggono o snervano, ma solo si oppongono per arrestarlo. Non conviene adunque accomunare cogli animali l' amore , che è passione razionale e nobile, in luogo di cui è nei bruti l' affezione unitiva , che si suddivide nella tendenza generativa , e in quel gruppo di passioni che si raccolgono nella tendenza all' aggregazione , la quale abbraccia l' istinto, che fa stare e andare insieme i bruti della stessa specie, che pone fra le specie diverse simpatie o antipatie, che aggiunge i nati alla madre, che produce l' affezione che lega all' uomo alcuni bruti, la domesticità, ecc.. Il simile è a dirsi dell' odio , che esprime propriamente una passione razionale, a cui risponde nell' animalità l' avversione , l' antipatia , ecc.. Anche il desiderio e l' abborrimento non sono passioni animali, ma razionali; nell' animalità in quella vece si manifestano varie tendenze specificate da vari loro termini, come la voracità , la fame , ecc.. Il gaudio pure è proprio dell' intelligenza, a cui risponde nell' animalità qualche sentimento, che non ha nome proprio e ben definito; perocchè non tutte le passioni animali trovano nel linguaggio una propria espressione. Di che avviene che lo stesso vocabolo si usi sovente in diverso significato, ora a indicare una passione meramente animale, ed ora a indicare la passione corrispondente, che si manifesta nell' essere razionale, come è delle due parole tristezza ed allegrezza , ecc.. E questa scarsezza e povertà di linguaggio è anch' essa cagione, che inclina la mente poco vigile a confondere l' ordine sensitivo coll' ordine razionale. Fra le passioni animali si può annoverare altresì la proprietà , che è quella che affeziona l' animale a certe cose inanimate; ed apparisce identica nell' uomo, se non che l' uomo gode anche della cognizione della sua proprietà, e questo godimento aggiunge un elemento razionale al sentimento della proprietà. Di più, l' uomo, attesa la sua facoltà morale, innalza il sentimento della proprietà all' ordine del diritto, del quale il sentimento di proprietà non è altro che la materia (1). Benchè le parole ira, ferocia, paura, aspettazione , ecc., si applichino sovente tanto ai bruti quanto all' uomo, tuttavia sembrano più proprie dei primi che del secondo; all' incontro le parole sdegno, timore, audacia, speranza, disperazione esprimono manifestamente affetti e passioni razionali; e se si trovano applicate ai bruti dagli scrittori, si fa per un cotal traslato e per quella inclinazione, che gli uomini hanno, di accomunare la vita intellettiva e la ragione, che possiedono essi, a tutti gli enti che percepiscono, massime se questi appalesano di quei fenomeni che si producono anche dall' intelligenza, benchè possano essere prodotti da altra cagione. Nell' uomo adunque vi sono le passioni animali, perchè anch' egli è animale; ma queste nell' uomo ricevono dalla razionalità un carattere proprio, che le nobilita e le specifica. Di più le passioni animali, che nelle bestie non sono mosse che dagli stimoli e dalle leggi del senso corporeo, nell' uomo sono suscitate talora dalla razionalità stessa, per l' influenza che l' anima razionale esercita nell' animalità. Così se noi consideriamo la tristezza come passione animale, si potrà definire « quel sentimento disgradevole che prova l' animale, rallentandosi il corso del sangue in alcuni visceri, e indebolendosi l' attività del sistema nervoso ». Ma questo sentimento, che nell' animale non può prodursi che da una causa fisica o sensuale, la quale rallenti la circolazione e tolga il suo vigore all' organismo nervoso, nell' uomo sarà prodotto ora da questa causa medesima, ora da una notizia che funesta lo spirito; il che è quanto dire dalla potenza razionale. Le passioni animali adunque nell' uomo differiscono da quello che sono nei bruti per due cagioni: Perchè, supposto che abbiano la stessa cagione producente che hanno nei bruti, vi si associa l' intelligenza a modificarle. Così la tristezza che arreca una malattia ad una bestia, è diversa da quella che arreca ad un uomo, il quale conosce la sua infermità; e questa cognizione gli accresce afflizione. E al contrario, con dei motivi somministratigli dalla ragione egli può allenire e alleggerire anche fisicamente quella tristezza. Perchè le passioni stesse animali possono nell' uomo essere mosse da una cagione razionale, come già dicevamo. Ma nell' uomo, oltracciò, si spiegano delle passioni nuove, delle quali non v' è traccia nei bruti; perocchè i movimenti della potenza razionale producono effetti nuovi, sentimenti che non possono in alcun modo essere suscitati dal mero istinto animale. I quali sentimenti propri dell' uomo sembrano talora che sieno puramente razionali, ossia che dimorino entro la sfera dell' intelligenza; talora poi sembra che ne partecipi anche l' animalità. In questo caso l' animalità riceve un' affezione, che nel bruto non può manifestarsi, perchè vi manca la causa producente, la quale non è altro che l' intelligenza. Io non voglio già decidere con ciò la questione: « Se nell' uomo vi siano affezioni così pure che non prenda parte ad esse in alcun modo l' animalità, o se vi sia sempre del misto »; questa questione sottile sarà sciolta da altri. A me basta di stabilire che nell' uomo si manifestano alcune passioni interamente nuove, che non possono essere prodotte dall' istinto animale, e che hanno per unica causa l' intelligenza: passioni intellettive rispetto alla loro causa, benchè forse non sieno mai puramente intellettive per sè stesse. Nel numero di queste non intendo assolutamente collocare le passioni simpatiche , come la compassione, ecc.; dico solo che se nei bruti si manifesta qualche cosa che rassomiglia ad esse, questa cosa si può sempre ridurre a passioni e sentimenti individuali; perchè il bruto non si muove, finalmente, se non in virtù delle sue proprie sensioni, l' opposto dell' uomo, che partecipa delle passioni altrui col solo conoscerle, poichè, conosciute, egli può rappresentarle a sè stesso nell' immaginazione, e così entrarne a parte; onde la compassione è certamente passione razionale nella sua causa ed anche in sè stessa. Che se si ravvisa qualche cosa somigliante nei bruti, ciò può ridursi all' affezione unitiva , a quella che riguarda l' aggregazione , ecc.. I fonti delle passioni comuni ai bruti sono l' aggradevole ed il difficile; nell' uomo a cagione della razionalità si trovano due altri fonti, e sono il rapido moto dell' animo e il grande ; poichè l' animo, che passa rapidamente da uno stato intellettivo ad un altro opposto, non solo accresce la vivezza dell' atto sensitivo colla rapidità, il che accade anche nel senso animale, ma produce nuovi ed improvvisi sentimenti, quali sono il riso , la sorpresa , ecc.. Ancora, solo l' uomo colla sua ragione rendesi suscettibile del sentimento del grande, il quale produce vari effetti, come la meraviglia , lo stupore , l' estasi , ecc.; passioni tutte umane, di cui le bestie interamente son prive. Veniamo ora a ragionare brevemente della sesta manifestazione dell' istinto animale, che fu da noi collocata nella virtù che ha il sentimento di atteggiare sè stesso , modificando il sensifero. Per intendere che cosa noi vogliamo dire con questa virtù del sentimento, conviene richiamarsi alla mente che noi conosciamo il sentimento in due modi, mediante il sentimento stesso immediatamente, di cui siamo consapevoli (soggettivamente), e mediante fenomeni da lui prodotti e da noi sentiti, ma che non sono lui stesso (extra7soggettivamente). Così altro è il sentimento del dolore, altro sono i movimenti che il dolore cagiona nel corpo, i quali possono essere da noi veduti senza sentire il dolore. Il dolore è il sentimento soggettivo, i movimenti sono i fenomeni extra7soggettivi da lui prodotti. Questi indicano quello, ma hanno natura totalmente diversa; e se i fenomeni extra7soggettivi si conoscono per via d' altri sentimenti, questi sentimenti non hanno a far niente con quello di cui si parla; e, come sentimenti, hanno anch' essi la loro parte soggettiva e l' extra7soggettiva. Ciò tutto fu dichiarato nell' Antropologia , a cui deve ricorrere il lettore, che ama di seguire i nostri ragionamenti. Supposto dunque che sia stata ben distinta la parte soggettiva del sentimento dall' extra7soggettiva, tosto sarà inteso come il sentimento soggettivo sia cosa immune affatto dallo spazio e però semplicissima, giacchè nel concetto del piacere, del dolore e di ogni altro sentimento puramente soggettivo, niuno può trovare il concetto di alcuna estensione, la quale non è che il termine di alcuni sentimenti, non il sentimento stesso. Ciò non di meno i fenomeni extra7soggettivi hanno una simultaneità e una correlazione coi soggettivi. Noi abbiamo detto che fra gli uni e gli altri non passa la relazione di causa immediata e di effetto immediato, perchè sono al tutto dissimili. Tuttavia al cangiarsi del fenomeno soggettivo cangiansi i fenomeni extra7soggettivi; il che fa credere che il cangiarsi del fenomeno soggettivo, se non è causa immediata, possa almeno essere causa mediata di tali cangiamenti. E considerata la cosa solamente rispetto alla dissimilitudine delle due serie di fenomeni, rimane tuttavia incerto; diviene certo, allorchè si considera che il sentimento soggettivo termina nell' esteso, come abbiamo detto, e che l' esteso è già egli stesso, in un senso, extra7soggettivo, benchè individualmente unito al soggetto, ed appartiene anche al fenomeno extra7soggettivo del sensifero, con esso identico di sostanza. Laonde, quantunque il sentimento (soggettivo) non sia causa immediata e prossima dei fenomeni extra7soggettivi del sensifero, tuttavia egli è causa della mutazione del proprio termine immediato (l' esteso), il quale termine è poi anche subbietto dei fenomeni extra7soggettivi del sensifero. Rimane adunque che il sentimento (il soggettivo) sia causa rimota e mediata della modificazione dei fenomeni extra7soggettivi, ossia causa della causa di questa modificazione. Ben fermato tutto ciò, dico che « il soggetto, che è il principio del sentimento, ha per sua propria legge di adoperare ed atteggiare il sentimento in modo da trovarsi il meglio possibile, e quindi anche il meno male possibile ». Ora questa virtù e attività del principio senziente, che atteggia e modifica il sentimento, è cagione che succedano delle modificazioni nei fenomeni extra7soggettivi. Le facoltà, che si riferiscono a queste modificazioni, sono quattro principali: La facoltà locomotrice . Per questa l' animale cammina e fa vario uso di tutti i suoi organi. La facoltà formatrice o plastica. Per questa l' animale si natura, si nutrisce, ecc.. Noi dichiareremo meglio come ciò avvenga e secondo quali leggi nel quinto libro. La facoltà delle abitudini sensitive . Questa facoltà è la stessa virtù di atteggiarsi piuttosto in un modo che in un altro, la quale esercitandosi si sviluppa, si modifica, riceve nuove disposizioni, nuove condizioni del suo operare, e quindi nuove spontaneità. La facoltà che ha l' istinto animale di alterarsi e guastarsi . Questa facoltà, a cui appartengono i fenomeni morbosi, è sempre, come le altre tre precedenti, la stessa facoltà o virtù generale che ha il sentimento di atteggiarsi variamente, secondo le varie condizioni che gli sono poste dagli stimoli che agiscono su di lui, dalle abitudini, ecc.. Onde, qualora questi stimoli lo pongono in certe condizioni, egli è necessitato, sempre dalla medesima legge della sua spontaneità, a produrre i mentovati fenomeni morbosi, di cui parleremo in appresso. Continuiamo ora a parlare dell' istinto umano, il quale, sebbene sia cieco come istinto, tuttavia si associa a qualche cognizione, onde procede od in cui finisce. L' istinto umano si manifesta anch' egli con affezioni razionali, le quali producono una condizione passiva dello spirito, che si chiama passione razionale , e una condizione attiva , che costituisce gli abiti . Delle passioni razionali basta il poco che ne abbiamo detto. Quanto agli abiti , essendo l' abito « una disposizione della potenza ad agire in un dato modo », essi si dividono, primieramente, come si dividono le potenze o facoltà che modificano ed attuano. Le potenze e facoltà umane e intellettive, se si vogliono classificare dai loro effetti, si possono ridurre a due gruppi: il gruppo di quelle che producono effetti entro il soggetto, migliorandolo o deteriorandolo, e il gruppo di quelle che producono effetti fuori del soggetto (extra7soggettivi), quali sono quelle che cagionano i movimenti dei corpi. Quindi due gruppi di abiti: gli abiti che aderiscono a quelle facoltà che producono i loro effetti entro il soggetto, e gli abiti di quelle facoltà che producono i loro effetti fuori del soggetto. Le facoltà, che producono i loro effetti entro il soggetto, si riducono alla potenza morale , e qui si hanno gli abiti morali , che sono le virtù ed i vizi; e alla potenza razionale in quanto opera nel soggetto, e quindi gli abiti razionali della memoria , delle scienze , della prudenza , ecc.. Ma in quanto la potenza razionale muove i corpi, e quindi produce effetti extra7soggettivi, ella dà luogo al secondo gruppo di facoltà, onde nascono gli abiti delle arti meccaniche e liberali , quelli dei movimenti viziosi del proprio corpo , ecc.. Fin qui noi abbiamo toccate le principali diramazioni dell' istinto razionale, classificandole secondo i modi del suo operare . Un' altra classificazione ce ne riesce, qualora noi cerchiamo i suoi molteplici rami, pigliando a considerare i diversi oggetti , a cui l' istinto si riferisce. Ora, per intendere la natura di ogni istinto conviene investigare quale sia il suo principio, quale il principio comune di tutte le tante sue diramazioni. Se l' istinto non avesse un principio unico, il quale, restando sempre il medesimo, prendesse diverse forme di operare, non si potrebbero significare coll' epiteto generico d' istintive le funzioni animali e razionali, da noi enumerate e classificate. Quale è adunque il principio dell' istinto? quale l' intima e immutabile sua natura? L' istinto indica un modo di operare del soggetto, ossia una legge, secondo la quale egli opera. Cercare questa legge è cercare il principio e la natura dell' istinto. Questa legge, secondo la quale operando un soggetto, dicesi che opera istintivamente, noi l' abbiamo accennata parlando dell' istinto animale, e attribuendogli « la virtù di atteggiarsi nel modo più aggradevole ». Basta dunque che noi rendiamo più generale quella nostra osservazione, che non la limitiamo ai soggetti animali, ma la estendiamo a tutti i soggetti anche intellettivi e razionali, ed avremo trovato l' unico principio dell' istinto. Infatti noi abbiamo già stabilito che un soggetto qualsiasi è un sentimento sostanziale. Di più, abbiamo stabilito che ogni sentimento ha un' attività sua propria. In terzo luogo, abbiamo pure dimostrato che questa attività pone continuamente il sentimento, di cui ella è principio, nello stato più aggradevole che le sia possibile, e ciò perchè l' atto, che atteggia così il sentimento, è naturale e proprio di quella attività, giacchè ogni attività non sarebbe attività, se non avesse il suo atto naturale, col quale ella si pone ed è quello che è. Ma l' attività di un sentimento può talora essere dipendente e passiva da qualche cosa di straniero a lei; il che avviene in tutte le attività finite. Queste attività, questi principŒ senzienti sono dipendenti dalla natura del loro termine, il quale si muta per qualche cagione o forza straniera. Ora la qualità e quantità di questo termine straniero al principio senziente e le sue mutazioni sono talvolta favorevoli all' attualità del principio, e talvolta sfavorevoli. Sono favorevoli, quando aiutano il principio senziente a spiegare un' attività maggiore; sfavorevoli, quando comprimono la naturale sua attività, e la impediscono dallo spiegare tutto l' atto suo naturale. L' attività del principio allora lotta coll' impedimento; e qui si vede quale sia la nozione generalissima, che noi ci dobbiamo fare dello stato aggradevole o disgradevole di un sentimento. Un sentimento disgradevole, molesto, doloroso è quello in cui il principio senziente è impedito dalla condizione del suo termine a spiegare tutto quanto l' atto suo naturale. Un sentimento aggradevole è allora che il suo principio a suo agio spiega tutta quella attività che gli è possibile secondo la condizione del suo termine, senza che niente lo contrarii o impedisca. L' attività dunque del principio senziente, posta in atto, è essenzialmente piacere; quanto questa attività si fa più attuale, si spiega di più, tanto il piacere è maggiore; l' essenza dunque del sentimento è il piacere, e il dolore non è che ciò che diminuisce con forza e violenza il sentimento, lo comprime, lo limita. Se dunque il principio senziente ha per suo proprio atto naturale di spiegare il sentimento maggiore possibile, data la condizione del termine, egli lo deve fare spontaneamente; e ciò equivale a dire che lo fa con quell' atto stesso pel quale egli esiste, pel quale egli è principio senziente. Questo è il principio di ogni istinto. Esso si trova nella natura di ogni sentimento sostanziale, di ogni soggetto, è l' attività propria del soggetto. Perchè, a ragion d' esempio, si manifesta nell' animale l' istinto del cibo? perchè questo istinto lo muove a fare tutti i movimenti che egli fa per procacciarselo? La ragione si è che questi movimenti sono altrettanti sforzi del principio senziente per istar meglio, per avere uno stato di sentimento più compiuto, più aggradevole. Non conviene coll' immaginazione fermarsi a ciò che apparisce all' esterno, quando il lupo, poniamo, mangia la pecora. I movimenti del lupo, che appariscono ai nostri occhi extra7soggettivamente, non sono che conseguenze dell' operazione interna e soggettiva, che avviene nel lupo. Conviene che il nostro pensiero entri a considerare i sentimenti animali, che il lupo prova successivamente in questa sua impresa; questi interni sentimenti del lupo sono le cause dei suoi movimenti esteriori; tutto ciò che fa il lupo, lo fa nel suo interno, nel suo sentimento; quando dico lupo che fa qualche cosa, altro non dico che principio senziente operante, atteggiante il suo sentimento nel modo più aggradevole. Se appariscono, in conseguenza di quell' interno lavoro, dei movimenti all' esterno, essi non sono che conseguenze relative alla nostra facoltà visiva, e in generale alla nostra sensitività speciale. Noi parliamo di questi esterni fenomeni della sensitività nostra speciale, quasi che il lupo li producesse direttamente e immediatamente. Tutt' altro: l' azione del lupo comincia, prosegue e finisce nel suo sentimento; quell' azione del lupo muta il termine del proprio sentimento (corpo soggettivo); tale mutazione dà alla nostra vista i movimenti del corpo del lupo (fenomeni extra7soggettivi). Col mutare che fa il lupo i termini del proprio sentimento, e mediante questi termini mutati, agisce anche sui corpi esteriori (sulla pecora); e ciò che accade nei corpi esteriori, ha nuove relazioni colla nostra sensitività visiva o tattile, di modo che noi abbiamo nuovi fenomeni, i movimenti e mutazioni che accadono nel corpo della pecora a noi sensibile. Ma per dirlo di nuovo, la vera forza agente, la causa prima di tutto ciò è il principio senziente del lupo, che atteggia successivamente in varie guise il suo sentimento, fino che arriva a compire l' opera della propria nutrizione. Tale è il lavoro dell' istinto. Se noi consideriamo un atto dell' istinto razionale, troveremo che si fa secondo la stessa legge. Perchè sentiamo naturale diletto a considerare la verità? Perchè il nostro principio razionale7senziente ha per suo atto naturale e dilettevole l' apprensione e contemplazione del vero; e però noi spontaneamente procuriamo di apprenderlo il meglio che noi possiamo, e goderne. E` sempre il soggetto, che atteggia nel modo più piacevole sè stesso, il proprio sentimento soggettivo. Noi collocammo l' istinto nel novero delle facoltà. Ma vogliamo avvertito che egli è piuttosto un modo di operare di diverse facoltà che una facoltà determinata; è una legge, come abbiamo detto, che governa l' attività del soggetto e che lo costituisce. La volontà è la parte attiva del soggetto intelligente, e si può definire « quella virtù, che ha il soggetto, di aderire ad una entità conosciuta ». Questa adesione si fa per via d' interno riconoscimento . Ma dobbiamo dichiarare che cosa intendiamo per questa parola riconoscimento volontario . In senso rigoroso riconoscere suppone il conoscere precedente, e un conoscere che faccia equazione, dirò così, col riconoscere, sicchè l' oggetto della ricognizione rimanga tale quale nella cognizione si trova. Questo accade talvolta, e allora la ricognizione volontaria è vera, giusta, morale, perchè la volontà, riconoscendo l' entità conosciuta, non ne altera il pregio, ma se ne compiace in quella sola misura, che la cognizione diretta le prescrive. All' incontro, avviene altre volte che la volontà, invece di aderire semplicemente all' entità conosciuta, cresce a sè stessa o diminuisce ad arbitrio i gradi dell' essere, che ha quella entità; e però la stima più o meno di quel che vale, la riconosce per quel che non è, non per quello che è; ella suppone che quella entità sia diversa da quello che pur è nella cognizione diretta, e però all' entità, propostale dalla cognizione diretta, un' altra ne sostituisce, fingendola e creandola per l' energia di arbitrio, che ella possiede. Questo non è certamente puro e semplice riconoscere, ma è prima di tutto un contraffare e immaginare ciò che poscia si vuol riconoscere. Il riconoscere adunque, rigorosamente parlando, esprime l' atto della volontà, quando è retto e verace; quando poi è torto e menzognero, allora l' atto della volontà è prima un fingere, e poscia un riconoscere ciò che fu finto. Ma per cagione di brevità talora noi pigliamo la parola riconoscere per indicare la prima attività volontaria, sia ella retta o torta. Riconoscere adunque semplicemente e riconoscere fingendo , sono i due modi nei quali si manifesta l' attività volitiva. Che cosa è dunque questo atto della volontà, che chiamiamo riconoscere, sia egli retto o torto? E` un compiacersi che fa il soggetto intellettivo dell' entità conosciuta. - Onde avviene che il soggetto intelligente si compiaccia dell' entità conosciuta? - Avviene di qui, che l' entità conosciuta, e però ogni entità, è il suo proprio oggetto, quello che gli fa fare l' atto suo proprio. L' atto proprio di un soggetto è quello che lo fa essere ciò che è; ora ogni soggetto ama di essere, che l' atto di essere di un soggetto vivo è piacere, è l' essenza del piacere. Dunque, appunto perchè il soggetto intelligente tende ad essere e pone sè stesso, perchè l' essere è il suo proprio bene, quindi colla stessa energia, con cui il soggetto intelligente è, colla stessa tende ad essere più che possa, ad aumentare la propria esistenza, ad ingrandire e dilatare l' atto della medesima, e quindi a compiacersi degli oggetti di questo atto, coi quali esso si spiega, si accresce e si perfeziona. Dunque ogni entità conosciuta è bene al soggetto conoscente, ed è tanto più bene, quanto quella entità ha più gradi di essere. Ma non essendo l' uomo un soggetto puramente intellettivo, ma dotato ancora di sensitività corporea e razionale, avviene che egli non operi sempre secondo l' inclinazione e la legge dell' intelligenza, ma secondo quella della sensitività animale o razionale. Quando l' inclinazione di questa doppia sensitività prevale all' inclinazione della mera intelligenza, che fa allora l' uomo? Non amando rinunziare all' inclinazione dell' intelligenza, seduce ed inganna sè stesso, e si persuade che il bene, presentatogli dal sentimento animale o razionale, sia maggiore di quello che è, maggiore di quello che la cognizione diretta gli dice; e così finge, contraffà l' oggetto della cognizione diretta, lo distrugge in parte o nasconde a sè stesso, in parte aggiunge coll' immaginazione e crea in esso quel bene che non vi è. Questa è la facoltà che ha l' uomo di mentire e di peccare. Non è già che egli sia costretto o necessitato a far ciò; ma egli può farlo, e però talora lo fa; questo è propriamente l' arbitrio della volontà. Quando adunque la ricognizione è torta e menzognera, allora ella è tale perchè precede a lei un sentimento e un affetto, che torce e seduce la volontà riconoscitrice. Ma se il riconoscere semplicemente, o il riconoscere fingendo, è il primitivo atto della volontà, gli effetti della volontà si fermano e finiscono in esso? No, ma il riconoscimento ha un' efficacia reale, che tira dopo di sè varie sequele nell' uomo. Queste primieramente sono di due maniere, i decreti della volontà e gli affetti (1). Qualora la cosa riconosciuta dalla volontà sia qualche bene che l' uomo ancora non ha, allora seguita un decreto volontario, col quale la volontà si propone di procacciarselo, e quindi di mettere in uso i mezzi necessari per arrivare a tal fine. A ragion d' esempio, un ferito vuole la guarigione; egli prima riconosce la guarigione della sua ferita per una entità buona; quindi decreta di applicare i rimedi, e in conseguenza di questo decreto muove le mani e li applica. Questo movimento esterno delle mani e del suo corpo viene in conseguenza del decreto, il quale ha virtù di muovere la forza animale locomotrice. Ma talora la cosa riconosciuta dalla volontà per un bene già si possiede, e non si tratta che di goderne maggiormente. Allora l' effetto immediato del riconoscimento suol essere l' affezione sensibile , che si muove spontanea, e che non è altro se non aumento e perfezione di quel piacere, che già contiene il riconoscimento del bene posseduto. A questi affetti spontanei tengono dietro dei movimenti corporei che li aiutano, i quali si manifestano extra7soggettivamente agli spettatori; e sono quei gesti esterni e quelle esterne azioni, che naturalmente dimostrano la gioia o il dolore, o gli altri affetti internamente concepiti. Quantunque poi il riconoscimento di un bene conosciuto, più o meno abituale, più o meno attuale, si continui in forma di affetto istintivamente, tuttavia può intervenire anche il decreto, che fa la volontà, di suscitare tali affetti; col quale decreto l' uomo può rendere il riconoscimento attuale, o può dargli maggiore attualità che istintivamente esso non avrebbe. Così i movimenti, che avvengono nel corpo, possono procedere dalla volontà per due vie, per quella del decreto e per quella dell' affetto . Si possono adunque distinguere tre specie di atti della volontà: 1 gli atti istintivi , che sono gli affetti spontanei, compresa in essi la ricognizione spontanea che ne è il principio, e i movimenti conseguenti del corpo; 2 i decreti che determinano l' acquisto di un bene che non si ha, e l' uso dei mezzi per acquistarlo; ovvero determinano gli atti per accrescere il godimento attuale del bene che già si ha, e questi decreti si sogliono chiamare atti eliciti; 3 e finalmente i movimenti delle potenze stabiliti coi decreti, i quali atti si sogliono chiamare atti imperati . Gli atti eliciti e gli atti imperati sono sempre assentiti dalla volontà; ma gli atti istintivi sono assentiti solo allora che la volontà, potendo impedirli, fa il decreto di non impedirli; sicchè l' assenso suppone sempre il decreto. Tuttavia il decreto di non impedire gli atti spontanei può essere prossimo o remoto; è prossimo, se si decreta di non volere impedire quegli atti; è remoto, se si decreta di non volere impedire la causa di quegli atti, riputandosi che chi vuole la causa, voglia l' effetto. Tutti gli atti della volontà si chiamano volizioni. Gli atti istintivi, non mossi da alcun decreto, sono volizioni senza scelta. La scelta cade sempre nell' ordine dei decreti, perocchè quando si pronuncia internamente un decreto, allora si sceglie sempre fra il volere e non volere la cosa. Questa scelta talora è così libera che viene determinata dall' energia stessa della volontà e non dagli oggetti, ed allora v' è quella che si chiama libertà bilaterale , e che è necessaria al merito morale proprio degli uomini viatori. Quali sieno le condizioni della libertà bilaterale nel suo esercizio, fu da noi ragionato nell' Antropologia ed altrove. Ogniqualvolta l' ingegno umano si volge allo studio delle cose naturali, prende piede il metodo analitico; di che la ragione è questa, che la materia si conosce dall' uomo per la sua divisibilità, per le sue parti e loro diversi accozzamenti ed aspetti, ed apparenze sensibili; almeno tale è la cognizione che cercano di essa le naturali scienze, le quali non vanno più in là della percezione , che è tutto il loro fondamento. Il quale esercizio d' analisi giova sommamente ad addestrare l' ingegno, e a renderlo più spedito in opera di scienze. Ma poichè l' uomo è limitato, qualora s' appiglia ad un metodo parziale e se ne invaghisce, dimentica facilmente e non più apprezza gli altri, pur buoni anch' essi e necessari alla perfezione del sapere. Oltre di che, l' uomo propende agli estremi; e però, datosi al ragionare analitico e colti dei bei frutti, tosto immagina e si persuade che quel solo metodo basti a tutto, e che l' analisi sia l' unico fonte di ogni sapienza. E tuttavia questo eccesso di confidenza che gli uomini mettono nell' analisi, in quei secoli nei quali le scienze naturali pigliano il sopravvento, non è senza qualche vantaggio all' educazione dello spirito, che non può mai accingersi felicemente alla sintesi scientifica, se l' analisi prima non sia perfezionata e, se fosse possibile, esaurita. Ora l' analisi non si spingerebbe forse mai tanto innanzi, qualora la mente si applicasse a due lavori ad un tempo, volesse percorrere due vie, e parte ragionare analizzando, parte sintesizzando. Sono già ben due secoli che l' umano ingegno analizza; perchè sono oltre due secoli che le scienze fisiche e materiali acquistarono maggioranza sulle intellettuali e morali. Onde queste provarono i funesti effetti di quel metodo analitico, che, quando prevale a segno da escludere la sintesi, è insufficiente a rinvenire certe verità, e, se vuol fare quel che non può, partorisce errori. E le verità, a cui vien meno l' analisi scompagnata dalla sintesi, sono appunto molte di quelle che hanno per loro oggetto la natura e le leggi degli spiriti, i quali, semplici come sono, non si lasciano dividere in parti materiali. Per fermo, lo studio delle nature spirituali non può procedere innanzi utilmente colla sola analisi, e molto meno con un' analisi materiale. Laonde la prostrazione, in cui dopo la Scolastica caddero le scienze che riguardano gli spiriti, si deve riputare appunto a queste due cause: 1 ad essere state trattate esclusivamente per via d' analisi, dimenticata la sintesi; 2 ad essere state trattate con quella specie d' analisi, la quale ben si conviene alla materia, che è molteplice, ma non allo spirito, che è semplice e uno. Se noi consideriamo la storia della filosofia dello spirito, da Condillac fino a tutta la scuola scozzese, senza voler trovare in questi ultimi filosofi il materialismo, osserveremo che è perduta in essi l' unità dello spirito umano, il quale è divenuto una mera aggregazione di facoltà quasi iuxta positae : si parla di principŒ d' azione, di fatti di prim' ordine; del principio ond' escono le facoltà e in cui rientrano, del principio7sostanza, o non se ne parla, o assai leggermente, quasi fosse un' accessorio, o un non so che di appiccicato, quand' egli, ed egli solo, è pure lo spirito. Se questi filosofi, così procedendo, decapitarono, per così dire, le scienze psicologiche, si fu perchè fecero un uso esclusivo dell' analisi, avendo il loro spirito perduto quasi l' uso della sintesi. Ma i Frenologi, che ad essi successero, produssero dei lavori guasti di gravissimi errori, a cagione che non solo applicarono allo spirito il solo metodo analitico, escluso il sintetico, ma vi applicarono quel metodo analitico materiale, che ai soli corpi conviene, quasi pretendendo che l' aggregazione delle facoltà, di cui i precedenti filosofi avevano fatta constare l' anima, altro non fosse che l' aggregazione degli organi ben distinti, di cui si compone il cervello. Per questo, non senza ragione, un autore recente mise a confronto gli autori della scuola scozzese coi Frenologi, e trovò gli uni e gli altri peccare in questo, d' aver messo in obblìo l' unità del soggetto, squarciatolo in facoltà distinte o in organi, su cui non più la mente esercita la sua analisi, ma il coltello anatomico le sue incisioni (1). Niuno imputerà a noi che siamo avversi all' analisi; noi ripetiamo che non si dà una sintesi veramente scientifica, una sintesi verace, se l' analisi prima non fu in qualche modo esaurita. Che se noi abbiamo cominciato l' opera presente con una ricerca eminentemente sintetica, « quale sia la natura dell' anima », ciò ci fu lecito, dopo avere lungamente analizzato nei lavori precedenti quanto nell' anima si può osservare di atti e di facoltà. E noi abbiamo tutto ciò analizzato con quell' analisi che conviene solo allo spirito, la quale non lo tagliuzza in parti separate, anzi considera le singole parti senza schiantarle dall' unica radice in cui vivono, si muovono e sono, che è la sostanza dell' anima stessa. Ora poi, dopo aver noi meditato su quella prima questione sintetica, « quale sia la natura dell' anima umana », da questo ceppo delle facoltà tutte o delle funzioni movendo, abbiamo distinte ed enumerate queste facoltà e funzioni; il che fu un tornare all' analisi. Ma compiuto anche questo lavoro, derivate le facoltà umane dal loro principio, ci conviene che a quel principio medesimo le riconduciamo, acciocchè vi attingano le leggi del suo e del loro operare. Per questo noi abbiamo apposto l' epiteto di sintetici ai tre libri seguenti, che trattano delle leggi secondo le quali operano le potenze dello spirito umano, perocchè queste leggi derivano dalla natura intima dello spirito, e sono sequele a quell' atto primo e sostanziale, pel quale e nel quale lo spirito è quello che è, o, meglio ancora, a quell' atto che è lo stesso spirito. Oltre di che la dottrina delle leggi, che governano l' attività dello spirito, deve dirsi sintetica anche per questo, che ogni legge che si stabilisca, altro non è finalmente che una grande sintesi, a cui si conducono innumerevoli atti, che si fanno allo stesso modo; il qual modo identico, che essi tengono, è appunto il segno e la sostanza della legge. Come poi nel precedente libro, dove fu nostro intendimento enumerare e descrivere le speciali potenze dell' anima, lo abbiamo fatto incominciando a derivarle e raccoglierle dall' essenza stessa di lei, così ora ci è uopo di additare, prima d' ogni altra cosa, la sorgente unica di tutte le leggi che segue lo spirito e le sue attività, negli atti in cui si svolgono, la quale è pure l' essenza medesima dell' anima; al che poniamo tosto mano. Riprendiamo adunque la natura umana quale l' abbiamo descritta; ricapitoliamo tutti gli elementi che la compongono, e nella natura di questi cerchiamo le leggi che presiedono al suo operare, pel quale ella si svolge e perfeziona. A tale intento prima di tutto consideriamo da capo la definizione dell' uomo. L' uomo è « un soggetto animale, intellettivo e volitivo ». Questa definizione può essere compendiata in quest' altra: « un soggetto razionale ». La prima definizione ha il vantaggio d' indicare le potenze primitive dell' uomo. Infatti l' intelligenza è potenza primitiva , laddove la ragione è potenza risultante , come abbiamo veduto. Per questo noi preferimmo dire che l' uomo è un soggetto intellettivo piuttosto che un soggetto ragionevole. Che se in quella prima definizione avessimo posto ragionevole o razionale in luogo d' intellettivo, non ci era più permesso di far entrare nella definizione l' animalità, come quella che sarebbe stata già compresa nella razionalità; e così non avremmo ottenuto l' intento di dare una definizione, in cui fossero distintamente accennate le potenze primitive. A malgrado di ciò, ritrattando ora la questione, troviamo più perfetta l' altra definizione testè recata: « l' uomo è un soggetto razionale »; perchè, dato che la parola razionale sia precedentemente dichiarata, il che noi facemmo, questa definizione, oltre il pregio della brevità, gode dei vantaggi seguenti: 1 Quantunque l' intelligenza sia potenza primitiva, tuttavia non è quella che costituisce la natura dell' uomo; di maniera che colla sola intelligenza sarebbe posto in essere un soggetto intellettivo, ma non ancora l' uomo; fino a tanto adunque che il nostro pensiero si ferma all' intelligenza, l' uomo è in via di formarsi, ma non è ancora formato; l' attività che pone l' uomo è la ragione. 2 La ragione, essendo quell' attività in cui conviene e si annette l' intelligenza coll' animalità, esprime acconciamente l' unità del soggetto umano e il vincolo primordiale delle sue potenze. Vero è che nella definizione, « l' uomo è un soggetto animale, intellettivo e volitivo », la parola soggetto indica sufficientemente l' unità dell' essere umano; ma la definizione, « l' uomo è un soggetto razionale », oltre esprimere l' unità dell' uomo, indica altresì il come questa unità si formi, in virtù cioè della ragione, che congiunge in sè stessa l' intelletto ed il senso (1). Ora, affinchè questo nesso meraviglioso dell' animalità coll' intellettualità riceva quella luce che ci bisogna per dedurne le leggi che segue operando l' umana natura, dobbiamo renderci presente all' attenzione della mente la dottrina ontologica delle relazioni essenziali agli enti, le quali si dicono essenziali perchè entrano a costituirli. E prima non si dimentichi che gli enti, dei quali noi parliamo, sono quelli che cadono nei nostri concepimenti, poichè se non li concepissimo, non ne potremmo pur parlare. Ora questi enti, i quali cadono nel nostro concepire, hanno in sè delle relazioni così essenziali che, senza di esse, non sarebbero quello che sono. Quindi essi cangiano di natura nella nostra mente, secondo che il nostro pensiero li considera con alcune di queste relazioni essenziali ovvero con altre; perocchè se da un ente concepito si toglie una sua relazione essenziale, egli è già per questo solo incontanente un altro ente, e viene espresso con un altro vocabolo; e se una ve ne si aggiunge, egli di nuovo non è più quell' ente, ma un altro; appunto perchè si tratta qui di relazioni essenziali, che fanno parte dell' essenza dell' ente, ossia dell' ente stesso. Questa avvertenza riuscirà chiara a quelli che già conoscono la nostra dottrina del sintesismo dell' essere. Ora dobbiamo applicarla alle diverse entità, che entrano nella costituzione dell' anima umana, la natura delle quali e il loro intimo nesso ci è bisogno conoscere per dedurne le leggi. Se noi consideriamo l' ente dotato di estensione, facilmente ci accorgiamo che il concetto dell' estensione risulta da una relazione essenziale fra le parti, che possiamo assegnare col nostro pensiero in un dato continuo, o fra punti che possiamo in esso a voglia nostra concepire. La relazione essenziale fra le parti, di cui parliamo, consiste in questo, che una parte sia fuori dell' altra. La relazione essenziale fra i punti assegnabili consiste in questo, che fra un punto e l' altro sia un dato continuo, maggiore o minore, sicchè i punti non si possano toccar mai. Il concetto dell' ente esteso risulta da queste relazioni; e però l' estensione involge relazione possibile di parte estesa a parte estesa, e di punti a punti, la cui relazione è la distanza. Ma se all' incontro noi consideriamo la relazione del continuo col principio senziente, questa relazione è del tutto diversa; non è relazione di parte a parte o di punto a punto, poichè il principio senziente non è nè una parte estesa, nè un punto matematico. Questa relazione fra l' esteso e il principio senziente fu da noi chiamata relazione di sensilità . E` evidente che questa relazione è inestesa, appunto perchè non è relazione di parte a parte o di punto a punto, la qual sola forma l' estensione. Dunque noi conchiudemmo che il principio senziente apprende l' esteso in un modo inesteso. Quando poi diciamo che il principio senziente apprende l' esteso, noi veniamo a dire che l' esteso è nel principio senziente. Ma l' esteso non è nel principio senziente come una parte è in un' altra parte maggiore; dunque l' esteso non è nel principio senziente con quella relazione che costituisce l' estensione; dunque l' esteso è nel principio senziente in un altro modo, cioè in un modo inesteso. Questo stesso si prova con un altro argomento così. Che cosa vuol dire un ente essere nell' altro in un modo esteso? Vuol dire essere nell' altro secondo la legge dell' estensione. E quale è questa legge? E` che un ente sia in un altro come un' estensione minore è in un' estensione maggiore, come la parte di un corpo è nel tutto. La parte di un corpo è nel tutto in modo che ella è fuori delle altre parti, di maniera che niun corpo, propriamente parlando, è contenuto in un altro corpo, benchè possa essere da un altro corpo circondato, appunto perchè questa è la proprietà dell' estensione, che ogni sua parte sia fuori dell' altra; la quale proprietà, quando si considera nei corpi che godono dell' estensione, chiamasi impenetrabilità . All' incontro, se si considera come l' esteso sensibile sia nella sensazione o nella percezione sensitiva, è chiaro che non vi è nel detto modo, perchè non si trovano due estensioni, l' una delle quali minore compresa nell' altra maggiore, ma tutta intera l' estensione trovasi presente al principio senziente e percipiente, il quale non è già una estensione maggiore che comprenda la minore, ma anzi è cosa diversa dall' estensione, di cui l' estensione è il termine; dunque l' esteso non è nel principio senziente secondo il modo che prescrive la legge dell' estensione, ma vi è in un modo inesteso. Tutto ciò viene dato dalla semplice osservazione; è un fatto innegabile; basta dargli attenzione per riconoscerlo. Se si vuole ancora un' altra prova di questo vero, o un altro indizio a cui riconoscere questo fatto, si mediti ciò che sono per dire. La frase, « un corpo ne contiene un altro, un esteso contiene un altro di lui minore », è impropria e, rigorosamente parlando, falsa, appunto perchè l' estensione e ciò che gode dell' estensione è impenetrabile, come dicemmo; una parte non può essere dentro l' altra senza distruggere la sua propria estensione. Ora, se l' esteso fosse contenuto nel principio senziente come un esteso è nell' altro, conseguirebbe che l' esteso non sarebbe mai contenuto nel principio senziente, ma il principio senziente non farebbe che circondarlo, che stargli a lato. In questo caso il principio senziente non potrebbe mai sentire l' esteso, perchè l' esteso si rimarrebbe sempre fuori di lui, come accade di ogni esteso rispetto ad un altro esteso; e ciò perchè l' esteso non può sentire l' esteso. Ma il principio senziente sente l' esteso, tutto l' esteso; dunque è necessario che l' esteso sia nel principio senziente secondo un' altra relazione, secondo un' altra legge, diversa da quella dell' estensione, il che è quanto dire in un modo inesteso. Di più, se il principio senziente avesse estensione e percepisse gli estesi, ricevendoli nella sua propria estensione, allora o l' estensione del principio senziente sarebbe la medesima di quella degli estesi che egli sente, o sarebbe diversa. Se fosse la medesima, il principio senziente non sentirebbe che sè stesso e niuna nuova sensione a lui s' aggiungerebbe mai; se fosse diversa, aggiungendosi una estensione a quella del principio senziente, la nuova estensione per essere sentita dovrebbe diventare ella stessa principio senziente; altro assurdo manifesto, perchè nella sensione e percezione sensitiva altro è il senziente, altro è il sentito. Finalmente, se il principio senziente fosse esteso, ogni parte della sua estensione non potrebbe sentire che una parte estesa della sua propria dimensione. Ma per quantunque minime fossero le parti che si assegnassero col pensiero, si potrebbero sempre diminuire ancora, e ciò indefinitamente, di maniera che le parti minime non si potrebbero mai rinvenire, perchè nell' esteso non vi sono parti assolutamente minime; onde non si troverebbero mai le parti senzienti, giacchè ogni parte non potrebbe essere sentita tutta intiera dalla sua parte corrispondente, giacchè questa stessa avendo altre parti, ciascuna di esse non sentirebbe tutta la parte intiera, onde sarebbe impossibile determinare una parte che tutta sentisse tutta un' altra parte; mancherebbe adunque il principio senziente atto a sentire tutto un esteso, per piccolo che egli fosse (1). Per la stessa ragione mancherebbe anche l' esteso sentito, perchè non vi sarebbe un senziente capace di sentirlo come esteso. Che se si supponga il principio senziente essere un punto matematico, questo ad ogni modo non potrebbe sentire più che un punto matematico, perchè l' esteso o il punto non ha alcuna esistenza, nè azione fuori di sè stesso, e perciò non sentirebbe l' esteso. Anzi l' esteso stesso non sarebbe al tutto, giacchè fuori del principio senziente ei non può essere. Infatti se nell' esteso ogni parte è fuori dell' altra, ogni parte, e, per dir meglio, ogni minimo esteso esiste fuori dell' altro. Se esiste fuori dell' altro, la sua esistenza e la sua essenza è limitata a sè, e non ha alcuna relazione propria ed essenziale coll' altra. Ma ogni minimo esteso è una unione di estesi ancora più piccoli, e ciò all' indefinito; gli ultimi estesi adunque non sono reperibili, e così l' estensione va a svanire. Se dunque l' estensione suppone parti possibili coesistenti, se suppone continuità, la quale senza alcuna interruzione abbia un' esistenza unica simultanea, conviene che vi sia un principio semplice, che possa abbracciare simultaneamente tutte le parti possibili; sicchè non rimanga già la sola esistenza delle singole parti, ma di esse tutte si formi un' esistenza sola, un ente solo; tale essendo la natura del continuo, che in esso si possano assegnare parti con esistenza individuale ed indipendente, e che tuttavia egli non abbia queste parti, in quanto è continuo. La ragione dunque del continuo, proprietà dell' estensione, non si trova nell' esistenza individuale delle singole parti, ma in un principio semplice loro superiore, che dà loro un' esistenza unica per tutte, e che, abbracciandole tutte, le abolisce, cessando esse d' essere parti di continuo per essere solamente continuo. Ora questo fa il principio senziente, al quale è presente il continuo senza parti, benchè in esso si possano assegnare parti innumerevoli. Per questo noi dicemmo che l' esteso non può esistere che nel semplice (1). Quello che c' importa qui di raccogliere dai sopra esposti ragionamenti si è che della natura dell' estensione e dei corpi si può ragionare in due modi, e quindi anche averne due concetti. Poichè si può considerare la natura dell' estensione dei corpi: Sotto la relazione essenziale all' estensione , la quale consiste in questo, che una parte sia fuori dell' altra. Colla quale considerazione il pensiero non esce dall' estensione o da ciò che è esteso; non fa che considerarla in sè stessa, paragona una sua parte ad un' altra. Sotto la relazione pure essenziale di sensilità . Colla quale considerazione si paragona l' estensione o l' esteso col principio senziente, e la si trova condizionata a lui e in lui inestistente. Il comune degli uomini considerano l' estensione e l' esteso sotto la prima relazione, ed in essa pongono la sua essenza; il filosofo deve considerarla sotto la seconda, ed intendere che anche la seconda entra a costituirne l' essenza, e quindi che l' estensione ha un nesso essenziale col principio senziente, che non è lei. Questi nessi tra due enti, essenziali ad entrambi, sono il fondamento del sintesismo ontologico , e la chiave della filosofia più elevata. Ora si deve osservare che la prima relazione essenziale non è già distrutta dalla seconda, che anzi la seconda suppone la prima. E veramente, qualora l' estensione continua o l' esteso continuo si considera come esistente nel principio senziente, non avviene che si confonda col principio senziente, a cui è anzi opposto siccome suo termine. Questo termine adunque è un ente in sè stesso, costituito di maniera che esso si può concepire non uscendo di lui, non aggiungendovi cosa alcuna; e però è una sostanza, perocchè « sostanza è ciò che ha quanto gli abbisogna d' avere per essere concepito, e che però esiste in sè stesso ». Si noti bene: acciocchè una cosa sia una sostanza non è necessario che ella non abbia una causa, o un principio che la costituisca; ma basta che possa essere concepita da sè; più brevemente, « sostanza è ciò che ha un concetto suo proprio ». Se non che la parola sostanza involge di più una relazione coll' accidente , come accade nella sostanza corporea, che ammette vari accidenti, i quali in essa e per essa esistono, e non hanno un concetto separato ed indipendente, non potendosi concepire esistente un accidente corporeo, se prima non si concepisce un corpo, un esteso, in cui egli sia; al quale si dà appunto perciò la denominazione di sostanza . Si chiama dunque sostanza « un ente (ossia ciò che ha un concetto proprio) considerato in relazione con altre entità, che in lui e per lui esistono »; e questa è la definizione più completa della sostanza. Si dirà che se l' esteso continuo ha per sua relazione essenziale l' esistere nel principio senziente, pare che esso non si possa concepire senza ricorrere al principio senziente in cui esiste, perchè tutto ciò che è essenziale entra nel concetto d' un ente. Ma qui si avverta primieramente che per questo appunto dicemmo che, coll' aggiungere una relazione essenziale o col sottrarla, mutasi l' ente nel nostro concetto, cangiandosi essenzialmente; giacchè abbiamo premesso che gli enti, di cui parliamo, sono quelli che concepiamo; ma la parte essenziale che vi si aggiunge, non muta la prima. Di poi si consideri che il concetto di esteso continuo, quantunque non si consideri in esso il principio senziente, tuttavia presenta in sè ciò che la semplicità di questo principio produce, che è la continuità ; di modo che è ragionando sulla natura di questa continuità che in appresso s' induce la necessità d' un principio senziente. Ma questa induzione, benchè si fondi sul primo concetto dell' esteso, tuttavia appartiene ad un ragionamento posteriore alla concezione di lui; il quale non è necessario alla concezione dell' ente, che col primo concetto , come dicemmo, si pone. Fin qui noi parlammo promiscuamente della estensione e dell' esteso, perchè il nostro ragionamento valeva per l' una e per l' altro. Ora, prima di procedere a parlare dell' unità, che il principio senziente dà al suo termine, giova, per ragione di chiarezza e per rimuovere ogni dubbio dalla mente di chi toglie a ragionare con noi, che distinguiamo l' estensione dall' esteso . Per estensione noi intendiamo il medesimo che spazio considerato indipendentemente dai corpi; e per esteso noi intendiamo il corpo che occupa una parte dello spazio, ossia della estensione. L' estensione, ossia lo spazio pieno o vuoto, occupato o non occupato dai corpi, esiste egualmente, e non è certamente un nulla, come taluno si dà a credere; conciossiacchè il nulla non può essere occupato da una cosa alcuna, nè nel nulla si possono assegnare parti col pensiero, come si può nello spazio. Ora questo spazio è immenso (1), immobile, indivisibile, ossia continuo ed immodificabile; ed è solamente il corpo che è misurabile, mobile, divisibile, modificabile; ma il corpo, sia o non sia in un dato spazio, non modifica punto lo spazio, ossia l' estensione; questa rimane quella che era prima. Noi ammettiamo che lo spazio puro sia un termine della percezione fondamentale dell' anima. Questo spazio primitivo non è una forma nel senso di Kant, quasi una legge dell' operare e una produzione dell' anima stessa, ma è il termine, distinto dall' anima, di una naturale percezione. Questo termine però ha successivamente due stati: il primitivo , privo di qualsivoglia distinzione o relazione quantitativa, o d' altra natura (spazio puro indistinto); e il riflesso , che è lavorato dalla riflessione della mente, che paragona lo spazio primitivo, percepito anche intellettivamente, colle varie dimensioni dei corpi e colle possibilità di tali dimensioni (idea di spazio puro distinto, ossia riportato ai corpi). Questo spazio riflesso, puro, ma distinto, con relazioni quantitative, è di altro genere, è l' idea di spazio interminabile , di cui abbiamo dichiarata l' origine nel Nuovo Saggio (1). Noi ammettiamo che uno dei termini del sentimento fondamentale è un corpo esteso, e però anche un' estensione distinta, limitata quant' è il corpo. Ma avendo l' animale virtù di muoversi, e il muoversi non essendo altro che trasportare il corpo in un' altra parte dello spazio, qualora rimanga un vestigio dello spazio precedentemente occupato, lo spazio distinto rimane ingrandito nel principio senziente in proporzione del movimento e della ritentiva del medesimo. Accadendo poi questo moto nell' uomo, il quale, dotato com' è d' intelligenza, ha il concetto del possibile, l' uomo intende la possibilità di moltiplicarsi e di estendersi lo spazio del suo corpo e di altro corpo all' indefinito mediante il moto, e così si forma il concetto dello spazio riflesso, distinto, puro od immenso (2). Questo concetto adunque manca all' animale che non ha concetti, e nell' uomo è acquisito; quando lo spazio indistinto della percezione sensitiva e razionale è innato. L' istinto poi del moto suppone bensì la percezione fondamentale dello spazio immenso distinto, ma non l' idea dello spazio distinto, perchè quell' istinto non è che il sentimento corporeo avente uno spazio limitato, benchè non ne senta i confini esteriori, e tendente ad atteggiarsi nel modo più agiato e piacevole, senza che l' animale senta, prima di recarvisi, come pieno e distinto, il nuovo spazio in cui colla sua attività si trasporta; ma lo sente distinto, cioè occupato ossia occupabile, solamente allora che vi si è già trasportato, se pure ha modo di conservare in sè i vestigi dello spazio precedente. Lo spazio adunque annesso al proprio corpo è lo spazio distinto perchè occupato, ma non è segnato da confini, che non si possono distinguere, perchè non si sente ancora nulla di corporeo fuori dello spazio sentito che lo limiti; lo spazio adunque del proprio corpo è assolutamente limitato, ma l' animale non ne ha la misura, perchè la misura suppone una relazione con altra quantità estesa, la quale manca ancora prima che esso animale eserciti la sua virtù locomotiva, e ne riceva nuove sensioni. Ora poi, essendo il mero spazio immodificabile ed immobile, egli non ha accidenti; e però, quantunque convenga a lui il nome di ente , perchè il suo concetto, dopo che l' uomo se lo procacciò, è sufficiente a sè stesso e non ha bisogno di corpo, tuttavia a lui non compete il nome di sostanza , perchè il concetto di questa è relativo ad altre entità, che nell' ente e per l' ente esistono, cioè agli accidenti. Dove di nuovo si vede essere una affermazione gratuita quella che « « non si dieno altri enti se non sostanze ed accidenti », » affermazione che appartiene ad una Ontologia materiale e falsa (1). Che poi lo spazio sia un ente e non sia un nulla, si vede da questo stesso che egli è termine, insieme colla forza corporea o senza questa, del sentimento. Ma perchè ciò che si muta è solamente questa forza ed egli si rimane immobile, conviene dire che egli sia un ente, che ha solo l' atto primo con cui è nel principio senziente, e come termine lo informa; ma non ha altra attività, nè atti secondi; perciò appunto non ha accidenti; onde alcuni, che nulla riconoscono se non vedono accidenti ed atti secondi, cadono nell' errore di dichiararlo un nulla. Per altro quando si considera lo spazio puro, l' estensione, come termine immediato dello spirito, egli si considera nell' atto stesso di costituirsi, non avendo altra attività che quella che dimostra come naturale termine del principio senziente; laddove il concetto del corpo (dell' esteso), quale termine del principio senziente, involge di più una passività che ha natura corporea, sì rispetto allo spirito di cui è termine, e sì rispetto ad altre virtù o forze esteriori, che lo muovono e lo modificano indipendentemente dallo spirito nostro. Laonde, se ad acquistare il concetto di spazio distinto, ossia di qualche spazio, basta all' uomo l' astrarre dal corpo, ad acquistare il pieno concetto di corpo è necessaria l' esperienza, che dimostri essere il corpo un ente che agisce nello spirito, su cui lo spirito reagisce modificandolo, e su cui finalmente altre forze e virtù straniere pure agiscono e producono in esso movimenti e modificazioni. Da tutte queste notizie, raccolte dall' esperienza, lo spirito umano conchiude quale forza sia quella che si distende nell' estensione, e che si chiama corpo (1). Noi possiamo ora dalle cose dette avere un corollario importante, cioè che quella unità che si trova nell' estensione e nell' esteso corporeo, viene costituita dalla unità e semplicità del principio senziente, ossia dall' anima. E veramente la sola unità, che si scorge nell' estensione e nell' esteso, consiste nella continuità . Se leviamo la continuità, se colla mente la spezziamo successivamente, lo spazio ed il corpo ci si moltiplica sempre più, e questa moltiplicazione non ha alcun fine, perchè il continuo ci rimane sempre; per questa via dunque della divisione e moltiplicazione all' infinito non si trova mai uno spazio ed un corpo senza continuo, e l' immaginarlo è un assurdo. Se poi noi leviamo il continuo d' un tratto e non successivamente, ogni estensione ed ogni corpo fenomenale è perito (1). Ora noi vedemmo che la continuità dell' esteso non si può concepire se non a condizione di un ente, il quale, identico, sia contemporaneamente in tutte le parti assegnabili del continuo; e questo è ciò che si può affermare dello spirito, quando si considera il continuo come termine indiviso e indivisibile di lui. Se dunque l' unica semplicità del mondo materiale consiste nella continuità, e se questa ha tal concetto, tal natura che fuori del principio senziente non può stare, anzi ripugna il pensarla, dunque la semplicità e l' unità del mondo materiale risulta da questa sua essenziale condizione e relazione, che egli è termine del principio senziente animale, o, che è il medesimo, dell' anima sensitiva. E qui mi affido che coloro, i quali avranno inteso tutto questo ragionamento, non faranno l' obbiezione che « l' essere due corpi contigui o disgiunti è condizione dei corpi stessi e non del sentimento », poichè, dicendo ciò, mostrerebbero di non avere considerato: Che l' estensione immobile è il fondamento del continuo anche nei corpi, i quali non sono che forze diffuse nella estensione, e questa ha la sua sede nel principio senziente. Che la contiguità dei corpi non è nulla rispetto agli stessi corpi singoli, ciascuno dei quali non ha in sè nulla della relazione di vicinanza o contiguità coll' altro; e però questa relazione è estranea al loro concetto, ed altro non è che una relazione, che ciascuno di essi ha col termine del principio senziente, cioè coll' estensione immobile ed immodificabile; e però la loro contiguità è relazione col principio senziente, il quale li sente nello spazio, da cui esso principio, come da termine suo proprio, è informato. Dato un ente, il cui concetto escluda la possibilità d' una successione, quell' ente dicesi eterno. Tali sono le idee (1), tale è l' essere necessario, Iddio. E si noti che a poter dirsi un ente eterno, egli non solo deve escludere di fatto la successione, ma ben anche la possibilità di lei, di maniera che il pensare che in esso sia successione equivale ad un distruggerlo. Così un atomo materiale immobile è privo di successione, ma egli potrebbe averla, perchè si potrebbero pensare in lui delle mutazioni, senza annullarne il concetto; perciò egli non è delle cose eterne. Successione importa mutazione; onde ciò che è eterno è altresì immutabile. Per la stessa ragione ciò che ha cominciato ad essere, oppure solo che si può pensare senza ripugnanza aver egli incominciato, non è eterno. Poichè se una cosa può cominciare, niente vieta che si pensi un' altra cosa, che cominci ad essere prima o dopo di quella, o che ella stessa finisca dopo avere cominciato; è dunque tosto possibile il pensare che quella cosa sia il termine di una serie successiva, ammetta successione; il che si deve dire anche dello spazio, il cui concetto ammette benissimo il cominciamento, senza che con questa concezione lo si annulli. Si consideri adunque attentamente il concetto della successione , giacchè esso è necessario a quello del tempo. La successione suppone una serie di più avvenimenti. Ora ciascuno di questi avvenimenti non forma la successione od il tempo, ma tutti insieme contribuiscono a formarla. Che se in ciascun avvenimento non consiste il tempo, dunque il tempo è fuori degli avvenimenti, perchè ogni avvenimento è essenzialmente singolare, e nella sua singolarità è compito, di modo che il concetto di lui non domanda e non ha alcuna relazione essenziale con un altro avvenimento. All' incontro il tempo consiste essenzialmente nella relazione di più avvenimenti fra loro. Ora, se questa relazione, che costituisce il tempo, non si trova negli avvenimenti, dove si troverà? Noi rispondiamo che questa relazione realizzata si trova prima nel principio senziente , il quale apprende più avvenimenti, e questi disposti in ordine successivo. E` questo un fatto che non si può rilevare che coll' osservazione interiore; ma possiamo poi analizzarlo e, meditando la sua natura, cercare le condizioni, alle quali il principio senziente può apprendere più avvenimenti successivi, per esempio, più modificazioni sue proprie. Acciocchè il principio senziente apprenda come suo termine più avvenimenti successivi, appare necessario che essi, rimanendo in qualche modo in lui, si rendano contemporanei; perocchè se dopo averne appreso uno, questo passasse del tutto e ne venisse un altro, nel principio senziente comparirebbero gli avvenimenti singolari come sono in sè stessi; ma la relazione di successione fra loro non sarebbe appresa, ella non esisterebbe in lui più che negli avvenimenti, e sopravvenendo il pensiero, questo non troverebbe alcuna successione. E` ben da osservarsi che il pensiero piglia le cose come sono, come gli vengono date dal sentimento, e non le cangia (1); dunque è uopo che la successione esista avanti il pensiero, nello stesso sentimento, acciocchè ella possa essere pensata. Ciò che fa il pensiero si è di concepire quella successione come possibile , e, come tale, rendere indefinita quella successione finita che gli presenta il sentimento; il che egli fa coll' idea di possibilità, come abbiamo altrove dichiarato; (2) ma rimane sempre che il sentimento gli debba aver prima presentata nella propria realità una successione finita. Il che s' intenderà meglio, ove si consideri che neppure la memoria sarebbe, senza l' aiuto di sentimenti, i quali notassero le cose nell' idea dell' essere. Perocchè è certo che, se cessasse ogni sentimento all' anima intellettiva, in lei cesserebbe ogni memoria di avvenimenti o di cose reali, non restandole presente altro che l' essere ideale senza determinazione o disuguaglianza di sorte, perchè nulla sarebbe che disegnasse in quello le cose speciali e reali. Tutto ciò che potrebbe restare sarebbero certe attitudini, potenzialità, abiti dell' anima, impotenti di passare all' atto. Ma perchè si vegga più chiaro quale parte abbia nella costituzione del tempo il pensiero, e quale il sentimento, conviene investigare più addentro il fatto della memoria, facoltà che appartiene all' ordine dell' intelligenza, e propriamente alla potenza della ragione. Parleremo adunque qui della memoria; la quale ha due funzioni principali, l' una chiamata ritentiva , che ha per ufficio di conservare le notizie, l' altra chiamata reminiscenza , che ha per ufficio di rivocarle all' attenzione riflessiva della mente, qualora l' uomo ne abbisogni. Non indugiamo su questa seconda, ma ci conviene trattenerci sulla prima, la quale è o inconsapevole o consapevole. La ritentiva inconsapevole è quella che gli antichi chiamavano l' abito della memoria, pel quale le notizie rimangono in noi, senza che noi vi diamo attenzione riflessa. La ritentiva consapevole è quella attività, per la quale abbiamo presente alla riflessione ed alla coscienza la notizia, sia per avercela richiamata coll' atto della reminiscenza, sia perchè ci abbiamo continuamente riflesso. Diciamo, adunque, che un evento passato acciocchè sia presente alla nostra coscienza: Ha bisogno d' un vestigio restato nell' immaginazione, o comecchessia nel sentimento dell' evento. Ora quel vestigio non è l' evento a cui noi pensiamo, e che è già passato, ma è un cotal segno di lui. Conviene dunque che oltracciò s' aggiunga una propria virtù del pensiero, colla quale la mente nostra possa andare dal segno alla cosa segnata, possa, aiutandosi col vestigio rimasto, trasportarsi all' evento che già non è più, e così finire l' atto del pensiero nel passato, come in suo termine. Ora questo non è così agevole a spiegare. Noi l' abbiamo fatto altrove; qui in aiuto dei lettori ci riassumeremo. Primieramente si abbia presente che la mera concezione dell' evento non è nè passata, nè futura; è presente nell' idea. Questa concezione adunque non dà cognizione dell' evento che nella sua natura e nella sua possibilità; qui non entra ancora il tempo, il quale è una relazione propria degli enti reali, e non delle pure idee. Ma per questo appunto che la concezione, la possibilità dell' evento è cosa immune dal tempo, perciò ella può applicarsi ad ogni tempo; io posso pensare l' evento tanto possibile ad essere avvenuto, quanto ad avvenire. Conviene dunque investigare come dalla cognizione dell' evento possibile l' uomo passi alla cognizione dell' evento reale, il quale è sito in un dato punto del tempo. Ora l' ente reale non si conosce se non per via di sentimento; quindi di nuovo è evidente la necessità del sentimento, acciocchè si possa pensare il tempo dell' evento. Ma il sentimento della percezione, colla quale noi fummo presenti all' evento, va a cessare. Vero; pure conviene osservare che la percezione si compie mediante un giudizio, ed anzi essendo accompagnata da riflessioni, come accade nell' uomo adulto, ella è accompagnata da più giudizi. Questi giudizi danno allo spirito delle notizie dell' evento; vediamo quali sieno tali giudizi e tali notizie. Il giudizio proprio della percezione è che l' evento, il fatto, l' ente di cui si tratta, sussista. Lo spirito così acquista la notizia della sussistenza di quella entità, parola che abbraccia ogni ente, ogni evento, fatto od azione. A questo giudizio se ne accompagnano molti altri, che determinano l' entità colle relazioni di contemporaneità, che egli ha con altri. Perocchè quell' entità non si percepisce sola, ma con essa se ne percepiscono molte che la circondano, coesistenti ad essa. Il che apporta allo spirito altre notizie, cioè altrettante quanti sono i giudizi, coi quali si affermò che quella entità coesiste con qualche altra. Non basta; fra le entità, che coesistono con quella di cui si tratta, alcune incominciano dopo che ella è già incominciata, ovvero erano incominciate prima, e mentre esse duravano, ella incominciò. Altre entità finirono prima di essa, ovvero continuarono a durare dopo che essa cessò. Nell' atto adunque della percezione, o per dir meglio delle molte percezioni contemporanee e dei giudizi riflessi che le accompagnano, lo spirito acquista la notizia dell' ordine cronologico, in cui cominciarono le entità contemporanee. Ora, poichè tutta la vita è una serie continua di percezioni e di riflessioni, di giudizi e di notizie cronologiche, perciò consegue che queste notizie rimanendo nello spirito, questo venga a conoscere l' ordine cronologico delle entità, ossia degli eventi percepiti. Tutto adunque si riduce a spiegare come queste notizie si conservino nello spirito, perocchè, dato che esse si conservino, lo spirito già sa quale evento è preceduto, e quale è susseguito, e se un dato evento ne ebbe pochi o molti davanti a lui; il che è quanto dire conosce la successione ed il tempo; e poco alla volta s' incammina a misurarlo più o meno accuratamente colla periodicità. Vediamo adunque come si conservano le notizie cronologiche degli eventi, che acquistiamo in occasione delle percezioni contemporanee. Dico delle percezioni contemporanee, perocchè è sempre un evento contemporaneo quello che segna il cominciare ed il finire di un altro; il quale pure segna il cominciare ed il finire degli eventi contemporanei a sè, e così successivamente. Che cosa sono adunque queste notizie cronologiche? Sono altrettante affermazioni, giudizi, persuasioni. Ora che è un' affermazione? Un atto del principio razionale. Se questo atto non cessasse mai, conseguentemente la notizia che produce allo spirito non cesserebbe del pari, ma sarebbe sempre presente allo spirito; per esempio, la notizia che prima che il sole cadesse, giunse a noi un amico lontano, rimanendo sempre attuata l' affermazione pronunciata da noi al venire dell' amico, rimarrebbe pur ella sempre presente al nostro spirito. Si consideri che in questa supposizione della presenza immobile di tale notizia davanti al nostro spirito, l' oggetto della notizia non varierebbe mai per volger di tempo, sarebbe sempre quello; noi sapremmo sempre egualmente ciò che sapevamo al primo pronunciare di quel giudizio, cioè che « quell' amico giunse a noi innanzi sera »; questi due avvenimenti della venuta dell' amico e del cadere del sole, nella detta notizia sarebbero sempre collocati l' uno prima e l' altro dopo. Questo è adunque un fatto importantissimo da tenersi ben fermo, che l' oggetto di una notizia, durante la notizia, non si muta col volger del tempo, ma rimane identico; trattasi sempre di amico e di sera, quantunque passino anche dei secoli. Ora questa identità dell' oggetto di una notizia si conserva non solo nell' ipotesi che quella notizia duri in essere innanzi allo spirito, ma ben anche se, dopo essere cessata, noi possiamo richiamarla al pensiero. Perocchè, quantunque sia vero che il nostro spirito, volgendo di nuovo il pensiero a quella notizia, farebbe un atto nuovo diverso dal primo, tuttavia l' oggetto di quell' atto nuovo sarebbe identico coll' oggetto dell' atto antico e cessato, e l' identità dell' oggetto è ciò che costituisce l' identità della notizia; questo non si avvera solo rispetto alle notizie cronologiche, ma rispetto a tutte le notizie di qualsiasi maniera. Se io penso mille volte a questa verità, che « due e due fanno quattro », io fo mille atti diversi, ma l' oggetto di tutti questi atti è il medesimo sempre, e però è identica la notizia. Se io penso mille volte che « fu al mondo Alessandro, figliolo di Filippo », di nuovo fo mille atti, ma l' oggetto è sempre uno; con ciascuno di quegli atti penso sempre il medesimo Alessandro, il medesimo Filippo, e penso questo padre e quello figliolo; la molteplicità dei miei atti non moltiplica i miei oggetti. Ciò vale adunque tanto se l' oggetto della notizia è necessario, come la verità geometrica « due e due fanno quattro », quanto se l' oggetto è contingente, come la verità dell' esistenza di Alessandro, figliolo di Filippo. Il che vuol dire che l' oggetto della notizia è immune dal tempo, perocchè il tempo che trascorre e gli eventi che si succedono, non lo cangiano; ma si noti, è immune dal tempo come oggetto di notizia, ma non è immune dal tempo in sè stesso; perchè il contingente soggiace al tempo, ed infatti tra Filippo ed Alessandro vi fu successione, e quindi tempo. Deve dunque conchiudersi che il pensiero apprende il tempo, ma non temporalmente; apprende ciò che è temporaneo, ma fuori del tempo; simigliantemente appunto a ciò che abbiamo detto dell' esteso, che è appreso dallo spirito in un modo inesteso. Se dunque l' oggetto della notizia è temporaneo, e pure, in quanto è divenuto oggetto di una notizia dello spirito, non soggiace più al tempo, e quindi lo spirito l' apprende fuori del tempo, dove l' apprenderà egli? E` forza concludere che il pensiero apprende il tempo e il temporaneo nell' eterno; perocchè esclusa la possibilità del tempo, come abbiamo detto, rimane l' eternità. Il che come sia si spiega, qualora si rifletta che nell' essere ideale , che è necessario ed eterno, si vede, presupposto il sentimento, anche il contingente ed il successivo, e la realità stessa come possibile a sussistere (idea della realità); ed è poi l' affermazione, che, congiungendo questa realità coll' essenza della cosa, pronuncia la sussistenza; onde quantunque volte la pronuncia, pronuncia sempre la realità della stessa essenza, e quindi sempre la stessa cosa identica. Di che si fa chiaro che il pensiero, il giudizio, l' affermazione, col ripetersi, non mutano il loro oggetto, ma lo colgono e pongono innanzi alla mente in un modo eterno e immutabile. Ora poi, qui noi abbiamo introdotto due ipotesi, l' una che il giudizio, che produce innanzi allo spirito la notizia cronologica degli enti in occasione delle percezioni, lasci questa notizia durare nello spirito quasi in deposito; l' altra che la riproduca, dopo essere ella svanita; e nell' una e nell' altra egualmente conchiudemmo che la successione di più enti, conosciuta una volta, si può conoscere egualmente anche molte, senza che a ciò faccia ostacolo il trascorrere del tempo. Ma per non lasciare indietro nulla, che turbar possa la mente di quelli che ci accompagnano in queste ricerche, domanderemo « quale delle due ipotesi sia conforme al fatto ». La seconda è preferita comunemente, perchè l' esperienza dimostra che molte notizie si dimenticano e poi si richiamano colla reminiscenza, onde non pare che di continuo si conservino nello spirito. Eppure ella soggiace a non leggiere difficoltà; primieramente se esse non si conservassero, almeno languidamente, non si potrebbe spiegare il loro richiamo; perocchè dove e come lo spirito le rinverrebbe perdute? Non può dirsi per associazione di esse con altre notizie presenti, giacchè se sono affatto perdute, l' associazione non può esistere; non per gioco d' istinto, giacchè l' istinto suppone il senso di cui esso non è che il movimento, e però suppone ancora le notizie conservate in qualche modo nel sentimento; e poi molte volte si richiamano non istintivamente, ma per decreto di volontà, tostochè piaccia. D' altra parte è indubitato che noi perdiamo la coscienza di quelle notizie, e poi di nuovo la riprendiamo. Tutte queste difficoltà svaniscono per colui che conosce la teoria della coscienza; questi intenderà facilmente come le notizie acquistate possano rimanere nello spirito nostro presenti, attuali, vive, e tuttavia spoglie al tutto di coscienza. Fu già da noi dimostrato che « niun atto dello spirito è conosciuto a sè stesso », a cagione che l' atto è sempre diretto a conoscere il proprio oggetto, e non sè stesso. Fa dunque bisogno un altro atto riflesso sul primo, pel quale l' atto primo divenga oggetto, acciocchè si conosca, acciocchè si sappia di conoscere. Conviene dunque appigliarsi alla prima ipotesi; conviene dire che non basta avere una notizia, ma di più conviene averla sempre in noi conservata, perchè ce ne rendiamo consapevoli. Non è dunque assurdo il dire che le notizie, una volta ricevute nello spirito, vi rimangano, e che quello che cessa sia l' atto dell' attenzione (1) che lo spirito pone in esse, e della riflessione , senza i quali atti non è coscienza di cosa alcuna che sia nello spirito. Riprendiamo ora il corso del nostro ragionamento. Il pensiero conosce la successione in un modo nel quale non entra successione alcuna, a condizione però che la successione una volta gli sia offerta nella percezione e nei giudizi riflessi, che si fanno in sua compagnia. Ora noi abbiamo detto che la percezione e i giudizi concomitanti offrono la successione al pensiero, perchè durante la percezione d' una entità se ne percepiscono altre, che incominciano o che finiscono; e queste percezioni si succedono, lasciando di mano in mano nello spirito le notizie cronologiche degli eventi. Ma questo suppone la durata della percezione. Infatti non si potrebbe concepire successione di avvenimenti, se fra l' uno e l' altro non fosse una durata. Ora il durare suppone ciò che dura, per esempio, la percezione stessa; la durata è propria di ciò che esiste, e niente all' incontro può esistere in un istante, il quale non ha durata alcuna; l' istante non è che il principio e il termine della durazione. Dunque la successione di eventi, cioè del loro cominciare e del loro finire, suppone la durata d' un ente, nella quale durata, quasi sopra termometro, sieno segnati tutti gli istanti in cui cominciano o terminano gli avvenimenti, che in quella si mutano e si succedono. Il tempo dunque si può definire in sè stesso: « la relazione fra la durata e la successione ». Ma i concetti della durata e della successione sono correlativi, per modo che l' una non si conosce, nè può esistere senza l' altra. Poichè come non si dà successione senza che fra l' uno e l' altro avvenimento, che è sempre un cominciare ed un finire, passi qualche durata, così la durata non s' intende se non mediante la possibilità che vi sia una certa successione di avvenimenti, a cui si riferisca (1). Conviene dunque occuparsi a meditare che cosa sia la durata , e prima di tutto quella del pensiero, poi quella della percezione intellettiva, in appresso quella del sentimento, e finalmente quella dell' ente materiale; e quando il nostro intendimento, meditando, sarà soddisfatto, allora sarà per noi spiegata sufficientemente la natura del tempo. Ora la durata del pensiero consiste nell' identità dell' oggetto. Noi abbiamo veduto che ogni oggetto della notizia intellettiva, come tale, è immutabile; sicchè ove il pensiero si volga ad un altro oggetto, egli è incontanente un altro pensiero, non più quel di prima. Ma finchè lo spirito non si volge ad un altro oggetto, questo essendo immutabile, rimane pure immutabile il pensiero. Non mancando dunque mai l' oggetto che determina un dato pensiero ad essere quello che è, perchè l' oggetto di una notizia è eterno, ed essendo possibile il pensiero tutte le volte che vi sia l' oggetto; ne consegue che la durata del pensiero sia una partecipazione dell' eternità del suo oggetto. Se non che, per la limitazione del soggetto pensante, il pensiero cessa e finisce, benchè rimanga l' ente che era suo oggetto; e questo cessare è appunto l' istante, che termina la sua durata. Ora poi la notizia che un evento precedette un altro è ricevuta dallo spirito mediante la percezione. Come adunque si spiega la durata della percezione? - La percezione non può durare, se non dura il sentimento a cui si riferisce (2); nè il sentimento può durare, se non dura l' ente senziente e l' ente sentito. Conviene dunque spiegare la durata dell' ente sentito, oggetto della percezione. Come si spiega la durata degli enti? La sussistenza d' un ente contingente altro non è che la realizzazione della sua idea. Questa realizzazione è fatta dalla prima causa delle cose, è la creazione. Ora la causa suprema è necessaria ed eterna, e l' idea è pure necessaria ed eterna. La maniera con la quale la causa suprema crea, ossia realizza gli enti contingenti, è per via d' intendimento, è un atto della ragione pratica di Dio, del suo pensiero operante. Iddio fa sussistere le cose con un atto analogo a quello, col quale l' uomo le pensa sussistenti. Il pensiero dell' uomo, come abbiamo veduto, da parte dell' oggetto cognito (benchè contingente) ossia della notizia , è immutabile ed eterno; ma cessa per deficienza del soggetto pensante. All' incontro, l' oggetto immediato del pensiero di Dio è pure eterno, ma è egualmente eterno ed indeficiente il soggetto pensante, cioè Dio. Quindi le cose create possono durare a volontà di Dio; e questa volontà infatti è senza pentimento; onde gli enti, una volta creati, non cessano più in eterno, perchè sono l' opera di Dio. All' incontro le loro azioni e passioni, avendo per oggetto e causa prossima gli enti stessi contingenti e deficienti, vengono a cessare, incominciano, terminano, ricominciano con una incessante vicenda e successione. Conviene dunque dire che la durata è una partecipazione dell' eternità di Dio, e la successione è l' effetto della limitazione e deficienza delle creature. Ora il tempo è appunto questa successione riportata, e quasi segnata graduatamente su quella durata. Così è chiaro come le entità durino e si succedano , e come la loro durata si misuri col numero, ossia colle serie delle successive azioni degli enti (1). Dichiarata così la natura del tempo, riprendiamo la nostra questione, la quale si era se il tempo è nelle cose materiali, se è nel sentimento, e finalmente se è il solo pensiero che lo forma. Da ciò che fu detto chiaramente si deduce che il tempo non può essere nelle cose materiali, perocchè la loro unità, e però la loro durata, è dovuta al principio senziente in cui sono, e non la hanno in proprio; onde il rapporto fra la successione e la durata non è cosa che possa esistere in alcuna parte assegnabile della materia, come materia, perchè non si dà parte senza estensione continua, e questa non è propria della materia come materia. Oltracciò, mettendo da parte quelle mutazioni fenomenali, che appariscono nella materia a cagione della sua relazione col principio senziente, e pigliando la materia nel suo puro concetto, niuna mutazione si concepisce in lei possibile se non quella del moto, il quale è una relazione con lo spazio. Ma lo spazio, il continuo, non appartiene alla pura materia; dunque in essa, puramente in essa, è impossibile concepire mutazione, e però nemmeno successione. Di più la materia non ha moltiplicità, perocchè ciascuna porzione della materia è una e rimane una, finendo in sè stessa senza potersi sommare con un' altra porzione, dalla quale ha esistenza intieramente separata, nè v' è realità comune fra esse. Certo, se nell' ente materiale vi fosse un principio semplice, questo potrebbe portare nel suo seno una cotal successione di svolgimenti, la quale avrebbe un nesso fisico col principio immutabile e durevole dell' ente, ed in tal caso il tempo vi sarebbe quasi realizzato; ma rimosso dalla materia corporea il sentimento, che non appartiene al suo concetto, ella non ha più, per dirlo di nuovo, nè semplicità, nè unità alcuna. Che se si ammette un principio corporeo , questo non può essere corpo, nè materia, di cui anzi è il principio; e però, supponendo che avesse in sè il tempo, non l' avrebbe però ancora l' ente meramente materiale. Ritorniamo adunque all' ente sensitivo, dove trovasi appunto un principio semplice, fonte di diverse sensioni e modificazioni, attività e passività. In questo si concepisce una durata appartenente ad esso principio, che rimane identico; si concepisce del pari una successione nelle sue sensioni particolari; si concepisce finalmente un nesso fisico tra la durata del principio e la successione delle sue passioni ed azioni, perchè queste sono contenute virtualmente in quello; da quello, poste certe condizioni, scaturiscono; e a quello, come a soggetto, appartengono. Ora questi tre elementi, durata, successione, nesso fra loro, compiscono il concetto del tempo. Il tempo dunque esiste nella natura del sentimento. Ma qualora si prenda a dar ragione di tutto ciò, la mente incontra dei nodi difficili, ed è meraviglia se ella non vacilla e tentenna. Giova che qui noi tocchiamo queste difficoltà, oltrepassando le quali, il ragionamento nostro non potrebbe indurre piena persuasione di verità. Gli atti transeunti e successivi d' un principio senziente, quando cessano, o lasciano nel principio stesso vestigio di sè o non ne lasciano. Se non lasciano vestigio alcuno, non può rimanere nel principio successione di atti in un modo contemporaneo, com' è pur necessario, acciocchè si abbia il tempo. Perocchè, come vedemmo, questo importa successione; e successione non v' è, se ella non può esistere tutta insieme, però contemporaneamente, se non v' è ciò che unisce i suoi anelli. Se poi gli atti successivi passando lasciano vestigi di sè nel principio senziente, questi vestigi non sono gli atti stessi; onde non sarebbe più la successione degli atti che il principio senziente mantiene in sè, ma la successione dei loro vestigi; e il tempo dovrebbe crearsi mediante questi. Ma che cos' è la successione dei vestigi? La successione dei vestigi non è già la loro durata, perocchè nella semplice durata non v' è successione. La successione dei vestigi non è che il loro cominciare l' uno prima dell' altro, come pure il loro finire, se finissero; ma noi supponemmo che rimangano permanenti. Ora, il cominciare di ogni vestigio passa in un istante e non lascia nulla di sè; rimane il vestigio che dura, ma non l' istante del suo cominciare. Se dunque il cominciare prima e poi dei vestigi, che forma la successione, altro non è che una serie d' istanti, il precedente dei quali non è più quando viene il susseguente, convien dire che la successione non rimanga, non sia raccolta da un ente che l' abbia presente; perocchè il principio senziente non ritiene i diversi cominciari dei suoi vestigi, i quali cominciari trapassano per la loro natura essenzialmente istantanea. Dunque si trova la stessa difficoltà ad intendere come il principio senziente possa raccogliere in sè tutta la successione dei vestigi, che lasciano gli atti suoi, e come possa raccogliere e ritenere in sè quella dei suoi atti passeggeri. E` dunque uopo cercare un' altra via a superare questa difficoltà. Noi la troveremo meditando la natura della durata . Il concetto, che noi ne abbiamo dato, si fu che « ella è una partecipazione dell' eternità ». Come l' ente ideale è immune affatto da tempo, così la sua realizzazione partecipa di questa immunità, benchè in modo limitato perchè di più non può; e questa è la durata. La durata dunque suppone identità . Come l' essenza d' un ente è identica in qualunque istante la si considera, così l' ente reale e semplice è del pari identico in qualunque istante egli opera e patisce. Ciò posto, se n' ha per conseguenza che quell' identico principio senziente che fa un atto, è quegli pure che fa tutti gli altri successivi. Essendo egli identico, è dunque presente a tutti gli atti che fa; è dunque presente a tutta la successione, senza che egli stesso soggiaccia a successione, oppure sia un anello di lei. Considerando in questo modo il principio senziente, s' intende assai chiaro come egli raccolga in sè la successione dei suoi atti egualmente che quella dei vestigi che lasciano in lui; benchè i termini della successione degli atti e dei vestigi trascorrano in modo che l' uno non è presente all' altro, come è necessario acciocchè formino successione. Conviene dunque ammettere che il principio sia fuori del tempo, acciocchè possa accogliere in sè la successione, e così mettere in essere il tempo; onde di nuovo dobbiamo dire che « il tempo non può esistere se non in ciò che non ha tempo, come suo termine ». Tutta la difficoltà, dunque, anche qui si riduce a pervenire colla mente a persuadersi che il principio senziente (come ogni altro ente semplice) non soggiace al tempo, ma propriamente è nell' eternità, o, come sogliamo anche dire, appartiene al mondo metafisico. Tutto questo ragionamento, a nostro vedere, è inattaccabile, a meno che non si voglia impugnare la durata del principio senziente, cioè la sua identità rispetto a tutti i suoi atti successivi. Supponiamo dunque che s' impugni; noi dovremo sostenerla, e quando l' avremo provata con invitti argomenti, allora sarà assicurata la nostra conclusione; qui conviene puntare il ragionamento. La prima prova, che noi daremo della durata identica del principio senziente, sarà quella che dimostra in generale la necessità della durata degli enti. Infatti, supponiamo che un ente non avesse alcuna durata; è chiaro che non esisterebbe più, perchè l' esistenza istantanea è assurda in sè stessa, nulla essendo l' istante se non il principio od il fine di una durata. Ma se un ente dura, per poco che duri, egli deve essere identico finchè dura, altrimenti non sarebbe durata la sua, ma successione di enti eguali, ciascuno dei quali fosse per un istante. Il che, per replicarlo, è manifestamente cosa assurda a pensarsi, sì perchè niuno di quegli enti sarebbe, giacchè nell' istante stesso in cui fu, nell' istante medesimo cessò, non fu; ora fu e non fu è contraddizione. Di più quegli enti non potrebbero formare successione, perchè fra l' uno e l' altro non vi sarebbe durata alcuna, la quale non può essere, come dicevamo, senza la possibilità almeno d' un ente durante. Una seconda prova, speciale alla durata del principio senziente, si trae da questo fatto, che gli atti successivi d' un animale sono ben sovente ordinati; il che dimostra che vi è una identità nella causa che li produsse, l' istinto animale. Che se non vi fosse una causa unica di tutti, ma ciascun atto avesse una causa diversa, un principio senziente diverso che li producesse, non vi sarebbe più una ragione dell' ordine che hanno fra loro, e dell' unicità dello scopo a cui tendono ben sovente; perocchè ogni principio non potrebbe operare che un atto solo, senza alcun legame cogli altri. Converrebbe adunque ricorrere o ad un' armonia prestabilita, o all' azione immediata di Dio medesimo, per spiegare le azioni e le passioni dell' animale; il che non può ammettersi per innumerevoli assurdi che escono da tali sistemi. Terza prova: tolta la durata degli enti identici, non sarebbe possibile neppure che esistessero nuove azioni di enti, perchè l' azione è un atto secondo, che suppone il primo dell' esistenza, e quindi almeno due istanti con intervallo di qualche durata, perocchè altrimenti non sarebbero due. Quarta prova finalmente: nell' uomo la coscienza depone l' identità del principio senziente rispetto ai suoi atti. Ora la riflessione del pensiero, non alterando punto le cose dall' esser loro, come già dimostrammo, ma solo facendole conoscere quali sono, è testimonio fededegno che il principio senziente dura numericamente il medesimo. Dunque non è assurdo che il principio senziente abbia una durata , il che è quanto dire si conservi identico rispetto a tutti i suoi atti successivi; ed anzi ciò si deve al tutto ammettere; ora in lui si genera quella relazione che poi tempo si chiama. Conchiudesi che l' unità della successione degli atti, modificazioni, passioni, cominciamenti e terminazioni, è dovuta ad un principio semplice che ha durata, cioè che è identicamente presente a tutti i termini della successione; senza di che vi sarebbero i singolari anelli, non mai la successione, e però neppure il tempo; nè i detti anelli avrebbero ragione di anelli. Per la ragione medesima che il principio razionale è un ente semplice, il quale fa più atti successivi, di cui è causa e soggetto durevole identicamente il medesimo, anche nel principio razionale vi sono tutte le condizioni richieste all' esistenza del tempo. Convien dunque conchiudere: Che se lo spazio e l' esteso ricevono la loro unità dal principio senziente animale , la successione all' incontro, il tempo ed il temporaneo ricevono la loro unità da un principio senziente di qualunque maniera egli sia, o animale o razionale . Che lo spazio è un concetto conseguente a quello dell' ente animale ; ma il tempo è conseguente all' ente reale senza più, tostochè esso divenga soggetto di mutazioni, perchè all' ente appartiene l' identità , ossia la durata , in mezzo alle permutazioni a cui si stende. Che il concetto di tempo non si riscontra in quello di spazio puro o di materia, dove può pensarsi la durata, ma non la successione, e però neppure il rapporto fra durata e successione. Quindi si deve distinguere: Il tempo reale , cioè il tempo in quanto esiste realmente nel nesso, che vi è tra un principio identico e la successione delle sue modificazioni. Il tempo reale7conosciuto , che è il tempo presente al pensiero che lo apprende. Il tempo ideale , che è il concetto, ossia la mera possibilità di un nesso fra la durata e la successione. Noi dobbiamo ora dimostrare come il principio razionale congiunga e unifichi l' idea ed il sentimento. Ma poichè il sentimento è di tre specie, animale, intellettivo e razionale , così di ciascuno di essi dovremo, a parte, dimostrare come possa coll' idea congiungersi. Di più, nel sentimento vi sono due elementi, il senziente e il sentito, ciascuno dei quali può nell' idea conoscersi. Divideremo adunque le questioni così: Come il sentito esteso e la successione degli eventi si percepiscano dal principio intellettivo, che così prende il nome di razionale. Come si percepisca intellettivamente il principio senziente animale. Come si percepiscano il principio intellettuale, a cui è termine l' idea stessa, ed il principio razionale. Come si percepiscano le diverse affezioni del principio razionale. Noi abbiamo veduto che l' estensione e l' esteso non comunica col principio senziente per via d' estensione, a quella guisa cioè che un esteso potrebbe essere in qualche modo contenuto in un altro esteso; che anzi, se l' estensione e l' esteso non avesse che questa proprietà dell' estensione, non potrebbe avere nessun nesso col principio senziente, il quale è inesteso. Ma l' estensione e l' esteso è anche sensibile, e però, mediante la relazione di sensilità , egli è ricevuto e contenuto nel principio senziente. La qual relazione però è prodotta dalla stessa natura ed attività del principio senziente, di cui tale è la natura che egli si congiunge alle cose a lui appropriate per via di sentimento; onde quel che è esteso egli lo rende sentito . Questa relazione di sensilità è più elevata della relazione di estensione; e come l' entità più elevata, avente più gradi di essere, abbraccia l' entità meno elevata avente meno gradi di essere, e abbracciandola la nobilita comunicandole del proprio, così il concetto di esteso è abbracciato e contenuto nel concetto di sentito , e non viceversa; e l' esteso stesso divenendo sentito, ossia considerato come tale, si eleva nella scala dell' essere un gradino più su. Ora, più elevato di ogni entità è lo stesso essere , il quale è l' oggetto dell' intendimento; e quindi il concetto di essere abbraccia tutte le entità inferiori, qualunque sieno i gradi d' essere di cui quelle godano. Quindi le cose tutte si mettono in congiunzione coll' intendimento per una relazione essenziale di entità . Ma le cose non possono essere percepite dall' intendimento, se prima non hanno la condizione e relazione di sentito (1), perocchè l' uomo non percepisce intellettivamente se non ciò che cade nel suo sentimento (2). Dunque l' esteso è nel sentito, e il sentito è nell' ente intuìto dall' intendimento. Conviene riflettere che l' essere ideale comprende la realità possibile , il che è quanto dire l' essenza delle cose reali; quindi, allorquando al principio, che vede l' ente, è contrapposto un sentito7esteso, forza è che lo veda nell' ente come partecipe dell' essere, e così lo percepisca, come abbiamo spiegato innanzi più estesamente. Ora, quando il principio che vede l' ente, vede anche l' entità partecipata dal sentito, allora quel principio, che prima chiamavasi semplicemente intellettivo, incomincia a chiamarsi razionale. Il principio razionale , adunque, percepisce il sentito nella sua qualità di ente, il che è quanto dire congiunge in uno ciò che vede nell' idea (essere) e ciò che sente; e così il sentito diviene un ente all' intelligenza, un suo oggetto. Che se niuna intelligenza percepisse il sentito, questo non avrebbe il concetto di ente, ma solo di sentito, perchè il concetto di ente lo riceve dalla sua relazione coll' essenza dell' ente, la quale essenza dimora nella mente suprema e in tutte le menti inferiori, a cui quella prima la comunica, così creandole. Chiamo poi questa relazione essenziale , appunto perchè ella entra a costituire il sentito7esteso come ente; il che è un dargli un grado maggiore di entità, anzi è un dargli quell' ultimo atto, nel quale è quello che è. L' ente sentito, adunque, esiste come ente nella mente; ma l' uomo, che ne parla, attribuisce giustamente la condizione di ente a lui stesso; perchè l' uomo non parla delle cose se non in quella guisa che sono nella sua mente; e la cosa stessa, che è nella mente, è ente, ed è ente diverso sostanzialmente dalla mente, che, ponendolo, lo percepisce. Per la stessa semplicità dell' idea e della notizia, per la quale ella è immune dallo spazio e dal tempo, si spiega come la mente possa concepire gli eventi successivi, passati e futuri, come vedemmo (1). Era necessario indicare qui la questione, perchè nostro intendimento si è dimostrare come il principio razionale è il principio che dà unità a tutte le operazioni umane. Ma la questione fu già da noi risoluta, e, ricapitolando, qui ci basterà dire che è la riflessione quella che, ripiegandosi sul sentito7ente, trova che a lui deve inesistere un principio senziente per la ragione detta, che il solo sentito esteso non avrebbe quella unità che egli ha, qualora non vi fosse alcun principio senziente. Ma non siamo noi ancora principŒ senzienti? non ce lo dice la coscienza? Sì, la coscienza ci dice indubitatamente che in noi è un principio senziente, un principio intellettivo e un principio razionale, in cui si unisce quello a questo. Ora la coscienza stessa è una riflessione sul sentimento nostro proprio. Ma si conosce il sentimento nostro proprio immediatamente per via di percezione, senza bisogno di riflessione. Sì, ma altra cosa è percepire il sentimento proprio, altro è distinguere in esso il principio , distinguerlo dico, accuratamente dal termine . Noi percepiamo questo principio entro il sentimento; ma per averne un concetto separato e distinto dobbiamo ricorrere alla riflessione. Ora la riflessione lo trova, considerando appunto la natura del sentimento. Tutto adunque si riduce a dichiarare la natura della riflessione e in che modo ella proceda. La riflessione si definisce « « la facoltà di applicare l' idea dell' essere alle nostre cognizioni e loro oggetti »(1) ». Ora, per ispiegare questa operazione dello spirito, conviene attentamente considerare la natura dell' idea dell' essere, che è il mezzo sì della percezione e sì della riflessione . La difficoltà, che si presenta, è questa: « Se nel percepire un ente io ho adoperata l' idea dell' essere legandola col sentito, come posso io più, dopo di ciò, applicare la stessa idea dell' essere alla percezione e al suo oggetto, e cavarne da questa nuova applicazione (che è appunto la riflessione) altre notizie? ». La risposta si deve desumere dall' osservazione accurata del fatto. Questo fatto osservato attentamente ci dimostra che la cosa avviene appunto così; dunque dobbiamo concludere, senza replica, che ella così può avvenire. L' idea dell' essere può sempre venire dalla mente applicata a sè stessa, ovvero a qualsivoglia cognizione, in cui ella è già contenuta. Questo fatto ammirabile non si può negare o impugnare; ma si può analizzare e cavarne conseguenze utili a farci meglio conoscere l' indole dell' idea medesima. Ecco quali sono: Se l' idea dell' essere quantunque la leghiamo nella percezione, tuttavia ci rimane nello stesso tempo libera a poterla usare nuovamente, applicarla di nuovo alla percezione che la contiene, conviene dire che ella è affatto immune da ogni passività , e che il vedere in lei qualche cosa non la lega propriamente, non la coarta a quella cosa, sì che ella non ci sia pronta come prima ai nostri bisogni, ai nostri usi. Il poter noi adoperare sempre l' idea dell' essere come fosse sciolta, e come fosse la prima volta che noi l' adoperiamo, dimostra che ella identicamente la stessa è sempre presente a tutti gli atti del nostro spirito, agli atti di percezione, di riflessione, ecc.; e l' esser presente nella sua identità a molti atti prova ch' ella è semplice , e come semplice sta incontro al molteplice e in sè l' accoglie; e l' esser presente a molti atti successivi dello spirito dimostra che ella non soggiace al tempo, ch' ella è eterna , come dicevamo di sopra. Infatti, questa è la proprietà di ciò che è eterno, che « esso, identico, sia presente a molte entità successive ». Ora quando io intuisco l' essere, egli è presente allo spirito intuente; quand' io rifletto sopra l' essere da me intuìto, allora l' essere stesso è presente all' atto della mia riflessione; lo stesso essere identico è dunque presente quale oggetto al primo atto dello spirito e al secondo, all' intuizione ed alla riflessione; è unico l' essere, ma ha relazione a due atti; in quanto ha relazione all' atto intuitivo, si mostra allo spirito senza distinzione; in quanto ha relazione all' atto riflesso, si mostra allo spirito con quelle distinzioni e condizioni, che l' analisi e la sintesi (due modi di operare della riflessione) vi ritrova. Il mostrarsi nel secondo modo non toglie l' essersi mostrato nel primo. E` dunque la semplicità e la eternità dell' ente che spiega la riflessione; senza quelle due doti questa sarebbe impossibile. Ciò che si conosce per via di riflessione è diverso da ciò che si conosce per via di intuizione o di percezione; cioè si conosce in diverso modo, con diversi gradi, ecc.. Dunque nella riflessione l' ente non fa che comunicare allo spirito una maggiore notizia di sè stesso, ovvero una notizia di diverso modo. La notizia dello spirito si deve dunque distinguere dall' idea dell' ente in sè stessa considerata, che la produce; quella ha qualche cosa di limitato e di soggettivo, questo è illimitato e tutto oggettivo, o per dir meglio, oggetto. Questo oggetto è sempre in tutte le notizie , sia che le abbiamo per via d' intuizione, o di percezione, o di ragionamento, cioè di riflessione; ma è in quelle varie notizie in diverse guise (1). Dallo stesso fatto si deduce e conferma la verità che l' essere viene dato, per così dire, a prestito alle cose finite, per la necessità che abbiamo di conoscerle, e l' impossibilità di conoscerle se non sono prima divenute enti, cioè se non sono copulate dalla mente coll' ente. L' essenza dunque dell' ente non si confonde, non s' immedesima colle realità sensibili, ma soltanto si congiunge con esse e così le rende intelligibili. Il qual vero distrugge il panteismo dalla radice, perchè dimostra che l' essenza, che si vede nell' idea, rimane sempre inconfusibile colla realità, finchè si tratta di cose finite; il quale è un corollario importantissimo. Niuna meraviglia adunque, se noi, dopo aver percepito intellettivamente il sentito7animale, possiamo applicargli l' idea dell' essere, e così colla riflessione cavarne il concetto del principio senziente. Noi possiamo sciogliere questa operazione nel ragionamento seguente: il sentito è un esteso7continuo; ma questa entità non potrebbe essere, se non avesse un principio semplice in cui fosse. Io rilevo questo vero raffrontando il sentito esteso all' essere , che gli attribuisco; perocchè, sapendo per natura che cosa è essere, io so che non può mai contrariare a sè stesso, cioè l' essere non può essere non essere pel principio di cognizione . Ma il sentito esteso non sarebbe sentito esteso, se non avesse un principio semplice; dunque, ecc.. Niuna meraviglia ancora se, dopo aver intuìta l' idea, noi possiamo cavare il concetto del principio intuente, applicando l' essere all' intuizione in un modo somigliante. Perocchè possiam dire: l' idea intuìta ha questa entità di essere idea intuìta; ma ella non avrebbe questa entità se non ci fosse un principio intuente; dunque, non potendo questa entità essere e non essere, debbo ammettere un principio intuente. Finalmente niuna meraviglia se, riflettendo sul sentito7esteso percepito intellettualmente, troviamo la necessità dell' esistenza del principio razionale; perchè, non ammettendo questo principio, non sarebbe vero che avessimo percepito intellettivamente il sentito7esteso. Ma non può ad un tempo esser vero che l' abbiamo e non l' abbiamo percepito, per la natura dell' essere (noto per natura), che esclude la contraddizione; dunque il principio razionale esiste. Che se si vuole che io giunga ad affermare il principio senziente, l' intellettuale ed il razionale, anche per via di semplice astrazione o di analisi, queste stesse operazioni si fanno, come ho dimostrato altrove, per una applicazione segreta e sfuggevole dell' idea dell' essere (1). Dalle cose fin qui ragionate si raccoglie: Che il principio senziente7animale non si riferisce che all' esteso. Che il principio intellettivo non si riferisce che all' idea. Che il principio razionale si riferisce egualmente all' esteso7sentito, colla percezione, e colla riflessione all' idea e al principio senziente ed intellettivo, e finalmente a sè stesso; onde è quello che tutto lega ed abbraccia quanto cade nell' uomo, e a tutto si estende. Che dunque l' unità dell' uomo è nel principio razionale. Finalmente che l' uomo, non essendo uomo se non perchè è un essere unico, egli è tale pel principio razionale; nel quale perciò, come in propria sede, si compie e pienamente si natura l' umanità. Riassunta così la dottrina dell' umana natura, e veduto com' ella si compia nel principio razionale, dove giace l' unità dell' uomo, noi dobbiamo volgere il pensiero all' attività, che dal principio umano deriva, affine d' investigarne e meditarne le leggi. Ma prima è necessario che noi sceveriamo quelle attività che si mescolano coll' attività umana, e che non sono lei; perocchè il confonderle intralcierebbe i nostri ragionamenti, e la confusione dei concetti ci menerebbe necessariamente all' errore. Da ciò che noi abbiamo detto risulta che cinque attività si fanno nell' uomo manifeste, delle quali una sola è propria dell' uomo. Poichè: Noi abbiamo riconosciuta l' esistenza dell' estensione, termine del principio senziente7animale, che in questo principio giace quasi in sua sede, ma che non è questo principio. Tale attività nulladimeno è immanente e non produce atti secondi, onde non ha ragione di sostanza, ma solo di entità. Non ne abbiamo investigato la causa, ma ci siamo contentati d' osservare che essa ha una relazione essenziale con un principio senziente, sicchè il pensarla fuori di esso è assurdo. Noi abbiamo riconosciuta l' esistenza di un' attività corporea che si manifesta nell' estensione, e in questa diviene termine del principio senziente7animale. In quanto è estesa, ella ha pure una relazione essenziale col principio senziente, cioè non può che avere la sua sede in esso, e ripugna il pensarla fuori di esso. Ma questa attività, che si manifesta nell' estensione, non è l' estensione, e non è neppure il principio senziente. Questa attività corporea non ha solo l' atto primo col quale esiste, ma ha ancora degli atti secondi, non presentandosi già al principio senziente come un termine immobile ed immutabile, ma con movimento e variate apparenze. La causa prossima di lei, straniera al principio senziente, fu da noi detta principio corporeo , il quale, quando fa sentire la sua azione nell' anima, prende nome di virtù sensifera; ma noi non siamo entrati ad investigare la natura di quel principio, secondo ciò che può essere o non essere in sè stesso. Rispetto poi alla causa onde i corpi si muovono secondo la legge dell' attrazione, e, quali termini del nostro principio senziente, cangiano di posizione e di aspetto, fu collocata, almeno con argomenti di grande probabilità, nell' animazione degli elementi. Quindi: 1) Talora l' attività stessa del principio senziente immuta e muove il suo termine. 2) Talora il termine corporeo d' un principio senziente viene immutato da un principio ch' egli non percepisce, e che probabilmente è un altro principio senziente. Lasciamo le leggi del movimento meccanico, che altronde deriva. Noi abbiamo riconosciuta in terzo luogo l' attività del principio senziente7animale. Questa attività è quella che costituisce l' animale. Risulta, da quanto abbiamo detto, che ella ha virtù d' immutare il sentito7esteso. Risulta ancora che il principio razionale percepisce il sentimento come entità, e quindi può agire in esso, ma questo non distrugge l' attività del principio senziente; onde, benchè nel sentimento possa agire l' attività del principio razionale e secondo certe leggi possa immutarlo, tuttavia rimane l' attività del principio senziente, che è elemento essenziale al sentimento. E che niente si muti nel sentimento colla semplice percezione, noi l' abbiamo veduto dove dimostrammo che la percezione non altera o contraffà gli oggetti percepiti. Ma il principio razionale non può agire immediatamente sul sentito, benchè lo percepisca, perchè lo percepisce essenzialmente nel principio senziente, e perciò come costituito da questo. Il principio razionale adunque deve immutare e muovere il principio senziente, acciocchè questo immuti ciò che egli costituisce, che è l' esteso sentito. Quindi si trovano due attività, che operano nello stesso sentito: l' una (il principio senziente) in un modo immediato, l' altra (il principio razionale) in un modo mediato, cioè movendo il principio senziente; le quali talora pugnano insieme, e così sorge la lotta della concupiscenza. Oltracciò, come l' attività del principio senziente è limitata e non è la sola che entri a costituire e a muovere l' esteso sentito, concorrendo anche altre attività, come la forza sensifera ed altri principŒ senzienti; così il principio senziente talora è concorde, talora discorde colle attività straniere, che hanno virtù di costituire o d' immutare i corpi; e quando è discorde, talora prevale, talora è vinto, secondo il grado di forza che spiegano i principŒ opposti, e così sorge la lotta delle malattie. Medesimamente avviene che il principio razionale può essere in discordia colle dette attività, e confederato al principio senziente lottante, od anche coll' attività dei principŒ stranieri, quando questi leghino e spossessino il principio senziente, impedendolo di piegarsi all' attività del principio razionale, e a questa servire. Ma se l' opposizione al principio razionale non nasce dall' agente straniero, ma dallo stesso principio senziente, in tal caso vi è difetto nella percezione primitiva, che è il vincolo dell' anima razionale col corpo animale; ed è perciò che il principio razionale non ha le piene e naturali sue forze, non può farsi ubbidire dal suo inferiore (1). Noi abbiamo riconosciuta in quarto luogo l' attività intellettiva, che consiste nell' intuizione dell' essere, la quale non ha e non può avere verso l' essere alcuna reazione. Finalmente abbiamo riconosciuta e lungamente descritta l' attività del principio razionale. Ora le prime tre attività non sono propriamente attività dell' uomo, e la prova ne è che talora si oppongono all' uomo. Se fossero attività dell' uomo, non potrebbero giammai opporsi all' attività razionale, che è l' umana. Tuttavia esse aiutano alla costituzione dell' uomo: la prima, quella dell' estensione, come condizione alla quale egli può percepire i corpi; la seconda e la terza, cioè la virtù sensifera ed il principio senziente, come strumenti del principio razionale: quella cioè come strumento mediato, questo come strumento immediato (1). Che se non sempre il principio razionale può far uso di questi suoi strumenti, reggendone e dominandone la potenza, ne vedemmo pur ora il perchè, che a queste due ragioni riducesi: I - La debolezza e imperfezione del principio razionale, che non può dominare la forza del principio senziente7animale, attesa l' imperfezione della percezione fondamentale. II - La debolezza del principio senziente, a cui non è ben congiunto e armonizzato il principio sensifero, da cui dipende. Se le tre prime attività non sono proprie dell' uomo, saranno esse proprie dell' uomo le altre due? Sì, quando si considerino nel loro nesso, pel quale esse non ne compongono che una sola, la razionale. Infatti l' attività intellettiva, la semplice intuizione dell' essere, è quell' atto primo che costituisce un principio intellettivo, ma non è ancora principio completo degli atti secondi , nei quali l' attività dell' anima si manifesta. E parlando noi dell' attività dell' anima affine di esporre le leggi del suo operare, cerchiamo la causa degli atti secondi e non ci fermiamo all' atto primo, che finisce tutto in sè stesso. Se dunque si considera il principio razionale, si vede che in esso vi è sempre l' atto del principio intellettivo, poichè egli non potrebbe percepire un ente reale, se non intuisse prima l' essere ideale. Quel soggetto adunque, che intuisce l' essere ideale e che, in quanto a ciò, si chiama principio intellettivo, è quello stesso che percepisce l' ente reale, e, in quanto a ciò, si chiama razionale. L' intuizione dell' essere ideale non esaurisce l' attività del soggetto; dunque l' intuizione dell' ideale è un atto del soggetto, ma non è tutto il soggetto stesso, tutto l' uomo. Perocchè un soggetto è posto da quell' atto primo, che abbraccia in sè potenzialmente tutti gli atti secondi. L' intuizione poi dell' essere ideale si può anche considerare come condizione necessaria agli atti del principio razionale. E qui si scorge un' ammirabile analogia fra l' ordine animale e l' ordine intellettuale. Nell' ordine animale vi è l' apprensione dello spazio, quale condizione all' apprensione del corpo. Nell' ordine intellettuale vi è l' intuizione dell' essere ideale, quale condizione preliminare alla percezione dell' essere reale. Quindi lo spazio puro è un bel simbolo dell' essere ideale indeterminato: in quello si percepiscono sensitivamente i corpi, in questo si percepiscono intellettivamente gli enti reali. Appartiene all' Ontologia la questione: « Se tali simboli, sparsi nella natura sensibile, di ciò che accade nella natura intelligente, siano conseguenze necessarie all' ordine intrinseco dell' essere, o un effetto dell' arbitrio sapientissimo del Creatore ». Ma torniamo a noi. Come dovremo dunque definire il principio razionale, acciocchè nella definizione si comprenda pienamente l' atto primo del soggetto umano colle sue forme diverse? - Noi lo definiremo: « Il principio razionale è la virtù di apprendere l' essere come essere, sotto le sue tre forme; la quale virtù è tutta in atto rispetto alla forma ideale; parte in atto e parte in potenza rispetto alla forma reale (essendo ella in atto rispetto al sentimento animale fondamentale, di cui vi è la percezione, e in potenza rispetto ai diversi termini di esso, che successivamente si mutano), ed è in potenza rispetto all' essere morale ». Quindi nel principio razionale , che è reso unico dall' unità dell' essere, si comprende il principio intellettivo come la prima forma del suo atto; e si contengono in radice i tre ordini supremi delle umane potenze e facoltà, cioè l' ordine delle potenze e facoltà che si riferiscono all' idea, l' ordine di quelle che si riferiscono alle cose (reali), e l' ordine di quelle che si riferiscono al bene morale7eudemonologico. Il principio razionale adunque ha un solo ed unico oggetto, l' essere; ma come l' essere è in tre forme, così l' atto primo del principio razionale è pure in tre forme rispettive, salvo che riguardo alla terza egli è da principio in potenza e non in atto; il che è possibile a concepire, poichè avendo l' atto delle due prime forme, dal rapporto di quelle esce poi necessariamente la terza (1). Dalle quali cose tutte si raccoglie che, come le potenze dello spirito si diversificano secondo le relazioni che ha il principio razionale con altre attività ed entità inferiori, così pure le leggi , che quelle varie potenze osservano operando, si debbono rinvenire nella natura di tali relazioni. Ora, posciachè legge della natura si chiama quel modo costante che dimostrano le operazioni degli enti, a preparare la via all' esposizione di quelle leggi non basta che abbiamo trovato nel principio razionale il fonte di tutte le operazioni umane e di tutte le leggi, ma è uopo altresì che premettiamo la teoria delle operazioni degli enti in generale; è uopo che presentiamo un concetto accurato dell' operare . Perocchè allora la mente, arricchita di questo accurato e bene analizzato concetto, potrà intendere la necessità di quei modi costanti che nelle operazioni si scorgono, ai quali si dà appunto il nome di leggi . Il quale argomento appartiene veramente all' Ontologia ed alla Cosmologia; ma mancandoci tuttavia sufficienti trattati di queste scienze, a cui ricorrere, noi dobbiamo, siccome abbiamo fatto altre volte, trascorrere in esse, pigliandoci dalle dottrine a loro spettanti quanto ce ne abbisogna. Incominciamo dunque dallo svolgere il concetto di operazione, dimostrandone quella possibilità che è ammessa dal senso comune senza alcuna difficoltà nè meraviglia, ma pure si fece sempre un grande inciampo alla filosofia. Allora quando noi concepiamo un ente determinato, concepiamo ad un tempo un atto , cioè l' atto del suo esistere. Questo atto è semplice, e dura quanto l' ente; perciò è uno degli atti che si dicono immanenti. Concepire un ente e concepire l' atto del suo esistere è egli il medesimo? L' atto dell' esistere dell' ente non differisce dall' ente, se non per certe relazioni che vi aggiunge la mente nostra. Quando diciamo atto , noi vi aggiungiamo una relazione colla potenza, a cui il concetto dell' atto è correlativo per opposizione. Quando diciamo ente , concepiamo l' atto compito ed ultimato, laddove quando diciamo atto di essere , noi concepiamo, ovvero immaginiamo di concepire tutta la via per la quale l' ente fu naturato; e nell' atto stesso distinguiamo un cotal principio (atto iniziale), un mezzo e un fine, in cui si riposa compiuto e assoluto. Quindi certe sentenze dei filosofi, come quella: in actu actus nondum est actus , e simili. Di più l' atto stesso dell' essere noi lo concepiamo preceduto o susseguito necessariamente da certi altri atti immanenti, come diremo in appresso. Quando poi l' ente è costituito con tutti i suoi atti immanenti a lui necessari, allora noi pensiamo, traendo il pensiero dall' esperienza, che l' ente, che ha già l' atto compito di esistere, passi ad altri atti, che si dicono anche sue azioni ed operazioni. Ora l' atto dell' esistere ed anche gli atti immanenti che lo accompagnano, si sogliono chiamare atti primi , e i susseguenti si sogliono chiamare atti secondi transeunti . La natura dell' atto transeunte consiste nel passaggio che fa l' ente da uno stato all' altro, sia che avvenga in un solo istante, sia che duri alquanto in un continuo moto. Il carattere adunque dell' atto transeunte è il passaggio , è il moto senza quiete. L' atto immanente è quello che dura coll' ente finchè non sopravviene sostanziale mutazione; e fra gli atti immanenti il primo è certamente quello che abbiamo indicato, l' atto dell' esistere. Tuttavia, oltre l' atto pel quale un dato ente esiste, noi troviamo degli altri atti immanenti, i quali si possono dividere in due classi. I - Gli atti immanenti che precedono (non già nell' ordine cronologico, ma nell' ordine intrinseco della naturazione) all' atto dell' essere. Così, a ragion d' esempio, noi vedemmo che l' atto dell' essere della natura umana, che è quello del principio razionale, risulta da due atti precedenti (quasi come da sua forma e da sua materia): cioè dall' atto intellettivo e dall' atto del sentimento animale fondamentale, i quali pure sono immanenti. II - Gli atti immanenti che susseguono all' atto dell' essere, ma che sono a lui indivisibilmente congiunti, come gli accidenti stabili di una sostanza, poniamo gli abiti. Sono adunque di tre classi gli atti immanenti: 1 quelli che precedono nell' ente all' atto dell' essere; 2 l' atto dell' essere; 3 quelli che susseguono all' atto dell' essere con istabile durata. Oltre di ciò l' analisi e l' astrazione scompongono talora un atto in più per diverse relazioni con cui lo considerano; e quindi gli atti immanenti si moltiplicano nel linguaggio e nella concezione umana. Fu in Italia che cominciarono a levarsi gli ingegni alle più difficili questioni, fu in questa terra, patria della dialettica. Quivi s' intese da prima che ciò che tutto il mondo ammetteva, cioè le operazioni degli enti, come atti transeunti, non era così facile a spiegarsi, come ad ammettersi; non era facile a conciliarsi con altre verità somministrate dal pensiero umano, quando pure la verità non può avere scissura in sè medesima, nè contraddizione. La difficoltà, che corse agli occhi dei più antichi filosofi italici, attaccava il concetto volgare degli atti transeunti, secondo il quale « l' atto transeunte dura qualche tempo in mutazione continua ». Veramente questo concetto di mutazione continua involgeva insuperabili difficoltà, le quali, svolte dall' illustre scuola italiana di Elea con polso di sottilissima dialettica, sollevarono a tumulto tutto intero il campo della filosofia; nè la lotta, riaccesa più volte, cessò mai per decisiva vittoria, ma sempre per isfinitezza dei combattenti. A me pare che quegli argomenti abbiano qualche cosa di solido. Io ne trarrò profitto, adducendone cinque contro la continuità dell' atto. Se un ente durante il suo atto transeunte si cangia continuamente, niuno dei suoi stati, che prende successivamente cangiandosi, ha durata di sorte alcuna. Ma ciò che non dura non è. Dunque nessuno dei suoi stati successivi è. Dunque il concetto di mutazione continua è assurdo. Se tutto insieme preso l' atto transeunte ha una qualche durata, nella quale l' ente muta di stato continuamente, il numero di questi stati successivi, che egli prende, non esiste, perchè non esiste un numero di istanti, si prenda qualsiasi numero, che insieme presi formino una durata (1). Se non esiste il numero degli stati che deve percorrere, è assurdo il pensare che li possa percorrere; perocchè se percorre degli stati diversi, questi debbono avere un numero determinato, giacchè non si dà in natura che ciò che è determinato. Dunque la mutazione continua involge assurdo. Dunque ella è impossibile. Che se taluno dicesse che una durata è divisibile attualmente all' infinito, sicchè possa esservi un numero infinito (cosa certamente assurda, e tuttavia affermata da uomini grandi quanto era un Leibnizio!), in tal caso noi domanderemo se ciascuna parte di questo numero infinito di parti, in cui si pretende potere sciogliersi la durata, dura qualche poco o non dura punto; perocchè fra questi due partiti non vi è nulla di mezzo. Ora se ciascuna parte dura, in tal caso a percorrere un infinito numero di durate, per minime che sieno, si esige un tempo infinito, e però l' atto transeunte non si compirebbe giammai; il quale è uno degli argomenti di Zenone contro il moto continuo (2). Se poi ciascuna parte della durata non dura punto, ma è un istante, in tal caso l' atto transeunte non potrebbe avere durata alcuna contro l' ipotesi, perocchè infiniti istanti, ciascuno dei quali ha una durata eguale a zero, sommati insieme, non danno che una durata pure eguale a zero. Se i corpi si movessero di moto continuo, non si potrebbero muovere giammai con diverse celerità. Perocchè supponendo che un corpo non si fermi in nessun luogo, egli deve passare da un luogo all' altro colla celerità massima; giacchè non si può concepire una celerità maggiore di quella che, senza posa alcuna, passa di luogo a luogo, non perdendo nel suo passaggio neppure un tempo minimo. Io trarrò questo argomento dal tempo, che impiega il moto a comunicarsi a tutte le parti d' un corpo. Che ad avvenire questa comunicazione si esiga tempo e non si faccia in istante, è indubitato presso tutti i fisici. Questa è la ragione, poniamo, perchè la palla vibrata da uno schioppo fora un' asse. Essendo assai grande la celerità della palla, ella rompe la coesione delle parti del legno, nelle quali batte, in un tempo più breve di quello che si esige acciocchè il moto si comunichi a tutto l' asse, il quale perciò resta al suo posto. Stabilito questo fatto indubitato, se ne trae due argomenti, che provano egualmente che il moto non è continuo. Il primo di questi argomenti si è che, se il moto si comunicasse senza fare nessuna posata in nessuno dei luoghi pei quali trascorre, il tempo totale che v' impiegherebbe dovrebbe essere nullo, perchè la somma di tanti zeri non produce che zero. Infatti l' istante non dura, e però ha una durata .uguale . 0. Questo argomento somiglia al precedente; e però mi contento di considerarlo come una conferma di quello. Ma il secondo è argomento nuovo, ed è questo. Un corpo che suppongo perfettamente duro, ricevendo da un altro corpo in moto, pure perfettamente duro, l' impulso al moto, non si muove fino a tanto che questo impulso non si sia comunicato successivamente a tutte le sue parti; e perchè questa comunicazione sia fatta, si esige, come abbiamo veduto, un certo tempo maggiore o minore, secondo la grandezza dei due corpi e la celerità del corpo impellente. Durante questo tempo il corpo duro, che riceve l' impulso, fa ostacolo al corpo in moto che lo dà. Dunque egli lo arresta durante quel breve tempo; trascorso il qual tempo, tutti e due i corpi, l' urtante e l' urtato, si mettono in viaggio secondo le leggi del moto. Dunque qui abbiamo un caso, in cui avviene indubitatamente che fra mezzo al moto del primo corpo, che sembra continuo, vi è una posata; vi è dunque moto, poi quiete durevole qualche tempo, poi di nuovo moto. Ma secondo la legge dell' inerzia quando una volta un corpo è in quiete, rimane in quiete, se non sopravviene una nuova causa di moto. Il fatto da noi indicato si oppone a questa legge; dunque è da dirsi che vi è una specie di posata e di quiete, la quale si compone benissimo con quel moto che si stima continuo, e a cui si applica la legge dell' inerzia (1). Di più, se il corpo urtato non può muoversi se non dopo che l' impulso si è propagato a tutte le sue parti, e se la propagazione dell' impulso non si ferma in nessun punto, come si suppone da quelli che credono il moto dover essere continuo, il moto sarebbe impossibile. Perocchè l' impulso, che si comunicasse ad un punto in un istante, o produrrebbe subito il movimento, o il moto, trovando un ostacolo a spiegarsi, rimarrebbe eliso e spento. All' incontro è necessario che nelle singole parti e punti del corpo l' impulso si conservi vivo, per tutto quel tempo che si richiede acciocchè tutte le parti acquistino lo stesso impulso, e così possano muoversi di conserva. Dunque ciascuna parte del corpo che riceve la spinta, prima di cominciare effettivamente a muoversi, aspetta un certo tempo, finito il quale, il moto incomincia. Dunque la comunicazione del moto stesso e non dell' impulso (2) si fa a ciascuna parte del corpo spinto in un dato tempo, e non in un istante. Ma tutti i corpi, per minimi che sieno, hanno dell' esteso continuo; dunque in tutti deve succedere lo stesso fatto, che il moto non si comunica a nessun corpo in un istante, ma con un intervallo di quiete. Come si risponde a questi argomenti? - Essi, secondo il veder nostro, sono insolubili e contengono altrettante dimostrazioni che l' atto transeunte non si fa per mutazione continua, ma per istanti, fra l' uno e l' altro dei quali vi è qualche durata. Noi abbiamo già dimostrato altrove la stessa cosa, quando negammo che il movimento reale sia continuo (1), benchè sia continuo fenomenalmente. La difficoltà a concepire come il movimento del reale, ossia la mutazione dell' atto transeunte, non sia continua, è immensa per le menti non esercitate alle speculazioni filosofiche, perocchè gli uomini sono propensi a credere al fenomeno dei loro sensi così fattamente, che non sanno pensare possibile se non ciò che loro apparisce sensibilmente. Quindi non sarà punto strano, nè inaspettato per noi che escano molti a così parlarci: « L' osservazione ci dimostra che il movimento è continuo, e contro l' osservazione del fatto non si può andare, come voi stesso di continuo predicate ». Ai quali è difficilissimo fare intendere come l' osservazione non possa decidere la presente questione, che tratta di cosa posta al di là di ogni osservazione sensibile, non provando questa più dell' apparente; ed è pur manifesto che al senso nostro sfugge ogni grandezza minore di una certa data misura. E quando anche si persuadesse loro che l' osservazione nulla può dire di quelle grandezze di spazio, di tempo o di moto, la cui piccolezza è tanta, come pure deve essere nel caso nostro, che niuna sensitività umana è valevole a percepirla (2), o certo niuna avvertenza della mente è sufficiente a considerarla nel senso, quando questo ce la desse; ancora sarebbero presti a domandarci: « Ma come si può concepire un' atto transeunte o un movimento reale, che si fa ad intervalli? ». La quale domanda già non è più tolta dall' osservazione, ma dal ragionamento, che considera la possibilità degli insensibili. A cui basterebbe rispondere che niente dimostra l' impossibilità di ciò, quand' anche non si sappia spiegare il modo come la cosa avvenga; ed essendovi due sentenze opposte, dell' una delle quali l' assurdità si dimostra, dell' altra non si dimostra, conviene attenersi alla seconda rifiutando la prima. Basterebbe, dico; e tuttavia non persuaderebbe molti, che hanno poca forza di fede a ciò che la ragione dimostra. A soccorso di questa cotal debolezza d' animo nel dare l' assenso semplice e fermo alle dimostrazioni speculative, a cui le apparenze sensibili fanno contrasto, noi dimostreremo prima direttamente che il senso della vista, a cui principalmente si crede, quando dà, o sembra, testimonianza della continuità del moto d' un corpo (e si può agli altri sensi applicare un ragionamento simile), non attesta propriamente, e non può attestare la continuità del moto. E veramente è un fatto riconosciuto da tutti i fisici e dato dall' esperienza, che la sensazione visiva ha una durata nel sensorio ottico, e non passa in un istante. Se questo non fosse un vero d' indubitabile esperienza, si potrebbe dimostrare la necessità che così fosse, considerando che una sensazione, che non avesse durata alcuna, non sarebbe. Ma non abbiamo bisogno d' una tal prova di ragione. Tuttavia, quantunque ogni sensazione ottica duri qualche tempo, essendone assai piccola la durata, il comune degli uomini la crede istantanea. Posto dunque questo vero, che ogni sensazione ottica ha una piccola durata, ne viene per indeclinabile conseguenza che l' occhio non può testimoniare punto nè poco il movimento continuo, perchè non può testimoniare ciò che non vede. E di vero, il movimento continuo è un continuo cangiamento di luoghi, in ciascuno dei quali il corpo non fa fermata alcuna. Per essere adunque veduto il movimento continuo, l' occhio dovrebbe avere una successione di sensazioni diverse, ciascuna delle quali non avesse durata alcuna. Ma il fatto non va così; che anzi l' occhio altro non prova, quando l' uomo crede di vedere un corpo che si muove continuamente, se non una serie di sensazioni l' una continua all' altra (o con intervallo insensibile), ciascuna delle quali dura qualche poco di tempo. Dunque anche il moto fenomenale, cioè sensibile agli occhi, si riduce in una serie di stati del mobile, ciascuno dei quali dura alquanto. Quella dunque che sbaglia è l' avvertenza della mente, quando, trascurando di osservare quelle minime durate, suppone che l' una segua all' altra senza alcuna interruzione (1). Da questi principŒ muovendo, gli studiosi della natura giunsero ad inventare delle ingegnose macchinette, colle quali fecero apparire all' occhio che un corpo si muova, unicamente col rappresentare successivamente alla vista un certo numero di corpi, ciascuno dei quali apparisca di egual forma in luogo così vicino all' altro che paia l' altro, passato innanzi di una menoma distanza. L' uomo, al vedere tutti questi corpi uguali successivamente presentarsi all' occhio in luoghi vicinissimi, li prende per un corpo solo, che si muova con continuo moto. E con questo artificio si compose qualsiasi moto apparente lineare, circolare, ecc., quando pure il corpo, che apparentemente si muove, non è un corpo identico, ma un complesso di più corpi eguali che si vedono in luoghi diversi, rappresentanti quel moto appunto che si crede continuo. Ora questo esperimento solo è sufficiente a rispondere anche alla domanda, benchè indiscreta: « Come sia possibile che un corpo passi da un luogo all' altro, senza che si muova continuamente passando per tutti gli spazi di mezzo ». Poichè è soddisfatto a tale istanza, quando si dimostra la possibilità che il moto sembri continuo a chi lo vede, senza essere tale; e la possibilità è dimostrata, se si prova avvenire così di fatto in un solo caso. Tuttavia io ne recherò un altro dei molti, che mi somministrerebbe la fisica e principalmente l' astronomia; ed ecco qual' è. Quando la persona passa davanti ad uno specchio, il moto dell' immagine risponde al moto della persona, e l' uno e l' altro pare continuo. Ora come si fa il moto apparente dell' immagine? Forse col passare qualche cosa da un luogo all' altro? Niente di ciò; quell' apparenza si produce per via di raggi sempre nuovi di luce, che dipingono sullo specchio immagini sempre nuove, ossia fisicamente diverse, svanite le precedenti; eppure pare sempre che l' identica immagine sia quella che cammini e passi. Dunque il fenomeno della continuità del moto si può spiegare, senza che sia assolutamente necessario che tutti i punti di un dato corpo che si muove, tocchino tutti i punti intermedi dello spazio, per cui passa o sembra passare. Forse un tempo si potrà invocare a favore di questa dottrina l' intermittenza della luce sospettata da alcuni fisici, se non ancora dimostrata a pieno; intanto mi proporrò un' ultima obbiezione. Gli esempi, che avete addotti, dimostrano benissimo che può nascere il fenomeno del moto continuo senza che in verità sia tale, per via di sostituzione successiva di più corpi eguali, o di più operazioni eguali. Ora, vorreste voi che i corpi che si muovono, non conservino la loro identità, come appunto diceva Leibnizio, il quale supponeva che il pieno e il vacuo dello spazio si facesse da una materia immobile, costituente l' infinito spazio, la quale quasi direi s' indurava successivamente, e così dava mostra che fosse un corpo identico che si muovesse? Rispondo che per quanto aliena paia una tale supposizione dal comune pensare, perchè il comune pensare si ferma al fenomeno e non entra a cercarne le ragioni e le cause, ella non fu mai nè dimostrata assurda, nè tampoco falsa nel fatto. E` questione metafisica, che, qualunque soluzione le si dia, lascia le cose fisiche quali sono; e però difficilmente potrà dimostrarsi o falsa o vera con fisici argomenti. Ma senza esaminare la supposizione leibniziana, io domando se è ben definito in che consista l' identità di un corpo. Ella è questione più ardua a sciogliersi che non paia. Io qui la tratterò brevemente, ma in maniera sufficiente all' intento. Nel corpo si distinguono due cose, l' estensione e la forza. Ora quando un corpo si muove, è certo che l' estensione è mutata, perchè cangia di luogo, ed un luogo non è mai identico ad un altro, essendo un luogo fuori dell' altro. Ciò che impedirà intendere questo vero, sarà il pregiudizio che il corpo abbia un' estensione sua propria, che egli porti seco, quasi che l' estensione si possa portare da un luogo all' altro, o l' estensione del corpo e quella del luogo che occupa sieno due estensioni, e non un' unica e semplicissima estensione. In questo credere fa gabbo al pensiero la misura o quantità dell' estensione, che è sempre conservata identica dal corpo; mentre muta l' estensione stessa, prendendone egli sempre un' altra, benchè di eguale misura di quella che aveva prima. Ora, essendo le diverse estensioni, in cui il corpo successivamente si espande, in tutto eguali di grandezza e di qualità uniforme, sorge assai facilmente l' illusione che sia una estensione stessa aderente al corpo, che venga dal corpo seco portata. L' identità dunque del corpo non può consistere che nell' altro elemento, nella forza corporea. Ora questa non è altro che il termine di un atto di quell' occulto agente, che abbiamo chiamato principio corporeo , il quale non può essere che semplice. In che consiste l' identità del termine di un atto? In questo, che egli sia eguale in tutto; è una identità specifica quella che in esso si cerca in relazione all' atto, perchè il termine è costituito da questa relazione essenziale. Così se io fiuto cento volte l' odore di rosa, benchè gli atti sieno numericamente diversi, essi hanno però un termine specificamente identico, perchè è sempre la stessa sensazione dell' odore di rosa in cui terminano, supponendo questa sensazione invariabile; io non ho in tutti questi atti altra sensazione che quella dell' odore di rosa, che si riferisce a più atti. Ora, se il principio corporeo attuasse il corpo con intermittenza, egli che essendo semplice può abbracciare ad un tempo tutto lo spazio, come abbiamo veduto avvenire del principio senziente, lo potrebbe far comparire successivamente in luoghi vicinissimi, a tale che paressero continui e non interrotti, e così il corpo parrebbe muoversi con movimento continuo, benchè non sarebbe. E tuttavia egli sarebbe lo stesso corpo, perchè termine eguale in tutto degli atti intermittenti di esso principio corporeo semplice; onde la diversità individuale che esservi potesse, sarebbe affatto indiscernibile. Che se non ci bastasse il mantenere ciascun corpo tanta identità specifica, e si volesse una identità numerica, non ce ne mancherebbe la via. Perocchè potrebbe considerarsi la forza sensifera come una virtù identica del principio corporeo, la quale operasse con intermittenza non osservabile ai sensi. Concludiamo: gli atti transeunti si formano in un istante, o sono un composto di atti minori, che si formano in altrettanti istanti vicinissimi, tra i quali passa una minima durata non osservabile all' uomo in modo alcuno. A spiegare il concetto dell' atto transeunte, anzi pure a formarcelo accurato, altre difficoltà non poche si rappresentano alla mente dello speculatore. Ma queste ci verranno innanzi tra via, ed allora ci studieremo di vincerle, giacchè il trarle fuori ad una ad una lenterebbe il corso del nostro ragionare, ansioso di pervenire là dove tende. Qui dunque è uopo che consideriamo il nesso dell' atto transeunte, secondo il concetto poco fa stabilito, coll' atto immanente. Noi abbiamo posto questo concetto in un passaggio , ossia in una mutazione, che si fa in un istante. Tenuto questo concetto e la dottrina dell' istante e della durata , si ha una definizione dell' atto transeunte, che dimostra ottimamente la sua relazione essenziale coll' atto immanente; perocchè la definizione dell' atto transeunte riesce a questa: « L' atto transeunte è sempre il cominciamento o il fine di un atto immanente »; ossia « l' atto transeunte non è che il cominciare o il finire dell' atto che dura ». Dalla quale definizione si trae un corollario importantissimo, che qui noi non vogliamo lasciare inosservato, come quello di cui abbisogniamo in progresso, a procedere con piena chiarezza e distinzione di pensieri. Il corollario si è quello dell' esistenza di Dio, dimostrata dalla sola esistenza di atti transeunti. La dimostrazione, che a noi sembra invitta, si può condurre così: Se si danno atti transeunti, si danno altresì atti immanenti, perchè quelli non sono che il principio o il termine di questi. Ma nessun atto immanente può essere causa del proprio termine, perchè nessun atto può essere causa del proprio non atto, ossia della cessazione di sè stesso. Neppure l' atto immanente può essere causa del proprio cominciamento, perchè nessun atto può dare a sè stesso l' esistenza, che sarebbe un operare prima che fosse. Ora l' atto transeunte ha pure bisogno di avere una causa, perchè esso è mutazione, è passaggio; e ciò pel principio di causa (1); nè questa causa può essere egli stesso, per la ragione addotta che ciò che non è non può dare a sè l' esistenza. Se dunque l' atto transeunte non è cagionato dall' atto immanente di cui è cominciamento o fine, converrà che vi sia un' altro atto immanente che lo cagioni. Ma questo atto immanente, che cagiona l' atto transeunte, o avrà cominciamento egli stesso, nel qual caso sarebbe cagionato da un atto transeunte, o non avrà principio di sorte alcuna, è però neppur fine. Se esso è cagionato da un atto transeunte, converrà ascendere ad un altro atto immanente, e per non andare al progresso di cause all' infinito (nel qual caso nessun atto sarebbe prodotto, perchè ci vorrebbe un tempo infinito a produrlo, e un tempo infinito non è mai trascorso) converrà fermarsi ad un atto immanente, che non abbia nè principio, nè fine. Se poi esso non è cagionato da un atto transeunte, già nuovamente abbiamo un atto immanente senza principio e senza fine. Esiste dunque un atto immanente senza principio e senza fine; e questi è Dio. Dunque se esistono degli atti transeunti, esiste necessariamente Iddio (2). Questa dimostrazione dell' esistenza di Dio ha il vantaggio che conduce a dimostrare direttamente che Dio è un atto immanente , ed un atto purissimo. Ora tale verità è fecondissima, e principio onde scaturisce tutta la dottrina intorno alla divina natura, come deve mostrare la Teologia Naturale. Ella fra le altre verità di cui va gravida, contiene una dimostrazione, che non so se fino ad ora sia stata trovata. Per accennarla brevemente si può condurre per via delle seguenti proposizioni. Tutti gli atti immanenti, che hanno cominciamento e fine, sono mescolati e connessi con atti transeunti, che sono appunto il loro cominciamento e il loro fine. Tali atti immanenti, che hanno cominciamento da un atto transeunte, non possono essere cagione di questo atto transeunte. Questo atto transeunte adunque, che dà cominciamento ad un atto immanente, deve essere cagionato da un atto immanente, il quale non abbia cominciamento nè fine, nè sia mescolato con niun atto transeunte. Dunque questo atto immanente, che, come vedemmo, dicesi Dio, producendo quell' atto transeunte, che dà principio ad un atto immanente, deve operare in modo che produca quell' atto transeunte fuori di sè, senza che in sè nasca perciò alcun passaggio, alcuna mutazione, ossia alcun atto transeunte. Ma questa maniera di operare dicesi creazione , rispetto all' atto transeunte prodotto, quale principio di atto immanente. Dunque si dà necessariamente la creazione, ossia la creazione è necessaria a spiegare l' esistenza del mondo, che è un complesso di atti immanenti e transeunti legati insieme. Il sagace lettore intenderà, io non dubito, che questa dimostrazione equivale a qualsivoglia delle dimostrazioni di Euclide (1). Passiamo ora ad un' altra difficoltà, che si presenta nel concetto dell' atto transeunte. Gli atti transeunti non possono essere che atti venienti da atti immanenti; perocchè ciò che è, è immanente, avendo noi veduto che un ente senza alcuna durata è un assurdo, giacchè l' istante è il limite della durata, e perciò suppone la durata, nè sta da sè, come il punto matematico è il limite della linea, che non istà da sè. Ora un atto immanente, che produce un atto transeunte, o lo produce con un atto eterno, immanente anch' esso, ed allora egli non è il soggetto dell' atto transeunte prodotto, il che si avvera solo nella creazione, come vedemmo; ovvero produce un atto transeunte, di cui egli è il soggetto, di modo che l' atto transeunte è un atto suo proprio; per esempio, l' atto con cui il principio senziente acquista una nuova sensazione, o l' atto con cui il principio razionale fa un pensiero, sono atti transeunti, il cui soggetto è il principio senziente o il principio razionale. Questi atti transeunti modificano il soggetto che li fa, producono in esso qualche cosa di nuovo; e nella loro spiegazione si presenta appunto la difficoltà accennata, la quale è questa. Se un ente, atto immanente, diviene soggetto di atti transeunti, il che è quanto dire modifica sè stesso, conviene assegnare una ragione sufficiente, una causa di questa modificazione, pel principio di causa. L' ente stesso, cioè lo stesso atto immanente, non contiene la ragione sufficiente, ossia la causa piena di questa novità; perchè se la contenesse, l' atto prodotto sarebbe immanente e non transeunte, cioè sarebbe sempre stato nell' atto immanente. Infatti posta la causa piena , l' effetto esiste. Ma l' atto immanente era prima che l' atto transeunte comparisse; dunque l' atto immanente non è causa piena degli atti transeunti, che in lui, come altrettanti suoi accidenti, si manifestano. Questa è una nuova prova che l' atto immanente, soggetto dell' atto transeunte, non può esserne la piena causa, che si deve aggiungere a quella che abbiamo data prima. La conseguenza di ciò si è che niun ente è veramente e rigorosamente semovente; ma deve concorrere al suo movimento, cioè alla sua immutazione, qualche agente straniero. Per evitare questa conseguenza, che pareva loro una difficoltà, molti antichi filosofi posero l' essenza dell' anima nel movimento (1); ma oltre non essere il movimento sostanza e aver bisogno d' una sostanza che ne sia il soggetto, e d' una causa, se nel movimento consistesse l' essenza dell' anima, questo movimento dovrebbe essere sempre uguale; perocchè se variasse, già si dovrebbe ricorrere all' intervento di un' altra causa per spiegare tale variazione. Onde Aristotele conchiude che all' anima spetta piuttosto la quiete che il moto (1). Egli osserva che tali filosofi vennero a questa sentenza, perchè non sapevano concepire come ciò che muove possa non essere in moto egli stesso (2); e contro di essi, dopo aver provato che l' anima non si muove per sè (3), conchiude: [...OMISSIS...] (4). Ma questa sentenza incontra non poche difficoltà, perocchè, o la parola movimento s' intende in senso proprio, cioè per movimento locale proprio dei corpi, e in tal caso è facile provare che l' anima ne va immune perchè semplice e spirituale, e che quindi può muovere i corpi senza che ella si muova, giacchè ella è principio, ed i corpi sono il suo termine, e in questo termine è lo spazio, il luogo ed il moto. Ovvero si dà alla parola movimento una più estesa significazione, quella dell' atto transeunte, della mutazione, dell' accadere qualche cosa di nuovo; il che pure fa Aristotele sovente. Onde non potendo negarsi che le potenze dell' anima escano in atti transeunti, nota Aristotele che Democrito, che dava all' anima il moto, confondeva la potenza dell' anima, a cui il moto conviene, coll' anima (1) a cui non conviene. Ma se le potenze altro non sono che attività dell' anima, giacenti nella sua stessa essenza, forz' è ben dire che l' anima stessa rimanga modificata dagli atti di sue potenze, non solo quando queste sono in atto, ma anche dopo il loro atto, restando in essa l' abito come quasi un rimasuglio dell' atto. Poichè, quantunque l' anima abbia natura di principio , tuttavia questo principio riceve o perde di sua attività; e così nasce in lui qualche mutazione, e in questa in senso metaforico qualche moto, chè alla fine, di tutti gli atti delle potenze l' anima è il soggetto, e il soggetto si modifica pei suoi atti transeunti. E` vero che Aristotele dice che l' anima è atto (l' atto del corpo vivo), ma non può negare che questo atto primo è potenza ad altri atti transeunti, e però non è atto puro ed immutabile, ma passa dalla potenza all' atto (2). Se dunque la parola movimento si piglia per ogni passaggio dalla potenza all' atto, nel quale passaggio sta appunto la natura dell' atto transeunte, conviene dire che fra la sentenza di quei filosofi, che ponevano l' essenza dell' anima nel moto, e la sentenza di Aristotele che nega all' anima ogni moto, giaccia la sentenza media e vera; cioè che « l' anima, come ogni altro ente che non sia il primo, è un atto immanente, soggetto di atti transeunti, ma non causa piena di questi »(1); perchè se ella fosse causa piena, gli atti non potrebbero cessar mai, durante la causa, e così sarebbero immanenti; come accade in Dio dell' atto creatore, che è atto eterno, che non ha e non pone in Dio mutazione o passaggio di sorte. Altrimenti l' anima sarebbe un semovente , il concetto del quale ripugna, come abbiamo detto. Se dunque niun ente può essere un vero semovente, cioè una causa piena dei propri atti transeunti, rimane a cercare ancora come questi nascano, quale sia la loro causa completa. A tal fine dobbiamo richiamare quello che abbiamo detto, che l' anima ha natura di principio, e il concetto di principio involge quello di atto. Ma il principio non esiste senza il suo termine, ed è dal suo termine che riceve la sua attualità ed attività. L' anima sensitiva ha per suo termine lo spazio ed il corpo. L' anima razionale ha per suo termine l' ente. Ora se si muta il termine, si muta conseguentemente l' attualità e l' attività del principio. Conviene adunque cercare la cagione degli atti transeunti, che accadono nell' anima nella mutazione dei suoi termini, come noi abbiamo già fatto prima. Perocchè il principio è essenzialmente atto, e però è indifferente ai suoi termini, nè gli vien meno l' attività giammai, per qualsivoglia termine gli sia dato; che, anzi, secondo il termine, più o meno attivato. Questa dottrina, che viene somministrata dall' osservazione interna, spiega in che modo nell' anima vi possa essere della potenza, quantunque ella sia essenzialmente atto, perchè è principio; il che parrebbe contraddizione. Ma se si pone che l' atto stesso riceve più o meno entità, secondo la natura dei termini che gli sono dati, da una parte si scorge che ella rimane sempre puro atto, benchè maggiore o minore, nè mai, propriamente parlando, ha unito seco un quid della sua essenza che sia potenza; dall' altra, essendo capace d' incremento e di diminuzione, dicesi che ella è in potenza a questo incremento di sè o a questa diminuzione. E così rimane spiegato il vero concetto della potenza , come una negazione di atto , e non come un che positivo, che costituisca una parte sostanziale dell' ente principio. Vero è che fra l' essere dato un termine ad un principio e l' essergli al tutto negato, vi è uno stato di mezzo, il quale consiste nell' essergli dato imperfettamente, onde il principio non può attuarsi pienamente; nel qual caso si manifesta il malo stato del principio stesso, ed il combattimento fra lui e il suo termine; ma di questo parleremo altrove. Ora, dunque, noi possiamo conchiudere che la ragione degli atti transeunti non si deve mai cercare negli enti principio, ma negli enti termine. Conviene adunque esaminare con somma diligenza quali sieno le forze, o virtù, o cause che mutano gli enti termine, e come queste operino; ed in tal caso solamente sarà spiegato come gli atti transeunti siano possibili, appunto perchè sarà dichiarato il modo come si formano. Ma perchè questo modo non è unico nei diversi enti, così noi dobbiamo discendere alle singole maniere di enti e di loro atti transeunti, come faremo nel seguente capitolo. Le quali cose tutte noi abbiamo creduto dover premettere a spiegare il movimento del principio razionale. Perocchè la condizione di questo movimento non riesce ben chiara nel concetto della mente: 1 se non si conosce la natura del movimento in genere di tutti gli enti, e specialmente di quelli che sono soggetti di atti transeunti; 2 se non si confronta il movimento del principio razionale a quello, secondo cui si muovono gli altri agenti della natura. Delle quali due cose la prima fu fatta nel capitolo precedente, la seconda noi togliamo a fare ora. All' uomo non è dato per natura altro spazio pieno, ossia distinto mediante il corpo che vi si espande, che quello del sentimento fondamentale. I confini di questo spazio a principio non si sentono, ma si trovano mediante le sensazioni superficiali. Nè questi confini si potrebbero percepire, senza che si sentisse qualche spazio di là da questi confini medesimi (1). Qui dobbiamo fermarci, perchè questo ha già bisogno di spiegazione all' intento nostro presente: Come si può sentire qualche cosa al di là del corpo nostro? Noi abbiamo, è vero, la percezione dello spazio illimitato, ma questo spazio è indistinto, cioè non ha ancora alcuna relazione coi corpi, che lo empiscono o lo possono empire; non basta dunque a spiegare come noi acquistiamo la cognizione dello spazio distinto, che eccede i confini del nostro corpo, cioè la relazione fra il nostro corpo e lo spazio immenso. La soluzione della difficoltà si deve ritrarre dalla distinzione delle due maniere di sentire, la soggettiva e l' extrasoggettiva . Il soggetto si spande nel sentimento fondamentale corporeo come padrone, come in cosa propria, a sè unita quasi una parte, una continuazione di sè stesso; egli agisce in esso, e ne ha bisogno come d' una condizione essenziale di sè stesso. Qui non compariscono confini lineari o superficiali, è un sentimento solido, fuori del quale nulla si sente di corporeo, nulla si può sentire; perciò non ha relazioni sensibili con niun corpo straniero. Ma la sensazione extrasoggettiva è di tutt' altra natura; ella accusa una forza straniera a quella del sentito; la quale forza produce una violenza (benchè talora piacevole) al sentimento fondamentale. La forza straniera agisce nell' estensione stessa del sentimento, nel sentito fondamentale, ed allora questa estensione si disegna e figura. Ora conviene bene intendere la natura di questi confini superficiali, che acquista così il nostro sentito fondamentale. Prima di tutto, allorquando il nostro tatto è affetto da un corpo straniero, si distingue che quel corpo è straniero, perchè si sente che l' azione di lui non è quella del principio senziente, anzi questo è in essa; si sente che l' agente straniero non è sentito in sè stesso, ma solamente ne è sentito l' effetto e il termine della sua azione, perchè il sentimento che se ne ha non è quello d' un solido, ma d' una superficie; si sente dunque il termine della sua azione, ma non lui stesso, a differenza di quanto accade nel sentito fondamentale, il quale non è un termine superficiale di azione che si senta, ma lo stesso agente in tutto lo spazio solido, in cui si espande come agente. Ma poichè il termine dell' azione straniera è nel nostro sentito fondamentale, che ne riceve l' azione, perciò la stessa superficie sensibile, che è il termine dell' azione straniera, si percepisce come confine del sentimento fondamentale, distinguendosi in questo quella superficie da tutto il rimanente del sentimento fondamentale, e diventando così quella superficie termine a due agenti, allo straniero e al proprio, che è il sentito fondamentale (in quanto è sensifero). Questo accade per via del tatto (prescindendo noi ora dalla vista e dagli altri sensi), il quale è la propria misura dei corpi (1). Quindi se il corpo nostro fosse immobile, noi col tatto non potremmo conoscere simultaneamente la superficie di un corpo straniero maggiore di quella del nostro, che la commisura. Per ispiegare, adunque, come noi possiamo percepire un corpo maggiore del nostro, si deve fare intervenire il movimento, sia nei corpi esteriori, sia nel nostro proprio. Quanto ai corpi esteriori, se diversi corpi agiscono successivamente sulla stessa parte del corpo nostro, in tal caso quei corpi o sono perfettamente eguali di estensione, di forma ecc., o hanno qualche varietà fra loro. Se sono perfettamente eguali, e si applicano successivamente alla stessa parte del corpo nostro, noi senza l' aiuto di altri sensi, col solo tatto non potremmo distinguere se l' agente è un solo e medesimo corpo, una stessa virtù che opera con replicati atti, ovvero se più. Ma qualora i corpi variassero di estensione e di figura, noi li prenderemmo per corpi diversi; e ciò non in virtù del solo principio senziente e della ritentiva propria di lui (di che ora prescindo, non bisognandomi di entrare in questione così sottile), ma per la ritentiva razionale. Perocchè, paragonando l' una superficie sensibile e sensifera all' altra, le troveremmo diverse, e così ci rimarrebbe nell' animo la notizia di più superfici, poniamo che fossero dieci e di un palmo quadrato di estensione, ma di varia figura ciascuna. Con questo solo noi comincieremmo a concepire una estensione maggiore della corrispondente nel corpo nostro; perocchè la superficie, in quanto appartiene al nostro sentimento fondamentale, non la possiamo moltiplicare giammai, sentendo noi che è sempre quella stessa. Un solo palmo, adunque, di estensione superficiale del corpo nostro è il campo, per così dire, dove possiamo sentire un palmo di estensione della forza esteriore, moltiplicato quanto si voglia, secondo il numero delle sensazioni di figura diversa, che si ripetono e moltiplicano successivamente. Veniamo al movimento del corpo nostro. E` certo che movendosi il nostro corpo, e ricevendo sempre nuove diverse sensazioni dei corpi circostanti, diversi di figura e d' attività, possiamo colla ritentiva razionale acquistare la notizia di uno spazio esteso più e più, senza limite assegnabile. Ma il difficile è qui lo spiegare il movimento del corpo nostro. Non abbiamo noi detto che il principio senziente ed il principio razionale sono immobili quanto a moto locale? Come adunque possiamo poi muovere il corpo nostro soggettivo? che cosa è questo movimento? Conviene riflettere che il nostro corpo noi lo percepiamo in due modi: nel modo extrasoggettivo , come ogni altro corpo, in quanto ha anch' egli la virtù sensifera, onde è visibile, tattile, ecc., e nel modo soggettivo , nel quale secondo modo è il sentito del sentimento fondamentale. Ora il corpo nostro extrasoggettivo non entra nel sentimento fondamentale, anzi non è che la virtù sensifera a lui straniera ed opposta. Supponiamo adunque di non averlo percepito extrasoggettivamente, ma solo soggettivamente; in tal caso egli non ha più moto. Infatti noi abbiamo già dimostrato nell' Ideologia che il moto nostro non è sensibile (1); ma se il nostro sentimento fondamentale non sente alcun moto, dunque il moto non cade in lui, essendo egli essenzialmente sentimento, e non cadendo nel sentimento ciò che non è sensibile. Si dirà che quando noi stessi moviamo il corpo nostro, per esempio camminando e saltando, allora noi sentiamo lo sforzo che facciamo per muoverci. Verissimo; ma lo sforzo, che noi facciamo per muoverci, non è già il moto, ma la causa del moto. Nel sentimento fondamentale adunque non cade moto di traslazione da luogo a luogo, benchè vi si trovi la forza e la causa del moto. Quindi il moto di traslazione non è che un cangiamento che si fa extra il soggetto, è un cangiamento nel corpo extra7soggettivo, una mutazione nella forza sensifera; ma non punto nel sentimento fondamentale, che si rimane immobile. Ma pure quando il corpo extrasoggettivo si trasporta per guisa che mediante l' esperienza extrasoggettiva si vede il nostro aver mutato di luogo, di che ci accorgiamo per la diversa relazione che prende coi corpi circostanti, allora il sentimento nostro fondamentale, e quindi il corpo soggettivo, è ancora presente agli stessi fenomeni extrasoggettivi, che dà il corpo nostro trasportato, sicchè il corpo nostro soggettivo non ha cangiato di relazione col corpo nostro extrasoggettivo. Se dunque il corpo nostro extrasoggettivo occupa un altro spazio, si suol dire che quest' altro spazio lo occupi anche il corpo soggettivo, e così sia stato trasportato anch' esso, si sia mosso. Questa osservazione è appunto quella che indusse Aristotele a dare all' anima quella specie di moto, ch' egli chiama per accidente , e che paragona al moto del colore, che non si muove come colore, ma come aderente ad un corpo che si muove. Ma questo, come abbiamo detto, è un errore, perchè, ritornando noi al sentito fondamentale, è evidente che il moto o dovrebbe essere sentito, e però cadere in esso sentimento, o non essere moto del sentimento; perocchè il sentimento è racchiuso in sè stesso per la sua propria essenza, e il mutarsi delle cose fuori di lui non è un muoversi che faccia egli stesso. Onde convien dire che il movimento locale è un fenomeno al tutto extrasoggettivo, cioè tale che si rivela colla sola esperienza extrasoggettiva, e non un fenomeno soggettivo, che si sperimenti come accidente del soggetto stesso o del suo sentito fondamentale. Ora i fenomeni extrasoggettivi sono prodotti dalla forza sensifera; onde si può ben dire bensì che col movimento del nostro proprio corpo si cangi il rapporto fra il nostro sentimento fondamentale e la forza sensifera sparsa nella natura, per esempio, nei corpi esterni, ma non che si cangi o muova lo stesso sentimento. Ma nel sentimento fondamentale si sentono, per l' azione del sensifero, le superfici di esso sentimento fondamentale, e queste pure si muovono. - A questa obbiezione rispondo: 1 che le superfici si sentono quando la forza sensifera attualmente è applicata al nostro corpo, e durante quest' azione non vi è movimento locale delle superfici; 2 quando poi la forza sensifera non agisce più sul nostro tatto, e il corpo nostro si trasporta da un luogo all' altro, allora la mutazione non istà in altro se non nell' essersi mutato il rapporto fra la forza sensifera e il sentimento fondamentale, come dicevamo. Ma lo stesso corpo nostro si vede quando viene trasportato. - Rispondo che l' esperienza della vista è del tutto extrasoggettiva. Ciò che si vede si è il corpo nostro in quanto cade sotto l' esperienza extrasoggettiva, e nel corpo extrasoggettivamente considerato accordammo già che si dà il moto; ma un tal corpo non è il sentito fondamentale, bensì cosa tutta diversa da esso. Ma nella superficie stessa del corpo nostro si sente il moto, qualora una sensazione particolare trascorra da un punto all' altro di essa superficie. - Rispondo che questa sensazione trascorrente è prodotta dalla virtù sensifera, e però appartiene al corpo percepito come un extrasoggettivo; e in quest' ordine di percezioni si dà il moto. Ma nel sentimento fondamentale7animale voi avete distinto un principio senziente semplice ed un termine esteso. Di più, nel termine esteso voi avete riconosciuto la condizione di sentito e ben anche quella di sensifero . Dunque sia pure accordato che al principio senziente, come ad un semplice ed incorporeo, non competa il moto, ma al termine esteso deve convenire il moto per due ragioni: 1 perchè è esteso, ed un esteso può essere trasportato da un luogo all' altro; 2 perchè in quello stesso esteso vi è il sensifero, al quale voi pure accordate il moto. Rispondo che in quanto il termine del sentimento fondamentale ha seco la virtù sensifera, in tanto egli non è termine del sentimento fondamentale, ma è quella virtù che può immutarne il termine, ossia costituirlo in altro modo da quello che è. Mi spiego. Il sentito fondamentale, come meramente sentito, è nel principio senziente allo stesso modo con cui abbiamo veduto che in lui è l' esteso, come contenuto nel contenente, e fra il principio senziente e l' esteso vi è una perfetta unione, di modo che formano un unico sentimento. All' incontro, la forza sensifera non è in questo modo nel principio senziente, ma ella non fa che operare nell' esteso, termine del sentimento e immutarlo. Onde il principio senziente non è unito stabilmente colla forza sensifera, nè da lei riceve direttamente l' azione, ma la riceve indirettamente, perchè gli si cangia il sentito da una forza diversa dalla propria. Di più, quando la forza sensifera agisce attualmente nell' esteso, termine del sentimento, allora ella non presenta in sè movimento di luogo a luogo, ma solo azione nello stesso sentito, termine del senziente. Quanto poi alla seconda obbiezione che, essendo il sentito nel sentimento fondamentale esteso, è atto a muoversi, rispondo che non ogni esteso è atto al moto. Così lo spazio stesso infinito non è atto al moto, come vedemmo, anzi è essenzialmente immobile. Acciocchè vi sia possibilità di movimento è necessario che, oltre lo spazio occupato dall' esteso, vi sia un altro spazio in cui egli si possa trasportare. Ma noi abbiamo veduto che l' esteso proprio del sentito fondamentale è un esteso in cui non cadono confini, e che solamente quando si percepiscono i confini superficiali, per poterli percepire è necessario percepire un altro spazio di là da essi. All' incontro il sentito fondamentale è di tal natura che di là da esso, cioè dal suo sentito, non si percepisce alcun' altra estensione, finisce tutta l' estensione in sè; perciò non è possibile che egli sia soggetto ad un movimento suo proprio, perchè non ha altro spazio ove recarsi che quello che egli occupa. Acciocchè dunque si concepisca una mutazione di luogo, conviene uscire da lui ed entrare nel mondo extrasoggettivo. Conosciuti da noi i fenomeni di questo mondo extrasoggettivo, allora ci sembra che il sentito fondamentale si muova; ma questo moto non consiste in altro, come dicevamo, se non nella mutazione del rapporto fra l' esteso sentito del sentimento fondamentale e il mondo extra7soggettivo. Il rapporto poi fra l' esteso fondamentale e il mondo extrasoggettivo non è rapporto di luogo a luogo, di esteso ad esteso, ma di esteso a sentimento; è dunque una relazione inestesa di sensilità che viene cangiata, e propriamente una relazione fra la causa, l' agente nel sentimento (il sensifero), ed il sentimento. All' incontro il movimento è il cangiamento del rapporto fra esteso ed esteso. Ma se tutto intero il sentito fondamentale non ha moto di traslazione, non si trasporta di luogo a luogo, almeno non si potrà negare che l' esteso del sentimento fondamentale potrà essere accresciuto e diminuito; il che importa una specie di moto per estensione o per restringimento. Rispondo che il sentito fondamentale può essere accresciuto e diminuito; ma questo non si fa per via di moto, ma per via di naturazione; il sentito comincia ad essere in un' estensione maggiore, o cessa di essere in una parte di essa. Questo non è moto locale, ma una specie di creazione o cessazione di una nuova parte estesa7sentita. Ma il sentimento fondamentale non è uniforme. Se una parte dunque di esso si sente più di un' altra o in modo diverso, ella potrà muoversi di luogo entro l' esteso sentito7fondamentale. Rispondo che se questo si vuole chiamare movimento, egli è il solo movimento che si può ammettere nel sentimento fondamentale. Ma conviene spiegarlo, e spiegandolo ben si comprenderà che vero movimento non è, quando si prescinda da ogni azione del sensifero, che vi si possa mescolare. Infatti, noi abbiamo posto che se le particelle corporee, a cui termina il sentimento fondamentale, si muovono senza perdere la loro continuità, il sentimento acquista un eccitamento, cioè una vivezza maggiore e varia. Ora dicendo movimento delle particelle corporee, si dice primieramente un fenomeno extra7soggettivo. Il fenomeno soggettivo corrispondente ad esso è la detta maggior vivezza e varietà nel sentimento. La questione adunque sta in sapere se questa mutazione nel fenomeno soggettivo si possa chiamare moto. Ma: 1 il movimento di ciascuna particella sentita non è sensibile, come abbiamo veduto, perchè il movimento del sentito non cade nel sentito, e però è del tutto extra7soggettivo; 2 il movimento di due o più particelle, che si muovono senza perdere la continuità, altra mutazione, quanto all' estensione, non produce nel sentito, se non che questo si aumenta da una parte e si diminuisce dall' altra; il che non è movimento, come abbiamo pure veduto; 3 finalmente se le particelle costituiscono un organo, e i movimenti intestini delle particelle si succedono in modo che prima si muovano quelle della prima fila, poi quelle della seconda, e così di seguito, in tal caso essendovi una successione di moti, deve esservi una successione di eccitamenti distribuiti nelle varie parti dell' organo. Allora il movimento eccitato produce il fenomeno del movimento interno, perchè pare che la stessa sensazione corra da un estremo all' altro dell' organo, che è tutto sentito pel sentimento di continuità. E questo è appunto il movimento unico che si può concepire nel sentito fondamentale, il quale è movimento soggettivo, attesa la ritentiva animale, che conserva il vestigio della sensazione precedente, e ancor più attesa la ritentiva razionale, che conserva la memoria delle sensazioni avute e le confronta. Ma si consideri non di meno che la sensazione non è numericamente la stessa, perchè cessando l' una viene l' altra, onde pare piuttosto una serie di sensazioni che rappresentano il movimento, a quella maniera appunto come l' immagine dello specchio si muove, benchè niun corpo identico si trasferisca da un luogo all' altro sullo specchio (1). E poichè qui si tratta di movimento fenomenale, cioè giacente nel sentimento, nulla ripugna che esso abbia una specie di continuità, in quanto il sentito è continuo, e la nuova sensazione può cominciare dove finisce la prima, o mescolare i loro estremi. Laonde rispetto al principio senziente, ossia all' anima sensitiva, rimane provato che ella è immune da qualsivoglia movimento. Quando poi noi al sentito fondamentale nel modo detto e al principio senziente neghiamo il moto locale , non si creda per questo che noi gli accordiamo la quiete . No, non si può assegnare la quiete a ciò in cui non può cadere il moto, perchè quella è relativa a questo; ma piuttosto è vero il dire che non v' è nè moto, nè quiete, come là dove non vi è estensione, neppure può esservi il punto, che è il termine della estensione. Dalle quali cose tutte possiamo raccogliere: Che lo spazio, non avendo atti secondi e transeunti, non richiede di spiegare il modo del suo operare. Che il corpo presenta due attività, il sentito e il sensifero . Che il sentito non ha propriamente moto locale, e che la sua azione dipende dall' essere dato al senziente e quasi posto in lui; e questa specie di azione non può venire, originalmente, se non dal Creatore autore del sentimento, onde, come già dicemmo altrove, l' animato non si forma, ma è dato in natura (1). Che non rimane più a spiegarsi se non l' azione del sensifero, causa di movimento. Ora questa, dipendendo come da causa dal principio corporeo, e il principio corporeo non cadendo sotto la nostra percezione, è impossibile a noi l' indicare come egli operi con atti secondi, sieno immanenti o sieno transeunti. Ma il solo sapere che il movimento, e quindi il conato al movimento (2), ossia la forza corporea, dipende dal principio sensitivo e da un agente sconosciuto, basta per conchiudere che il corpo non passa ai suoi atti transeunti da sè solo; che anzi egli riceve il moto e la forza dal principio sensitivo , come riceve l' esistenza dal principio corporeo , che può anch' egli esser principio di moto, qualunque poi sia la maniera occulta nella quale lo produca. Ora, poichè la forza si considera nei corpi come atto immanente e il moto come atto transeunte, gioverà che indichiamo il rapporto di questa forza corporea col moto. Abbiamo detto che nel sentito7esteso non è la cagione del movimento extra7soggettivo; o se c' era, in quanto è divenuta sentito7esteso, ella ha perduto la sua natura di forza, dominata dal principio senziente; conviene dunque considerare la forza come distinta dal sentito, determinandola dai suoi effetti. Questi effetti sono: Comunicazione del moto . - Nella percussione di un corpo nell' altro il corpo percosso e libero si muove nella direzione del primo. Questo effetto si riduce all' impenetrabilità e all' inerzia . Non potendo un corpo penetrar l' altro, ed il moto dovendosi conservare per l' inerzia, l' uno cede il posto all' altro con una velocità che sta in proporzione diretta della quantità di moto del corpo urtante, e indiretta della massa del corpo urtato. Ma questo fatto non riguarda l' incominciamento del moto, ma la comunicazione del moto che già esiste. Conservazione del moto . - Per l' inerzia un corpo in moto continua a muoversi nella stessa direzione. Questo effetto suppone che la causa del moto perseveri; ma questa causa non può essere il corpo stesso, perchè egli è indifferente alla quiete e al moto; deve essere adunque una forza incorporea diversa dal corpo che opera nel corpo. Attrazione . - Questa non è altro che un conato di muoversi d' un corpo verso l' altro, un conato permanente. La permanenza di questo conato indica una causa di moto diversa nell' operare dalla causa della conservazione del moto. Perocchè il fatto della causa che conserva il moto, è questo: due corpi di eguale massa, mossi con eguale celerità l' uno incontro all' altro nella stessa linea, quando giungono a percuotersi, si fermano distruggendosi i moti, sicchè resta la stessa quantità di moto nella stessa direzione. Questi due corpi, ridotti così alla quiete, si stanno al contatto, senza che rimanga in essi neppure il conato di muoversi nelle direzioni che precedentemente avevano, sicchè non gravitano l' uno incontro l' altro. All' incontro la causa dell' attrazione produce in essi una pressione dell' uno nell' altro tendente a penetrarsi. L' esperienza dunque dimostra che nella natura del moto concorrono tre cause di moto: Una causa che produce semplicemente il moto , cioè che fa passare il corpo dalla quiete al moto e viceversa. Una causa che presiede alla conservazione e alla comunicazione del moto da un corpo all' altro. Una causa che produce il conato costante di muoversi di un corpo verso l' altro, fenomeni dell' attrazione. La prima e la terza causa trovano, secondo noi, una spiegazione sufficiente nell' attività motrice del principio senziente annesso agli elementi della materia, e nelle leggi secondo le quali opera quell' attività. La seconda suppone un altro principio straniero ai corpi, quel principio stesso che li costituisce e, costituendoli, impone loro le leggi dell' inerzia. Secondo queste leggi il moto in una direzione rimane annullato da altrettanto moto in direzione opposta. Il conato, che hanno i corpi a penetrarsi, in tal caso cessa col cessare del movimento, perchè nasce da questo e non dalla forza causa di lui, la quale è cessata. Tutte le leggi della conservazione e della comunicazione del moto sono conseguenti a questa prima. La forza producente il moto non rimane estinta anche dopo averlo prodotto; e se questa causa è annessa ai corpi, come nell' attrazione, il conato, che per essa hanno i corpi a penetrarsi, non cessa col cessare del movimento, perchè non è prodotto da questo, ma questo stesso è un effetto di quella forza che non muta la sua natura di forza. Nella conservazione del moto semplice ad ogni tempuscolo si rinnova il moto; ma non s' aggiunge alcun nuovo conato a quello che nasce dal moto stesso. Onde il moto riesce uniforme . Nell' effetto dell' attrazione ad ogni tempuscolo si rinnova il conato al moto, che produce nuovo moto, ed il corpo già si muove per la conservazione del moto precedente, onde se ne ha un moto accelerato, come il quadrato dei tempuscoli . A produrre adunque il moto accelerato concorrono due principŒ: 1 il principio della produzione del moto; 2 il principio della sua conservazione. Ma poichè l' impenetrabilità distrugge il moto e il conato veniente dal moto, ma non il conato costante che precede il moto, ed è causa della sua produzione; quindi se due corpi eguali si muovono in direzione opposta con eguale moto, senza attrazione, venuti al contatto, cessa ogni loro moto e ogni conato che potesse venire dal moto, che è sempre un conato istantaneo, durante cioè quel solo tempuscolo che è necessario ad estinguersi il moto. Quando all' incontro due corpi si avvicinano per via di attrazione, allora al loro contatto cessa bensì tutto il loro moto (posto che sieno eguali di massa), quantunque cresciuto per via secondo il quadrato dei tempuscoli; ma non cessa il conato costante , col quale tendono di penetrarsi o almeno (il che mi pare detto con più verità) di toccarsi in tutti i loro punti, di accentrarsi. E` dunque evidente che vi sono due virtù che operano nei corpi: 1 una causa costante di moto già prodotto; 2 una causa costante di conato al moto da prodursi. Noi dicemmo che la causa del moto è certamente distinta dal corpo, perchè dall' essenza del corpo rimane escluso il moto. Ma della causa del conato al moto si potrà dire il medesimo? E` da confessarsi che la causa di questo conato, che si chiama anche attrazione o forza viva , deve operare incessantemente nei corpi, perchè tutti i corpi si attraggono (lasciando da parte i così detti imponderabili, pei quali la questione è ancora indecisa). Ma che non entri un tal conato a formare l' essenza dei corpi è facile a dimostrarsi, quando si considera che ciascun corpo ha tutta la propria essenza in sè stesso, è finito in sè stesso, niente di ciò che è fuori di lui gli appartiene. Ma l' attrazione è diretta dalla relazione di un corpo coll' altro. E` dunque necessario che la causa dell' attrazione non sia un corpo, ma un agente capace di abbracciare la relazione di più corpi fra loro. Questo sembra una nuova conferma dell' opinione che tal virtù possa essere un principio senziente, unito a tutti gli atomi corporei; perocchè questa opinione toglierebbe affatto la difficoltà. Ed essendo provato dall' esperienza che il principio senziente può essere causa di moto, l' ipotesi, se ella è tale, ha le due condizioni volute da Newton, che ella sia cosa esistente in natura, ed abbia la virtù sufficiente da produrre l' effetto. Ad ogni modo rimane dimostrato che la materia per sè stessa è inerte, ed ha bisogno di ricevere il moto senza tenere in sè facoltà di produrlo. All' incontro il principio senziente ha un' attività propria ed è causa dei suoi atti. Ma poichè niuna causa degli atti transeunti è causa piena, chè se fosse piena, ella produrrebbe atti immanenti quanto lei stessa, perciò è da cercare come possa il principio senziente porre gli atti suoi transeunti. Noi abbiamo detto che l' attività del principio senziente si suscita dai suoi termini, ma che, suscitata che sia, ella è propria di lui, diretta nel suo operare da sue proprie leggi. L' attività dunque del principio senziente ha due parti, e però da due cagioni possono sorgere in esso degli atti transeunti: Dalla mutazione del suo termine, il quale è il sentito corporeo; mutazione che non viene da lui, ma da cagioni straniere. Dove è da rammentarsi dell' opinione su accennata, che ogni particella di materia abbia seco congiunto un sentimento; il che agevola ad intendere come il termine d' un principio senziente si possa ingrandire coll' unirsi sentimento a sentimento, posta la legge che dove il sentito è continuo, il senziente è unico, a quella guisa come due punti matematici, che convengono, formano un punto solo, nè più, nè meno. E per lo stesso modo spiegasi il diminuirsi del termine sentito, collo staccarsi fra di loro gli estesi e perdere la loro continuità. Onde qui s' intende come il principio senziente sembra uscire ad un nuovo atto transeunte, quando propriamente egli rimane il medesimo, ma solamente il suo termine si amplia o si impicciolisce. E poichè nell' aggiungersi di un sentito esteso ad un altro noi non possiamo osservare che due mutazioni: 1 la mutazione soggettiva, quando i due sentiti si sono già uniti per apposizione, la quale è spiegata per ciò che è detto; 2 la mutazione extrasoggettiva del movimento dei due estesi, che erano discosti o si avvicinarono fino ad opporsi, della causa del qual movimento ragionammo innanzi; - perciò ogni mutazione, che nel detto fatto è riconoscibile, non può esigere da noi altra spiegazione. Dalla mutazione, che produce nel proprio termine l' attività stessa del principio senziente. A spiegare questa conviene considerare che il principio senziente, posto in essere, ha un atto determinato dalla sua natura; ma talora quest' atto gli è in parte impedito da cause straniere; onde quando sono tolte via queste cause impedienti, egli spiega interamente il suo atto. Questa esplicazione del suo atto naturale è ciò che si prende per un suo atto transeunte, e si stima una mutazione in lui avvenuta; ma, propriamente parlando, è lo stesso atto primo, la stessa sua natura, che prima stavasi a disagio perchè legata da agenti avversi, e che poscia si pone nell' atteggiamento suo proprio, conveniente, naturale. Così tutto l' atto transeunte nel principio senziente non si riduce propriamente ad una attività nuova, ma alla primitiva, ed il nuovo sta negli agenti impedienti rimossi da lui, che così resta quello che è, quello che deve essere per sua natura. Dichiariamo meglio questo concetto dell' atto transeunte del principio senziente. In prima abbiamo supposto che il principio senziente sia posto nell' atto suo primo ed immanente, che lo costituisce quell' ente che è. Come ciò avvenga noi l' abbiamo spiegato; dipende dal suo termine e dalle condizioni di questo; gli atti secondi e transeunti non entrano in questo per nulla, essi vengono in appresso, perchè sono atti del principio già naturato. Ma esso principio è posto in essere diversamente: 1 secondo l' estensione maggiore o minore del suo termine sentito; 2 secondo i movimenti intestini ed eccitatori del sentimento. Se è posto in essere solamente per via di un' estensione continua, senza che in essa siano movimenti eccitatori, in tal caso la sua attività si restringe a sentire l' esteso, che gli è dato per termine. Ma se è posto in essere anche per via di movimenti eccitatori, in tal caso egli ha un altro atto. Perocchè il sentimento eccitato è un atto, il quale, come ogni atto, ha durevolezza, cioè forza di conservarsi ed altresì di spiegarsi, secondo la sua propria natura, pel principio posto che « ogni attività, ogni atto primo ha uno stato naturale; ed è quello in cui esso è nel più perfetto modo e più pienamente che possa essere ». Ora il sentimento eccitato può essere contrariato alla sua piena e perfetta naturazione ed esplicazione; ed è questo che abbiamo detto innanzi, che « fra l' esser dato un termine ad un principio e l' essergli negato vi è uno stato di mezzo, il quale consiste nell' essergli dato imperfettamente, onde il principio non può attuarsi pienamente; nel qual caso si manifesta il malo stato del principio stesso ed il combattimento ». Quando dunque un movimento intestino ed eccitatore incomincia nel termine del sentimento, se quel movimento è consentaneo alla perfetta eccitazione, il principio senziente ha l' attività di conservarlo e di continuarlo (1); ma questa attività, che perpetua (quando non si trovino ostacoli) il movimento, non è cosa nuova, ma la stessa attività che era prima del sentimento eccitato, che ha virtù di conservarsi e durare qual è. Ma non ogni movimento intestino nell' esteso sentito è opportuno all' esplicazione dell' atto naturale del principio senziente eccitato. Perchè quest' atto: 1) Esige un movimento armonico ed uno. 2) Esige un movimento che rientri in sè a guisa di circolo, altrimenti non potrebbe perpetuarsi. 3) Esige un movimento il più frequente possibile, salve le due prime condizioni. 4) Esige che si conservi il contatto ed altresì la gravitazione dell' una verso l' altra delle molecole, ma in un determinato modo, sicchè non impedisca le tre sopra esposte condizioni. Ora l' atto primo del sentimento eccitato è una virtù, la cui energia, benchè limitata, dovendosi collocare nel suo atteggiamento più piacevole, più perfetto, più naturale, influisce a far sì che il movimento eccitatore del sentito abbia le quattro condizioni accennate. Ma a questo intento non può talora riuscire per un contrasto di forze e virtù avversarie. A ragione d' esempio: Se si accostasse al contatto dell' esteso sentito un altro esteso assai piccolo, e perciò atto a porsi sufficientemente al contatto del primo per formare una continuazione; ma tuttavia questo altro esteso che s' accosta, avendo un' organizzazione sua propria ed essendo dominato da un altro principio senziente eccitato, si agitasse per moti intestini consentanei all' azione del suo proprio senziente, ma disarmonici coi movimenti intestini dell' esteso sentito a cui si congiunge; dovrebbe di necessità nascere una guerra a morte fra i due principŒ senzienti, che cercano rapire nel proprio turbine gli atomi corporei scambievoli; e così forse accade nel fatto dei veleni e delle scomposizioni e ricomposizioni chimiche, che essi producono nel corpo vivente. Se ad un sentito, nel cui seno si perpetuano i movimenti eccitatori propri del suo principio senziente, si accosta un esteso piccolo quanto deve essere, ma dove non vi sono movimenti, o movimenti vincibili; il principio senziente eccitato deve, per assimilarlo al proprio sentito, cagionare anche in esso i movimenti eccitatori opportuni, rapendolo nel proprio vortice, dividendolo quindi nelle sue minime parti, e compartendolo come esige l' organizzazione propria del suo sentito, nella quale nascono i movimenti, e che si forma coi movimenti medesimi. In tutto ciò il principio senziente non fa dunque che spiegare il suo primo atto, atteggiarlo come deve essere per natura, e lo fa con un atto immanente e continuo, che è quello che lo costituisce in essere, dapprima impedito e raggruppato unicamente perchè gli manca occasione di stendersi, o ne ha impedimento dalla condizione del termine, a cui è legato e condizionato. La quale teoria spiega tutti i movimenti dell' istinto, che altro non sono infine che movimenti del sentimento fondamentale per costituirsi nella sua composizione ed atteggiamento più comodo e piacevole, cioè più naturale (1). Venendo ora alla spiegazione degli atti transeunti del principio razionale, questo ha più attività, come vedemmo; cioè: Ha l' attività intellettiva, la quale ha per suo atto primo immanente l' intuizione dell' essere, il cui termine è l' essere ideale. Ha l' attività percettiva, la quale sta in percepire l' ente reale. - Questa attività ha per suo atto immanente la percezione del proprio sentimento fondamentale, ed ha poi molti atti transeunti, i quali sono spiegati anch' essi col solo sapere che nascono in occasione che viene modificato il sentito fondamentale, il quale essendo naturalmente percepito, conviene di necessità che sieno percepite anche le sue modificazioni. Ha l' attività della riflessione. - La spiegazione degli atti transeunti della riflessione fu da noi data, almeno in parte. Ella muove dallo stesso principio, che « l' atto transeunte è l' attività stessa dell' atto primo, a cui viene data occasione di spiegarsi e atteggiarsi nel modo suo più naturale ». Perocchè la riflessione è mossa ai suoi atti transeunti: a ) Dall' istinto animale, gli atti del quale sono atti transeunti del sentimento fondamentale7animale, il quale essendo percepito per natura dall' uomo, sono percepiti del pari tutti i movimenti istintivi. Quando dunque l' animalità dell' uomo si agita e muove per soddisfare qualche suo bisogno, la percezione razionale accompagna tutti questi movimenti e queste azioni. Allora l' uomo, essendo un principio unico, il principio razionale, messo a parte dei bisogni della sua animalità, si sforza con tutte le forze che ha, anche colle forze razionali, di conseguire la soddisfazione desiderata (1). Ora questo lo obbliga a fissare la sua attenzione ai mezzi ed ai fini; il che è un riflettere sulle proprie percezioni. Tutta quest' opera dell' intendimento è sempre mossa dal principio accennato, che « il sentimento soggettivo si atteggia nel modo più comodo e più piacevole ». La riflessione è l' attenzione, il cui atto ferisce tutti i termini a lei proporzionati; ma l' inquietudine, il bisogno, ecc., sono termini nuovi a lei dati; ella trova così quasi nuove porte onde uscire, a quella guisa che l' acqua contenuta in un recipiente, tostochè si apre un foro, spiccia da quello non per alcuna virtù, ma per la stessa gravitazione e pressione che esercitava nel recipiente, compressa e ritenuta prima dalle pareti continue del recipiente medesimo. b ) Dall' istinto razionale in un modo simile. Piglisi l' esempio della curiosità. All' aspetto di un avvenimento insolito si susciterà spontaneamente il desiderio di conoscere perchè quella causa, che prima produceva un effetto, ora ne produce un altro, ingannando l' aspettazione. La riflessione vi si porta sopra, e non è quieta se non trova la soluzione del nodo, e ciò perchè « quando alla mente si affaccia un' apparente contraddizione, allora il suo atto razionale non è compito e quieto se non l' ha tolta via, perchè l' essere è il termine del pensiero, e l' essere è privo di contraddizione; onde il pensiero non è quieto se non toglie via la contraddizione, e così restituisce il suo termine ». Lo stesso si dica di una questione, di un nodo scientifico qualsiasi. Il presentarsi questo nuovo oggetto all' intelligenza è aprire un varco all' atto della riflessione, che lo vuole compiutamente afferrare. c ) Da un decreto della volontà, che, propostosi un fine, muove di necessità la riflessione a cercarne i mezzi, perchè altrimenti l' atto della volontà rimarrebbe rannicchiato e mozzo contro il bisogno della sua attività primitiva. L' attività volontaria e pratica si può spiegare anche in altri modi. - Ma il principio razionale passa sempre a questa specie di atti transeunti, che diconsi volontari, per gli oggetti nuovi che gli sono dati dalle altre potenze, i quali oggetti nuovi, essendo termini nuovi, chiamano e provocano l' evoluzione di attività nuove, sempre per lo stesso principio, che « l' atto primo e immanente dell' anima, qualora riceve nuovi termini, non ha più uno stato soddisfacente, ma naturalmente spiega la sua attività, prima rattenuta e solo in conato per l' ostacolo ossia la mancanza di ragione a dispiegarsi ». Finalmente vi è la libertà bilaterale, e gli atti transeunti di questa sono, come vedemmo, i più difficili a spiegarsi. - Perocchè nasce questa difficoltà: se l' atto primo e immanente dell' anima si spiega naturalmente quando riceve nuovi termini, e l' esplicazione dell' attività primitiva è questa stessa attività, che per legge di natura si ammoda allo stato suo più comodo e più conveniente; dunque gli atti transeunti sono necessari, sono determinati dalla natura dell' atto primo e immanente, e dalla qualità dei termini che loro sono applicati. Ma in tal caso non c' è più libertà bilaterale o d' indifferenza. - Quando si considera questa potenza della libertà bilaterale, pare doversi dire che ella si muova dal soggetto stesso, indipendentemente affatto dai termini che gli sono dati; e in tal caso si ricade in quella difficoltà che cerchiamo di rimuovere con sì lunghi discorsi, senza rimuovere la quale rimane inesplicato l' atto transeunte, il quale o ha la causa piena nel suo soggetto (atto immanente), ed allora deve coesistere col soggetto e non essere più atto transeunte, ma immanente anch' esso; o non ha la causa piena nel suo soggetto, ed allora dipende dai termini del soggetto stesso (perocchè ogni eccitamento dato al soggetto da un agente straniero è un termine anch' esso) e porta necessità; ovvero nasce dal soggetto senza che si possa trovare la causa piena, ed allora si urta contro il principio di causa. Questa difficoltà in apparenza gravissima è quella appunto, se ben si considera, che condusse tanti filosofi, anche fra i più perspicaci, a negare la libertà. Ma a torto; essi non investigarono abbastanza la natura di questa potenza; e quanti avranno ben meditato come noi l' abbiamo descritta nell' « Antropologia (1) », troveranno la via aperta per dileguare ogni ombra di sì terribile difficoltà; ecco in qual modo. Conviene determinare prima di tutto con precisione quale sia il termine ossia l' oggetto proprio della libertà. Questo termine noi abbiamo trovato essere « la scelta fra due volizioni contrarie »(2). Ora l' essenza della libertà non consiste nello scegliere ovvero non scegliere; ma consiste nel modo di scegliere, cioè scegliendo, nello scegliere piuttosto l' una che l' altra delle due volizioni. Quando dunque si presentano all' animo due volizioni da scegliere, se non si fa l' atto della scelta, non vi è l' atto della volontà; e se si fa, vi è quest' atto. Anche posto, dunque, che l' uomo sia determinato a fare la scelta, o sia determinato a non farla, posto anche che a fare questo atto sia mosso da una spontanea necessità; questa necessità, che lo muove a fare l' atto della scelta, non lo spoglia della sua libertà, purchè facendo questo atto, egli rimanga libero a scegliere piuttosto una volizione che l' altra. Quando adunque sono all' animo dell' uomo presenti le due volilizioni fra cui deve scegliere, sia pure che egli si muova a questo atto transeunte dal nuovo termine, che è dato alla sua attività immanente, il quale termine sono le due volizioni contrarie eleggibili e il bisogno di eleggere, e che egli si muova necessariamente a fare quest' atto (3); non si muove per questo necessariamente a farlo piuttosto in un modo che nell' altro, cioè a scegliere piuttosto l' una che l' altra delle volizioni eleggibili; egli può scegliere quella che vuole delle due, e però è libero, perfettamente libero. Questa libertà non appartiene adunque a quella parte di attività, che viene dal termine, ma a quella parte di attività, che appartiene al principio già costituito e attuato. Si dirà: qual' è la ragione sufficiente, che spiega come venga scelta l' una volizione piuttosto che l' altra? La domanda mostrerebbe non aversi ancora ben inteso la forza della definizione da noi data della libertà bilaterale. Poichè se « la libertà è la facoltà di scegliere fra due volizioni », l' atto di questa facoltà è la scelta; è appunto la facoltà di determinarsi piuttosto all' una che all' altra delle due volizioni; non è già la facoltà delle volizioni stesse, ma di eleggerne una fra loro. La ragione dunque della scelta è la stessa facoltà, la stessa attività del principio eleggente, la quale, quando viene mossa dalla presenza del suo termine, esce all' atto suo, cioè sceglie fra esse. Ella viene tratta all' atto suo necessariamente come le altre potenze, completandosi la causa mediante il nuovo termine, che le si aggiunge, che sono le due volizioni; ma è tratta necessariamente all' atto libero, che è l' atto suo proprio, e quell' atto suo proprio è appunto la detta elezione. Ridotte all' unità tutte le potenze dell' anima, cioè all' essenza dell' anima stessa, e vinte le difficoltà ontologiche, che impedivano la spiegazione dei suoi atti transeunti ossia delle sue operazioni, indagata nello stesso tempo la natura di questi atti, la loro ragione, il modo nel quale appariscono e scompariscono; lice ora a noi di entrare sicuri nell' argomento che ci siamo proposti, cioè nell' esposizione delle leggi, che tengono le diverse operazioni dell' anima. E posciachè l' anima è unica e semplice, riducendosi finalmente tutte le sue azioni al principio razionale , nel quale propriamente consiste l' essenza ultimata ed intera dell' anima stessa; perciò quando ci riuscisse di esporre convenevolmente le leggi, secondo le quali opera e patisce il principio razionale , noi avremmo sciolta la nostra promessa, ottenuto il nostro intento. Ma nell' uomo, tuttavia, cadono due principŒ di azione, l' uno dei quali è l' uomo, l' altro è nell' uomo. Quello è il principio razionale, questo il principio animale. Quando si dice l' uomo essere composto di corpo e di anima, si deve intendere di un corpo animato , e di un' anima razionale , non facendo la divisione dell' uomo col mettere la materia bruta da una parte, e l' anima sensitiva e razionale dall' altra. L' anima intellettiva è la forma di un corpo sensitivo, non d' una materia nuda (1). Il che non distrugge l' unità dell' anima, anzi la conferma, perocchè questa è anche principio supremo del sentimento, in quanto lo percepisce come entità. Il che nello stesso tempo spiega, come abbiamo già detto, perchè talora si manifesti nell' uomo un' attività sensitiva ribelle al principio razionale ed umano, giacchè la percezione fondamentale non distrugge l' attività sensitiva, benchè sia nata a dominarla. Altrimenti non potrebbe esservi contraddizione e lotta fra l' animalità e la ragione, senza che fossero due anime. Dedicheremo adunque il seguente quarto libro all' esposizione delle leggi secondo cui opera l' uomo, cioè il principio, razionale , che ha in sè anche il sentimento sotto la relazione essenziale di entità; ed il quinto libro, che viene appresso, all' esposizione delle leggi secondo le quali opera il principio animale per sè considerato, cioè sotto la relazione essenziale di sensilità; il quale non è l' uomo, ma è nell' uomo. Trattando poi del principio sensitivo, parleremo insieme, per quanto è necessario, anche dell' attività da lui diversa, che in lui si manifesta ed a lui talora contrasta, cioè della virtù sensifera. Dirittura logica e sentimento cristiano sono i due caratteri del popolo d' Italia. Laonde ogniqualvolta gli scrittori furono logici e religiosi, piacquero alla nazione; quelli che si dipartirono dal retto ragionare e dalla fede, anche se perspicacissimi d' ingegno e ricchissimi di erudizione, furono ripresi o dimentichi dalla pubblica opinione. E qui sta la vera ragione perchè l' Italia fiorisse nelle scienze naturali alla scuola dell' immortale Galileo, e paresse vecchia, oziosa e lenta all' invito di quegli efficacissimi ingegni del secolo XVI, che professarono la filosofia. Non poteva mancare la logica alle scienze matematiche, e la voce del grande Fiorentino non la lasciava più venir meno alle fisiche. Nè lo studio della natura, affidato al rigoroso raziocinio, poteva collidersi colla religione. Sciaguratamente le metafisiche investigazioni non sono di tal natura che, come le matematiche fanno, obblighino gli ingegni o a tenere la via del legittimo raziocinio, o ad essere subitamente convinti di errore. Nè il cielo donò un Galilei alla filosofia; nè le dottrine di questa sono indifferenti alle passioni ed ai vizi degli uomini; nè quelli che presero a far da filosofi nel secolo di Leone, ne andarono sufficientemente liberi, nè cansarono tampoco la maligna influenza dell' eresia settentrionale. Quindi il genio dell' Italia ripudiò i sofisti, talora trasmodando arse gli empi. Così questa terra si rimase deserta di filosofia, senza la quale non potè essere nazione. Perocchè se le altre genti d' altro sangue, d' altro ingegno, educate a più anguste tradizioni e a men sublimi sventure, poterono unirsi e conseguire spiriti nazionali quasi per un istinto, senza avanzata coltura di scienza; l' italica gente non potè, non potrà venire a tanto che colla guida d' una verace filosofia. Chè l' italica stirpe deve primieramente venire collegata da principŒ intellettuali, che, logici essendo, sono religiosi altresì; ed è vana speranza il presumere che senza questo primo, altri vincoli possano rendere unanimi i popoli della nostra penisola. Imperocchè se religione e logica sono forse i soli sentimenti rimasti comuni alla italica famiglia, è palese quanto sicura efficacia il fiorire della filosofia debba dimostrare in Italia a collegare gli Italiani condiscepoli nella scuola della verità, e a svolgere dai visceri della nazione quei due potentissimi germi di buoni ordini civili, a renderci altresì tutti consci che le menti nostre convengono nella medesima rettitudine, i nostri animi nella stessa credenza, la comune nostra ambizione nel fastigio del cristiano pontificato. Così ne uscirà la concordia degli Italiani dall' intima loro indole e natura, lo stesso vero, lo stesso Iddio intervenendo a mediatori; e quella sarà concordia di tempra saldissima e perenne, atta a progredire, a compirsi da sè medesima in ogni altra civile bisogna, incominciando questa santissima concordia colà stesso dove risiede l' uomo, dove l' uomo è signore, nella ragione, dove solo egli è nobilmente servo, nel culto del Creatore. La geometria e la fisica, coltivate dagli Italiani, di tanto amore non sono state più che un felicissimo tirocinio. E parmi che l' altissima Provvidenza tenesse così lunga pezza gli Italiani occupati esclusivamente nelle scienze matematiche e nelle fisiche, quasi in utilissimo tirocinio alle più elevate ed importanti, che sono le filosofiche e le civili, a cui pure mirabilmente apparecchiano gli ingegni quelle lettere ed arti belle, che invano c' invidiano le altre nazioni. Onde saviamente Platone ricusava le sue divine lezioni a quelli che nella geometria non gli venissero già ammaestrati; ed opportuno ornamento della filosofica scuola, corteggio della stessa filosofia, sono le grazie decenti di Socrate; le quali allora appaiono aggraziatissime e decentissime quando imparano a filosofare. Niuno dica che la logica delle scienze naturali sia una cotal arte loro propria, diversa da quella che addomandano le metafisiche, perocchè non vi è che una logica, una sola arte del pensiero, come una sola è la verità. Pel quale errore, appresso alcuni nostri valentissimi coltivatori delle scienze che chiamano rigorose, venne in dispregio la metafisica, quasi questa rifiutasse quell' esattissimo ragionare, che dalle scienze delle nude quantità non può quasi mai scompagnarsi. E non a torto la spregerebbero, se avessero ragione quei malavveduti, i quali, presumendo conoscere tutte le cose per via d' un cotale loro quasi divino afflato, mi diedero biasimo e mala voce dell' avere io desiderato che finalmente anche la filosofia italiana ubbidisse fedele nel suo procedere alle comuni leggi dell' umano pensiero, incominciando dalle osservazioni e dalla verificazione dei fatti, e di questi tessendo esattissimi raziocinŒ. Ma non posso io ricredermi perciò del metodo, direi quasi sperimentale, che io mi studiai raccomandare ai nostri, che a voler esser filosofi già incominciano, e che nelle filosofiche investigazioni, per quanto ho saputo, mantenni; nè io ne conosco un altro che metodo si possa appellare, poichè quel divino intuito dove ogni cosa, sì creata come increata, pare ad alcuni contemplare e immediatamente dalla voce stessa del nume raccogliere, io lo lascio assai volentieri ai sacerdoti degli antichi oracoli o agli ubbriachi dell' acqua di Aganippe, continuando a bramare che loro sia vietato severamente l' ingresso nel tempio della filosofia. Senza la qual legge gli Italiani non diventeranno mai filosofi, contenti di essere piuttosto naturalmente poeti. E però intitolai questo libro: « Leggi secondo le quali opera il principio razionale », pigliando anche qui ad imitare gli studiosi della natura, i quali, raccogliendo i fatti simili, notano accuratamente e sagacemente ciò che vi è d' identico in essi, e così discoprono i modi costanti dell' operare della causa spesso occulta, e li appellano leggi . Imperocchè quelle che essi chiamano leggi di natura non sono che identità e costanza di effetti, che appariscono nella reciproca azione e passione delle sostanze corporee componenti il mondo. I quali studiosi da ciò che negli effetti scorgono sempre eguali, ragionevolmente inducono il modo dell' operare; e quindi argomentando che la causa sia così formata, o naturata, o disposta, che ella non possa altramente che in quella guisa adoperare. La quale necessità di fare mai sempre allo stesso modo giustamente appellano legge, perchè « legge indica necessità determinante l' operazione », benchè quella necessità, a cui si dà tal nome, ora sia fisica ed ora morale. E prima s' impose quella parola alla necessità morale, di poi si trasportò alla fisica. Così noi dobbiamo fare nello studio delle operazioni e degli effetti dipendenti dalle cause invisibili e spirituali. La via dialettica del pensiero vuole essere la medesima: in prima diligentissimamente osservare e raccogliere le operazioni del principio razionale, di poi notarvi colla maggiore diligenza ciò che in esse apparisce identico; in appresso indurre la costante maniera dell' operare dalla causa; finalmente conchiudere che a questa immutabile costanza e uniformità di operazione deve rispondere una necessità, che obblighi la causa a conformare sempre in quella guisa le sue operazioni, la quale necessità, che legge si chiama, non può avere altrove radice che nella natura stessa della sostanza o causa operante; conciossiacchè la natura e la sostanza sono gli atti immutabili e immanenti rispetto alle azioni ed agli effetti loro passeggeri. Ma ora, posciachè le leggi che noi dobbiamo raccogliere saranno molte, affine di dare ordine al nostro lavoro ci converrà in prima considerarne i fonti principali, i principali elementi onde risultano le operazioni del principio razionale, sui quali cader deve la nostra osservazione; e questi elementi così accuratamente distinti già ci porgeranno una prima classificazione generale delle leggi, che ci proponiamo di ricercare. [...OMISSIS...] (1). Ora nella scuola jonia questo fu un gran passo, l' avere trovato Anassagora, ovvero Ermotimo, l' uno e l' altro di Clazomene, che l' intelletto doveva essere semplicissimo; ma, come osserva Aristotele, rimaneva ancora a discoprire in che modo l' intelletto conosca, rimaneva a trovare il mezzo del conoscere ed a spiegare, oltracciò, da quali cagioni l' intelletto al tutto semplice potesse essere mosso a conoscere specialmente il corporeo. Questi erano i quesiti di suprema importanza, e neppure Aristotele, nè alcuno antico potè rispondervi adeguatamente. Poichè, restringendoci al quesito che riguarda il mezzo di conoscere, Aristotele applicò allo spirito principŒ ontologici troppo angusti, non cavati dagli enti tutti, ma esclusivamente dall' ente materiale. Ora, come egli vide che nella natura materiale vi è una materia ed una forma, quella passiva e questa attiva, quella che diventa tutto, cioè tutti gli speciali enti corporei, questa che fa tutto, cioè che configurando la materia mette in essere quegli enti; credette che lo stesso dovesse valere altresì per ispiegare la costituzione dell' intelletto. [...OMISSIS...] . Così Aristotele accorda ad Anassagora che vi sia un intelletto non misto e immateriale; ma questo - dice - è la scienza stessa in atto , anteriormente al quale vi è nell' anima una cotal materia di tutte le cognizioni. E in tal guisa egli credeva aver superata la difficoltà mossa alla dottrina di Anassagora, che ammettendo un intelletto solo immateriale, non si potesse più spiegare come questo conoscesse, e onde fosse mosso a conoscere le cose materiali. Ma più osservazioni si hanno a fare sul ragionamento aristotelico: Primieramente quel ragionamento pecca contro le regole del buon metodo. Perocchè da principio suppone che nell' universa natura tutto sia composto di forma e di materia, senza dimostrare una proposizione così universale, ricorrendo all' esperienza e all' esperienza delle sole cose materiali. Di poi conchiude che così deve essere anche nell' anima, mentre avrebbe dovuto contentarsi di osservare se così è di fatto, senza imporre canoni preliminari alla natura dell' anima e leggi a priori, sempre arbitrarie e fallaci. Di poi dicendo che l' intelletto possibile diviene tutte le cose, cioè tutte le cognizioni, rende soggettive le cognizioni; le quali tutte non sarebbero più altro che l' anima stessa variamente modificata, e però sarebbero contingenti, ecc. come l' anima, meri sentimenti dell' anima, senza virtù di attestare un oggetto distinto dall' anima. Qualora poi le ultime parole si debbano tradurre con Michele Soffiano ed altri interpreti: « Idem autem est scientia, quae actu est, quod res ipsa », ne verrebbe che come tutte le notizie sono l' anima modificata e attuata, così tutte le cose sarebbero l' anima, che è il panpsichismo di molti filosofi tedeschi. Se l' intelletto agente è causa, efficienza, principio operante come opera l' arte o l' abito, in tal caso non è interamente in atto. Il nostro filosofo veniva bensì ad assegnare col suo intelletto possibile la causa materiale delle cognizioni, di cui Anassagora non aveva parlato, ma la causa efficiente7piena di esse, nè la causa istrumentale non la spiega a sufficienza col suo intelletto agente. L' abito ha bisogno di un eccitamento per uscire all' atto, specialmente se deve essere determinato a produrre dalla materia piuttosto una cosa che un' altra, per esempio, dalla pietra piuttosto la statua di Apollo che quella di Ercole. Così pure l' arte ha bisogno di strumenti per produrre la statua. Aristotele incontra sulla via la bella similitudine del lume, che avrebbe potuto raddrizzare i suoi pensieri, ma egli ne usa troppo male. Poichè i colori in potenza, che egli introduce, non sono colori, ed i colori in atto sono il lume stesso modificato e spezzato. Oltracciò, altro è l' occhio che vede, altro il lume che fa vedere; all' incontro l' intelletto, che è l' occhio, in Aristotele è confuso col lume che fa vedere, l' oggetto col soggetto . Questa grande distinzione, adunque, dell' oggetto e del soggetto è quella che mancò alla filosofia aristotelica, e quella sola che poteva compire ciò che aveva lasciato Anassagora da ricercarsi agli avvenire. Noi abbiamo dimostrato quale sia il lume della mente; abbiamo detto che questo lume è l' idea dell' essere , e questo il mezzo del conoscere . L' intelletto umano adunque, sebbene sia immisto, come lo voleva Anassagora, tuttavia ha una dualità, e così è tolta la difficoltà che Aristotele muoveva all' illustre filosofo di Clazomene, perchè gli è dato un mezzo di conoscere. Nello stesso tempo è dimostrata erronea la maniera con cui Aristotele credeva poterla vincere. E perchè si vedano le differenze fra la via da noi tenuta a superare quella difficoltà e l' aristotelica, si consideri: Che Aristotele, componendo l' anima intellettiva di una materia e di una forma a similitudine della natura materiale, la faceva risultare da due elementi, ciascuno dei quali era parte sostanziale dell' anima intellettiva, e più sostanziale ancora la forma che la materia; laddove noi non facciamo l' essere ideale parte sostanziale dell' anima, ma solamente oggetto che le si dà a vedere, e così la pone in atto ed in essere, senza confondere sè stesso con quella, lasciando solamente in quella la cognizione; onde l' anima intellettiva si rimane per noi del tutto immista, quantunque sia congiunta con altra cosa da sè diversa, che la illumina. Che Aristotele fa che l' anima risulti da una forma simile a quelle dell' essere reale, che è una realità anch' essa, è l' atto della realità; laddove noi diciamo che l' essere ideale informa bensì l' anima, ma in tutt' altro modo, conservando il suo proprio essere al tutto diverso da quello dell' anima, e solo dandosi all' anima a conoscere (1) e le forme o cause informanti di questo genere le chiamiamo oggettive ; colla loro presenza nello spirito, essendo essenzialmente lume, esse gli danno quell' atto d' intuizione che si potrebbe anche chiamare in qualche modo una forma soggettiva , nel quale aspetto le forme oggettive sono cause delle forme soggettive . Che Aristotele dà all' anima intellettiva qualche cosa, che risponde alla materia dei corpi, onde dice che diviene tutte le cose. Noi, nulla di ciò. L' anima rimane sempre principio semplicissimo. Ed ella non si compone propriamente di forma e di materia, ma di atto e di potenza; perocchè ella è atto prima di essere potenza; ed è potenza non per sè, ma pel cangiamento dei termini suoi, come abbiamo spiegato. Gli Aristotelici possono replicare: « Come in tal caso fate voi nascere le cognizioni speciali? ». Rispondiamo: l' anima razionale è quella che apprende l' ente; l' ente poi è ideale e reale . E` dato all' anima l' ente ideale per natura, e questa forma dell' ente è essenzialmente illimitata. Le è dato pure per natura un ente reale , limitato nel sentimento fondamentale animale , il quale è percepito da lei razionalmente, perchè compreso già al suo modo nell' ente ideale , che tutto comprende. Il rapporto fra l' ente reale7limitato e l' ente ideale7illimitato costituisce i concetti , ossia le idee speciali e le generiche. Ma nè l' ente ideale, nè l' ente reale dall' anima percepito per natura, è l' anima stessa; ma è cosa a lei congiunta per quella relazione sua propria, che chiamammo, per distinguerla da ogni altra, di razionalità . In tal modo le difficoltà aristoteliche affatto svaniscono, senza rompere perciò agli scogli, a cui ruppe il filosofo di Stagira. Costituita l' anima e dichiarata la possibilità del suo operare e del suo svilupparsi, abbiamo aperta la via a classificare acconciamente le leggi, che ella tiene nel suo operare. Poichè da due fonti sgorgano e quasi zampillano le attività di lei, come di ogni altro ente finito, cioè dal suo termine e dal principio; il termine poi è doppio, l' Ente ed il Mondo (il reale finito). Quindi tre radici delle leggi: l' Ente, il Mondo e l' attività propria del principio razionale. Le leggi adunque dell' operare del principio razionale rimangono da sè stesse classificate in tre nobilissimi generi, i quali sono quelli delle Leggi Ontologiche , delle Leggi Cosmologiche , e delle Leggi Psicologiche . Noi incominceremo dal ragionare delle leggi, che la natura dell' oggetto impone al principio razionale nel suo operare, cioè dalle Ontologiche, le quali non possono mancare giammai, qualunque sia l' ente intorno a cui versi come ad oggetto l' operare dell' anima. Ora poi, operando il principio razionale in due maniere, l' una speculativa che non produce effetto fuori della mente, l' altra pratica che produce effetto fuori della mente; si vogliono da noi considerare tanto le leggi ontologiche, che l' oggetto impone alla ragione speculativa, quanto quelle che egli impone alla ragione pratica. E prima è da considerare la suprema e generalissima, la quale è il principio di cognizione . Di vero tutte le altre leggi sono contenute e riassunte nel principio di cognizione, il quale si formula così: « « Il termine del pensiero è l' ente »(1) ». Il che viene a dire: « il pensiero è così fatto che ha per legge primitiva di sua natura di avere a termine l' ente, di modo che o ha l' ente a suo termine, ovvero non è ». L' ente, considerato sotto questo aspetto, è dunque la condizione a cui è legata l' esistenza del pensiero, che è l' operazione speculativa della ragione. Quindi procede che le qualità e le doti essenziali all' ente sono altrettante condizioni del pensare, e però altrettante leggi del pensiero; il che è quanto dire che ogni pensiero per esistere deve avere un termine, dotato di tutte quelle qualità e doti che ha l' ente. Ma qui si avverta che quando noi parliamo in generale di leggi del pensiero, non intendiamo che tali leggi debbano essere osservate da ogni atto speciale del pensiero, diviso da tutti gli altri suoi atti per opera di astrazione; ma consideriamo il pensiero complesso e totale, risultante dalla somma degli atti singoli e parziali, che in ciascun tempo agita l' uomo nella sua mente. A ragion d' esempio, l' uomo pensa una linea reale: questo è un atto particolare. Ma egli non può pensare una linea reale senza pensare una superficie, di cui ella sia termine. Se io dunque dicessi che è legge del pensiero, applicato all' estensione corporea, il dover pensare superfici o solidi, non mi si potrebbe opporre che egli pensa anche linee e punti, trovandoli per astrazione nelle superfici e nei solidi che percepisce; perchè l' atto speciale, col quale pensa il punto astratto o la linea astratta, non è un atto che stia da sè solo, ma è simultaneo e condizionato al pensiero della superficie o del solido, nel quale l' uomo vede la linea ed il punto; onde si avvera che nel complessivo pensiero dell' estensione corporea non manca la superficie od il solido, il che adempie la legge del pensiero. Laonde, quando noi diciamo esser legge del pensiero il cogliere l' ente colle qualità che lo costituiscono ente, non intendiamo che per astrazione non si possa pensare qualche qualità dell' ente divisa dall' altra, benchè da sè non possa stare; ma intendiamo che questo astratto non può essere pensato se non pensiamo prima l' ente, sapendo che egli appartiene all' ente ed è nell' ente; e però nel pensiero complessivo della mente umana si avvera che « l' ente è pensato colle essenziali sue condizioni », a segno tale che se all' uomo fosse dato dal senso un accidente dell' ente, per esempio, il colore e non più, l' anima per pensarlo vi deve ad ogni modo aggiungere la sostanza che non gli è data, appunto perchè l' accidente non sarebbe ente senza la detta sostanza, come abbiamo mostrato altrove (1). Questo vale a dileguare l' obbiezione contro il principio di cognizione, che potrebbe muoversi dal vedere che il pensiero astratto si ferma in accidenti, che, presi da sè soli, non hanno la proprietà dell' ente; il pensiero astratto è una parte del pensiero, non il pensiero intero; quello non istà mai solo nella mente, senza che questo in qualche modo vi sia pure. Ma noi dobbiamo ora aggiungere un' altra osservazione importantissima. Perocchè, avendo il pensiero molte specie di atti, non tutte apprendono l' ente allo stesso modo e colla stessa pienezza. A tal fine noi dobbiamo esporre più divisatamente l' efficacia del principio di cognizione nel dar forma alle umane intellezioni. Questa efficacia si può dunque risolvere nelle due seguenti proposizioni: « L' intendimento umano non può pensare cosa alcuna, che abbia proprietà contrarie a quelle che sono essenziali all' ente ». In virtù di questa legge lo spirito umano non può pensare che una cosa sia e non sia allo stesso tempo, perchè l' ente non ha in sè contraddizione. Il principio di contraddizione dunque, espresso dai greci così: [...OMISSIS...] , trae di qui l' origine. Taluno dirà: si pensa il nulla, si pensa la negazione. Ora il nulla è opposto all' ente, che dice qualche cosa; dunque non è necessario che l' ente sia sempre l' oggetto del pensiero. - Rispondo vero essere che il nulla è contrario all' ente; ma, se ben si considera, il nulla come nulla non si pensa, nè si può pensare. Quando dunque l' uomo pensa il nulla, egli veramente pensa una relazione dell' ente contingente, una relazione che l' ente ha col pensiero e con sè stesso, per la qual relazione si considera che l' ente o è, nel qual caso è pensabile, o non è, nel qual caso non è pensabile. Ora il non è altro non significa se non due atti combinati nel pensiero stesso, coll' uno dei quali si pensa l' ente, coll' altro si toglie via l' ente, e col torlo via si abolisce l' oggetto del pensiero. Ora poi che il nulla pensato non sia propriamente il nulla, ma una relazione dell' ente, ciascuno si potrà persuadere considerando i tanti ragionamenti che fanno i matematici intorno al nulla, e le diverse specie di nulla che essi stabiliscono, come dichiarò assai sottilmente Giuseppe Torelli nel suo bel libro De nihilo geometrico . Lo stesso si può rilevare dalle maniere di parlare degli ascetici, le quali sono tutt' altro che false, quando dicono, a ragion d' esempio, che l' uomo è un nulla, che tutto è nulla fuor di Dio. Una persona spirituale soleva fare questa orazione: « Mio Dio, io sono un nulla peccatore, deh fate che io diventi un nulla innocente! ». Io trovo di mirabile verità ed esattezza questa orazione, nella quale ben si vede che il nulla, di cui in essa si parla, non è il puro nulla, il quale non è capace di colpa o di innocenza, ma bensì una relazione dell' uomo, che è nulla da sè stesso senza il Creatore, perchè senza il Creatore egli cessa di essere. « L' intendimento umano benchè abbia sempre per oggetto l' ente, tuttavia non è necessitato a pensare in egual modo tutte le proprietà dell' ente, ma alcune è obbligato a pensarle attualmente, altre poi virtualmente. Queste egli è obbligato a non negarle, lasciando a sè stesso aperta la via di farne ricerca. Ciò che deve pensare attualmente è l' essenza ideale ; le proprietà poi e le relazioni, che appartengono all' ente come reale, e che sono virtualmente comprese nell' ideale, benchè necessarie alla costituzione dell' ente stesso pensato, l' intendimento umano non è obbligato per legge del suo pensiero a considerarle attualmente, ma solo a non negarle, rimanendogli esse materia a successiva investigazione ». La qual legge importantissima rende possibili le diverse maniere di intellezione proprie dell' uomo, e a ciascuna di esse assegna sue leggi speciali. Vediamo a quali leggi ontologiche ciascuna maniera d' intellezione ubbidisca. Le maniere principali delle intellezioni umane sono: 1 l' intuizione; 2 la percezione; 3 la riflessione, la quale si esercita per via di astrazione e per via d' integrazione, onde ella si divide in: a ) riflessione astraente, b ) riflessione integrante. L' intuizione avendo per oggetto l' ente ideale, vedesi che questo atto del pensiero si stende all' ente, in quanto è nella sua forma ideale, prescindendo al tutto dalle altre due forme, la realità e la moralità. Ora qui si deve considerare un principio ontologico di non lieve momento, ed è che « quantunque l' ente sia in tre modi, tuttavia in ciascuno di essi è compiuto, perchè ciascuno abbraccia tutto l' ente alla sua guisa ». Onde l' intuizione abbraccia tutto l' ente, e non può dirsi che ad un atto, che si riferisce a tutto l' ente, manchi nulla di ciò che esige il pensiero, conciossiacchè il pensiero non esige altro se non di avere per suo oggetto l' ente. Di più essendo l' ente sotto la forma ideale semplice ed impartibile, sotto questa forma egli non può essere dato all' intendimento che tutto o niente . All' incontro l' ente sotto la forma reale, essendo partibile e moltiplicabile, può essergli dato parzialmente, nel qual caso non può essere pensato solo, perchè mancante di una sua parte, non ente compiuto (1). Ma posto che l' intendimento umano abbia già tutto l' ente nella forma ideale, a lui non manca più l' oggetto compiuto ed intero, che gli è necessario, posto il quale, possono essere pensate anche le parti del reale; poichè queste non tolgono l' ente ideale, ma solo aggiungono qualche altro termine al pensiero. Il pensiero adunque è possibile tosto che è a lui dato tutto l' ente sotto la forma ideale, e perciò noi dicemmo che l' essere ideale è quello che forma il pensiero, e costituisce la potenza di pensare. A spiegare dunque la percezione , che è quell' operazione del principio razionale che apprende l' ente reale , uopo è che preceda l' intuizione dell' essere ideale, lume e mezzo di conoscere ogni reale. Questo vero non è veduto che da quelli che meditano profondamente la natura della percezione. Molti si persuadono che quando l' uomo percepisce un reale, per esempio un corpo, l' oggetto del suo percepire sia un particolare e non più; non arrivano mai a sciogliere l' oggetto percepito nei suoi elementi della possibilità e della realità , della idea , in cui si vede l' essenza conoscibile del corpo, e dell' apprensione contemporanea, colla quale se ne afferma la realità. Chi vuol vedere quanto sia vero che la mente nostra non percepisce un corpo senza recarsi col suo atto in entrambi quegli elementi, domandi a sè stesso: so io quello che ho percepito? Risponderà: io lo so; fu un corpo rotondo, di grandezza pari a una melagrana, giallo, lucido, duro, una palla d' avorio. Tale è il concetto del corpo che ho percepito. - Ma in questo concetto, badi egli bene, si acclude la sussistenza del corpo? - No, perchè fino a tanto che io penso unicamente questo concetto del corpo, quale viene espresso nella definizione che ne ho data, io non so ancora per questo solo che egli sussista - Dunque, io conchiudo, il sapere che quel corpo sussiste realmente è cosa diversa dall' averne il concetto. Ma colla percezione si acquistano entrambe queste due cognizioni, quella del concetto e quella della sussistenza reale del corpo. Dunque ogni percezione è duplice, risultante da due atti dello spirito, i quali si fanno ad un tempo, e sono l' intuizione del concetto e la persuasione della sussistenza; nè si può andare persuasi che una cosa esiste se non se ne ha il concetto, di maniera che nell' ordine logico il concetto precede alla persuasione che sussista ciò che nel concetto e pel concetto si conosce. Un' altra maniera di convincersi della stessa verità si è il considerare che di ogni cosa contingente che io percepisca, ne conosco subito la possibilità; di maniera che interrogato: « la tal cosa è ella possibile? » io tosto rispondo: « e come no? ella esiste, dunque è possibile ». Ora come so io che ciò che esiste è possibile? dove tolgo io il concetto della possibilità? Non lo derivo certo da altro che dal concetto che ho della cosa; perocchè il concetto mi dà notizia dell' essenza conoscibile della cosa, ma non mi dice che ella sussista; dunque, io concludo, la cosa contemplata nel suo concetto potrebbe tanto sussistere, quanto non sussistere; dunque per sapere se ella sussiste, mi bisogna qualche altro indizio, e nella percezione questo indizio è il senso di essa. La possibilità s' acchiude nel concetto puro della cosa, in quanto che quel concetto non la dimostra necessariamente sussistente. Ora questo concetto è l' essere ideale della cosa. Se nella percezione adunque io non pensassi l' essere ideale della cosa, non ne conoscerei la possibilità. L' origine dunque del pensiero della possibilità suppone che in ogni percezione oltre la realità della cosa percepita, io ne intuisca il concetto ideale (1). Ma che è il concetto ideale di un ente? Non altro che il concetto universale dell' essere, limitato e determinato dall' azione della cosa in noi, cioè dal sentimento che la cosa in noi produce. Perocchè, quando io dico: « il concetto di una palla d' avorio », dico nè più nè meno: « il concetto di un essere determinato dalle qualità sensibili di quella palla ». Ogni percezione adunque di un ente racchiude l' intuizione dell' essere ideale di lui, ed ogni essere ideale suppone l' intuizione dell' essere ideale indeterminato ed universale . Dunque la percezione non può spiegarsi, se non si suppone che l' anima intuisca prima di tutto l' essere ideale per sè stesso. Di che ancora si scorge come l' oggetto della percezione, benchè sia un reale limitato, tuttavia è ancora l' ente, senza che niente gli manchi di quanto gli è essenziale, come vuole il principio di cognizione. Se il reale limitato si separasse dall' ideale, egli non avrebbe più tutte le condizioni e qualità di ente, perchè da sè solo non può esistere, non ha in sè la ragione della propria esistenza, anzi dividendolo dall' ideale, lo si divide dalla propria essenza. Ma quando il reale è unito all' ideale, allora egli ha ricevuto la sua essenza ed è ente completo; perciò può essere percepito. Rimane tuttavia a chiarire come la percezione sia così limitata. Perchè non si percepisce addirittura tutta la realità? qual' è la ragione, per la quale l' intendimento nella percezione apprende questa parte della realità dell' ente, ed esclude ogni altra? - Rispondo che la porzione del reale che si percepisce, non è presa ad arbitrio dall' intendimento, ma gli è somministrata dal sentimento. I sentimenti individuali sono divisi per modo che ciò che è nell' uno, non è nell' altro, e sono fra di loro incomunicabili. Il principio razionale rimane dunque nella percezione limitato dal sentimento; il che lo diamo come un fatto innegabile, spettando alla Teosofia investigarne la ragione. Ma se anche l' ente reale per sè stesso è illimitato, percependolo limitato, mancherà sempre qualche qualità essenziale o necessaria all' ente reale; e se l' ente reale limitato non ha con sè la ragione per cui sussiste, si potrà egli concepire sussistente? - Tutto ciò che gli manca è già supposto ed ammesso virtualmente e indistintamente nell' essere ideale, che con esso lui si congiunge, e in questo trova la sua essenza; ciò che gli manca di realità per essere completo nel pensiero che si fa di lui, non viene escluso, ma lasciato indietro, quasi direi, come fanno i matematici nello scrivere una serie indefinita, che, dopo scritti alcuni termini, pongono un eccetera, col quale non esprimono ciò che manca, ma lo indicano e lo suppongono. Così nella percezione dell' ente reale limitato non sono negate, ma lasciate in cifra quelle condizioni che sono indispensabili alla sua sussistenza, quelle relazioni o essenziali o almeno necessarie, che egli ha con altri enti limitati o coll' illimitato; il che diviene poscia materia, come dicemmo, della riflessione ontologica e teosofica. Quindi si confuta l' errore di quei filosofi panideisti , i quali pretendono che l' uomo nella sua prima intellezione debba percepire tutto ciò che poscia trova colla riflessione; essi non distinguono acconciamente fra l' essere ideale e l' essere reale, li confondono insieme, e pretendono che anche Tutto il Reale cada nella prima naturale intellezione, e quindi in ogni percezione, quando il vero si è che non ci cade se non Tutto l' Ideale , al quale confrontandosi poi il reale limitato e parziale, la riflessione trova ciò che gli manca (1). Esponiamo ora dunque la legge della riflessione. La riflessione è quella facoltà che ritorna sulla percezione o sul suo oggetto, ed astrae od integra. In quanto alla riflessione astraente conviene distinguere tre accidenti: 1) Vi è un' astrazione simulata, che non è propriamente altro che percezione imperfetta, e trova il suo fondamento nell' imperfezione del senso; questo accidente ha ingannato gli Aristotelici condotti ad attribuire al senso l' universale, quasi un suo accidente. 2) Vi è un' astrazione che altro non fa se non dividere la parte ideale dalla parte reale dell' oggetto della percezione, la quale chiamasi universalizzazione , e si fa talora naturalmente senz' atto positivo, cessando l' atto dell' affermazione, e perdendosene la memoria (1). 3) Vi è finalmente un' astrazione che si esercita sull' idea della cosa, e solo di conseguente sul reale in quanto corrisponde all' idea (forma realizzata). Con essa si limita l' attenzione ad una parte dell' ente concepito e percepito, senza però abolire nella mente le altre parti, a cui soltanto non si dà attenzione. Parliamo del primo accidente. - Gli Aristotelici avevano osservato che le nozioni dei bambini e dei rozzi sono assai generali. Osservarono pure che un oggetto, presentato in distanza all' organo sensorio, occulta alcune sue differenze; per esempio, un uomo fermo in lontananza non si distingue da una colonna, non apprendendo il senso le parti minori, che differenziano l' uomo. Quindi conchiusero che il senso presentava prima le qualità più comuni e poi le proprie; e che l' intelletto seguace al senso, prima concepiva l' universale e poscia il particolare. Questa era un' illusione sensistica; ma era almeno un' illusione sottile ben più di tante altre che presero i moderni, un' illusione che caratterizza l' indole dell' ingegno aristotelico. Parmi prezzo dell' opera che io qui la esponga colle parole di un italiano filosofo, professore dell' Università Padovana nel cinquecento, il Zimara. Agitando la questione « qual sia il primo cognito », egli dice così: [...OMISSIS...] L' illusione sensistica, che qui si contiene, nasce da questo, che i sensisti tutti parlano sempre delle cose sentite7cognite e non delle meramente sentite; onde in ciò che cade sotto il senso trovano il comune ed il proprio, e non esitano a dire che gli enti sensibili hanno degli accidenti universali e comuni, più e meno. All' incontro, dove non si voglia ingannarsi, conviene prendere il sentito e spogliarlo di tutto ciò che gli ebbe aggiunto l' atto di conoscere e di percepire; ed allora non ci resta più niente di universale e di comune, parole che esprimono unicamente la relazione che ha il sentito colle idee; non ci resta più che il particolare. Onde nel senso è tanto particolare il tutto, quanto la parte, tanto l' animale, quanto l' uomo. E sia che l' occhio veda l' oggetto lontano e confuso, in cui non distingua parti, sia che lo veda vicino con distinzione di parti, altro egli non ha mai che una sensazione particolare, nel primo caso una sensazione diversa che nel secondo, ma sempre una sensazione. E` la ragione quella che confronta i due sentiti, quando li ha già appresi, quando sono divenuti cogniti, contenuti e misurati nell' idea; e in questi sentiti7cogniti si può certamente trovare la parte comune e la parte propria, e vedere che alla prima sensazione risponde il comune ed alla seconda anche il proprio. Ora che la cosa proceda così si può provare con più argomenti, oltre al principale dell' osservare e contemplare la cosa in sè stessa. Eccone alcuni in aggiunta a quelli che abbiamo dati altrove (2). Il senso in un oggetto vicino non percepisce prima il tutto e poscia le parti, ma il tutto colle sue parti ad un tempo; perocchè nella visione e nell' immagine di un uomo sono tutte le parti dell' uomo. E pure il principio razionale pone attenzione prima al tutto che alle parti, ed ha bisogno di speciale attenzione a ben percepire le parti di cui il tutto risulta. Dunque è proprietà dell' attenzione razionale di abbracciare prima il tutto, e poscia le parti. Così i bambini, che danno a tutti gli uomini il nome di padre, e a tutte le femmine quello di madre, percepiscono benissimo col senso le immagini distinte degli uomini, che loro si danno a vedere, e meglio anche degli adulti per la finezza dei loro sensi; ma tuttavia la loro attenzione razionale da prima si appiglia a ciò che hanno di comune gli uomini, trascurando il resto che pure hanno percepito col senso egualmente; onde pare che non l' abbiano sentito, quando è solo che colla mente non lo considerano. Il bambino fissa la sua attenzione alle qualità sensibili più comuni, benchè senta anche le altre, coll' aiuto dei vocaboli, che sono lo strumento della ragione e non del senso. Che se egli non acquistasse cotesto istrumento del pensiero, pel quale egli può fissare l' elemento comune trascurando il resto, non arriverebbe mai ad eseguire tale astrazione. Il che è così vero che gli stessi Aristotelici ebbero sottilmente osservato che se vi sono nei sensibili delle note comuni ed universali, che non sieno segnate con un vocabolo, il bambino non vi si ferma, e tali universali innominati non sono già per lui più noti o noti prima dei particolari. Dalla quale bella osservazione, tutta all' uopo nostro, quei filosofi non cavarono il lume che avrebbero potuto. [...OMISSIS...] ; il che si attribuisce dagli Aristotelici al fare tali generi meno impressione nel senso, ma questo non lo provano, e spesso non è; quando è d' altra parte manifesto che non furono quei generi nominati, perchè meno necessari alla vita umana, e però non essendo contrassegnati di vocabolo, difficilmente si prendono coll' intelletto. E` falso che nel bambino vi sia quell' astrazione che gli Aristotelici e i sensisti tutti suppongono; l' astrazione succede alle prime operazioni del bambino, quando prende a riflettere. L' astrarre è un dividere il comune, che si chiama astratto , dal proprio. Lungi che il bambino colla sua prima operazione divida e astragga, anzi unisce e sintetizza, cioè unisce l' universalissimo, l' idea dell' essere, al concreto che cade sotto i suoi sensi. Infatti le parole paternità, maternità, umanità, che esprimono astratti, sono inintelligibili per molto tempo al bambino. Nè le parole padre e madre significano per lui il comune, l' astratto, ma primieramente gli individui reali da lui percepiti, che udì connotare di tali nomi; ed è un errore il credere che queste parole significhino al bambino quello che a noi. Ora, a percepire tali individui egli dovette unirvi l' universale che ha in sè; onde l' oggetto significato da tali parole, benchè particolare, è associato all' universale, nel quale è veduto dalla mente. Quando poi ai sensi del bambino appariscono altri uomini, egli non si ferma colla sua mente a notare le differenze che pure esistono nella sensazione, ma o li prende per quelli stessi di prima, e perciò dà loro gli stessi nomi, i più facili a scorrergli sulle labbra; ovvero dà loro gli stessi nomi, perchè a quei nomi ha legato il pensiero di certe qualità più apparenti, che hanno fermata la sua attenzione nei primi uomini e nelle prime donne da lui conosciute; onde poniamo, per modo d' esempio, che nei primi uomini la sua attenzione abbia fissata la barba, e nelle prime donne la cuffia; quando egli vede un uomo lo chiama padre per voler dire « quell' ente che ha la barba »; e quando vede una donna, la chiama madre, per voler dire « quella donna che ha la cuffia »; e lo stesso vale, se si prende a scopo fisso dell' attenzione bimbesca, in luogo di un segno così speciale, la conformazione generale e totale del corpo dell' uomo e della donna. Egli, in questo supposto, dice padre « quell' ente che ha quella configurazione totale maschile, trascurate le minute differenze »; e dice madre « quell' ente che ha quella configurazione totale femminile, trascurate le minute differenze »; nè conosce ancora il vero significato di padre o di madre. Qui non vi è astrazione se non apparente, ma vi è sintesi, perchè: 1 vi è l' unione dell' ente ideale con quella configurazione sensibile, o con quella marca sensibile più appariscente; 2 vi è la determinazione di un individuo, di un ente mediante quella configurazione o quella marca, che serve di segno a distinguerlo dagli altri. - Ma, si dice, questa configurazione o marca sensibile è comune. - No, si risponde, a principio pel bambino non è comune, è un sentito particolare, che prende a segno e connotato dell' ente, e che perciò restringe all' attenzione e determina l' universale, non lo forma. Ora colla stessa marca si contrassegnano più individui successivamente con atti particolari dello spirito; solamente in appresso, mediante la riflessione, quando la mente indotta dal bisogno che ne ha, osserva anche le differenze più speciali, allora discopre che quella marca , che da principio le servì di mezzo a restringere e particolarizzare l' universale, e a nominare gli individui, è ella stessa comune ed universale, considerata in relazione con quelle differenze, delle quali, dopo averle percepite, si serve a restringere e particolarizzare di nuovo quegli enti che hanno tutti quella marca , venendo così cotal marca ravvisata per comune a molti individui. Onde è falsa, è apparente l' astrazione primitiva, che i sensisti attribuiscono al senso, quasi che questo percepisca il comune, e la ragione si pigli tosto bell' e fatto il comune dal senso. Veniamo al secondo accidente dell' astrazione, che è l' universalizzazione. Quella maniera di astrazione, che propriamente ha il nome di universalizzazione , non fa che scomporre la percezione intellettiva, ponendo da una parte l' essere ideale , dall' altra il sentito, ossia il reale . Dove nasce questa difficoltà: « Il reale se si considera nella sua pienezza, reale infinito, è al tutto indivisibile rispetto a sè dall' ideale, perchè l' uno e l' altro non sono che un solo essere; se poi si parla del reale finito e contingente, il reale diviso dall' ideale non è ente compiuto, e quindi è inescogitabile. Come dunque l' astrazione può dividerli? ». Si risponde che il reale infinito, non essendo dato all' uomo, quando l' uomo astrae l' ideale e lo separa dal reale infinito per via d' un giudizio, crede di fare quello che non fa, crede di dividere quello che non divide, giacchè in tal caso l' oggetto della sua riflessione astraente non è il vero reale infinito, ma è un concetto negativo ed analogico, che nella mente umana tien luogo del reale infinito. All' incontro un comprensore celeste che apprende il reale infinito, non si proverebbe giammai a separare con un giudizio astrattivo l' ideale dal reale, come un uomo non tenterebbe mai colla sua mente di fare un assurdo, se lo conoscesse per assurdo. Con che rimane confutata la dottrina dei pseudomistici, i quali pretendono che l' oggetto dell' intuito naturale dell' uomo sia Dio stesso, che contiene la realità infinita, ma poscia per via di astrazione da quel reale infinito l' uomo tragga l' essere ideale; sistema che, oltre a contraddire al senso comune, involge molti altri assurdi e conseguenze sovvertitrici del Cristianesimo. Tuttavia per non uscire qui dalla confutazione diretta, che accennavamo della predetta setta dei pseudomistici, è da considerare primieramente il fatto che l' uomo, sia per via d' astrazione, sia in altro modo, intuisce effettivamente l' ideale senza il reale (fatto neppur negato dagli avversari). Ora se l' uomo vedesse per natura il reale assoluto ed infinito, cioè Iddio, dovrebbe vedere insieme due cose: 1 che l' ideale è nel seno del reale; 2 che il considerarlo per via di un giudizio come separato dal reale è assurdo. Ma è manifesto che l' uomo, com' è al presente, non vede quest' assurdo, e però pensa all' ideale senza pensare al reale, senza trovare in ciò alcuno inconveniente; il che dimostra che egli non apprende per natura il reale assoluto, come vogliono quei pseudomistici. Vero è che l' ideale è per sè concepibile, perchè racchiude tutto l' essere, benchè sotto una sola forma; ma altra è la ragione per la quale s' intuisce l' ideale, altra è la ragione per la quale lo si pensa e giudica solo e staccato dal reale, senza trovarci assurdo; la ragione perchè si concepisce l' ideale è che esso ha tutto ciò che si esige per essere concepibile; la ragione perchè si può pensare e giudicare solo, senza accorgersi dell' assurdo che vi è nell' ammetterlo così solitario, si è che non si apprende il reale infinito, e quindi neppure il nesso necessario e d' identità che ha coll' ideale, e però l' assurdo rimane celato. Quanto poi al reale finito, all' universalizzazione che si esercita sull' oggetto finito della percezione, è da avvertirsi che, dividendosi quest' oggetto nei suoi due elementi: 1 l' ideale, 2 il reale finito; solo il primo di esso rimane concepibile perchè ente, ma il secondo rimane inconcepito, rimane un mero sentito; con tale divisione è disfatto l' oggetto reale, non rimane più che il reale senza la condizione di oggetto; ed è un' illusione il credere che il reale si concepisca a parte, perocchè se ci sforziamo di concepirlo a parte, pure col concepirlo l' abbiamo mescolato e legato coll' idea, che lo completa come ente; e quindi è falso che lo concepiamo a parte. Ma come ne parliamo adunque? come parliamo di lui unito e separato? - Noi parliamo di lui unito all' idea e lo vediamo altresì separabile, cioè annullantesi quale oggetto di cognizione, perchè intendiamo che egli non è l' idea; e questa cognizione negativa basta a poterne parlare, senza che ci sia necessario perciò di concepirlo come un oggetto della conoscenza attualmente separato. Possiamo anche intendere che separato egli non è ente compiuto, e questa è ancora una cognizione negativa, che non ha bisogno per aversi di percezione o di concezione positiva. Le quali cognizioni negative noi le prendiamo contemplando il reale nell' idea e all' idea paragonandolo, perocchè la separabilità di ciò che pensiamo unito è pensabile, come è pensabile l' annullamento di un oggetto pensato. Terzo accidente dell' astrazione - Astrazione propriamente detta. Finalmente il terzo accidente della riflessione astraente, che merita il proprio nome di astrazione, è quando noi, riflettendo sopra qualche concetto, separiamo in esso più elementi o relazioni; per esempio, quando noi dal concetto di un ente finito astraiamo la sostanza dall' accidente, o l' accidente dalla sostanza, ecc.. I prodotti di questa astrazione, l' accidente, poniamo, o la sostanza, presi in separato l' uno dall' altro, non sono enti, e però non possono essere oggetti del pensiero, ma parti di enti, ossia enti imperfetti (entità). Come dunque si pensano? Non col pensiero complesso, ma col pensiero parziale, con quella maniera di astrazione che si esercita sull' idea, tali parti od elementi non si dividono intieramente dal concetto, ma nel concetto stesso si contemplano, restringendo a ciascuno di essi una speciale attenzione dello spirito. Ma nello spirito il concetto intero, su cui si riflette, rimane; e la sua unità e semplicità è quella che rende possibile il considerare ciascuna parte; di maniera che se allo spirito fosse tolto il concetto intero, le sue parti pure sarebbero tolte, e lo spirito non potrebbe più affissare nell' una o nell' altra di esse la sua attenzione, perchè non sarebbero. L' atto dunque di questa maniera di astrazione non può trovarsi solo nello spirito; egli non è un pensiero intero e compiuto, per dirlo di nuovo, ma è parte di un pensiero, che conviene ravvisarsi nel suo tutto; l' ente è l' oggetto del pensiero complessivo, non d' una parte del pensiero o d' un atto speciale che si aggiunge necessariamente ad un altro, perchè questo atto speciale, non stando da sè, non è da sè solo pensiero. Vero è che l' uomo, quando ha posto attenzione a qualche parte elementare dell' ente, che vede nell' idea, e la ha contrassegnata con un vocabolo, allora se la cangia spesso in un vero ente; ma questo è ancora una sua illusione, un errore che egli prende, perchè ad un elemento, che non è ente, egli aggiunge arbitrariamente col suo pensiero ciò che gli manca senza pure accorgersene, come faceva, a ragion d' esempio, Hume, quando pretendeva che l' universo potesse essere composto d' accidenti; nel che era necessitato a tramutare gli accidenti in sostanze, senza volerlo nè saperlo (1). La quale illusione accade spessissimo, onde gli uomini cangiano in enti le astrazioni, le personificano, ecc.. E quindi un' altra classe di errori, quando, applicando tali astratti agli enti reali, immaginano che anche in questi enti sia diviso e separato quello che è diviso nell' astrazione. Abbiamo poi dimostrato che questa maniera di astrazione ha le sue proprie leggi venienti dall' idea dell' essere, ond' è che questa idea necessariamente precede tutte le astrazioni, perchè le dirige (2); e però ella non può essere formata coll' astrazione. E` un nuovo argomento che distrugge l' errore dei sensisti , come pure quello dei pseudomistici loro confratelli; i primi dei quali si danno a credere che l' idea dell' essere si possa cavare per astrazione dai sentiti reali; i secondi poi, con maggiore assurdo, pretendono che si cavi dall' essere reale assoluto, intuìto per natura dallo spirito umano. I quali ultimi non considerano che l' astrazione, di cui parliamo, non si esercita che sull' idea sola, e però l' idea deve aversi prima nell' ordine logico; nè considerano che l' idea dell' essere è quella che dirige l' astrazione nelle sue operazioni, senza la qual direzione ella s' andrebbe a caso contro il fatto. Che se ricorressero alla seconda maniera di astrarre, noi l' abbiamo esclusa di sopra. Ritengasi adunque: Che l' intendimento percepisce le realità finite, che non sono enti per sè sole compiuti, nell' essere ideale che dà loro il compimento. Che egli non apprende tuttavia attualmente le loro relazioni essenziali o necessarie coll' essere reale compiuto; ma senza negarle le lascia da parte come un' appendice da svolgersi poscia. E questo svolgimento è appunto l' opera, che fa la riflessione sopravveniente. Ella ritorna sul reale percepito e lo raffronta coll' essere ideale, che è il tipo di ogni realità; quindi discopre ciò che manca al reale conosciuto per via di percezione; per esempio, ella rileva che è contingente e che ha una relazione col necessario, trova che è limitato e che non potrebbe essere se non vi fosse un illimitato, ecc., e così via dicendo (1). Come dunque la riflessione astraente confronta le idee degli enti fra loro per fissare il più comune, applicando i risultati di questo confronto agli enti stessi, così la riflessione integrante confronta le idee degli enti coll' idea dell' essere in universale, e trova le relazioni ontologiche, cioè le relazioni che gli enti finiti tengono colla essenza dell' essere stesso. Nel sistema dei pseudomistici questa operazione integrante della riflessione è abolita; perocchè essi pretendono che la riflessione non iscopra mai niente di nuovo, essendo data all' uomo la pienezza dell' essere reale nel suo naturale intuito, onde per essi non può restare altra riflessione che l' astraente. Ma questo si oppone al senso comune ed alla coscienza di ciascheduno, perocchè ciascuno ben sa che colla riflessione si discoprono nuove verità, e così crescono le scienze; al che fare non è uopo, come quei filosofi falsamente pretendono, che quelle verità siano già nell' oggetto dell' intuito, ma basta che l' oggetto dell' intuito sia l' essere ideale, il quale, contenendo tutto l' essere a suo modo, è regola universale a giudicare del reale, conoscerne l' ordine e le relazioni, e trovare ciò che gli manca al compimento; perocchè da questi giudizi intorno al reale nascono le cognizioni acquisite e le scienze tutte. Questo arbitrario e stravagante sistema, che dal buon senno degli Italiani sarà, io credo, sempre ripulso, muove da due supposizioni false egualmente: 1 l' una che non possa essere oggetto della mente l' ente sotto la sola sua forma ideale; il che si oppone evidentemente al fatto, giacchè la mente che pensa ad un ente possibile , non ha una necessità al mondo di pensare insieme alla sua realità; 2 l' altra che senza che la mente apprendesse il reale assoluto, la riflessione non potrebbe trovare le verità scientifiche intorno agli esseri determinati e reali; il che pure è falso, perchè, come provammo, nell' essere ideale ella ha già la regola suprema per tutti i giudizi circa i reali sentiti, essendo anche i reali virtualmente (e però nel modo ideale) compresi nell' ideale. Ignorano altresì costoro che il reale è nel sentimento, e l' uomo non lo percepisce se non riportandolo all' idea; ed aggiungono a loro pro certi ragionamenti teologici, che ben dimostrano in teologia non veder essi più addentro che in filosofia (1). Esposta così la legge universale e suprema dell' umano pensiero, la quale dice: « l' ente è il termine essenziale del pensiero », ed applicata alle diverse maniere d' intellezioni, è uopo che ne deriviamo le leggi speciali. Il che facilmente ci verrà fatto considerando quali siano le speciali doti dell' ente, ciascuna delle quali imprime un carattere proprio alla cognizione umana per forma, che contribuisce non poco a farcene intendere l' intima natura, per quanto al bisogno nostro è richiesto. Ora le precipue qualità dell' ente (e ad esse noi ci restringiamo) sono che: 1 è oggetto, 2 è possibile; 3 è atto primo; 4 è uno; 5 è durevole; 6 è finito o infinito. Da ciascuna di queste qualità procede una legge speciale, che determina la natura dell' atto cogitativo. Cominciamo dal considerare la prima, che si enuncia così: « il termine del pensiero è l' oggetto ». Si crede comunemente che tutte le potenze abbiano un oggetto; il vero però si è che tutte hanno un termine , e il solo intendimento ha un oggetto. Ma l' uomo intende tutto e non parla se non di quello che intende; quindi egli cangia i termini delle potenze in altrettanti oggetti, pur solo col pensarli, col percepirli; i termini adunque delle potenze non intellettive si chiamano oggetti posteriormente, in quanto sono in relazione col pensiero. Vediamo che voglia dire essere oggetto . Il termine d' una potenza è oggetto, quando esso è così in sè stesso che non riceve nessuna modificazione, nè passiva nè attiva, dalla potenza a cui è termine; e l' atto della potenza lo contiene, e per questo solo ella se ne arricchisce e ne cava suo pro, senza punto, come si diceva, modificarlo (1). Di più, la potenza per avere un oggetto deve essere tale che ella possegga quel suo termine per ciò che è in sè stesso, e non per ciò che opera in lei. Sono adunque tre le condizioni dell' oggetto: 1 è immodificabile e tuttavia unito in un modo suo proprio alla potenza; 2 si unisce e comunica in modo che l' effetto di questa unione e comunicazione non è che la potenza apprenda l' azione di lui, ma apprenda lui stesso e se ne giovi; 3 la potenza che lo apprende, non apprende con lui sè stessa, ma lui solo; onde egli resta sempre separato dalla potenza in virtù dell' atto stesso dell' unione e dell' apprensione, il quale atto lo oppone anzi alla potenza, di che gli viene il nome di obiectum . Queste tre condizioni sublimissime non si riscontrano in nessuno dei termini delle altre potenze, ma solo in quello dell' intendimento, che è l' ente. Poichè i termini di tutte le altre potenze: 1 sono passivi da esse e ricevono modificazioni; 2 sono anche attivi e producono modificazioni nella potenza; onde ciò che riceve la potenza non è che l' azione di un ente, non l' ente stesso; 3 talora sono le modificazioni di essa potenza; per esempio, le sensazioni, termini del sentire, non sono altro che le modificazioni del sentimento fondamentale; 4 si uniscono colla potenza in modo da confondersi con essa, di cui diventano o una cotal continuazione, o un' attualità, ecc.; e però non rimangono separati da essa nell' atto dell' unione, nè ad essa contrapposti, ma la potenza, apprendendo il suo termine, apprende in pari tempo sè stessa modificata, e quindi non lascia sè stessa per applicarsi tutta a cosa diversa da sè. Ora se ben si considera, si vedrà che l' oggettività è condizione così essenziale dell' ente che, in quanto non è oggetto, non è ente, tutt' al più sarà un rudimento dell' ente concepito per astrazione, non possibile ad esistere tutto solo. E veramente si attenda bene che cosa contenga il concetto di ente . Il concetto di ente non contiene alcuna relazione di un ente con un altro, anzi la esclude come un soprappiù; dice la cosa in sè , non la cosa agente in un' altra . Ma la cosa è in sè , solo a condizione che sia in una mente; perocchè se si parla di corpo non concepito da alcuna mente, quel corpo non ha questa condizione di essere in sè qualche cosa, perchè non ha alcuna suità. Lo stesso è a dirsi di un essere meramente sensitivo, a cui manca il sè . L' essere dunque in sè non è altro che l' essere concepito assolutamente e senza relazione ad altro da un intelletto. E quando a noi pare che le cose abbiano questa assoluta esistenza, benchè non sieno da noi concepite, cadiamo in una cotale illusione trascendentale. Noi supponiamo che non sieno concepite nell' atto stesso che le concepiamo e ne ragioniamo; onde parliamo senz' accorgerci di cose concepite in sè, le quali certamente esistono in sè, senza bisogno di altri atti avvertiti da parte nostra per concepirle, perchè basta che si presentino al nostro pensiero per avere adempita la condizione dell' essere in una mente. Ma non diremo mai che enti, che noi realmente non concepiamo, nè immaginiamo che alcun' altra mente li concepisca, enti insomma affatto sconosciuti da ogni mente siano enti compiuti, siano qualche cosa in sè stessi. L' oggettività dunque è una proprietà o relazione essenziale dell' ente. Di che nasce la conseguenza che il dire che l' oggettività è una relazione essenziale dell' ente riesce al medesimo che il dire che l' ente è per sua essenza conoscibile, ossia che anche l' intelligibilità è proprietà necessaria dell' ente; di maniera che quegli enti, che non si conoscono per sè stessi ed hanno bisogno per essere conosciuti di un mezzo di conoscere, neppure sono pienamente enti; ma hanno bisogno per essere tali di venire completati e ultimati dall' unione dell' ente per essenza, dell' ente per sè intelligibile, unione che, quasi in talamo, si fa nella mente. Infatti l' oggettività non si trova che negli enti, in quanto sono presenti alla mente; dunque l' oggettività e l' intelligibilità riescono ad un medesimo concetto, dicono lo stesso sotto due rispetti; sicchè quando si dice oggetto, dicesi ente in sè stesso inteso; quando si dice intelligibilità dicesi la proprietà che ha l' ente di essere inteso, divisa per astrazione. Aristotele in più luoghi viene a dire che l' ente per sè considerato è la prima cosa intesa, senza la quale non può intendersi le altre; dei quali luoghi noi accenneremo solo il quarto libro dei Metafisici. Qui egli insegna che [...OMISSIS...] . Di qui un sottile dissidio fra gli Aristotelici, i quali, convenendo tutti che l' ente era il primo intelligibile, attaccarono poi gran briga per sapere se questa intelligibilità convenisse all' ente come ente, ovvero all' ente in quanto è in atto, che a loro pareva un genere speciale di ente. Il nobile filosofo italiano che abbiamo più sopra citato, Marco Antonio Zimara (nome oscuro per un' antica vergogna e calamità dell' italica terra) così dichiara questa sentenza: [...OMISSIS...] . Un errore sta in queste ultime parole che la materia considerata in sè e solitariamente sia ente. Nè Aristotele, nè alcuno ch' io sappia degli antichi, conobbe la dottrina degli enti imperfetti (.), che sta in gran parte nella legge ontologica del sintesismo , per la quale gli enti finiti si appoggiano l' uno all' altro e si sorreggono, cosicchè divisi e separati coll' astrazione si annullano, non sono più enti propriamente parlando; e quel resto di ente, che diviene oggetto dell' astrazione, si può chiamare tutt' al più ente imperfetto , il quale è come in via ad essere ente, completandosi e rendendosi possibile realmente, quando gli si aggiunge l' altro ente a cui si appoggia. Così la materia è ente, considerata come termine del principio senziente; separata da questo, è un rudimento di ente, il quale nella realità è nulla, perchè impossibile ad esistere così; e nella mente pure è ente imperfetto , attesochè, sebbene la mente le dia un compimento senza il quale non potrebbe essere pensata, sopravviene l' astrazione che le spoglia quella veste non sua per considerare la materia nuda, senza però che resti nuda anche nel pensiero complesso. Onde quando si dice ente , si dice già atto , e non si dà ente che sia mera potenza; la quale, come abbiamo veduto innanzi, è piuttosto un che negativo, e perciò un non ente anzichè un ente. Quindi dalla legge dell' oggettività emana la legge del sintesismo; perocchè se l' oggetto si unisce al soggetto in modo che, lungi dal confondersi con esso lui, per l' atto stesso dell' unirsi a lui si divide e si pone per quello che è in sè, suscitando nel soggetto medesimo un atto, che non determina nel soggetto, ma nell' oggetto, procede quindi che il soggetto e l' oggetto sieno uniti in modo così correlativo che la loro unione riesca essenziale ad entrambi (1), li costituisca entrambi, e tuttavia in modo così distinto che l' uno è non solo separato dall' altro, ma all' altro opposto. Ignorata questa legge dagli antichi (2), essi rovinarono in speculazioni inestricabili ed in gravissimi errori. Dall' ignorazione di essa ricevette rincalzo l' «hen to on kai pan» di Parmenide, come si deduce da un luogo del dialogo, che Platone intitolò del nome di quel grandissimo italiano. Perocchè in esso s' introduce Socrate, che muove obbiezioni al sistema di Parmenide, « « tutte le cose essere un solo ente ». » Avendo dunque Socrate conceduto che la specie è una per molti individui, sosteneva tuttavia che queste specie fossero distinte dagli individui e fra loro, e però fossero enti per sè. Parmenide toglie a mostrargli gli assurdi che verrebbero da questa supposizione, «ean tis hos eide onta kath' heauta diorizetai», e dice che il massimo degli inconvenienti sarebbe che in tal caso riuscirebbe difficilissimo il provare che le specie si possano conoscere, e per esse si possano far conoscere gli individui, «all' apithanos an eie ho agnosta auta anankazon einai». A provar questo Parmenide si fa concedere da Socrate che ogni essenza che esiste per sé , «kath' hauten usian», non può essere in noi, «en hemin». Ottenuta questa concessione, egli conchiude che esse specie ci sono ignote, perocchè noi non ne siamo partecipi: «uk ara hupo ghe hemon ghignosketai ton eidon uden epeide autes epistemes u metechomen». Ora se Socrate avesse conosciuta la legge del sintesismo, non avrebbe mai accordato a Parmenide che le specie per essere qualche cosa in sè, non potevano essere in noi. Anzi avrebbe dovuto stabilire che la specie intellettiva, da non confondersi coll' immagine, è l' essere stesso sotto la forma ideale, il quale è così in sè che non può non essere in sè, nè da noi riceve nulla; e tuttavia può essere da noi intuìto appunto in sè, come è e non altrimenti, e però noi ne siamo partecipi, e in questo senso è in noi. L' argomento prova che la specie deve essere a noi unita, se dobbiamo intuirla e di essa far uso a conoscere altre cose; ma non prova l' impossibilità che sia da noi intuita, rimanendo un essere di altra natura e condizione della nostra. Il che certo ne verrebbe, qualora fosse provato che ciò che è in noi debba essere una parte o modificazione di noi stessi; ma questo è anzi gratuito e falso. Vedesi dunque che l' errore di Parmenide venne da quello stesso principio arbitrario, onde i moderni cavano il loro soggettivismo; ma il grande pensatore di Elea andava colla sua logica mente assai più in là, traendo per conseguenza che tutte le cose dovevano essere un solo ente. E che questa argomentazione, che Platone mette in bocca di Parmenide, sia veramente di questo nostro pensatore, scorgesi dai versi che di lui si sono conservati, nei quali appunto, per dare una spiegazione acconcia della cognizione, dice che il conoscere e l' essere sono la medesima cosa: [...OMISSIS...] , e ancora, secondo la traduzione del Karsten: [...OMISSIS...] i quali luoghi possono non leggermente illustrare il brano da noi toccato del Parmenide di Platone. Oltre di ciò Parmenide vuol provare a Socrate che colle specie, se loro si dà un' esistenza in sè e si distinguono fra loro, non si possono conoscere le cose anche per un altro argomento. Egli si fa accordare che ciò che esiste in sè non può essere rappresentativo delle cose, perchè l' esistere in sè non è relativo ad altro, ma è un' esistenza chiusa in sè stessa. Onde ricava che neppure Dio conoscerebbe le cose umane, nè avrebbe virtù di governarle, e l' arte stessa del disputare si annienterebbe, se si dovessero conoscere le cose con tali specie, ciascuna delle quali avesse un' essenza propria e distinta dalla cosa. I quali conseguenti vedendo, alcuni - continua Parmenide - vacillano e dubitano che le idee non sieno, perchè inetti a spiegare con esse la cognizione il che appunto è quello che avvenne modernamente alla scuola Scozzese, che negò le idee; e noi abbiamo esposto, forse anche con più efficacia, l' inutilità delle idee, qualora si pretenda che esse non facciano altro ufficio che di esseri rappresentativi, e le cose tutte si conoscano per via di rappresentazione (2). Ma perciò appunto questo è falso, perchè nell' idea non si vede già l' essenza dell' idea, ma quella dell' ente; e l' ente è identico sotto la forma ideale e sotto la forma reale. Onde l' idea altro non è per noi se non l' essere intuìto dalla mente (3) nella sua propria essenza, la quale è eterna; ma questa essenza ora comprende la realizzazione dell' essere, e allora è l' essere infinito, Iddio che non si vede; ora poi non comprende la sua realizzazione, e allora è l' essere ideale , al quale si rapporta la realizzazione che col sentimento apprendiamo. Onde la cosa reale conosciuta altro non è che l' essere ideale realizzato, sicchè l' oggetto del conoscere in tal caso risulta dai due elementi sopra descritti: 1 l' ideale, 2 il reale; questo compimento di quello. L' ideale adunque è rappresentativo non già come una cosa reale, per esempio, come la figura di una statua rappresenta un' altra figura, il personaggio di cui è la statua; ma come l' essenza di una cosa rappresenta la cosa realizzata; la qual cosa realizzata non si disgiunge dalla sua essenza, nel qual caso non sarebbe un ente compiuto. L' essenza dunque è l' atto pel quale l' ente è nel mondo ideale; la realizzazione è un altro atto dello stesso ente pel quale egli è nel sentimento, cioè sente o fa sentire, che gli si aggiunge nello spirito percipiente come suo finimento; dove si consideri sempre che l' esistenza nello spirito non toglie l' esistenza in sè, anzi la costituisce. Possibile in senso logico significa privo di contraddizione. Ora l' ente non ammette contraddizione alcuna. Da questa proprietà dell' ente di essere essenzialmente concorde e consentaneo seco stesso, procede il principio di contraddizione che « l' essere e il non essere insieme non è essere ». Ora se « l' essere e il non essere insieme non è essere », dunque non si può pensare, perchè l' oggetto del pensiero è l' essere. In questo senso la possibilità logica costituisce la pensabilità delle cose. Ma volendo conoscere se un ente, o reale o ideale, può avere contraddizione nel suo seno, dove riguardiamo noi? Nella sua essenza. Ora l' essenza dell' ente si vede nell' idea. Se dunque la possibilità dell' ente è ciò che lo rende pensabile, e se la possibilità, ossia immunità da contraddizione, trovasi nell' idea, viene confermato quel vero, che abbiamo di sopra stabilito, con un nuovo ed invitto argomento, cioè che niente si pensa senza l' idea; il che non vuol dire che ogni pensiero umano si faccia colla sola idea, come alcuni disattenti ci hanno attribuito. Nella percezione razionale adunque, nella quale pensiamo un reale, non è la sola realità che forma l' oggetto del nostro pensiero, ma l' idealità altresì; dunque ogni percezione ha un elemento ideale ed uno reale. Il sensismo adunque che si ferma al reale, nè altro riconosce che questo per oggetto del pensiero, è un sistema erroneo, mancante di filosofica perspicacia, tale che rende impossibile il pensiero, lo esclude pur col volerlo stabilire. Di più, se la possibilità è la pensabilità, e la pensabilità sta nell' idea, dunque se i reali si dividono dall' idea, non sono più pensabili; nè l' idea può venire da essi, appunto perchè essi non sono nell' intendimento, se non in virtù della stessa idea. Ancora, se il reale non riceve la pensabilità se non dall' idea alla quale nello spirito umano è unito, dunque il reale per sè solo, diviso dall' idea, non è oggetto della mente. Mostrano adunque di essere assai poco innanzi nelle filosofiche investigazioni coloro che, riputando l' ideale per un nulla, pretendono che la mente umana non avrebbe un vero oggetto, se non avesse per suo termine un reale! Anzi è appunto vero il contrario; la sola essenza dell' ente, che è l' essere ideale, è oggetto; non vi è oggetto fuori di essa o senza di essa; il reale deve essere oggettivato , cioè completato nell' idea, nell' essenza, acciocchè si possa pensare. Essere oggetto, essere pensabile, essere intelligibile per sè stesso, sono pressochè sinonimi; dunque l' intelligibile per sè stesso è il solo essere ideale , e l' essere reale è intelligibile per partecipazione . A questo principio vi è una sola eccezione, benchè neppure essa sia propriamente eccezione; Iddio anche nella sua realità è intelligibile per sè stesso. Ora questo accade, perchè nella sua stessa essenza ideale si comprende la sussistenza; onde non si può avverare il caso che la sussistenza, ossia realità, sia scompagnata in Dio dall' idealità. E` dunque un gravissimo e perniciosissimo errore il dire che Dio è un' idea, o anche che è l' idea , vocabolo che nella lingua degli uomini non significa realità, quando Iddio è anzi Realissimo . E perchè gli uomini usano così la parola idea? perchè inventarono questa parola ideale in opposizione di reale? Perchè non avendo essi per natura la visione dell' essere realissimo, non hanno esperienza alcuna del nesso necessario fra l' essere ideale e l' essere reale compiuto; e però non possono che argomentare un tal nesso per via di raziocinio. L' invenzione adunque della parola idea, e il suo uso costante, abbatte l' errore di quelli che accordano all' uomo l' intùito di Dio stesso nella presente vita. Ma onde poi la parola possibile? Abbiamo detto che in senso logico equivale a ciò che non involge contraddizione. Ma neppure Iddio involge contraddizione. Si dirà dunque che Iddio è possibile? L' esservi una cotal ripugnanza a dire che Iddio è possibile dimostra che nella parola possibile, oltre l' assenza della contraddizione, si associa un altro concetto. Tanto Iddio, quanto la creatura, non involge contraddizione; ma l' essenza divina è tale che, oltre non involgere contraddizione, ne è anche necessaria la realità. Nell' essenza all' incontro della creatura manca la necessità della sussistenza, onde si può concepire senza bisogno che nel concetto si racchiuda la realità. Quindi rispetto alla realità dell' essere contingente si dice che è possibile, cioè che « può essere realizzato, perchè la sua essenza non involge contraddizione ». Con questa aggiunta si compie il concetto del possibile; la possibilità logica è dunque la ragione della possibilità metafisica . Quindi avviene ancora che tutto si possa oggettivare, ossia idealizzare; perchè tutto ciò che non è necessario e che non involge contraddizione si concepisce come possibile. Non vi è dunque cosa che in questo senso non abbia un' idea a sè opposta. L' individuo si può considerare come possibile; la sussistenza del pari; questo è quanto dire considerarla in rapporto colla sua idea, coll' essenza di cui è una realizzazione. Considerare come possibile è universalizzare. Non si universalizzano però le cose tutte allo stesso modo. Perocchè, come abbiamo veduto che la parola possibile si prende in due significati, nel significato meramente logico , l' essenza di una cosa che non involge contraddizione, e nel significato metafisico , la suscettività che ha quell' essenza ad essere realizzata; così è da dirsi dell' universalizzare. Nella semplice essenza talora non vi è universalità, come accade in quelle cose che per loro essenza sono uniche: l' essenza dell' individuo, dell' uno, dell' io, del sussistente, ecc., racchiude la particolarità e l' unicità; e però l' individuo, l' uno, l' io, il sussistente non possono essere che unici. Ma se si considera la possibilità che sussistano molti io, molti uni, molti individui, molti sussistenti, ecc., tutte queste cose vengono universalizzate per via della possibilità , ma non della possibilità logica, sì della possibilità metafisica. Si opporrà: « Non corrispondono tutte queste cose moltiplicate ad una sola essenza, all' essenza dell' io, dell' individuo, ecc.? E se corrispondono ad una sola essenza, non è per l' essenza che vengono universalizzate? ». Noi neghiamo che ciascuna di queste cose rispondano ad una sola essenza. Di fatti l' essenza d' un io, d' un individuo, ecc., non è l' essenza d' un altro io, d' un altro individuo, ecc.; ma l' essenza d' un io non ha nulla che appartenga all' essenza d' un altro io, consistendo appunto in questo l' indole del sussistente di non aver nulla di comune con un altro sussistente. Ciò che fa parere il contrario si è che si confonde la natura , di cui il sussistente partecipa, collo stesso sussistente . La natura è comune , ma la stessa sussistenza è singolare . Ora si replica: se molti io convengono nell' essere io, nell' avere la suità , dunque hanno qualche cosa di comune. - E bene, replichiamo anche noi, che la suità è un' essenza comune, ma non è l' essenza di nessun io, ecc.. - In tal caso l' io non ha essenza. - Appunto l' io come io non ha essenza ideale, perchè egli è un reale, un sussistente. Quindi l' universalizzazione, che interviene quando si concepiscono molti io, dipende dall' astrazione, che costituisce un' essenza generica , mancando la specifica . Quando adunque si ha una universalizzazione fondata nella possibilità metafisica , la quale dipende dall' esistenza di una volontà, causa efficiente, e non da un' idea, causa esemplare; allora l' universalizzazione si riferisce ad un' essenza generica , che non rappresenta compiutamente l' ente di cui si tratta, ma solo una parte di lui, venendo l' altra parte prodotta immediatamente dall' efficacia della volontà. Così l' idea generica dell' io è l' idea della natura umana, in quanto la causa efficiente può farla sussistere in più individui, senza che rappresenti l' individuo stesso, che ella fa realmente sussistere. E qui nasce la questione: « Come si possa conoscere se una data essenza possa essere realizzata in più individui, ovvero in uno solo ». A cui si risponde che questo quesito non si può risolvere, se non considerando l' essenza stessa di cui si tratta. Perocchè è l' essenza della cosa quella che o esclude, o ammette la molteplicità maggiore o minore degli individui. Così l' essenza di Dio, come pure l' essenza della materia, esclude la molteplicità degli individui: l' essenza di Dio, perchè è l' essere stesso, e l' essere è uno e semplicissimo; l' essenza della materia, perchè essendo il termine esteso del sentimento, ella non ha altra essenza ideale che generica, che la esprime tutta e non in parte; onde rimane escluso da essa l' individuo. Così quando si dice acqua , si esprime tutta la natura dell' acqua; la qual natura perciò è semplice, come la stessa essenza reale, alla quale il suo concetto viene ristretto. Allo stesso modo vi potrebbero essere delle essenze che determinassero un certo numero d' individui; benchè tutti gli enti a noi conosciuti per essenza specifica non ammettano limiti nel numero metafisicamente possibile dei loro individui, non si può tuttavia dimostrare assurdo che qualche essenza a noi sconosciuta ne ammettesse, come ne ammette l' essenza di un ordine qualsiasi risultante da più cose finite. Noi parliamo sempre del pensiero umano, intero, complesso. Quindi la indicata legge viene a dire che « il pensiero non può avere a suo termine solamente atti secondi, senza che questi sieno accompagnati dal pensiero degli atti primi onde provengono ». Coll' astrazione si possono pensare gli atti secondi separandoli dai primi; ma l' astrazione non è il pensiero complesso, anzi non è possibile l' astrazione, se prima non è nella mente ciò su cui l' astrazione si esercita, nè l' astrazione caccia via il pensiero onde nacque; se io dunque divido coll' astrazione gli atti secondi dagli atti primi, anche gli atti primi rimangono tuttavia nella mente, entrano nel complesso del pensiero anche se ad essi io non ponga quella viva attenzione che dò all' astratto; è l' attenzione che si restringe a una parte del pensiero, non è il pensiero stesso che cessi. La ragione per la quale non si può pensare nulla se prima non si pensa un atto primo, si è perchè il termine del pensiero è l' ente, e l' ente è costituito sempre da un atto primo. Se si osserva e si guarda direttamente negli enti per vedere come essi sono internamenti costituiti, si trova che certi enti hanno l' essenza anteriore e distinta dalla loro sussistenza, certi hanno la sussistenza per atto primo ed originale; e come quelli sono molti e contingenti, così di questi non ve ne è che uno e necessario. Ma dove la sussistenza medesima è l' atto primo, è chiaro che quell' ente non si può concepire se non si percepisce la sussistenza, nè pensare senza di questa. Indi è che Iddio non si può pensare solo idealmente e come possibile, come si possono pensare le cose contingenti; ma o egli si pensa sussistente, o non è Dio quel che si pensa. Laonde chi dicesse l' essere ideale , che informa la ragione nostra, essere Dio, cadrebbe in gravissimo errore, conducente al razionalismo, al pseudomisticismo e a molte altre assurdità mostruose. Quanto agli enti contingenti, avendo essi la loro essenza separata, che nell' idea si manifesta, e non potendosi pensare cosa alcuna scompagnata dalla sua essenza; quindi una nuova dimostrazione della verità spesso da noi annunciata e ancora sì poco intesa, che l' ente reale contingente non si può percepire dall' intendimento se non mediante l' idea e nell' idea; la quale idea non può essere data dalla sensazione, perchè la sensazione è appunto quella entità reale che si tratta di percepire e di conoscere. Dopo di ciò, colla sola idea non si percepisce il reale, perchè l' idea contenendo la pura essenza dell' ente, e questa rimanendo così separata dalla realità o sussistenza, nulla è ancora inteso di questa finchè altro non s' intuisce che l' essenza nell' idea. Ora la sussistenza si apprende, nel modo detto, col sentimento, l' apprensione razionale e l' affermazione. Ma come anche qui ha luogo il principio che nulla si può conoscere, se non si conosce l' atto primo della cosa conosciuta? Nella realità propriamente non è l' atto primo , perchè, come vedemmo, questo atto appartiene all' essenza. Quindi accade che lo spirito nella percezione e nell' universalizzazione assuma come atto primo quello che contrassegna con un vocabolo, e a cui si ferma l' attenzione; e consideri come atti secondi quelli che accadono alla cosa contrassegnata col vocabolo e presa come subbietto della definizione e scopo dell' attenzione, e che sono fuori degli elementi raccolti nel vocabolo, o nella definizione, o nell' oggetto dell' attenzione astraente. E così lo spirito si forma la cognizione delle cose reali e delle loro essenze conoscibili, determinandole e limitandole, come dicevo, da ciò che prima percepisce col sentimento (1). Ma oltre di ciò nel sentimento stesso lo spirito intelligente trova un ordine, giacchè: 1 egli non può percepire certe qualità sensibili senza altre; per esempio, non può percepire il colore o la forma senza l' estensione; 2 alcune di queste sono precedenti, e come condizioni rimanendo immutate, ed altre condizionate mutandosi; per esempio, l' estensione è precedente, e il colore che può mutarsi, rimanendo quella immutata, susseguente. Allorquando le cose si vedono così connesse e dipendenti, si prende la prima condizione o qualità, quella che è logicamente anteriore alle altre, e lei si considera come atto primo, e in relazione colle altre, già unita all' essenza, si chiama sostanza. Nei corpi la forza sensibile o sensifera è questo atto primo, senza il quale le altre qualità corporee non si possono sentire. Onde anche nella sfera della realità vi è il suo atto primo; ma questo è un atto ipotetico, perchè relativo alla sensitività stessa, come abbiamo già detto parlando della percezione. Ora quando l' intendimento concepisce l' essenza d' un ente atto ad essere percepito, cioè che ha tutte le condizioni per essere termine della percezione di cui abbiamo parlato, allora coll' astrazione questo ente si spezza e si trova l' atto primo che si chiama sostanza, senza il quale non si può percepire il resto. Ma questo stesso ordine che è nella realità, si riflette nell' essenza ideale, che da questa relazione col reale si attua agli occhi dello spirito nostro e determina; ed è in questa che si conosce. A percepire adunque un reale contingente è necessario: Che non manchi l' essenza, la quale s' intuisce nell' idea, perchè l' essenza è atto primo rispetto alla realizzazione. Che non manchi l' atto primo della realità stessa, perchè senza questo atto la realità non può cadere nel sentimento e acquistare un nome; avvertendosi però che l' atto primo della realità, a cui è condizionato il sentimento, è ipotetico, cioè viene considerato da noi come tale; ed è anche tale, ma solo in relazione al sentito, non in relazione a tutto l' essere. Un' altra proprietà dell' ente è di essere uno. Se non fosse uno, non sarebbe ente; quindi l' uno è necessario che sia sempre nell' oggetto del pensiero, poichè altrimenti non vi sarebbe l' ente; quindi l' ente è sempre un individuo, e non si può pensare l' ente col pensare intero e complesso senza attribuirgli una individualità. Infatti onde l' idea di uno o di unità? Ella è data coll' idea di ente, e dall' ente si cava per via di astrazione (1); senza l' ente niuna idea possibile, coll' ente l' idea di uno è tosto nella mente. Quindi gli Scolastici dissero che l' uno e l' ente si convertono (1); e gli antichi filosofi, massime i Pitagorici, presero l' uno a significare l' ente in astratto, senza determinare in esso altra cosa; e peccarono in questo, che dissero molte cose dell' astratto, che è ente incompleto, le quali non si potevano dire che dell' ente completo. Questo è il vero fonte degli errori del pitagorismo. Gli Scolastici dissero ancora: [...OMISSIS...] . Proposero inoltre la questione: « se la mente poteva intendere più cose insieme », e risposero di sì, ma a condizione che essa le pensi per modum unius , riconoscendo la necessità che l' uno entri sempre nell' oggetto del pensiero. Gli antichissimi filosofi poi, onde trasse Platone, non sapendo trovare nel corpo unità, perchè questa unità la volevano cercare nella materia, cioè nel corpo disunito dal principio senziente, e quindi divisibile all' infinito, senza poter mai venire ad un primo esteso, che avesse l' unità e non la potesse più perdere per ulteriore divisione, negarono al corpo l' essere un ente e il poter essere oggetto di scienza; lo cangiarono così in un fenomeno, che il volgo prende per un ente, ma che la filosofia prende per una larva; insomma caddero nell' idealismo, o per dir meglio posero quei principŒ ontologici, onde poi venne l' idealismo platonico. Ma noi abbiamo trovata l' unità del corpo nella relazione essenziale , che esso ha col principio senziente; e convenendo anche noi che, diviso da questo principio, il sentito ed il sensifero più non si concepisce, dicemmo però che questa necessità che ha di essere in relazione col principio senziente non toglie punto la sua realità; ma dimostra solamente che per sua natura esso deve essere unito al detto principio senziente, del quale riceve la perfetta continuità, e quindi l' unità che gli bisogna per essere ente (1). Dall' essere uno l' ente ne viene: Che egli sia intra sè armonico e consentaneo, escludendo ogni contraddizione o pugna; il che lo rende possibile logicamente, come dicevamo, onde altro non esprime il principio di contraddizione che l' unità e la consentaneità dell' ente seco medesimo. La quale immunità da ogni contraddizione e pugna intrinseca nell' ente fu contemplata dagli antichi, e Parmenide l' espresse in quel verso conservatoci da Clemente Alessandrino: [...OMISSIS...] . Che l' ente sia semplice per modo tale che se gli manca qualche cosa di ciò che lo costituisce ente, egli già per questo solo non è più. Il che pure vide Parmenide, ed è espresso in quel verso riportato da Teodoreto [...OMISSIS...] . Ed è per questo appunto che noi traendo fuori le principali proprietà dell' ente, ne induciamo altrettante condizioni e leggi del pensiero. Ma ciò che non vide il nostro antenato Parmenide si fu che vi è qualche cosa che può dirsi ente in via , quando si stacca dalle sue relazioni essenziali , come abbiamo detto, della materia, ecc.. Che essendo l' ente semplice, egli è immune dallo spazio e dal tempo, e costituisce quello che io chiamo il mondo metafisico ; il che pure vide Parmenide, e l' accennò in quel verso che si trova negli Stromi di Clemente, e che dice: [...OMISSIS...] . Noi abbiamo già veduto che l' istante altro non è che il principio od il termine di ciò che dura (sia poi un ente o atto di un ente). Dunque l' istante non si dà, se non si dà la durata; l' istante non si concepisce se non come il limite di questa, e però in questa; a quella guisa che il punto matematico è il termine di una linea, e però si concepisce solo nella linea e per la linea. Il credere che possa darsi un ente che esista per un solo istante, è un' illusione volgare di quelli che non si sono formati il giusto concetto dell' istante. L' istante non avendo alcuna durata affatto, l' ente supposto sarebbe un ente che nulla affatto durerebbe; e ciò che nulla affatto dura, non è ente. Questa è una rilevantissima verità, osservata dalle scuole italiane della Magna Grecia e dedotta dal principio di cognizione. Vediamo come e a quai litigi essa abbia dato cagione. Parmenide espresse distintamente « il principio di cognizione »in questo verso, conservatoci da Simplicio e da Proclo: [...OMISSIS...] e in quell' altro frammento, conservatoci pure da Simplicio: [...OMISSIS...] Il quale è un principio così evidente, così patentemente consentito dal senso comune che non si poteva impugnare se non da una scolastica corrottissima. Adunque i primi e più celebri nostri filosofi nazionali posero a salda base della loro filosofia il principio di cognizione . Ma quando vennero all' applicazione, scontrarono dei nodi difficilissimi. Intesero che se l' ente è la sola cosa pensabile, conveniva investigare la qualità e le condizioni dell' ente per sapere se una cosa espressa in una proposizione era pensabile o no; il che è quanto dire se ella era o non era, se la proposizione diceva qualche cosa ovvero nulla, se fosse un' apparenza ciò che si credeva di pensare o una verità. Ora, fra le prime proprietà dell' ente ben videro che vi erano queste due, l' unità e la durata; onde conchiusero che ciò che non è uno e che non dura , era nulla, nè poteva essere oggetto del pensiero. Ma restringendoci ora alla durata , avendo dell' uno brevemente parlato più sopra, si trovavano tosto uscire ad una conseguenza ripugnante al senso comune. Perocchè non era ancora stabilito il concetto filosofico del moto, quale noi l' abbiamo dato, e però veniva ammesso, e dal volgo passava senza esame nelle scuole, il concetto volgare di esso, che suppone il moto farsi senza interruzione e per continua mutazione, a cagione che le interruzioni brevissime, che lo rendono intermittente, sfuggono, almeno fino ad ora, ad ogni osservazione sensibile, e però non potevano venire neppure in sospetto al volgo, che si attiene all' apparenza dei sensi, nè tampoco cadeva in sospetto ai filosofi, che non avevano ancora per virtù di riflessione trovato cagione di sospettarne. Solamente più tardi si negò il moto per l' imbarazzo che arrecava ai sistemi filosofici; il che era già qualche cosa, ma non soddisfacente al bisogno, perocchè non bastava a spiegare l' apparenza del moto continuo, che era pure innegabile; onde parve una stravaganza ingegnosa anzichè una verità consentanea alla natura; e Aristotele tolse a confutare gli argomenti dell' acuto Zenone invece d' intendere che essi abbattevano solo la continuità del moto, e ciò indubitabilmente, non il moto stesso secondo il suo vero concetto. Ora questa terribile difficoltà, che « se qualche cosa cangiava continuamente stato, niuno dei suoi stati avendo durata di sorte alcuna, non poteva essere concepita, nè essere ente », fu quella che mise quel perpetuo tumulto fra i pensatori, che scompigliò tutto il campo della filosofia, e non ritornò la pace se non colla morte della filosofia stessa, quando per la barbarie dei tempi le scuole filosofiche ammutolirono. Gli Ionici antichi, limitati allo studio della natura, non levatisi ancora alle regioni metafisiche, ignoravano cotanta difficoltà, onde in luogo di trovar difficile la concezione del moto continuo, anzi supposero che nel moto continuo dovesse consistere la vita e l' intelligenza. Aristotele attribuisce questa rozza sentenza a Talete, e dopo di lui a Diogene, ad Eraclito e ad Alcmeone in questo passo: [...OMISSIS...] . Ma dai primi Ionici ai loro seguaci è da fare gran divario; perocchè i seguenti, per esempio Eraclito, compatriotta di Talete, aveva già udita l' opposizione che al moto continuo facevano i metafisici italiani; onde vedendo da una parte la difficoltà di ammettere che ciò che si muove sia un ente, e non sapendo rinunziare all' opinione ionia che tutto si muova, divenne oscurissimo nei suoi parlari a segno di venire soprannominato «skoteinos». Egli ammise, adunque, che tutte le cose erano nel confine dell' ente e del non ente, si facevano e si disfacevano continuamente, come apparisce da queste due sentenze di lui, conservateci nel libro Delle allegorie d' Omero di Eraclide Pontico; l' una: [...OMISSIS...] : il che sembra voler dire che gli uomini, sciogliendosi nei loro principŒ, si convertono in Dei e così fanno la vita degli Dei, che sono i principŒ, e divenendo uomini, acquistando la vita umana, fanno la morte degli Dei, perchè cessano di essere principŒ. L' altra: [...OMISSIS...] ; il che allude al trascorrimento perpetuo delle cose supposto da questo filosofo ( «rhoe»). Dove si vede manifestamente che il sistema di Hegel, che pone per principio il divenire, fu derivato apertamente dal siamo e non siamo del tenebroso Eraclito. E poichè il siamo e non siamo è una contraddizione, il che ripugna all' ente, riesce necessariamente alla distruzione dell' ente, facendo il nulla origine dell' ente; al quale pazzo ed assurdo sistema, se sistema si vuol nominare, nei tempi nostri non disacconciamente fu posto nome di Nullismo (1). Ora a tutti questi assurdi, che distruggono col pensiero l' universo, come pervenne la mente dei filosofanti? - Partendo da due concetti volgari, da due pregiudizi indegni della filosofia, cioè 1 dall' opinione della continuità del moto; 2 dal sensismo. Infatti è facile vedere ciò che l' esperienza attesta, che tutti i corpi si muovono. Se dunque: 1 tutti i corpi si muovono e niente sta fermo; 2 se questo moto è continuo; 3 se niente si conosce se non pel senso, e quindi non altri enti cadono sotto la nostra percezione e cognizione se non i corpi pel principio del sensismo; dunque tutti gli enti a noi noti sono in continua mutazione, e niuno dei loro stati ha durata alcuna. Dunque non sono , ma continuamente diventano . Ma ciò che diventa , ancora non è; dunque non sono enti nell' universo . Ecco il nullismo hegeliano, che ha il pregio d' una buona logica nel dedurre le conseguenze, e il difetto di una volgarità plebea nel ricevere senza esame i falsi principŒ su cui si appoggia. Ora, che tutto il mondo corporeo sia in movimento è ammesso dai moderni fisici, e a persuadersene non è necessario per avventura di leggere il libro di Boyle contro il riposo assoluto. Ma quello che a me sembra strano si è che quel grande ingegno e infaticabile di Leibnizio abbia potuto ammettere la continuità del moto, senza punto nè poco adombrarsi delle difficoltà invincibili che ella involge, nè pur travedere le pessime conseguenze che ella adduce; il che credo io avvenutogli per quella viva fantasia che gli somministrava sì pronte ipotesi, per vaghezza delle quali e per la foga con cui le abbracciava, trasaltava sovente qualche anello nella serie dei suoi ragionamenti (2). Ma per tornare alle disputazioni degli antichi filosofi, essi navigavano fra due scogli. Il dire che le cose fossero in mutazione continua era sentenza che, sospinta dalla logica invincibile di Parmenide quasi da vento impetuoso, rompevasi allo scoglio di un manifestissimo assurdo, qual era quello che niente esistesse di tutto ciò che così si muoveva, perchè incalzava quel grande dialettico l' avversario con quel principio che ciò che nulla dura non è. All' opposto, il negare il moto, del quale altra idea non si aveva che quella che involgeva l' idea di continuità, e quindi il negare la continua generazione e distruzione degli esseri che cadevano sotto i sensi, era lo stesso che un rompere contro ad un altro scoglio, quello di rinunziare al senso comune, giudice autorevolissimo, se pure non si scambia in quello che non è senso comune, divenendo allora giudice piuttosto crudele che severo, che punisce i suoi refrattari con derisione, infamia implacabile e sovente calunniosa persecuzione, senza forma di legale processo. I primi filosofi di Mileto, adunque, ammisero la mutazione continua, seguitando senza alcun sospetto l' apparenza dei sensi, siccome il volgo. Venne Parmenide, e stabilendo il principio somministratogli dall' idea dell' ente, che « « ciò che non ha alcuna durata non ha esistenza » », sgridò quelli che pigliavano i fenomeni sensibili per altrettante verità, affermando che la ragione sola era quella che conveniva seguire, «krinai de logo», essendo essa la potenza che ha per oggetto il vero: [...OMISSIS...] . Ma per quanto fosse insolubile l' argomento di Parmenide, tuttavia parte perchè egli ne cavava delle strane conseguenze, parte perchè ripugnante ai sensi ed all' opinione della moltitudine, non fu guari seguìto, e si tolse piuttosto a negare ogni vero e a cadere nello scettiscismo e nel nullismo, venendo così la filosofia in mano ai sofisti i più sguaiati, dei quali celeberrimo fu Protagora. Poichè dopo Parmenide, da chi intendeva era impossibile ammettere che ciò che muta sempre, fosse ente; onde non vedendosi coi sensi che cose soggette a continua mutazione, si scelse piuttosto di negare l' esistenza di tutte le cose che di ammettere che il senso s' ingannava, deponendo egli il continuo loro rimutare. Così Socrate presso Platone espone il sistema di Protagora e di molti altri: [...OMISSIS...] (1), [...OMISSIS...] . Il qual luogo di Platone è notabile, perchè da esso si può rilevare: Che Parmenide, stabilita la sentenza che a ciò che esiste spetta l' immobilità e la durata come proprietà essenziali dell' ente, negò la generazione ed il movimento (4). Che egli rimase solo in questa sentenza, eccettuati i pochi suoi primi discepoli (1). Che i seguenti filosofi, non potendo da una parte negare che la durata sia proprietà essenziale dell' ente, e dall' altra non volendo negare la mutazione continua, cioè la generazione e il movimento, perchè non ebbero vigore da elevarsi sopra i sensi e di opporsi al senso comune che l' ammetteva; furono costretti a negare l' ente, cioè a negare che qualche cosa veramente esistesse, e così caddero nel nullismo. Che il negare che qualche cosa esistesse era un urtare contro a quello stesso senso comune, per attenersi al quale credevano alla mutazione continua. Quindi, allorchè Protagora ed i sofisti suoi pari dedussero le estreme conseguenze del loro sistema, furono costretti a celarsi al comune degli uomini. Onde narra Platone, nello stesso Teeteto poche linee innanzi, che Protagora teneva due parlari, e che mentre coi suoi stretti discepoli si dichiarava alla scoperta per scettico e nullista, agli altri dava parole ambigue che nascondessero un assurdo così ributtante (1). Finalmente si raccoglie ancora che Platone fu il primo a tentare espressamente come si poteva ritenere la dottrina di Parmenide circa la necessità della durata perchè qualche cosa sia, senza rinnegare il senso comune circa il movimento continuo, ammettendo delle cose che sono (le idee), ed altre cose che diventano (le cose fluenti, che hanno in sè una continua mutazione). Ma veramente neppure Platone giunse a sciogliere il nodo di questo curiosissimo mistero che alcune cose diventino e non sieno; perchè non giunse a vedere che la continuità della mutazione , che tanto impacciava, era un falso supposto, non essendo ella data per nessuno argomento di ragione, ma ammessa gratuitamente per illusione fenomenale (2). Se poi abbia veduto che il fatto del continuo venga dalla semplicità ed unità del principio senziente, ciò non mi consta. Per altro che Parmenide, nei frammenti che di lui ci rimasero, nulla dica della dottrina delle idee , e che questa perciò sia dovuta a Platone, è facile assicurarsene leggendoli. Di che mi sembra poter anche trarsi non improbabile congettura dal dialogo che Platone inscrisse del nome di quel filosofo, dove è Socrate quegli che per primo introduce l' argomento delle specie od idee, ragionando con Zenone discepolo di Parmenide (1); e quegli ed il maestro suo, al ragionare stringente del giovanetto Socrate, sembrano dimostrar qualche sdegno. I frammenti del poema di Parmenide indicano senza dubbio tre sistemi: 1 il primo di quelli che non ammettono se non l' ente, ed è il sistema eleatico; 2 il secondo di quelli che non ammettono se non il non7ente, cioè le cose sensibili soggiacenti a continua mutazione; e di questa opinione fu gravida la filosofia ionica, e divenne in fine il sistema di Protagora e dei sofisti; 3 il terzo di quelli che ammettono ad un tempo l' ente e il non7ente, e a questa classe appartennero poi Platone, Aristotele e i loro seguaci, che tentarono di conciliare in qualche modo l' eterno ed il generabile. Dei due primi di questi sistemi, come dei principali e più recisi, e soli al suo tempo ben disegnati, parla Parmenide in principio del suo poema: [...OMISSIS...] . Ma egli divide in appresso questa seconda via, il cui carattere è di ammettere il non7ente, nelle due: di quelli cioè che ammettono il solo non7ente negando l' ente, e di quelli che pretendono poter ammettere il non7ente insieme coll' ente; onde dice: [...OMISSIS...] ; così descrivendo il senso comune e volgare, che, ammettendo a un tempo ciò che dura e ciò che non dura, crede ai sensi, e non fa distinzione fra ciò che veramente è, e ciò che essendo di continuo fluente, pare solamente che sia. Ma la dottrina eleatica non viene da un principio solo, ma da due, i quali sono: 1 ciò che continuamente si muta e non dura, non è ente, 2 dal niente non può uscire l' ente. Noi abbiamo parlato fin qui di tutta quella dottrina che il filosofo di Elea dedusse dal primo di questi principŒ, la quale dimostra che il mondo sensibile, perchè continuamente mutabile , come da tutti egualmente si supponeva, era apparenza, non7ente. Dall' altro principio Parmenide dedusse altre proprietà dell' ente, cioè l' esser egli eterno, necessario, il tutto (giacchè fuori di lui non poteva essere cosa alcuna), l' universo , [...OMISSIS...] e insomma tutto il panteismo di Senofane. Dove si vede che cosa Parmenide abbia tolto dal suo maestro, e che aggiunto del suo. La dottrina dedotta dal principio, a nihilo nihil fit , gli venne dirittamente da Senofane. La dottrina della necessaria durata dell' ente pare che fosse sua propria, per quanto ne lice congetturare dai frammenti che ci rimangono di quei due filosofi, e specialmente dal libro di Senofane, Zenone e Gorgia di Aristotele. E invero dal solo principio che l' ente debba durare , cioè non essere in mutazione continua, non si può trarre la conseguenza che vi sia un ente solo , e questo eterno, il tutto, ecc. . Se non che a dimostrare che di fatto esistono più enti, è uopo provare che le cose sensibili abbiano durata; conviene dunque abbattere il pregiudizio sì inveterato della continuità del moto, o in generale della continua mutazione; il che noi abbiamo procurato di fare (1). Finito è ciò di cui si può pensare cosa maggiore. Infinito , assolutamente parlando, è ciò di cui non si può pensare cosa maggiore. Non si deve confondere l' infinito coll' indefinito (2). L' indefinito è ciò che, potendo ricevere aumento successivo sempre maggiore, non ha determinata misura, ma si considera semplicemente come suscettivo di una serie continua di aumenti. Quindi l' indefinito non esprime un ente, ma un' idea astratta; per esempio l' idea generica del numero , che risponde a tutti i numeri, i quali sono sempre aumentabili d' una unità, per quantunque grandi si pensino. Quindi è manifesto che l' ente non può mai essere indefinito , perchè l' astratto (di astrazione propriamente detta) non è un ente, come vedemmo; è una veduta dello spirito, un oggetto della riflessione astraente, che limita l' attenzione ad una qualità dell' ente, e che suppone sempre innanzi di sè nella mente la notizia dell' ente, da cui si astrae e in cui l' astratto si vede. Mi fu opposto che io ammetto per oggetto primo dell' intuizione un essere universale, indeterminato, astratto, l' essere ideale. Mi sono spiegato su di ciò in molti luoghi, e in uno fra gli altri ho detto nel Nuovo Saggio circa l' universalità e l' indeterminazione: « « Non è che vi sia cosa che possa essere universale in sè stessa; ogni cosa in quanto è, è particolare, voglio dire determinata. Un universale adunque non significa se non tale cosa, colla quale sola se ne conoscono molte, anzi un numero indefinitamente grande. L' universalità adunque non è che un rapporto; nè può cadere propriamente in altro che nelle idee, perocchè le idee sono cose, siccome abbiamo veduto, con ciascuna delle quali noi conosciamo un numero indefinito di cose, il qual numero si chiama specie »(1) ». Quanto poi all' astrazione che si vuole da me attribuita all' idea dell' essere, mi sono dichiarato pure nel Nuovo Saggio in questo modo: « « Quando io nel corso di quest' opera chiamo l' idea dell' essere in universale astrattissima , non intendo che sia dalla operazione dell' astrarre prodotta, ma solo che ella sia per sua natura astratta e divisa da tutti gli esseri sussistenti »(2) ». E parendomi un perditempo il recar qui ciò che è già stampato, invocherò piuttosto in generale l' attenzione di quelli che mi onorano di loro censure sopra molti altri luoghi, dove dichiaro i miei pensieri, persuaso siccome sono che utilissimi a me ed al pubblico dovranno tornare i loro giudizi anche severi, se si renderanno più attenti. Invece adunque di addurre altri passi delle opere precedenti, aggiungerò qualche nuova considerazione, o in nuovo modo esposta. Potrebbe mai alcuna mente pensare l' idea astratta del colore, senza conoscere nè aver mai conosciuto alcun colore particolare? Potrebbe pensare il suono in astratto, senza aver mai conosciuto alcuno dei particolari suoni, e così delle altre cose sensibili? Non credo. E ciò, si noti bene, non lo induco solamente dall' esperienza, ma dall' intima natura dell' idea astratta di colore, di suono, di sapore, ecc.. Perocchè, che significa l' astratto colore, l' astratto suono, l' astratto sapore? Non altro che ciò che hanno di comune le sensazioni particolari colorate, sonore, sapide, ecc.. Ora ciò che è comune, semplicemente comune a più cose e non proprio di ciascuna, non si può pensare, se non si riferisce in qualche modo ai particolari in cui si riscontra. Ora avviene forse il medesimo dell' essere in universale? - A primo aspetto pare, perchè è comunissimo a tutti i particolari e i reali; ma se più addentro si considera, la cosa non va così; perchè non è semplicemente comune sicchè escluda il proprio , anzi egli abbraccia, in un modo comune, anche il proprio. Perocchè l' essere ideale è ciò che si realizza non solo nella sostanza delle cose, ma ben anche negli accidenti, non solo in ciò che hanno di generico e di specifico7astratto, ma ben anche in ciò che hanno di specifico7pieno, ossia di proprio; sicchè l' essere ideale abbraccia tutto l' ente e tutto ciò che è nell' ente (benchè non in egual modo), e però non è solamente un elemento comune dell' ente con esclusione del proprio. Dunque l' essere ideale ha natura interamente diversa dagli astratti, che esprimono solo ciò che l' ente ha di generico o di specifico7astratto, ed escludono le differenze. Dunque gli astratti non possono esistere tutti soli dinanzi al pensiero, senza cercare qualche appoggio nelle percezioni o nelle specie piene, che le percezioni lasciano dopo di sè nello spirito, perchè da sè soli non sono idee di enti; all' incontro l' idea dell' ente ha eminentemente e per essenza questo carattere di manifestare l' ente con tutto ciò che egli deve avere in sè per essere tale, benchè parte di questo tutto che deve aver l' ente sia in essa solo virtualmente contenuto. Da questa prima differenza ne viene una seconda, che mostra la somma diversità che passa fra gli astratti propriamente detti e l' essere ideale universale . Gli astratti esprimono tal cosa dell' ente che non ha, nè può avere un atto proprio di esistere; infatti nessun astratto da sè solo preso potrebbe somministrare ad un artista il modello di una statua o il tipo di una dipintura. L' atto dell' essere è fuori dell' astratto, o certo è reso dall' astratto impossibile. Niuno concepirà mai alcun atto proprio di essere nel colore astratto o nel suono astratto, o anche nella sostanza astratta (in esclusione all' accidente); ma all' opposto l' idea dell' essere è appunto quella che manifesta ogni atto di essere, e però al suo oggetto nulla manca per essere dal pensiero intuìto; benchè, come abbiamo osservato, il pensiero non determini nulla dentro a quell' idea di speciale, ma non l' esclude, anzi lo suppone, lo richiede, aspettando di trovarlo quando che sia. Dunque i caratteri dell' essere ideale e i caratteri degli astratti non sono i medesimi, sono anzi del tutto opposti. Quello ha tutto ciò che costituisce l' ente, perchè è appunto l' idea dell' ente, e però può essere concepito da sè solo; a questi mancano più cose necessarie all' ente a cui si riferiscono, cose che escludono; quindi non possono essere da sè soli oggetto del pensiero complesso, ma solo del parziale, della riflessione astraente. E qui si vede quale parte di vero e quale di falso contenga quella dottrina di Stewart e di altri nominali, i quali sostengono che gli astratti non sieno che vocaboli , di cui si serve la mente per andare, a suo piacimento, dall' una all' altra idea particolare; al che spiegare adducono l' uso che fanno gli algebristi delle lettere dell' alfabeto per condurre i loro calcoli. Questi filosofi errano: In non conoscere che l' idea è per essenza universale , benchè manifesti l' ente con tutte affatto le sue condizioni e qualità anche accidentali, e che particolare non si può denominare, se non in quanto si considera nella percezione legata con essa; il che è condizione estrinseca all' idea e relativa allo spirito che così la lega. Benchè però l' idea sia di natura sua universale , ella non è di natura sua astratta , perchè può manifestare ogni cosa possibile a cadere in un ente; quindi l' essere ideale, o un essere ideale non astratto, è pensabile senza bisogno di pensare alcun essere sussistente . A pensare un essere ideale non astratto, un' idea piena , non vi è bisogno di segni, ma è necessario o che sia data allo spirito per natura, o che lo spirito la cavi dalla percezione; al che i vocaboli non sono punto necessari (1). Le idee astratte non si possono pensare dalla mente, se nella mente stessa mancano del tutto le idee7piene , a cui quelle si riferiscono; ma è però sufficiente che queste idee7piene sieno nella mente senza attenzione da parte dello spirito; che anzi l' astrarre non è altro, come vedemmo, se non un concentrare e limitare l' attenzione della mente a qualche qualità che si trova nelle idee7piene, rivocando l' attenzione da tutto il resto che nell' idea piena si contiene. Perocchè l' esistenza delle idee o di parte di esse nella mente, senza che questa dia loro attenzione, è un fatto psicologico indubitabile e di somma importanza. Sono cotali idee di continuo intuìte, ma senza avvertenza, o senza avvertenza diretta più ad una che all' altra; e però l' uomo può passare quando vuole dall' idea astratta ad avvertire le idee piene a cui si riferisce, con più o meno di facilità (2). Ora questa è la parte di vero veduto o traveduto dai nominali, di cui parliamo; da questo fatto però, che l' astratto non si può pensare nella mente senza l' idea7piena (confusa da essi coll' idea particolare), indussero falsamente che dunque l' astratto fosse nulla nella mente, e solo un segno fuori della mente. Al che li condusse anche questo: Altra è la questione « che cosa si richieda acciocchè un' idea si possa pensare , sia pensabile », e altra la questione « che cosa si chieda acciocchè l' uomo se la possa formare , venga al fatto di formarsela, di pensarla ». Acciocchè l' astratto sia pensabile, basta che nella mente ci sieno le idee7piene, a cui egli si riferisce e onde lo si toglie. Ma acciocchè lo spirito muova a questo suo atto, si richiede un oggetto, un termine o un motivo che lo spinga a ciò, perchè l' attività dello spirito è sempre suscitata dal termine. E poichè l' astratto come astratto non esiste, quindi non può tirare lo spirito a sè. Ma se è legato ad un segno sensibile, può stimolare e attirare a sè l' attenzione della mente. E quindi fu da noi provata l' utilità del linguaggio, o per dir meglio, di segni per la formazione degli astratti; utilità che in altro non consiste se non nell' offerire dinanzi allo spirito uno stimolo e termine che lo muova a concentrare e fissare l' attenzione, nel modo che abbiamo più estesamente esposto nel Nuovo Saggio , e che più innanzi di nuovo sottoporremo ad esame (1). Ora anche questo fatto, non bene osservato dai nominali, li trasviò; perocchè dall' utilità del linguaggio alla formazione degli astratti, conchiusero che essi erano nulla in sè stessi, e però nè possibili a formarsi, nè pensabili senza i segni del linguaggio. Finalmente l' esempio che adducono a conferma di loro dottrina, cioè l' uso che l' algebrista fa delle lettere dell' alfabeto, lungi dal provare per loro, prova il contrario di quello che vogliono. E di vero, altro è ciò che le lettere dell' alfabeto segnano per l' algebrista, altro quel vero che egli vuol ritrovare col loro uso. I segni algebrici segnano delle quantità astratte, egli è vero (e la quantità discreta, fosse anche determinata, è sempre un astratto); ma l' algebrista non li adopera già al fine di segnare semplicemente tali quantità, ma a discoprirne le loro relazioni. Infatti quando scrive a .più . b e d .meno . c , che cosa intende egli di fare? Egli vuole esprimere nel primo caso la relazione di addizione che corre fra due quantità qualunque (astratte e indeterminate), segnate dalle due lettere a e b , e nel secondo caso la relazione di sottrazione che corre fra due quantità qualunque, segnate dalle due lettere d e c . Ora quando egli, facendo un' equazione fra quelle due funzioni, discopre che a .uguale . d .meno . c .meno . b , cioè che il valore a è uguale al valore d meno la somma di c e di b , facendo, dico, questa operazione, la sua mente pose attenzione alla relazione di eguaglianza fra quelle due funzioni, e in conseguenza di questa attenzione le unì col segno di eguaglianza; poi pose attenzione alla conseguenza che ne nasceva, e questa conseguenza fu la scoperta del valore di a rispetto alle altre tre lettere. Se dunque l' algebrista condusse il suo calcolo ponendo attenzione a quella relazione, e, avvertita questa relazione, unì quelle lettere con vari segni, è evidente che la mente pensò alla detta relazione e ai conseguenti prima di averne posti i segni in carta, e pose questi segni esprimenti le dette relazioni dopo averle pensate. Dunque pensò queste relazioni senza i loro segni, ed i segni vennero dopo in conseguenza delle relazioni già pensate dalla mente. Ma le relazioni sono esse stesse astrazioni, sono astrazioni via più elevate di quelle semplici quantità fra cui le relazioni corrono. Dunque l' uso dei segni algebrici dimostra manifestamente che gli astratti sono pensabili per sè stessi senza bisogno dei segni, e che quell' uso sarebbe impossibile, se la mente non pensasse gli astratti effettivamente senza di essi. L' uso adunque dei segni algebrici suppone che la mente sia già venuta in possesso degli astratti, e di astratti molto elevati, e non ispiega punto come ella se li abbia formati; molto meno scioglie la questione « che cosa si ricerchi affinchè sieno pensabili ». Essi solamente aiutano la mente a tener presente all' attenzione la serie delle relazioni, che facilmente svanirebbe per la sua lunghezza e molteplicità. Non può dunque l' ente essere indefinito, e però l' indefinito, non avendo tutto ciò che si richiede ad esser ente, non può da sè solo essere oggetto al pensiero. Ma sebbene l' ente non possa essere mai indefinito (1), tuttavia egli può essere finito o infinito. Ora, ciò che vogliamo con questa legge attentamente osservato si è che la finitezza o l' infinitezza è qualità ontologica, cioè così propria dell' ente che non si può da esso distaccare senza che se ne perda l' identità. Quindi se un ente è finito, per quantunque si accresca o moltiplichi, non cangerà mai la sua natura, rimarrà sempre finito. Viceversa, se un ente è infinito, non si potrà dividere in modo da rendersi giammai finito. E se nell' infinito si potrà colla mente distinguere più cose, converrà che ognuna di esse rimanga infinita e comprenda, con avvertenza o senza, virtualmente o in atto, tutte le altre, altrimenti non si pensa più quell' ente. Quindi un' altra conseguenza: se si pensa l' infinito, conviene pensarlo tutto o niente. E tuttavia si potrà pensare in un modo limitato , ma la limitazione deve rimanere nel modo con cui si pensa, non nell' oggetto del pensiero; e la limitazione consiste solamente nel modo del pensiero, quando il soggetto, che pensa un ente infinito, sa di non pensarlo totalmente, cioè sa che oltre quello che egli ne abbraccia, la natura di lui si estende via oltre senza confine alcuno nè misura, sa che ciò che pensa contiene tutto, benchè non apparisca al veggente che implicitamente, virtualmente; il che appartiene al modo del suo conoscere. Così chi ha poca vista, non vedrà un uomo così perfettamente come lo vede chi l' ha eccellente, e nondimeno entrambi vedranno tutto l' uomo. A chiarir meglio la cosa si consideri che il pensiero ha per oggetto: 1 l' ente ideale, e questo, come vedemmo, non ammette misura; 2 l' ente reale, il quale ammette misura. Due questioni adunque: Come si può pensare l' ente ideale infinito? - Risposta: a quel modo che il fatto dimostra che lo si pensa. Il raziocinio poi di colui che osserva l' essere ideale, tosto s' accorge esser egli così semplice nella sua infinità che non ammette in sè stesso alcuna divisione o separazione, e quindi la questione che si propone neppure è possibile; e piuttosto dovrebbe farsi quest' altra: « Come è che non si può pensare l' ente ideale se non a condizione di pensarlo infinito? ». A cui si risponderebbe come sopra: perchè è semplicissimo ed uno. Come si può pensare l' ente reale infinito? - Risposta: il reale infinito è lo stesso ente, che si vede nell' idea sotto la forma di realità. Ora per la stessa ragione che si vede l' ideale, benchè infinito, per quella stessa non è assurdo che si possa vedere il reale infinito, perchè è quell' uno semplicissimo che nell' ideale s' intuisce. Ma quantunque tali risposte sieno sufficienti a chi ne intende il fondo, tuttavia non crediamo inutile dar loro una più ampia esposizione. Perocchè le percezioni che più chiamano a sè l' attenzione sono quelle dei corpi e delle altre cose contingenti; ond' è che l' uomo suol ragionare della percezione del reale sull' esempio di quelle, quasi non vi potesse essere altra maniera di percepire; e pur coll' esempio di esse non si spiegherà mai la percezione dell' infinito, che appartiene ad un ordine soprannaturale; questo è ciò che rende difficile intendere la possibilità della percezione di un tal essere. I corpi si percepiscono per una vera azione che esercitano in noi; indi ciò che pensiamo nel concetto dei corpi si è un misto di soggettivo e di extra7soggettivo . Questo ente corporeo, che si compone parte del nostro stesso sentimento e parte di un agente in esso, non è oggetto del pensiero per sè, ma è pensato nell' oggetto; l' oggetto dunque è straniero, ma la mente lo unisce qual mezzo necessario al conoscimento. Se consideriamo la percezione di noi stessi in quanto siamo sentimento sostanziale, di nuovo ciò che pensiamo in tale percezione è il mero soggetto , il quale viene da noi oggettivato per la necessità del percepirlo. Quindi essendo il soggetto finito, tutto ciò che si conosce, conoscendo lui, o conoscendo le sue modificazioni, o conoscendo l' agente che lo modifica, non può essere che finito; perchè il finito non può sentire in sè che un' azione modificatrice finita, come finita deve essere la modificazione prodotta. Di più, essendo il soggetto percipiente, cioè noi stessi, molteplice, tutto ciò che si percepisce come passione o modificazione di ciò che è molteplice, e come agente immediato o causa immediata di tale modificazione, non può percepirsi come del tutto uno e semplice, ma con qualche moltiplicità; giacchè dove vi è confine, già per questo solo vi è moltiplicità. L' infinito adunque, a cui spetta la somma unità e semplicità, non si può percepire a questo modo, cioè come una modificazione di noi stessi o come la forza che immediatamente la produce (1). Se vi fosse dunque soltanto questa maniera di percezione, la percezione dell' infinito sarebbe inesplicabile; ma ve ne è bene un' altra. L' infinito ente è essenzialmente oggetto; dunque nella percezione dell' infinito niente può cadere di soggettivo. Ora l' essere oggetto vuol dire che egli si conosce distinguendolo e separandolo da noi, e contrapponendolo a noi. Non trattasi qui di passione , che l' infinito produca sull' oggetto, non trattasi di percepirlo come agente; trattasi di percepirlo semplicemente come ente; se egli è causa di atti transeunti, questi non si possono confondere con lui, sono fuori di lui, non ne costituiscono punto il concetto. L' oggetto dunque non si confonde col soggetto, ma s' intuisce e percepisce in sè stesso, e però egli dal soggetto non può ricevere alcun confine, nè alcuna moltiplicità in sè stesso (1). Se dunque il soggetto nel percepire l' oggetto non lo riceve in sè stesso come un agente, ma solo lo vede da sè distinto, egli non ha bisogno per percepirlo di dargli la propria misura, come accadrebbe, poniamo, nel contatto che la parte toccante è commisurata dalla parte toccata, nè di attribuirgli nulla della propria limitazione; e così è tolta via la difficoltà, è tolta la ripugnanza che un ente finito ne percepisca uno infinito (già s' intende nell' ordine soprannaturale), cadendo affatto il principio di Protagora che « « l' uomo sia la misura di tutte le cose » » (2). Si dirà che questa maniera di percepire oggettivamente è misteriosa. - Sì certo, ed all' uomo appare misteriosa, perchè non ne ha esempio in tutte le percezioni delle cose finite, onde l' uomo toglie arbitrariamente la legge della percezione. Ma non è per questo meno un fatto innegabile, un fatto di cui abbiamo esempio in natura nell' intuizione dell' essere ideale; e il fatto si deve ammettere, anche allorquando appare misterioso all' abitudine nostra di ragionare diversamente; perocchè finalmente niente vi è in esso di ripugnante alla mente, ma solo di contrario, come dicevo, all' abitudine ragionatrice; anzi, la mente contemplativa, che si solleva sopra tali abitudini, le quali limitano la sfera del ragionamento, viene ad intendere che quel fatto è evidente, e così necessario che senza di esso nessuna affatto delle operazioni della mente potrebbe ricevere spiegazione; ogni pensiero di qualsiasi classe rimarrebbe impossibile. Vero è che dalla percezione dell' infinito il soggetto deriva poscia in sè stesso un sentimento di giubilo e di felicità, che è così proprio che non si può confondere con altri sentimenti; e fa intendere la sua fonte infinita. Ma questo sentimento è un effetto della percezione oggettiva; benchè strettamente unito con lei, non è lei, e con lei non si può mai confondere. Il qual sentimento è finito; ma posciachè è indivisibile dalla percezione oggettiva, perciò pare che sia infinito anch' esso, in quanto che nell' unità dell' uomo la percezione oggettiva è così congiunta con esso che ne forma, siccome a dire, il compimento e la sommità. Onde presa la percezione oggettiva in unione col sentimento, che nel soggetto ella produce, presa tutta assieme questa comunicazione dell' infinito al finito, se ne ha che la cognizione dell' infinito riesce da una parte infinita, dall' altra finita. Ella è infinita quanto all' oggetto intuìto e percepito, ed è finita quanto al sentimento di lei prodotto nel soggetto. Ed anche per questa ragione si può dire assai giustamente che dai celesti comprensori Iddio si percepisce tutto e non totalmente; in quanto che l' oggetto è tutto Iddio, ma il sentimento, prodotto da quell' oggetto nei comprensori, non è tutta l' azione che Iddio potrebbe far sentire. Si percepisce adunque Iddio tutto come ente , non si percepisce totalmente come agente . Ma noi dobbiamo dichiarare come Iddio possa essere agente in quelle creature intelligenti, che lo percepiscono. Il concetto di Dio, come agente nei soggetti che lo percepiscono, si può falsare in due modi: l' uno, facendo che Iddio non agisca nulla e agisca il soggetto solamente, derivando dall' oggetto infinito della propria percezione il sentimento gaudioso che lo felicita; l' altro, facendo che Iddio agisca nel soggetto in un modo soggettivo, al modo come gli enti finiti fanno nell' uomo, semplicemente modificandolo. Fra questi due partiti erronei ve ne è uno di mezzo, che è il vero. Stabilito adunque che Iddio percepito sommamente agisce in chi lo percepisce, e che Iddio non agisce modificando immediatamente il soggetto, quale è questo modo di agire nel soggetto finito proprio di Dio solo, che non istà nel produrre una semplice modificazione o passione? Si noti che, quando diciamo modificazione o passione semplice , noi veniamo a dire che la sostanza del soggetto non viene cangiata, nè aumentata, e molto meno prodotta; ella è quella di prima, nella stessa quantità; solo che è in un modo nuovo; ovvero (e questo esprime ancor meglio il concetto che vogliamo) l' agente, che lo modifica semplicemente, non la produce, ma la suppone prodotta e capace di ricevere in sè la sua azione. All' incontro, l' operare divino si fa sempre per via di una cotale creazione (1), con un atto cioè che pone l' ente col suo quale e quanto, e non suppone già l' agente sussistente in cui operi. La ragione di ciò si è che Iddio è causa di tutto l' ente, e facendo Iddio ogni cosa con un atto solo e semplicissimo, forza è che con quell' atto stesso con cui pone la sostanza, ponga anche gli accidenti di lei, qualunque durata essi abbiano, e non produca gli accidenti con un atto diverso. Ciò ripugnerebbe non solo all' unicità e semplicità dell' atto col quale Iddio fa tutto quello che fa, ma ripugnerebbe ancora alla somma semplicità della sua sostanza (1); perocché la sostanza di Dio e la sua azione sono il medesimo, laddove nelle creature altro è la sostanza, altro gli atti della sostanza. Infatti noi vedemmo che nelle sostanze create possono cadere atti transeunti, laddove Iddio può essere causa di atti transeunti, ma questi non possono mai cadere in lui, sì bene da lui debbono restare distinti. Essendo adunque nelle creature create distinte le attività dalla sostanza , accade che l' una agendo nell' altra, entri nell' altra solamente coll' attività sua, ma non colla sostanza; e che l' attività di una non possa modificare che la sola attività dell' altra, e non mai produrre la stessa sostanza. Se dunque Iddio fosse agente immediato nelle sostanze, e così modificasse le loro attività senza creare le sostanze stesse, ma presupponendole esistenti; in tal caso l' attività di Dio entrerebbe nelle sostanze contingenti, e non la sostanza divina, poichè ciò che è passivo e modificato non riceve mai la sostanza, ma l' attività sola di ciò che è attivo e modificante; e così vi sarebbe in Dio una divisione reale fra il suo operare ed il suo essere, il che è assurdo. Dunque Iddio non può agire che per via di creazione, cioè creando il tutto dell' ente contingente in ogni momento, creando l' ente con tutte le sue modificazioni, perocchè sarebbe assurdo egualmente il dire che Iddio entrasse colla sua sostanza in un ente che non è ancora. Dunque la sostanza stessa non può essere mai ricevuta in un ente come paziente. Le quali cose tutte premesse, non sarà più difficile intendere come Iddio percepito possa agire, e agire sommamente in chi lo percepisce. Perocchè in questo fatto avvengono due cose: Il soggetto intelligente, a cui è data la percezione di Dio, e quindi possiede Iddio come oggetto del suo intelletto, può colla propria attività stringersi a lui, e goderlo con quanto ha di forza per via di amorosa contemplazione. Nello stesso tempo queste forze, colle quali egli fruisce di Dio, gli sono date a misura da Dio stesso come suo Creatore, cioè come quella causa che lo produce totalmente con tutti quegli atti ch' egli fa di fruizione. Quindi il godimento è limitato, perchè è un atto del soggetto (il quale atto però è creato da Dio col soggetto), ma l' oggetto del godimento è infinito. In questo senso è che Iddio si percepisce tutto , e non può percepirsi altrimenti che tutto, perchè indivisibile; e nondimeno non può percepirsi totalmente rispetto al bene che se ne deriva dal soggetto, perchè la natura del soggetto, e le forze di questa natura, e gli atti di queste forze sono limitati. Ma di qui medesimamente avviene che ciò che si gode di Dio, è sempre Dio, perchè si gode tutto Dio. Per la limitazione adunque dell' atto, con cui un soggetto intelligente aderisce a Dio, accade che sembra che si divida Iddio; giacchè diversi oggetti, dotati di diversa misura di forze, ne godono diversamente. E tuttavia tutti godono dell' infinito; ed è in questo senso che dicevamo che « l' essere infinito o finito appartiene all' ente, all' oggetto del pensiero »e non si può mai cangiare l' uno nell' altro; quantunque, godendosi l' infinito più o meno, sembra dividersi, impicciolirsi o ingrandirsi nel nostro concepimento, quando questo piglia a misura la relazione dell' ente infinito colla sua fruizione. Ma questa cotal maniera d' impicciolimento relativo non toglie mai da lui l' infinità; la quale se cessasse, incontanente l' ente oggetto della mente sarebbe un altro. Con questo si spiega ancora come Iddio si può concepire, sempre in un modo negativo o virtuale, sotto vari concetti della sapienza sussistente, della bontà e santità sussistente, ecc., perchè in ciascuno di essi vi è egualmente l' infinito. La moltiplicità dei concetti (toltine quelli delle persone) nasce tutta dal soggetto, e dalla diversa e molteplice esperienza che egli ne prende, perchè egli stesso è limitato e molteplice. Ma poichè la percezione di Dio appartiene all' ordine soprannaturale, qui si presenta la questione se questa moltiplicità di concetti, sotto i quali l' uomo può pensare lo stesso Dio, debba al tutto cessare nella beata visione. Alla quale questione, non poco difficile, ci sembra di potere rispondere quanto segue. In prima si ritenga che se colla mente si divide dall' oggetto del pensiero qualche cosa che è a Dio essenziale, quell' oggetto non è più Dio. Ora a Dio è essenziale che la sussistenza e l' essenza sieno la medesima cosa, il medesimo essere semplicissimo. L' essenza dunque dell' essere, separata dalla sussistenza , non è Dio. Il perchè, non intuendo l' uomo per natura che l' essenza dell' essere, l' essere ideale e non la sua reale sussistenza, quell' essenza non si può dire l' essenza di Dio; e però l' uomo per natura non intuisce Iddio; il qual vero egualmente è provato dall' esperienza, dalla ragione e dalla fede cristiana. E di vero per accertarsi che non vi sia per natura nell' intelletto umano la divina sussistenza, che vi sia una pura idea dell' essere, basta che l' uomo rifletta sopra sè stesso. Una gran parte degli uomini non solo non troveranno di avere per oggetto naturale del loro intendimento la sussistenza stessa dell' essere, ma non sapranno neppure osservarne in sè stessi l' essenza . Se avessero la sussistenza divina per oggetto del loro pensiero, ella è tal cosa e sì preziosa che niuno l' ignorerebbe. D' altra parte la ragione prova che il supporre ciò non è necessario a spiegare nessuna delle operazioni dello spirito umano; di più, che intuendo Iddio ognuno potrebbe esser beato a sua voglia, avendo con ciò in sua mano il fonte della beatitudine; ciò che non s' avvera. Finalmente il dire che l' uomo vede Dio per natura è un errore manifesto contro la fede cristiana , che riserba la visione di Dio ai celesti. Se dunque all' uomo quaggiù non è dato di vedere l' identità fra l' essenza e la sussistenza dell' essere, e perciò non gli è dato di vedere Iddio, forza è ch' egli acquisti la cognizione dell' Essere supremo per via di ragionamento e non d' immediata intuizione. Ora il ragionamento lo conduce a conoscere che Iddio è, ma non il modo come egli è, che nella sua sussistenza si nasconde (1). Nella visione beatifica all' incontro, percependosi la sussistenza dell' essere, si vedrà il nesso d' identità fra questa sussistenza e l' essenza dell' essere stesso, il qual nesso rivela Iddio; e però lo si vedrà sicuti est , cessando l' imperfezione del ragionamento, et scientia destruetur . Ma qualora poi si voglia indagare per via di ragionamento « se questa sussistenza divina ci apparirà scevra da tutte le relazioni colle creature », è da dirsi anzi, pare a noi, che si vedrà nella relazione creatrice che ella ha colle creature e non altrimenti; e in questa relazione si contempleranno le infinite sue perfezioni, come abbiamo altrove dichiarato (2). Ora, poichè la relazione di Dio colle creature è molteplice, non da parte di Dio, ma delle creature che sono pur molte, perciò appariranno molteplici le perfezioni divine, ma in modo diverso da quello che ci appariscono ora quaggiù. Perocchè noi ora non sappiamo raggiungere le perfezioni divine al loro semplicissimo fonte, in cui l' una coll' altra e tutte coll' essere stesso s' identificano; ed allora sapremo. Vedremo adunque che quelle perfezioni divine, che nelle creature appaiono ed appariranno anche allora moltiplicate, altro in Dio non saranno che il suo essere stesso semplicissimo; il che ora vediamo dover essere, ma il come ci è un mistero, perchè nessuno esempio di ciò troviamo nella natura. Sicchè con diversi concetti potremo anche allora esprimere a noi stessi l' essere divino; ma in ciascuno di essi vedremo lo stesso essere, e però quella molteplicità non ci porrà impedimento di sorte a vedere Iddio siccome egli è, perchè ad un tempo vedremo e come in molte relazioni la perfezione divina si espanda, e come in tutte sia una sola ed identica, primordiale ed essenziale perfezione. Di più, noi al presente quando pensiamo ad una perfezione, per esempio alla sapienza, la vediamo limitata, e solo ragionando per quella via che i teologi dicono di eminenza, intendiamo che in Dio ella deve essere illimitata; onde dicevamo che, quando pensiamo Iddio come la sapienza sussistente, ecc., quel nostro concetto che ci formiamo di Dio, è virtuale e non attuale. Allora non indurremo questa necessità per ragionamento, ma vedremo immediatamente che la cosa è così, la vedremo come un fatto, perchè vedremo la sapienza stessa infinita e necessariamente infinita; e però molto più intenderemo immediatamente come ella possa essere tale. Se dunque la perfezione divina ci apparirà allora così una come è il punto centrale di un circolo, identico in sè, e pure principio e termine di tutti i raggi; è chiaro che ognuna delle perfezioni divine basterà allora a farci conoscere tutto Iddio, come quel termine o principio di uno solo dei raggi basta farci conoscere il centro del circolo; e però in ognuna di esse vedremo sempre lo stesso infinito. Così l' ente infinito, benchè sembri dividersi pei suoi vari rispetti sotto cui si considera, non cessa mai di essere ente infinito; così l' infinità è condizione appartenente all' ente stesso infinito, come la finitezza all' ente finito. E però vale la legge del pensiero da noi proposta. Tali sono le principali leggi ontologiche, che segue il principio razionale nelle sue operazioni. Ora dobbiamo passare a quelle che presiedono all' operare della ragione pratica. La ragione, che noi chiamiamo pratica, non è già la ragione in quanto determina ciò che s' abbia a fare o sia conveniente; questa è ancora speculativa. La ragione pratica è il principio razionale7operante (1); ora a questo principio razionale operante sono imposte le leggi ontologiche, di cui parliamo. Quali sono queste leggi? Esse debbono essere necessariamente quelle stesse della ragione teoretica, perchè questa è la ragione nei primi suoi atti, di cui gli atti susseguenti appartengono alla ragione pratica; onde tali leggi non possono mancar mai senza mancar la ragione. Essendo dunque la ragione pratica anch' essa ragione , non essendovi che uno stesso principio razionale che, in quanto conosce dicesi teoretico, in quanto opera dicesi pratico (2), è evidente che le stesse leggi, che hanno vigore nella speculazione, debbono aver vigore nell' operazione, giacchè quelle leggi nascono dalla natura del principio comune. La ragione teoretica è ella stessa che diventa pratica, quando opera; ella opera come ragione, cioè come conoscitrice; perciò le leggi del suo conoscere debbono essere le leggi del suo operare. Queste leggi sono dunque naturali alla ragione, come le leggi della comunicazione del moto sono naturali ai corpi. Ma qui insorge una difficoltà. La natura sensitiva ed anche la natura meramente sensibile ubbidiscono sempre alle loro leggi; perchè la ragione le infrange? E di vero la ragione le infrange, sia quando cade nell' errore , col quale rimangono violate le leggi della ragione in quanto è teoretica, sia quando cade nel peccato , col quale rimangono violate le leggi della ragione in quanto è pratica. Il rispondere semplicemente che ella è libera e perciò può infrangerle, non soddisfa alla difficoltà, perchè non fa che annunziare il fatto che sembra contraddire al concetto della legge; e la difficoltà proposta appunto richiede che si tolga via questa contraddizione, richiede che si dimostri che esistono leggi veramente naturali, le quali possano rimanere tuttavia violate, laddove la condizione di legge naturale sembra esigere che non possa esser violata giammai. La soluzione della difficoltà si trova, quando si osserva che nelle operazioni del principio razionale intervengono agenti stranieri, soggetti ad altre leggi diverse da quelle della ragione; onde la violazione delle leggi di questa accade per collidersi di varie leggi di diversa indole; il che anche è ciò che spiega il mirabile fatto della libertà umana. Noi ne abbiamo parlato (3); ritorniamoci sopra dopo avere annunciata la legge suprema della ragione pratica. Dobbiamo dimostrare che il principio di cognizione, che costituisce la legge suprema secondo cui opera la ragione teoretica, presta pure alla ragione pratica la legge suprema secondo cui deve operare; di maniera che, se la ragione teoretica ha questa legge: « l' ente è l' oggetto del conoscere », la ragione pratica ha quest' altra: « l' ente deve essere l' oggetto del conoscere pratico ». Si dice che la ragione teoretica opera secondo il principio di cognizione, perchè ella o non opera al tutto, o è necessitata, se opera, a seguitarlo, giacchè gli errori stessi, come vedemmo, si debbono attribuire alla ragione pratica. Si dice all' incontro che la ragione pratica deve operare secondo lo stesso principio, perchè l' operazione di questa può essere in due modi, o conforme alla sua legge o difforme; se è conforme, ella è retta; se difforme, torta. Questo è appunto quello che dicevamo aver bisogno di chiarimento; ci si conceda di premettere alcune nozioni. L' ente insensitivo non è soggetto di male o di bene. Egli opera secondo le necessarie sue leggi, e però è sempre ordinato; solo l' uomo, che esige da lui altro da quel che fa, gli appone per una cotale illusione arcana il male ed il bene. Il che avviene perchè l' uomo lo lega alle sue idee, a cui pure non è legato. « Questo - dice - deve essere una pera; ed ecco ella è rosa dai vermini; dunque è mala ». Sì, se fosse vero che dovesse essere una pera perfetta ed avere ciò che si contiene nell' idea di pera; ma questo debito non c' è nella pera; misuratela coll' idea specifica piena , e la troverete quale deve essere; il misurarla coll' idea astratta è considerare una relazione di quell' oggetto, che non entra a costituire l' ordine intrinseco di lui, ma l' ordine ipotetico ed estrinseco con una idea che gli si impone (1). La materia insomma, qualunque figura s' abbia, non è soggetto , perchè il soggetto è sempre un ente principio , e il concetto di materia è quello unicamente di ente termine . L' ente sensitivo e il razionale, all' incontro, è soggetto di male e di bene. Il bene dell' uno e dell' altro consiste in un' attività, a cui si riduce anche il loro male; perchè ciascuno può avere un' attività conforme alla sua essenza o difforme da essa; nel primo caso trovasi in buono, nel secondo in malo stato. L' essenza del principio senziente vuole che l' attività sua si possa spiegare senza trovare ostacoli da parte del suo termine; se trova ostacoli, nasce il dolore, che è il suo male. Il simile accade nel principio razionale; egli ha un' attività che, secondo l' intento e il conato della sua essenza, vuole spiegarsi in un dato modo; se per qualsivoglia cagione quell' attività non si spiega così, ma in un modo diverso, vi è il disordine; il principio razionale soffre, perchè non può non sentire il proprio disordine, essendo tutto sentimento. Ma se fin qui lo stato buono o tristo del principio sensitivo e del razionale si può raccogliere sotto una stessa formula, ben presto si manifesta l' infinita differenza che passa fra il bene ed il male del principio sensitivo e del razionale. Questo è ciò che dobbiamo dichiarare. La differenza fra il bene ed il male dell' uno dei due principŒ, e il bene ed il male dell' altro, nasce dalla differenza che hanno i loro termini; perocchè sono i termini che suscitano le attività e ne determinano la natura; il bene ed il male d' un ente, suscettivo di bene e di male, giace, come dicevamo, nel diverso modo secondo cui è disposta l' attività sua propria. Ora il termine dell' attività sensitiva è l' esteso materiale e le passioni di esso; il termine poi del principio razionale è l' ente . Quindi l' attività sensitiva è la sede del bene dell' ente sensitivo, che vi è quando può estendere nell' esteso le sue passioni a misura del proprio istinto; l' attività razionale poi è sede del bene del principio razionale, quando aderisce, senza contrasto e lotta, all' ente termine suo. Di qui la prima legge della ragione: « aderisci all' ente ». Infatti il principio razionale non può cessar mai di essere razionale, e però non può cessare di avere per suo termine l' ente. Dunque se il principio razionale ha un' attività propria, anche questa deve avere per termine l' ente. Ma il principio razionale ha veramente una sua propria attività, e non è meramente ricettivo. Dunque la legge di quest' attività gli deve venire dall' ente, secondo il principio che ogni soggetto suscettivo di bene e di male ha il bene, quando aderisce perfettamente al suo termine, ed ha il male, quando non aderisce al suo termine in quel modo che la sua essenza esige. Il principio razionale adunque, tanto allorchè è meramente ricettivo e prende il nome di ragione teoretica , quanto allorchè è attivo e prende il nome di ragione pratica , essendo lo stesso principio, non può avere che lo stesso termine onde deve ricevere le leggi dell' operare. Ma in quanto è ricettivo, il principio razionale non facendo che ricevere al modo suo proprio, quale è quello dell' intuizione, non dipende da sè l' unione col termine, appunto perchè riceve e non fa; ma dipende dal termine stesso, dall' ente che gli è dato ad intuire. Onde la sua costituzione è fissata e determinata da una necessità a lui straniera; da quella necessità che lo costituisce quello che è. All' incontro, in quanto è attivo, il principio razionale pone da sè il suo atto; se lo fa, è egli che lo fa; se non lo fa, è egli che non lo fa; egli stesso ne è la causa. La necessità dunque di questo atto non può mai essere tale, quale è la necessità della ricettività dell' ente; perocchè quand' anche l' attività del principio razionale non si spiegasse alla sua propria e retta azione, tuttavia il principio razionale sarebbe; all' incontro questo principio non sarebbe, se egli non ricevesse l' ente. Vi è dunque questa prima differenza fra il principio razionale in quanto è teoretico e in quanto è pratico, che l' atto primo teoretico è necessario alla costituzione di esso, e niun atto pratico è necessario alla sua costituzione . Vero è che questo solo fatto basterebbe, come accennavamo di sopra, a dare piena ragione del perchè un principio possa deviare dalla sua propria legge naturale . Ma la compiuta spiegazione si trova esaminando che sia la libertà morale, come questa potenza si costituisca, come risulti dal contrasto di agenti categoricamente opposti che si collidono; cose tutte da noi già svolte, e che dobbiamo credere note al lettore. Rimane dunque a vedere che cosa sia quell' attività del principio razionale, rimane a trovarne la propria natura, perocchè la parola attività è comune a tutti gli enti. Si deve dunque in prima differenziare l' attività del principio razionale da tutte le altre attività, e poi distinguerla dall' attività ricettiva e primordiale della ragione teoretica. Trattandosi di un principio razionale, ella non può essere che attività razionale; deve dunque essere una maniera di conoscere. Ma il primo conoscere è quello della ragione teoretica. L' attività dunque della ragione pratica conviene che sia un altro conoscere, un conoscere con compiacenza nell' oggetto conosciuto, un appropriarselo, e trovare in esso il proprio bene. Quindi l' ente rispetto alla ragione pratica riceve il concetto di bene . Per caratterizzare poi con una parola questo conoscere attivo e vivace, fornito di compiacenza, noi lo chiamiamo riconoscere pratico . E questo atto della ragione pratica è il primo atto della volontà . La legge suprema adunque della ragione teoretica è la legge suprema altresì della ragione pratica. La differenza non istà che nella diversa relazione che l' una e l' altra ragione tiene collo stesso termine: la ragione teoretica ha coll' ente la relazione da noi dichiarata di ricettività , e la ragione pratica tiene collo stesso ente la relazione da noi dichiarata di adesione . Quello dunque che abbiamo detto della legge suprema della ragione teoretica, applichiamolo alla ragione pratica. E prima abbiamo distinto il pensare intero dal pensare astratto , e osservato che questo può bensì tirare a sè la nostra attenzione e divenire il termine esclusivo di essa; ma tuttavia non può stare da sè solo nella mente umana, nella quale forza è che vi si trovi sempre il pensare intero , sebbene vi stia negletto ed inosservato; e ciò perchè, essendo « l' ente l' oggetto del conoscere », non si può dare alcun conoscere, se non vi sia nella mente tutto ciò che è essenziale all' ente, benchè parte di ciò possa essere nella mente in un modo, per esempio accompagnato da attenzione, parte in un altro modo, non accompagnato da alcuna attuale attenzione. Ora questa dottrina è importantissima per la pratica; la ragione pratica ha in essa una legge nobilissima, e propriamente « la suprema regola della prudenza ». Perocchè l' attenzione è una forza che già appartiene alla ragione pratica, ma è un' attività che influisce sulla ragione teoretica, e ne avvigorisce gli atti; perocchè la ragione pratica, come vedremo anche meglio in appresso, ha un' azione che si ripiega in vari modi sulla stessa ragione teoretica. Nell' attenzione, adunque, la ragione pratica già comincia ad operare, e le cognizioni, a cui lo spirito dà attenzione, riescono più facilmente ed efficacemente norme e principŒ dell' umano operare. Indi può accadere che l' uomo diriga le sue operazioni in due modi, o secondo ciò che conosce col pensare intero e complessivo , o esclusivamente secondo ciò che conosce col pensare astratto e parziale . Se le operazioni umane corrispondono al pensare intero e complessivo, esse pure sono intere e complessive; se si limitano ad avere per norma il pensare astratto, esse sono manchevoli ed imperfette. In questo appunto stà la suprema regola della prudenza, che si può formulare così: « Opera a tenore del pensare intero »; o con espressione negativa: « Guardati dall' operare dietro un pensare astratto e parziale ». Solamente qui è da por mente che l' operare secondo la norma del pensare intero e complessivo può essere di due maniere, più o meno perfetto. Se il pensare è intero, ma non analizzato, privo delle astrazioni, l' operare sarà sostanzialmente prudente; ma gli mancherà qualche cosa di accessorio, e però riuscirà imperfetto negli accidenti. Laonde vi sono due gradi di prudenza; l' uno è di quelli che operano secondo il pensare intero e complessivo, ma senza analisi ed astrazioni, l' altro il più perfetto, di quelli che operano secondo il pensare intero e nello stesso tempo secondo il pensare astratto, non pigliando questo da sè, ma unito col primo, cioè considerando le astrazioni siccome congiunte cogli oggetti su cui vennero formate. Benchè questa dottrina sia importantissima, io mi astengo dall' aggiungerle qui un maggiore sviluppo, potendo il lettore trovare un luminosissimo esempio della sua efficacia nell' applicazione, che ne abbiamo fatto, alla prudenza politica nell' opera intitolata La società ed il suo fine (1), dove abbiamo chiamato semplicemente facoltà di pensare quella del pensare intero e complessivo, e facoltà di astrarre l' altra. Dalla qual regola generale procede quella più speciale, che si enuncia così: « « Nell' operare attienti alla sostanza, e non sacrificare essa giammai agli accidenti », svolta da noi in un' apposita operetta (2) ». E nell' oggetto del pensare intero deve necessariamente entrare la sostanza, che è il primo atto di ogni ente reale; la sostanza non può mancare che nell' oggetto del pensare astratto (3). Dopo di ciò, come la ragione teoretica ha diversi atti, che noi riducemmo a tre, d' intuizione , di percezione e di riflessione , così le leggi proprie, a cui questi diversi atti soggiaciono, debbono riprodursi, ossia avere le loro corrispettive, nella ragione pratica ; il che ora dobbiamo noi svolgere. L' intuizione ha per oggetto l' ente, tutto l' ente, ma sotto la forma ideale. Ora, posciachè l' ente ideale non si può godere in altro modo, nè unirsi a lui che per via di contemplazione, perciò la ragione pratica ha per legge sua propria l' inclinazione alla contemplazione dell' idea , che diviene poi secondo diversi rispetti verità, tipo, bellezza, ecc.. Ogni inclinazione propria di un ente è legge del suo operare; perocchè il suo operare, e in generale la sua attività, è in buono stato, quando è conforme all' essenziale e naturale sua inclinazione. Acciocchè poi l' inclinazione alla contemplazione delle idee riesca all' atto, debbono avverarsi certe condizioni. Altrimenti la naturale intuizione rimane senza sforzo di attività, e però teoretica, non pratica. L' una e la principale di queste condizioni si è « il confronto dell' ente reale coll' ideale », perocchè l' ente reale è propriamente il termine dell' attività razionale; ma poichè ogni essere reale è dato al principio razionale per mezzo dell' idea e nell' idea, quindi avviene che quell' attività, che viene mossa dal termine reale, ricada anche in sull' idea, ed in questa, mossa che sia una volta, possa affissarsi. Così si sviluppa la contemplazione attiva , che anche si può dire semplicemente la contemplazione in opposizione alla semplice intuizione . Come poi in ogni atto del principio razionale vi è una compiacenza, così vi è pure l' amore, il quale, definito in modo generale, è « la fruizione dell' oggetto ». In secondo luogo l' intuizione produce altresì nel principio razionale l' inclinazione o predisposizione verso ogni ente reale, perocchè l' essenza di ogni ente reale è già compresa nell' ideale, benchè virtualmente, cioè così che non vi si vede il modo dell' ente fino che non è percepito. E questo è ciò che insegnano comunemente i filosofi, quando dicono che: [...OMISSIS...] . L' essere ideale adunque, oggetto dell' intuizione, produce nell' uomo per sè stesso solo inclinazioni e propensioni, e non atti, che vengono poi in appresso, ricevutine gli stimoli opportuni; le quali inclinazioni si possono ridurre a due: 1 inclinazione alla contemplazione; 2 inclinazione ad ogni bene reale conoscibile (2). Veniamo alla percezione, e vediamo che cosa dalle leggi, a cui soggiace la percezione, provenga nella ragione pratica. La legge della percezione è questa, che « l' ente limitato, percepito nel sentimento, si riporti all' essere ideale e in esso si vegga », di modo che nella percezione vi è: 1 il sentimento o realità; 2 l' ente ideale; 3 il rapporto d' identità (imperfetto) fra quello e questo. L' ente ideale è infinito e per sè completo. Dunque se l' ente reale si percepisce razionalmente riferendolo a lui, si percepisce insieme con esso la sua misura; perchè riportandolo al totale dell' essere, si vede fra gli enti reali qual più e qual meno prenda dell' essere, lo realizzi in sè stesso. Ora essendo il termine della ragione pratica l' ente quale è dato dalla ragione teoretica e da tutte le sue funzioni, è termine altresì di quella l' ente percepito. E perchè l' atto della ragione pratica consiste nell' aderire al suo termine, perciò ella deve aderire all' ente percepito in quella guisa che è percepito. Ma è percepito misurato dall' essere ideale, sicchè l' un ente percepito è percepito come maggior ente, e l' altro come minor ente. Dunque è legge della ragione pratica che ella aderisca agli enti secondo la loro misura. Ed anche quando il soggetto non percepisce che un solo ente reale, egli pur vede al confronto dell' ideale se sia limitato o illimitato; e deve aderirvi tale quale egli è, cioè con affezione misurata ad esso e proporzionata. Ora questo è il principio morale, « la legge dell' ordine morale », che prescrive che il riconoscimento affettivo sia compartito agli enti reali conosciuti, proporzionalmente alla loro misura, considerata sì rispetto all' ente completo ideale, e sì comparati fra loro, se sono più (1). Di qui un' altra nobilissima conseguenza, che il bene morale è di natura infinita, in quanto ha sempre per oggetto l' ente infinito. Perocchè l' ente limitato non è mai presentato dalla percezione solo e rispetto a sè, ma sempre unito all' ideale, che è completo ed infinito; e da questo misurato. Onde l' oggetto della ragione pratica non si ferma mai all' ente reale7finito, ma lo congiunge coll' ideale infinito e con questo insieme lo costituisce suo bene, aderendo a lui solo in quel tanto che l' essere ideale7universale gli prescrive. Onde l' atto dell' adesione ubbidisce a questo essere ideale7universale come sua suprema norma e regola; e lo tiene per conseguenza in maggior riverenza di ogni reale finito. E in questo sta appunto il carattere essenziale di ciò che è morale, di abbracciare sempre il tutto dell' essere , e finire in questo tutto, e secondo questo tutto regolarsi; e però esso è un bene di natura infinita , non comparabile a nessun altro bene finito, quale è il bene eudemonologico scompagnato dal morale, che termina nel finito. L' uomo adunque per la bontà morale è ordinato rispetto a tutto l' essere, all' essere infinito; e però quest' ordine, anche secondo il costante e uniforme giudizio degli uomini, ha un infinito prezzo. Nè vale il dire che l' ente reale, a cui si aderisce, è finito, perchè non si aderisce a lui se non aderendo prima all' ideale infinito, che misura e determina la quantità di adesione a quello dovuta. Vero è che se l' ente reale fosse egli stesso infinito, il bene morale sarebbe infinito da due parti, rispetto alla dignità infinita della norma che si venera su tutte le cose finite, e rispetto all' oggetto reale. Ma benchè in questo caso la moralità sia infinitamente maggiore che nel primo, perchè ella acquista un prezzo infinitamente infinito, tuttavia anche nel primo caso vi è una infinità di prezzo; chè, come abbiamo veduto, l' infinito è una proprietà ontologica, che non si può perdere in parte, ma o si perde tutta ovvero rimane tutta, cioè rimane l' infinità, tale essendo per natura e non per addizione o secondo la quantità. Riconoscere praticamente ciò che prima si conosceva teoreticamente è l' atto proprio della ragione pratica, in cui consiste la moralità. Il primo atto dunque della moralità si fa per via di riflessione. Ma la riflessione è doppia, astraente e integrante; a cui si può qui aggiungere una terza funzione, quella di semplicemente riconoscere ciò che si conosce, senza esercitarvi sopra nè l' astrazione, nè la riflessione. Quindi anche la ragione pratica deve avere tre funzioni: 1 il riconoscere volontariamente quello che si conosce; 2 il riconoscerlo con astrazione, con divisione e separazione; ossia riconoscere una parte solamente di ciò che si conosce; 3 il riconoscerlo con integrazione. Se la ragione pratica riconosce l' ente conosciuto semplicemente per quello che è nella cognizione teoretica, ella fa l' atto suo naturale, si unisce al termine determinatole dalla sua propria essenza, dall' essenziale sua inclinazione; il suo atto è buono. Ma se ella, invece di riconoscere semplicemente tutto il suo termine, vuole astrarre da qualche parte di esso e vuole aderire solo ad un' altra parte, ella non consegue la totalità del suo termine, e quindi è viziosa, il suo atto è malvagio. Di maniera che in ogni atto immorale vi è sempre un' astrazione arbitraria e contro natura. Da che poi l' uomo possa essere sedotto ad operare in opposizione all' essenza del suo principio razionale, che è egli stesso, fu da noi altrove chiarito (1). Di più, il restringere che fa la ragione pratica, e chiudere la propria attenzione e attività in una parte dell' oggetto conosciuto, è privarsi di una parte di lume, un accecarsi. In ogni vizio adunque e in ogni atto vizioso vi è qualche ignoranza e qualche cecità, la quale produce anche le coscienze erronee, di cui riesce poi cotanto difficile all' uomo interamente spogliarsi e pur solo avvertirle (1). Quanto poi alla riflessione integrante come funzione della ragione pratica, ella presta un nobilissimo ufficio alla perfezione dell' uomo, perocchè lo innalza a Dio, e con ciò l' ordine morale riceve l' ultima sua perfezione, e la ragione pratica è giunta all' ultimo divino suo termine, che quale principio e fine delle cose, e quale essere essenziale compie l' ordine dell' ente conosciuto. Poichè allora la ragione pratica ha già per suo termine non solo tutto l' essere sotto la forma ideale, ma ben anche sotto la forma reale, benchè con una cognizione negativa. Così la religione è il fastigio della morale; e come la morale nemica alla religione non è morale, anzi somma empietà, così la morale senza religione è una casa fabbricata senza tetto, il quale rimase solo disegnato in sulla carta dall' architetto. Veniamo ora alle leggi ontologiche speciali della ragione pratica: la prima è quella dell' oggettività. Noi abbiamo veduto che per la legge dell' oggettività la ragione: 1 non modifica il suo termine; 2 non apprende la sua azione, ma lui stesso; 3 e l' apprende senza apprendere insieme sè stessa, anzi finendo col suo atto fuori di sè, in lui. Queste tre qualità dell' operare razionale debbono riscontrarsi sì nella ragione teoretica che nella pratica; perocchè l' una e l' altra è ragione. Ma come tali leggi sono necessarie alla ragione teoretica, la quale da esse viene costituita quello che è, e però sono leggi essenziali, così rispetto alla ragione pratica, che soggiace ad agenti stranieri al suo oggetto, non ne costituiscono l' essenza, ma la perfezione, il bene proprio, e però non sono necessarie in questo senso, ma convenienti; non hanno necessità fisica , ma morale . Essendo dunque legge morale alla ragione pratica quello stesso che è legge essenziale alla teoretica, ne procede che: Come è legge essenziale alla ragione teoretica il non modificare il suo termine, così la pratica deve astenersi dal pur tentare di modificarlo, di alterarlo, di farlo diverso da quello che è, perchè ciò sarebbe un deviare dalla legge del principio razionale, un non operare più razionalmente. Ora per questo appunto noi ponemmo una facoltà dell' errore e del vizio diversa dalla facoltà di conoscere; perchè l' attività della ragione pratica, viziosamente alterando la misura e la stima degli enti, si oppone al conoscere anzichè produrre un conoscere. Come è legge essenziale della ragione l' apprendere l' ente e non ricevere l' azione dell' ente che, entrando nel soggetto, lo modifichi, quindi è che il principio razionale pratico deve, come sua legge, considerare il valore dell' ente in sè stesso, indipendentemente dall' accidentale e reale azione che egli esercita in lui, dovendosi misurare coll' essere ideale, e non coi soggettivi vantaggi e danni; e secondo la misura, che dal confronto coll' essere ideale riceve, conviene apprezzarlo. La reale azione adunque, che l' ente esercita in noi, non deve muovere la nostra ragione pratica a stimarlo diversamente da quello che, considerato rispetto all' ente ideale e nell' ente ideale, vale per sè. Perocchè altro è l' operare nostro in conseguenza dell' azione reale che esercita un ente o piuttosto un agente in noi, altro è operare in conseguenza della misura verace dell' ente (nel quale certo si comprende anche la sua attività e attitudine ad operare in noi ed in altri), rilevata per via di confronto coll' essenza dell' ente, che nell' essere ideale7universale la mente intuisce. L' operare secondo questa misura è operare razionalmente , e quindi moralmente; l' operare per impulso dell' azione reale in noi è abbandonare la legge della ragione, per seguitare quella dell' essere reale, o cieco o meramente sensibile (1). La ragione pratica adunque deve dirigersi secondo l' oggetto , e non secondo il soggetto . Come è legge essenziale della ragione apprendere l' ente con esclusione di sè stessa, in quanto è apprendente, quindi la ragione pratica, per operare razionalmente, deve seguitare l' ente suo termine in modo da dimenticare affatto sè stessa (soggetto), a meno che ella non fosse nell' ente, nell' oggetto compresa (oggettivata). Il che ritorna alla legge precedente di operare secondo l' oggetto , ma di più dimostra il perchè l' uomo virtuoso dimentichi sè stesso, e quale sia l' origine della bella semplicità del giusto, consistendo questa preclarissima dote in operare il bene senza pur volgere l' occhio agli stimoli soggettivi, come pure s' appalesa qui l' origine della generosità , della magnanimità , del sacrificio . Veniamo alla legge del sintesismo della ragione. Quale è la conseguenza, che questa legge adduce nella ragione pratica? La conseguenza si è che come il principio razionale ha una dualità, perchè esce di sè e si affissa e quasi dimora in cosa diversa ed opposta a sè soggetto, cioè nell' oggetto, così, qualora la ragione pratica opera consentaneamente alla propria legge della ragione, non solo ella è ordinata e soddisfatta in sè stessa (bene morale7psicologico), ma ella diede altresì all' ente suo oggetto ciò che a lui si aspetta, l' esigenza dell' ente fu pure soddisfatta (bene morale7ontologico). Viceversa, se la ragione pratica devia dalla legge propria della ragione, ella produce due mali: 1 disordina sè stessa, non unendosi e spiegandosi verso al suo termine, come esige la sua natura (male morale7psicologico); 2 ma ben anche pone un disordine fra lei e l' ente, non essendo osservata la relazione naturale fra i due termini (male morale7ontologico). Quindi è che il male morale non può essere riparato pienamente col solo emendare il disordine rimasto nell' attività pratica, il che non è che un restituire l' ordine psicologico , ma conviene di più che all' ente, di cui non si rispettò l' esigenza , si dia una soddisfazione, e così si restituisca l' ordine ontologico; il che spiega l' origine della giustizia punitrice e vendicatrice, e della soddisfazione penale. Se dunque vi è chi abbraccia tutto l' ordine ontologico in sè stesso, e presiede perciò alla conservazione di lui (e questi è Dio), è manifestamente uopo che la giustizia di lui esiga soddisfazione penale del male morale a favore dell' ente che fu oltraggiato. Egualmente da dirsi del bene operare. Oltre il buono effetto psicologico, che nasce dal bene morale nell' ordine interiore del soggetto che lo produce, deve conseguirne un premio ontologico. Ma questo è vario secondo l' ente particolare , di cui fu rispettata l' esigenza. Se l' uomo retto operò quel bene che riguarda sè stesso (oggettivamente considerandosi), egli ne avrà di bene ontologico l' amore e la stima accresciuta di sè medesimo (testimonianza della coscienza, che è cosa diversa dal sentimento dell' armonia psicologico7morale). Se l' uomo retto operò quel bene che riguarda i suoi simili, il premio ontologico, a cui ha diritto, è nell' amore e gratitudine dei suoi simili; e l' Ente supremo che presiede all' ordine ontologico lo deve compensare, se gli vien negato; come pure deve punire questa ingiusta negazione nei suoi simili, che glielo ricusano. Se finalmente l' uomo retto operò quel bene che riguarda Iddio, questi gli riserva premi degni di lui e della virtù morale verso di lui esercitata. Il quale discorso vale egualmente rispetto al male. Ma giova che noi vediamo più distintamente come il bene ed il male morale sia sempre duplice, psicologico ed ontologico ad un tempo, confrontando questo bene, proprio dell' attività del principio razionale, col bene proprio dell' attività del principio sensitivo. Il termine del principio sensitivo è da lui indiviso, ha con lui un' unione od una relazione di attività reciproca; il termine del principio razionale è essenzialmente a questo contrapposto, e non vi è fra essi congiunzione di reciproca attività, non essendo uniti che per una relazione intuitiva. Quindi tutto il male del principio sensitivo si riduce in quello che produce a sè stesso, e non è male suo quel che produce in altrui, sì perchè l' esteso materiale suo termine non è suscettivo, come dicevamo, di male e di bene, sì perchè ciò che è da lui disgiunto non è suo termine. Quindi se un cane morde un uomo, non si dice che egli stesso il cane da questa azione ritragga alcun male; e se lo si dice cattivo, l' appellazione si riferisce unicamente al male da lui prodotto, ed è piuttosto un traslato che un parlare proprio. All' incontro il principio razionale, avendo per termine un oggetto da sè distinto, ogni qualvolta ha fatto male altrui, per esempio al suo simile, egli ha operato contro alla legge che gl' imponeva il termine della sua attività, l' ente; e ciò per le dette leggi di oggettività e di sintesismo, per le quali questo termine è a lui presente. Dunque il principio sensitivo è soggetto al male per una sola ragione, perchè la sua attività può trovarsi sconcertata nel naturale suo istinto; all' incontro il principio razionale è cagione del male a due titoli: 1 a cagione dello sconcerto che egli produce nell' ordine ontologico, alterando la relazione naturale fra gli enti, e così tentando da parte sua di distruggere l' ente in universale, che ha questo ordine intrinseco; il che a lui viene imputato come a cagione; 2 per lo sconcerto che indi nasce in sè stesso, che non aderisce al suo termine naturale secondo la legge della sua propria costituzione. Ond' è che la necessità morale è oggettiva e soggettiva ad un tempo (1). Applichiamo ora la seconda legge della ragione, che dice: « il termine del pensiero è il possibile », alla ragione pratica. Tosto ne avremo due nobilissime conseguenze. La prima si è che la ragione pratica ha per suo termine l' essenza degli enti in relazione al realizzamento di lei. Abbiamo veduto, parlando della legge della percezione, che la ragione pratica deve aderire all' ente reale secondo la misura di lui, e che la misura di lui è determinata dall' essere ideale7universale. Questa misura è l' idea specifica dell' ente di cui si tratta; e questa idea specifica è sempre l' essere ideale considerato come manifestativo di quell' ente reale. Vi è dunque: 1 l' essere ideale universale, misura prima, assoluta, misura di tutte le misure degli enti reali; 2 vi è l' idea specifica, misura prossima dell' ente reale; 3 vi è l' ente reale misurato. La legge prima sta nella prima misura misuratrice delle altre; il che è quanto dire che la ragione pratica deve operare secondo la sentenza di questo misuratore, deve abbracciare la misura che egli assegna. La legge seconda sta nella misura prossima; il che è quanto dire che la ragione pratica, avuta questa misura dal misuratore, deve tenerla per norma della sua stima e della sua adesione all' ente reale. Sopra l' ente reale adunque vi sono queste norme della ragione pratica; onde l' ordine morale viene alla ragione pratica da quelle leggi che le prescrivono il contegno, che ella deve tenere verso a ciascun ente reale. La ragione ultima adunque del rispetto morale è l' idea, e l' ente non è apprezzato se non in quanto lo prescrive l' idea . Ora l' idea contiene l' essenza dell' ente. Dunque il rispetto della ragione pratica termina nell' essenza dell' ente; e l' ente reale è apprezzato non in sè stesso e per sè stesso, ma nella sua essenza e per la sua essenza. Ma l' essenza dell' ente, trattandosi di enti contingenti, è ideale, e prende il nome di possibile , quando si considera rispetto alla sua realizzazione. Dunque il termine ultimo conveniente alla ragione pratica è l' essenza possibile della cosa in relazione col suo realizzamento. Di qui si scorge perchè è atto morale non solo il rispettare un ente reale secondo la misura della sua essenza ideale, ma anche il tendere a realizzarne l' essenza. Poichè se la ragione pratica ha per oggetto il realizzamento dell' essenza, ne viene che se questo realizzamento ancora non è fatto o è imperfettamente, ella tenderà a produrlo, e a produrlo nel modo più compiuto e perfetto; se poi è già prodotto, ella tenderà ad aderire all' ente reale perfettamente realizzato. Quindi i due atti morali: 1 di aderire all' ente reale (giustizia speciale); 2 di realizzare l' ente ideale (beneficenza, carità); e questo secondo si parte in due, l' atto di produrre e l' atto di perfezionare (1). Da questa stessa dottrina procede la legge del realizzamento completo delle specie o dell' esclusa eguaglianza , che segue il Creatore nella formazione e nel governo del mondo (2). Noi di sopra parlavamo degli enti contingenti. Ma si può applicare un simile ragionamento all' Ente supremo, necessario ed assoluto. Perocchè, quantunque l' Ente supremo abbia la sussistenza e realità nella sua essenza, tuttavia la sua essenza non è meno manifestativa della sussistenza e realità sua; o per dir meglio la sussistenza dell' essere supremo in quanto si fa conoscere col proprio lume, in tanto è legge imposta alla ragione pratica, e in quanto vive compiuta in sè, in tanto è oggetto reale della stessa ragione pratica. La seconda conseguenza, che noi deduciamo dal sapere che il possibile è il termine della ragione, si è che la ragione pratica ha per legge sua propria l' armonia nell' oggetto. L' essenza, che non abbia in sè la sussistenza dell' ente, si dice possibile, considerata in relazione al suo realizzamento. Possibile logicamente è tutto ciò che non involge contraddizione; onde dicemmo che l' oggetto della ragione, l' ente, è immune da ogni contraddizione, consentaneo seco stesso, pienamente armonico. Dunque la ragione pratica, essendo anch' essa ragione, forza è che per operare secondo la sua natura abbia un termine armonico, immune da contraddizione. All' incontro l' uomo vizioso, se ben si considera, ha sempre per termine del suo operare una contraddizione; egli si sforza di fare l' impossibile. Infatti è impossibile distruggere l' ordine intrinseco dell' essere universale, fare che l' ente considerato secondo la sua essenza sia diverso da quello che è, perchè le essenze sono immutabili. Ora quando un uomo, invece di riconoscere, secondo la sua misura, l' ente concepito, vuole riconoscerlo secondo un' altra misura arbitraria, egli rappresenta a sè stesso l' essenza dell' ente mutata quanto alla sua misura, e quindi di maggiore o minore prezzo del vero. Egli si rappresenta dunque il falso per oggetto di sua attività; ma egli non lo si presenta già come falso, ma come vero. Perocchè niuno può pienamente e assolutamente volere ingannarsi, e ogni vizioso tende necessariamente a persuadere a sè stesso che il bene da lui voluto è vero bene; e se si potesse a pieno convincere che neppure hic et nunc è vero bene, non lo seguirebbe giammai, cioè non abbandonerebbe il vero bene per ciò che già conoscerebbe non essere bene. Certo che egli può colla ragione speculativa conoscere che s' inganna; ma non lo riconosce colla ragione pratica. Egli dirà a sè stesso che il bene che lo seduce non è bene in generale, e che arreca dopo di sè maggior male; ma egli vuole in pari tempo che gli sia bene per il presente, astraendo dal futuro, astraendo dalle conseguenze o da mille altre considerazioni; perocchè, come dicevamo, è per astrazione che la ragione pratica devia dalla strada, che le prescrivono le naturali sue leggi. Se dunque vuole praticamente e nell' atto di operare che sia bene quello che è male, egli tenta con questa sua attività di snaturare e distruggere la verità, di fare che quello che è in un modo sia a lui in un altro, tenta di mutare l' ordine dell' ente. Ora l' ente in tal caso entrerebbe in contraddizione seco medesimo. Perocchè alla ragione teoretica sarebbe una cosa, avrebbe una misura; alla ragione pratica sarebbe un' altra cosa, avrebbe un' altra misura. Quindi la ragione pratica, tendendo con un vizioso operare di mettere l' ente in contraddizione seco stesso, tende di fare l' impossibile. Dove si appalesa l' origine della lotta incessante e della implacabile battaglia, che ogni vizioso agita nel proprio seno, e della pace e concordia seco stesso dell' uomo giusto (1). Le quattro leggi seguenti della ragione non fanno che definire ciò che non può costituire il suo termine; e rispetto alla ragione pratica hanno la stessa efficacia negativa. Per essa appare che non vi può essere il termine proprio della ragione pratica, qualora il termine che ella prende di mira manchi o dell' atto primo, o dell' unità, o della durevolezza, o della determinazione. Tutto ciò viene a dire che il termine della ragione pratica deve essere qualche sostanza. Quindi ciò che è accidente non può costituire un termine proprio alla ragione pratica, la quale deve riferire ciò che è accidentale a ciò che è sostanziale. Noi l' abbiamo veduto parlando della legge della prudenza. Di più, ciò che è corporeo, non avendo unità propria, ma mutuandola dal principio senziente (nel quale solo ha la continuità), non può essere vero termine alla ragione pratica. Neppure il principio meramente senziente7animale costituisce il termine finale della ragione pratica, come quello che non è ente completo, ma solo un cotal rudimento di ente; è in via ad essere ente. Oltre di che, dovendo questa sempre spingersi all' infinito, il che la rende morale, e il principio animale niente avendo in sè dell' infinito, egli non può essere in alcun modo ultimo termine alla ragione pratica. L' essere intelligente all' incontro, essendo quello che ha sua sede nell' infinito, nell' essere ideale, nell' essenza dell' ente in universale, in quanto che in questa si affissa e riposa; partecipa della dignità di questo, perchè è a questo ordinato, e quindi ha ragione di fine e di termine della ragione pratica. Ma posciachè anche fra gli esseri reali7intelligenti vi è un ordine, e il reale finito non è che una produzione dell' Infinito che lo crea, così è necessario alla ragione pratica di aderire all' ente intelligente finito in modo da riferirlo al suo principio, a Dio creatore; nel quale solo s' acquieta interamente come in suo termine ultimo, completo, assoluto. E questo basti delle leggi ontologiche, a cui ubbidisce il principio razionale; passiamo ora al secondo genere, cioè alle leggi psicologiche. Quantunque il termine sia quello che suscita l' attività del principio a cui è congiunto, tuttavia dopo di ciò il principio ha pur egli un' attività sua propria. Il termine del principio razionale nella vita naturale è duplice, cioè l' ente ideale e il reale finito (il mondo). Questo doppio termine deve suscitare nel principio razionale una doppia attività. E poichè questa doppia attività deve ricevere in non piccola parte il suo modo di operare dalla natura del principio stesso, ossia dell' anima, quindi le leggi psicologiche debbonsi dividere in due classi; e sono quelle che rispondono alle leggi ontologiche, e quelle che rispondono alle leggi cosmologiche. Ma delle leggi cosmologiche noi non abbiamo ancora parlato, ma solo delle ontologiche. Gioverà dunque che qui noi ci limitiamo ad esporre le sole leggi psicologiche che alle ontologiche rispondono, rimettendo a parlare dell' altra classe più innanzi. Tuttavia noi non potremo farlo, prescindendo al tutto dalle leggi cosmologiche; ma ciò che ci verrà detto intorno a queste, sarà un acconto di quanto dovremo dire di poi, quando tratteremo exprofesso di esse. La legge ontologica generale, che riassume tutte le altre, si è: « il termine del principio razionale è l' ente »; e però se manca qualche condizione essenziale dell' ente, non c' è più il termine del principio razionale; all' incontro, se non manca niuna condizione, quel principio, avendo il suo termine, esercita in esso la sua attività. Per applicare debitamente questa legge all' uomo ci convenne osservare quali sieno le condizioni essenziali dell' ente. E primieramente osservammo: Che l' ente ha tre forme, e che sotto ciascuna è compiuto; quindi che può essere dato ad un soggetto l' ente sotto la forma ideale, senza che gli sia dato sotto le altre due forme. Che non potrebbe tuttavia essere dato l' ente sotto la forma reale e morale senza la forma ideale, perchè l' ente ideale è quello che manifesta l' essenza dell' ente , e l' ente non può essere oggetto del pensiero sotto nessuna forma, quando gli manchi la sua propria essenza (1). Che l' ente sotto la forma ideale essendo per sè oggetto, il principio razionale che ne è informato, non può avere altro termine che sotto la forma di oggetto. Da queste verità si raccoglie: Che il principio razionale, in quanto è per natura intellettivo, non ha che quella attività che gli può essere data dall' ente ideale. Che il detto principio, quando si dividesse affatto dal sentimento fondamentale7animale, s' acquieterebbe nell' ente ideale, suo naturale termine. Che non è suscettivo di alcuna mozione a qualche altro atto, se non è tirato a ciò da un nuovo oggetto. In queste proposizioni si contengono già i semi delle leggi psicologiche, che ci proponiamo di esporre; cominciamo dal considerare l' ultima. L' ultima delle tre proposizioni enunciate viene a dire che, se si suppone che il principio razionale non sia mosso ad operare da alcun altro oggetto che dall' ideale, egli si rimane in perpetua quiete, nulla opera al di là dello stesso atto intuitivo pel quale è unito al suo termine. Infatti chi ricerca le leggi soggettive secondo le quali opera il principio razionale, può intendere di fare due cose, cioè può intendere di risolvere due questioni. Questione prima : secondo quali leggi si muova ai suoi atti secondi. Questione seconda : secondo quali leggi, posto che sia già mosso, egli eseguisca il suo movimento. In quanto alla prima questione, è da rispondere che il principio razionale non si muove a nessun atto secondo, se non gli è dato un nuovo oggetto oltre l' ente ideale, se non gli è dato qualche cosa di reale. Ma posciachè l' ente reale, termine del pensiero, può essere finito o infinito, incompleto o completo, e quando è infinito e completo, la stessa essenza si vede nell' ideale realizzata, e però egli stesso è per sè oggetto; quindi l' attività, che verrebbe suscitata dall' ente reale infinito nel principio razionale se gli si comunicasse, sarebbe veramente ontologica; e in questo caso si può ricercare quali sarebbero le leggi soggettive7ontologiche del principio razionale. Ora è evidente che l' attività suscitata nel principio razionale in tal caso sarebbe massima, e tuttavia semplicissima, cioè tutta si ridurrebbe a un atto, che riposerebbe e si acquieterebbe nel suo termine senza più; e però, compiuto quest' atto, non si darebbe altro movimento se non quello che vi potesse essere dal passaggio fra l' ideale e il reale; atto di compiacenza in vedere che quel reale compie tutto l' ideale, e che l' ideale esprime e, per così dire, illumina tutto quel reale. Al quale passaggio incessante di attenzione e di contemplazione ella potrebbe essere mossa da ciò che nel reale stesso ritroverebbe di identico e di distinto dall' ideale (1). Ma lasciando la comunicazione dell' ente reale infinito, ogni comunicazione del reale finito non può suscitare che una attività cosmologica, e quindi esser fonte di sole leggi cosmologiche, non ontologiche. Suscitata poi questa attività, è certo che il modo dell' operare del principio razionale trae dall' ente ideale, e perciò è ontologico, e vi possono essere leggi ontologiche7soggettive, benchè col solo ente ideale o infinito7reale non vi possa essere che quell' atto semplice, che termina in esso ed ivi si quieta. Questo bisogno dunque, che ha il principio razionale di nuovi oggetti per fare nuovi atti, è quello che chiamiamo legge psicologica d' inerzia , che fa sì che quel principio non possa muoversi dalla quiete ad alcun atto per sè stesso, se non quando l' oggetto stesso a sè lo tira e il muoversi gli concede; benchè già in moto, egli possa diverse cose operare secondo l' altra legge della spontaneità (1). Se dunque l' anima umana, ossia il principio razionale, non si muove che quando gli è dato il termine, come spiega egli tanta attività in sì varie operazioni, che lo conducono ad un immenso sviluppo? Non parrebbe per avventura che non vi fosse nulla di mezzo fra l' essergli dato l' oggetto e il non essergli dato, delle quali due supposizioni nella seconda non potrebbe avere operazione, nella prima avrebbe l' operazione semplicissima dell' unirsi all' oggetto e in lui riposare? Rispondo che così appunto dovrebbe avvenire, se l' anima non avesse un' attività propria di lei come principio; la quale attività non sarebbe, è vero, se non vi fosse l' oggetto, ma, posto l' oggetto, ella è, ed ha sue proprie leggi, che sono appunto le leggi psicologiche che noi andiamo investigando. E primieramente l' unirsi all' oggetto si fa in due modi, come già indicammo, l' uno speculativo , l' altro pratico . Ora l' unione meramente speculativa è l' atto primo di unione, e questo è determinato dalla presenza dell' oggetto, ed è però unione ontologica; ma l' unione pratica si fa per l' attività propria del soggetto, e quindi ella è unione psicologica (1). Di che noi vedemmo che le leggi ontologiche della ragione speculativa sono fisicamente necessarie, come venienti dall' oggetto e dalla virtù creatrice che pone l' anima intuente l' oggetto, e però non traggono dall' attività razionale dell' anima, ma questa anzi per esse si crea. All' incontro, quando cercammo se la ragione pratica avesse leggi ontologiche e quali fossero, noi non trovammo leggi ontologiche della ragione pratica, che fossero fisicamente necessarie (2), ma solo leggi necessarie moralmente. Che vuol dire leggi ontologiche moralmente necessarie? Vuol dire tali che non determinano l' operare fisico di lei, ma il morale; non determinano ciò che ella veramente fa, ma ciò che che deve fare per essere perfetta. La ragione pratica adunque ha due specie di leggi: quelle secondo le quali la sua propria natura la fa operare, e queste sono psicologiche; e quelle secondo le quali deve operare per essere perfetta, e queste sono ontologiche e morali . Queste ultime le abbiamo già esposte, quelle prime prendiamo ora ad esporle. Ma posciachè la ragione pratica non è che una cotal continuazione della ragione teoretica, come gli atti secondi sono una cotal continuazione dell' atto primo, perciò la ragione pratica non opera mai sola, ma colla stessa ragione teoretica, onde muove come da sua origine; di che avviene che nell' operazione della ragione pratica si vedono già adempiute le leggi della teoretica; dal che però non deriva che le une sieno le altre, conviene anzi guardarsi dal confondere insieme tali due maniere di legge distintissime. L' attività e spontaneità psicologica , adunque, si compone ottimamente coll' inerzia psicologica , poichè questa consiste nel non poter l' anima operare senza oggetto; e quella nell' unirsi più e meno, e in diversi modi all' oggetto, quando questo le sia già dato. Affine però di avere più chiara nella mente questa conciliazione, gioverà qui riassumere in breve tutto lo sviluppo psicologico , raccogliendo dai vari luoghi dove ne parlammo. Esso procede coi seguenti passi e modi di operare dello spirito, ai quali tutti soggiungemmo la loro ragione sufficiente. Il principio razionale non si muove, se non gli è dato l' oggetto a cui si possa unire. Se questo oggetto è il solo ente ideale, infinito, egli s' acqueta in lui, e l' azione in tal caso è semplicissima (intuizione), come semplicissimo è l' oggetto; nè gli rimane ad andare più in là col suo movimento, il quale è giunto al suo compiuto termine. Se l' oggetto è un reale dato nel sentimento, questo promuove la percezione, la quale ha del molteplice, racchiudendo tutti insieme: a ) l' ideale infinito; b ) l' ideale in quanto mostra l' essenza del reale, concetto del reale, misura del reale; c ) l' affermazione del reale, cioè della realizzazione del concetto. Ma tutto ciò quasi direbbesi organicamente unito. Se l' affermazione del reale o la sua memoria cessa per qualunque ragione, rimane nella mente il concetto della cosa, sorretto da qualche vestigio reale di sentimento, che ne fa le veci. Ma un reale, percepito dalla nostra ragione teoretica , può divenire oggetto alla nostra volontà (attività psicologica) non solo in quanto è concepito , ma in quanto è reale . Questi sono due modi diversi di unione dell' anima coll' oggetto. Infatti la volontà talora si diletta semplicemente di conoscere attualmente una cosa (diletto di contemplazione), ed allora le basta di avere l' oggetto presente nella concezione della ragione teoretica, soddisfacendosi in contemplarlo, che è atto di ragione pratica (1). Ma talora non basta alla volontà di contemplare l' oggetto conosciuto; ella appetisce la sua fruizione sentimentale, l' appetisce come reale, come termine del sentimento, non come termine semplicemente della cognizione. E rispetto a questa unione reale possono aver luogo due specie di volizioni: le affettive e le appreziative (1). Nelle volizioni meramente affettive il principio razionale non fa che secondare l' istinto, e quindi si contiene negativamente rispetto al termine dell' istinto, concependolo bensì nell' ente, ma non apprezzandolo distintamente come bene. Nelle volizioni appreziative interviene e precede l' atto di appreziazione. Ora la volizione appreziativa (perocchè restringeremo ora a questa il discorso), che appetisce il reale come termine del sentimento, è varia secondo che vari sono i sensorii e i modi coi quali i sensorii si uniscono al loro termine. Quindi: Se si tratta del sensorio della vista, basterà, perchè abbia luogo la volizione appreziativa, che il reale sia presente agli occhi; la percezione visiva del reale sarà l' oggetto dell' appetito; basterà il contemplare una bella frutta che penzola rosseggiante da un albero per appetirla. Se si tratta del tatto, non le basterà che il reale sia ad una certa distanza dove possa esser veduto, ma lo vorrà vicino, sotto le sue mani; per esempio, il bambino vorrà che gli si spicchi e che gli si dia in mano, per contrattarla, quella bella frutta che vede rosseggiare sull' albero. Se si tratta del gusto o del senso alimentare, si vorrà poter mangiare lo stesso oggetto; il bambino vorrà poter mettere alla bocca e mangiare quella frutta. E così si dica di ogni altro sentimento. In generale adunque si brama che il termine appetito venga unito al senso a cui appartiene, in quel vario modo che la natura del sensorio esige. Quindi è che il reale concepito dalla ragione teoretica, qualora dalla volontà sia appetito come reale termine dei sentimenti, riceve la natura di fine rispetto alla volontà, la cui attività tosto si muove a cercare i mezzi per conseguire quel fine. I quali mezzi possono essere trovati per un gioco di volizioni meramente affettive , ovvero può muoversi la ragione pratica a trovarli con volizioni appreziative e calcolatrici. In questo ultimo caso la ragione pratica già muove la ragione teoretica a trovare i detti mezzi . E tuttavia non è qui da conchiudere che con ciò si formino i concetti astratti di fine e di mezzo; niente vi è ancora di veramente astratto nella ragione teoretica, ma ella opera dietro le relazioni degli enti, senza astrarre da essi queste relazioni, che vede negli enti e non in separato da essi, benchè con atti che hanno già un termine complesso e molteplice; le cui parti però sono come organi di un solo tutto, inteso nel tutto e pel tutto. Questa maniera di operare per fine e mezzi, senza conoscersi ancora astrattamente il fine ed il mezzo, non appartiene al pensare astratto , ma al pensare molteplice; perocchè nell' oggetto del pensiero vi può essere molteplicità senza astrazione. Così abbiamo veduto che nell' oggetto della percezione si distinguono tre elementi; eppure ella è una sola operazione, e l' oggetto è uno, benchè organato. Ma questa relazione di mezzo e di fine è già un legame fra le idee e le percezioni. Altri legami poscia si manifestano, che le associano in mille forme, e di molte fanno un solo pensiero. E l' istrumento che dà nuova attività al pensiero è l' associazione e la spontaneità dei fantasmi; poichè noi abbiamo veduto essere legge del principio razionale che ad ogni sentimento egli unisca l' idea. Quindi i fantasmi eccitano il pensiero. Ora è proprio della fantasia l' avere un cotal moto spontaneo per sì fatta guisa che al suscitarsi di un solo fantasma se ne suscitino altri (1). Di conseguente anche i pensieri vengono da tale stimolo tratti a succedersi. La fantasia ha oltracciò la legge dell' abitudine, e questa le viene imposta anche in parte dai pensieri; poichè come i fantasmi muovono i pensieri corrispondenti, così i pensieri muovono i fantasmi. Ora i pensieri sono legati dai loro nessi logici, e però anche i fantasmi corrispondenti si abituano a rappresentarsi in una serie, quasi direbbesi, ragionata. Poichè quella serie di ragionamenti, che la mente una volta ha percorso, già lega e produce la serie corrispondente di fantasmi. Quindi poi quelle serie ragionate di fantasmi, legate a tenore dei diversi ragionamenti, vengono a suscitarsi in noi abitualmente, tostochè se ne sia dato l' impulso al nostro sensorio interno, e dietro ad esse tornano i congrui ragionamenti. Così l' abitudine, a cui soggiace la fantasia, passa alla facoltà di pensare con quella abbinata; ed è questo che noi chiamiamo fantasia ragionante , ovvero abitudine ragionante , della quale ci gioviamo a spiegare i fenomeni dei sogni, delle distrazioni, ecc.. E qui si rifletta che questa abitudine ragionante , che incomincia già a questo grado dello sviluppo intellettivo, molto più si accresce ed amplifica cogli altri gradi dello svolgimento del pensiero che siamo per descrivere. L' associazione delle percezioni e delle idee fa sì che un reale diviene segno di un altro, e la percezione di un' altra percezione. Così comincia a formarsi naturalmente una lingua. Di più la natura, l' istinto, insegna all' uomo ad adoperare cogli altri questa associazione delle percezioni, perchè l' uomo che vuole tendere ad un fine, ha bisogno talora di fare che i suoi simili lo sappiano, essendo questa cognizione data ai suoi simili un mezzo col quale ottiene il fine desiderato. La sapienza poi del Creatore ha fornito l' uomo, fra gli altri modi di comunicare altrui i suoi bisogni e le sue volontà, di uno strumento acconcissimo a ciò, qual' è la facoltà dei suoni articolati; e gli ha dato l' istinto di produrli anche come semplice conseguenza fisica dei suoi sentimenti e pensieri. Perocchè l' uomo, quando sia animato da qualche sentimento più o meno grande, manda per istinto suoni dalla sua bocca, anche se egli è solo; giacchè il guizzo della sua lingua, e il cacciamento dell' aria dal petto, e l' acconcio incanalamento della gola, è un effetto del suo interno sentire, anche indipendentemente dall' attitudine che tali suoni hanno a significare; la quale attitudine si scopre ben tosto dopo. Questo è già un passo grande al suo sviluppo intellettivo, ma l' astrazione propriamente detta non c' entra ancora. Ora questi suoni od altri segni, che l' uomo adopera a manifestare i propri bisogni, e sentimenti, e volizioni ai suoi simili, sono essi nomi propri o comuni? La natura loro è quella di nomi comuni, perchè esprimenti il concetto (altrimenti sarebbero suoni istintivi, non segni imposti); ma l' uso che se ne fa al cominciamento è quello dei nomi propri, perchè esprimono il concetto legato ancora al sentimento, la percezione (1). Incominciano dall' essere nomi propri nell' atto che s' impongono all' oggetto della percezione, la quale è di natura sua singolare; ma ben presto sono usati come comuni, avendo la percezione il comune in sè stessa, cioè il concetto che è essenzialmente comune, tostochè l' idea legata all' oggetto della percezione e così particolarizzata, si scioglie da quel legame estrinseco. E per vedere con qual progresso e fin dove l' uomo, o piuttosto gli uomini conviventi insieme, possano andare nella formazione del linguaggio, è uopo considerare bene la natura della percezione, prima generatrice dei nomi. I suoi tre elementi sono: 1 l' idea (l' essere ideale illimitato); 2 il concetto (essere ideale limitato dal rapporto che la percezione sensitiva ha con esso); 3 l' atto dello spirito affermante la sussistenza, ossia la realizzazione del concetto. Dapprima dunque il nome imposto segna questo triplice oggetto della percezione. Tosto appresso lo spirito abbandona la sussistenza , perchè non ne ha bisogno, e gli resta il concetto intuìto nell' idea. Il nome perciò non muta, ma egli è già usato da quest' ora come comune. Ma qual' è la natura del concetto , che si acquista nella percezione? Primieramente la percezione intellettiva si fa in occasione delle sensazioni e percezioni sensitive. Ora i diversi sensorii, che percepiscono lo stesso reale, spezzano già naturalmente quel reale in più; perocchè rappresentano all' uomo con percezioni separate le diverse sue qualità sensibili. Di che l' uomo può connettere un suono diverso a indicare l' oggetto colorato, e lo stesso oggetto gustoso al palato, ecc. (1). E questa non è ancora tuttavia astrazione pura; perocchè ognuno di quei suoni indica una sostanza reale, quale è data dal relativo sensorio, è un nome sostantivo qualificato . Quando poi l' uomo s' accorge della medesimezza dell' individuo, ancora non astrae, anzi sintesizza. Questo nondimeno è un passo importante che fa lo spirito umano. Ma accade che due o più reali diversi, e diversamente percepiti, arrechino all' uomo un piacere simile, ovvero un simile dolore. Nel primo caso egli esprimerà la sua gioia con movimenti somiglianti il suo piacere, e nel secondo con movimenti somiglianti il suo dolore. I suoi simili leggeranno adunque nel suo volto e nei suoi gesti il piacere ovvero il dolore che prova. Egli potrà esprimere ancora tali sentimenti con dei suoni spontanei ed istintivi. Cotesti gesti e cotesti suoni esprimono propriamente un reale, cioè il suo sentimento piacevole o doloroso; ma ben presto si potranno associare agli oggetti reali che ne sono la causa e la forma, secondo il detto delle scuole che sensibile in actu est sensus in actu . Poniamo una madre, che voglia allontanare un bambino da diversi oggetti nocevoli. Ella per fargli intendere che quegli oggetti sono nocevoli, farà di quei gesti e manderà di quei suoni, che esprimono dolore, paura, ed altri simili effetti. E questi segni li adopererà tanto per far intendere al bambino che deve allontanarsi dal fuoco, quanto da un rasoio, o da uno stagno d' acqua, o da un precipizio, ecc., perchè essendo simile il sentimento che tali oggetti producono, è consentaneo che ella adoperi sempre i medesimi segni, tanto più che vi è la legge che « l' animale e l' uomo prende sempre la via più facile a far ciò che fa », ed è più facile ripetere lo stesso segno che trovarne di nuovi. Così un po' alla volta verrà a stabilirsi un suono, che sarà il nome comune di tutti gli oggetti nocevoli. Voglia all' incontro la madre stessa invitare il suo bambino a godere degli oggetti piacevoli, a mangiare frutta o dolci, a trastullarsi, ecc., ella userà quei segni che esprimono gioia, e ripetendo gli stessi segni in un gran numero di circostanze diverse e per diversissimi oggetti reali, finirà collo stabilire un nome comune a tutti gli oggetti dilettevoli od utili (1). I nomi imposti da questa madre significherebbero adunque « ciò che dà dolore, tristezza », e « ciò che dà piacere, letizia ». Esprimerebbero dunque enti, ma caratterizzati e distinti dall' effetto che producono nel sentimento; sarebbero dunque nomi comuni estesissimi, perchè abbraccerebbero innumerevoli classi di effetti. Essendovi questa facoltà nell' uomo, niente vieta che secondo il bisogno del sentimento si inventassero nomi comuni più ristretti, determinati non dal piacere o dal dolore in genere, ma da un genere o da una specie di piaceri, di dolori, di sentimenti soddisfacenti o molesti. Così buono e cattivo, utile e disutile, sano e malsano , ecc., sarebbero di tali nomi comuni detti dai grammatici aggettivi sostantivati , ma malamente, perchè nel progresso della lingua umana l' uomo li deve trovare prima degli aggettivi, onde il loro nome filosofico sarebbe sostantivi qualificati , perocchè esprimono il concetto di una sostanza determinata da una o più specie dei suoi accidenti. Secondo la stessa legge apparisce che il nome comune, significante a principio la specie piena, deve essere trasferito a significare non solo i generi molto estesi, ma anche i meno estesi e fino i generi infimi. Diamo un esempio. Al vedere il verde tappeto, di cui è coperta una parte della terra, si muoverà l' uomo a denominare prato quella superficie verde, il suolo coperto d' erba, nominando così con nome proprio l' oggetto della sua percezione. In appresso ogni simile tratto di terra verdeggiante lo chiamerà pure prato , e questo sarà già un uso di quel nome in quanto è comune, perchè, abbandonando il pensiero della sussistenza del primo prato reale, s' accomuna concetto e nome ad ogni suolo erboso, onde colla parola prato denomina già l' oggetto del suo concetto . E` vero che nella prima percezione del prato egli percepì altre qualità oltre il color verde, cioè la grandezza, la forma, la gradazione del colore, ecc.. Ma queste qualità non colpirono il riguardante così vivamente siccome il color verde , e perciò, trascurate le altre qualità senza imporvi denominazione alcuna, si contentò di nominare l' oggetto veduto dalla qualità più viva « un ente verde ». Quindi se agli sguardi di quest' uomo, che non ha ancora altri vocaboli, si presenterà una tappezzeria verde e vorrà nominarla, egli non cercherà un vocabolo nuovo, che gli costerebbe maggior fatica e sarebbe inutile al suo bisogno, ma la chiamerà incontanente collo stesso nome di « prato », ampliandone il significato e pigliandolo a significare in generale « ciò che è verde ». Di qui si trae che il pensare generi e specie, e il produrre nomi comuni è naturale all' uomo, talmente che tutti i primi nomi sostantivi dovevano essere non mai sostantivi, ma sostantivi qualificati , e le lingue antichissime ne hanno le traccie manifeste. Leibnizio l' aveva osservato, e non sarà inutile l' aggiungere qui agli esempi da me recati (1) quelli che adduce questo sommo filosofo, che fiorì in Germania quando non era ancora entrato in quella nazione lo spirito caustico di sofisma introdottovi da Kant, figliuolo del tempo suo e corrompitore del vero modo di filosofare. Ecco adunque ciò che scrive quel grande uomo: [...OMISSIS...] Leibnizio tuttavia non tocca in questo passo la cagione per la quale l' uomo sia inclinato a formare nomi comuni , e ne abbia tanta facilità che lo fa senza fatica, e tanto più facilmente, quanto è più tenero. Questa cagione si è sempre: La natura della percezione , che apprende le cose nell' azione loro speciale sui particolari sensorii, e qui le apprende non in tutto il loro essere e in tutta la loro attività, ma parzialmente, in attività unilaterali, onde percepisce l' ente determinato da tali qualità sensibili. La natura dei sentimenti , producendo disparati oggetti dei sentimenti simili od eguali; onde a questi sentimenti, come a reali, si attaccano le loro varie cagioni, e queste ricevono un nome comune , più comune ancora di quello che esprime l' attitudine a produrre speciali percezioni, perchè significa più reali disparati per l' attitudine che tutti hanno a cagionare quei medesimi sentimenti. Finalmente la natura dell' appetizione , che è anch' essa un reale, a cui si congiungono nella mente gli oggetti suoi lontani ed anche quelli che hanno attitudine di mezzi a conseguirli; onde altri nomi più comuni ancora, cioè tutti quelli che segnano molti reali per l' attitudine comune, più o meno mediata, a fare che l' appetizione ottenga l' oggetto a cui tende come a suo fine; onde si dirà, poniamo, vehiculum tutte le cose atte a condurre, instrumentum tutte le cose che aiutano di mezzo a fare checchessia, ecc.. E qui giova che diciamo pur qualche cosa di quella potenza che Aristotele chiamò senso comune, ammessa poi universalmente dalle scuole. Secondo questo filosofo il senso comune è una potenza interna, che riceve le sensazioni dei cinque sensi esterni, ed ha un proprio organo nel cervello. Quanto ad avere un proprio organo nel cervello, questa è proposizione gratuita, e il ragionamento prova anzi il contrario; perocchè ad ogni sentimento corporeo deve rispondere un movimento speciale. Onde se contemporaneamente si avessero sensazioni di vari sensi, e queste fossero tutte ricevute dal medesimo organo destinato al senso comune, in tal caso il medesimo organo dovrebbe avere nello stesso tempo movimenti diversi: cosa manifestamente assurda. E se nello stesso organo si distinguessero più parti, l' una delle quali ricevesse un movimento e l' altra un altro, già non sarebbe più un organo solo e comune, ma più organi e più sensi, onde con ciò non si spiegherebbe come un solo organo sensorio presiedesse a tutte le diverse sensazioni. Di più, se oltre i sensorii speciali vi fosse un sensorio comune, il quale risiedesse in un organo diverso da quelli, tutte le sensazioni speciali dovrebbero essere doppie, manifestandosi prima separate nei sensorii speciali e poscia unite nel sensorio comune; il che va contro il fatto. A cui si aggiunga quanto fu ragionato nel Rinnovamento contro l' unificazione delle sensazioni in un comune sensorio, ed apparirà manifesto che il senso comune di Aristotele e degli Scolastici non si può ammettere da una buona filosofia (1). Quindi cade altresì la facoltà, che Aristotele concedeva al senso comune, di discernere e giudicare della differenza fra le sensazioni dei vari sensorii speciali. Collo stesso ragionamento viene tolta ancora la facoltà, che quel filosofo ed i suoi seguaci diedero ai sensi speciali, di discernere o giudicare fra le varie sensazioni loro proprie (2). Viene anche emendata la definizione della fantasia, che per essi era quella facoltà che conservava le specie tanto dei sensorii speciali, quanto del senso comune (3). Esclusi questi errori, rimane tuttavia pur certo che a ciò che gli Aristotelici chiamarono senso comune , deve rispondere qualche cosa di vero; perocchè altrimenti l' animale non potrebbe governarsi dietro le sue varie sensazioni e sentimenti. Sì, ma questo non può essere un nuovo senso. Che sarà dunque? Noi abbiamo veduto che il sentimento animale ha un termine esteso ed un principio semplice . Ora al termine esteso appartiene la moltiplicità e varietà delle sensazioni e dei sentimenti; ed al principio semplice appartiene il governo che ha l' animale delle sue proprie sensazioni, dei propri sentimenti, dei propri sensorii. Quel principio identico, semplice, immateriale è quello dove tutte le sensazioni ed i sentimenti esistono; e però l' animale non solo sente ciascuno, ma è mosso da tutti insieme, e secondo il suo totale sentire fa le sue operazioni, a quel modo che abbiamo più lungamente dichiarato nel libro secondo dell' Antropologia . E veramente l' animale ha un sentimento unico, fondamentale, che viene variamente modificato; e queste modificazioni sono poi le sensazioni speciali (4), le quali non esistono divise da tutto il resto del sentimento, ma sono parti più vivaci di esso e varietà che accadono nel suo termine esteso. Onde l' animale opera sempre in conseguenza dello stato di questo sentimento unico e non d' una mera sensazione (benchè paia altrimenti per la vivezza speciale di essa); e quindi il sentimento totale è un reale, a cui come oggetto della percezione intellettiva può essere posto un nome; e le sensazioni sono lati diversi, per così dire, e atteggiamenti di questo sentimento, a cui del pari può essere posto un nome. E poichè il termine si distingue dal principio, e il termine si confonde collo stimolo, quando lo stimolo è applicato al sensorio, perciò anche l' oggetto stimolante riceve il nome, in quanto è stimolante; e questo è il nome comune di tutti quegli oggetti che sono atti a stimolare in un dato modo, od anche di tutti affatto, se nella percezione intellettiva l' attenzione non si limita a ciò che vi è di più vivo del sentimento, ma abbraccia tutto il sentimento. Nel qual caso il nome comune inventato sarà il sensibile . Ma poichè l' attenzione, come dicevamo, suol fermarsi a ciò che più la colpisce, od a ciò di cui l' uomo ha bisogno, perciò difficilmente e tardi l' uomo della natura giungerebbe ad inventare un nome, che rispetto alle cose sentite fosse così comune come sarebbe il sensibile; ma per le cose che cadono sotto i suoi sensi inventa a principio nomi comuni più ristretti, e poi secondo il bisogno li adopera, senza pur accorgersi, in un più ampio significato. Così da principio, venendo attivata la sua attenzione più che da ogni altra sensazione dalla vivezza e comodità delle sensazioni della vista, inventerà un nome, che equivarrà a quello che in italiano si direbbe il visibile ; ma poscia ne estenderà il significato a tutto ciò che cade sotto i sensi. Il che avvenne di fatto, come l' osservazione delle lingue, specialmente antiche, dimostra; perocchè in tutte le lingue si adoperarono i vocaboli imposti alle sensazioni visive per significare non solo gli oggetti o termini di queste sensazioni, ma ogni cosa che cada sotto i sensi. Onde ancora si dice comunemente le cose visibili per dire tutte le cose che cadono sotto i sensi. Ed è degnissima di considerarsi questa storia dei vocaboli, di cui nei popoli e nelle lingue più antiche si conservano traccie evidentissime. A ragion d' esempio, non dipartendoci dall' uso delle parole applicate da prima alla vista, ecco come esse si estendono all' udito. Nell' Esodo Mosè dice: [...OMISSIS...] . Nel Deuteronomio: [...OMISSIS...] ; ed appresso: [...OMISSIS...] . Onde il Calmet giustamente osserva che: [...OMISSIS...] . E questo fecero pure i Greci, massime gli antichi come Eschilo, che adopera le frasi di « « vedere i rumori »(5). » « « vedere le voci di un uomo »(6) » e gli esempi sono innumerabili, dei quali molti sono anche nella lingua latina e nelle moderne altresì; ma più che si discende ai tempi moderni, il significato delle parole si allontana dalla percezione e si accosta più e più al concetto comune. Il nome imposto alla percezione, quindi trasferito a significare la specie piena, che si può definire anche la percezione del fantasma , è l' origine di tutto il parlare traslato, figurato, metaforico, allegorico, ecc.. Infatti nelle lingue antichissime invece di usare il verbo vivere , che rappresenta tutto il sentimento fondamentale, si adoperano quelle funzioni della vita che, attraendo più l' attenzione, caratterizzano la percezione. Nella Genesi, XVI, 13, secondo il testo ebraico si dice: « « Ancora io vedo , dopo il vedente me? » », dove l' io vedo è posto invece di: io vivo . Altrove « « mangiare e bere » » significa vivere, come nell' Esodo, in cui si legge che gli Ebrei, dopo veduto il Signore, « « ancor mangiarono e bevvero » ». Volevasi esprimere una vita tranquilla e prospera? Dicevasi: « « sedere sotto la sua vite e sotto il suo fico » » (3), la quale espressione non significava per sè tutto ciò che vi è nel concetto di vita felice, ma si trasferiva a significarla, bastando nominare ciò che nella vita teneva più l' attenzione, e il resto sottintendevasi. Volevasi dire: « rendilo schiavo »? Dicevasi: « « incurva il suo dorso » » (4), perchè questa era quella parte del concetto che, più rimanendo scolpita nella fantasia, traeva seco il rimanente del concetto senza esprimerlo in parole. Volevasi dire: « la città s' empierà di mestizia e di solitudine »? Dicevasi: « « Non s' udirà più voce di sposo e voce di sposa » » (5). Quindi ai primi uomini era inefficace l' imporre precetti generali; si dovevano dare precetti particolari, che fossero quasi altrettanti esempi e rappresentazioni del generale. Il decalogo è tutto composto di precetti particolari. Vi si dice: « « non commetterai adulterio » », per fare intendere che non si deve peccare di lussuria; vi si dice: « « non ucciderai » », per fare intendere che non si deve far male al prossimo, e così dicasi pure degli altri. Volevasi predicare l' umanità? Il dirlo così in generale poco valeva. Si davano dunque precetti particolari simili a questi: [...OMISSIS...] La frase: « capere vel occidere matrem cum filiis », vale nella Scrittura a significare una immane crudeltà. E di somiglianti frasi la Scrittura è pienissima, ma più l' Antico Testamento del Nuovo; e i libri più antichi non hanno quasi altro linguaggio. Dopo la Scrittura, Omero ne abbonda. E se non si trovano egualmente frequenti cotali maniere nei libri sacri Indiani e Cinesi, è questa una nuova prova per me che non debbono essere così antichi come si vuole, o che furono alterati e tradotti; benchè abbia potuto contribuire a quel loro stile meno figurato la celerità, con cui progredì in antico presso quei popoli lo sviluppo del pensiero, che poi s' arrestò. Il carattere adunque dei vocaboli e delle maniere di dire antiche, di cui parliamo, si è questo, che esse « esprimono il concetto quale è dato dalla percezione »; e che poi l' espressione, rimanendo così speciale, viene trasferita tuttavia a significare un concetto, o una sentenza più e più comune e generale. Di qui, come dicevo, tutto il parlare figurato, di qui tutte le figure grammaticali. Per questo lo stile degli antichi è più poetico di quel dei moderni; perchè egli dipinge le cose ai sensi. Il naturale sviluppo del pensiero e dell' imposizione dei vocaboli ai pensieri spiega questo fatto senza bisogno d' altro; essendo gli antichi costretti a formarsi quella lingua che ancora non avevano, essi dovevano nominare i concetti legati alle percezioni, poi i concetti stessi divisi dalle percezioni. Ma nelle percezioni non nominavano tutto, ma ciò che più colpiva e attirava l' attenzione; questo elemento si prendeva ad indizio e segno di tutta intera la percezione; e il nome esprimeva la percezione, riferendosi a quell' indizio o segno naturale; e il vocabolo significava sempre: « ciò che produce quel sentimento »; per esempio « il bello »: ciò che produce il sentimento della bellezza; il sano: « ciò che produce la sanità », ecc.. Ma quell' indizio trovavasi poi in altri oggetti, e quindi la parola era atta a significarli anch' essi. Trovavasi, dico, in altri oggetti anche disparati, per la medesimezza del sentimento da loro prodotto; perchè è il sentimento, per dirlo ancora, a cui si riferiva la significazione del vocabolo. Onde « l' unità del sentimento è l' istrumento primitivo della formazione dei generi e delle specie significate dai vocaboli », perocchè esso è un effetto prodotto egualmente da più cause, e però un segno naturale comune ad esse. Di più, l' unità del sentimento è anche la ragione dell' associazione dei sentimenti parziali; e questa, come dicemmo, è il fonte delle figure, e specialmente della metonimia, giacchè la cosa che si nomina in relazione al sentimento percepito è l' elemento che più attira l' attenzione, secondo il senso più vivo o secondo il bisogno nostro, che sono le due guide di essa attenzione. Ora nel sentimento stesso talvolta cade la causa e l' effetto, il contenente e il contenuto, il segno e la cosa significata, ecc.; perciò il vocabolo, che esprime uno di questi elementi, si trasporta a significarli tutti, ovvero a significare un altro di essi, appunto perchè egli è atto a risvegliare gli altri sentimenti per via di associazione. « Io non ho veduto la sua faccia »per dire: « non ho veduto quell' uomo »; la parte che più tira l' attenzione è la faccia, e però il vocabolo è atto a risvegliare il pensiero del tutto. « Impugnò il ferro »per dire: « impugnò la spada »; la materia per tutto l' istrumento, materia e forma. « Tutta la terra esultò »per dire: « gli abitatori della terra »; il il contenente pel contenuto. E così di tutte le altre metonimie. E` anche da osservarsi che questo passaggio di significato non ha mai fine, onde una ragione del rimutare delle lingue, appunto perchè l' associazione dei pensieri e dei sentimenti non ha mai fine, nè mai ristà, ma si spiega in una serie continua, che talora si aggruppa e variamente ravvolge; e questo è il progresso continuo, che fa la mente umana e con essa l' uso dei segni, che da nomi comuni talora diventano individuali, e da individuali ritornano comuni e comunissimi, da traslati diventano propri, e da propri di nuovo traslati; per esempio, la parola Adam dovette prima di tutto, secondo l' ordine logico, significare una certa terra rossa percepita, e però essere imposta a quell' oggetto individuale della percezione; poi « ogni terra rossa », l' idea specifica compresa nella percezione. Così divenne nome comune. Poi espresse il primo uomo creato, perchè formato di terra rossa. Così quel nome comune ritornò individuale. Poi fu accomunato alla donna e ad ogni altro uomo, ricevendo questo significato generale: « ciò che è formato di terra rossa », e restando tuttavia legato nell' uso (1) con un genere più ristretto, cioè con quello degli uomini. Fin qui si vede come gli uomini in società potevano pensare il comune, e inventare i vocaboli che lo contrassegnassero. Ma il comune non è ancora l' astratto puro; questo viene dopo, ed è assai più difficile intendere il modo come esso si poteva originare. Noi abbiamo altrove espressa l' opinione che gli uomini non potessero venire a pensare e a denominare le pure astrazioni, per non avere in natura alcuno stimolo che a ciò li muova; di che deducevamo la divina origine di questa parte della lingua (2). Di poi abbiamo fatto più maturi riflessi, ed ora non ci sembra quella dimostrazione irrepugnabile. Distinguiamo adunque la questione del fatto da quella della semplice possibilità . E` indubitato, quanto al fatto, che il primo uomo ricevette l' avviamento a parlare da Dio stesso, il quale, parlandogli il primo, gli comunicò una porzione della lingua; e gli argomenti che lo provano verremo altrove esponendo. Ma trattandosi d' una semplice possibilità metafisica, se l' umana famiglia (non l' uomo isolato) potesse col tempo giungere a pensare almeno alcuni astratti, contrassegnandoli nello stesso tempo e con una stessa operazione complessa, colla voce o con altra maniera di segni, ci pare oggimai di poter rispondere affermativamente di aver trovato quello stimolo che indarno avevamo prima cercato, dal quale fosse mosso l' umano intendimento. Questa operazione doveva certamente aver luogo dopo le altre accennate di sopra; e però i nomi astratti dovevano rinvenirsi dopo i nomi comuni . Il che è quello appunto che dimostrano chiaramente le lingue antiche, le quali hanno pochissimi astratti (forse di divina origine), e in loro luogo fanno uso frequentissimo di nomi comuni , cioè di sostantivi qualificati; la quale indole rimane ancora nella stessa lingua di Platone, che recò pure l' astrazione sì alto; onde invece di intitolare i suoi dialoghi della giustizia , della bellezza , della santità , della bontà , ecc., egli li inscrisse: « di ciò che è giusto, «peri dikain»; di ciò che è bello, «peri kalu»; di ciò che è santo, «peri osiu»; di ciò che è buono, «peri hedones, peri agathu», ecc.. » Come crediamo noi dunque che l' umana famiglia potesse giungere da sè stessa agli astratti puri, almeno ad alcuni di essi? Conviene indubitatamente poter trovare qualche cosa nella natura reale, che leghi a sè l' astratto, servendogli di natural segno; solo a questa condizione l' attenzione dell' umana mente può fermarsi in essi e coglierli. Ora questa cosa non manca veramente, ed ecco quale ella si è, e come venga data all' uomo. Lo scopo pel quale s' inventa un nome, è quello di risvegliare nell' altrui mente il concetto della cosa significata. Quindi si adopera la parte pel tutto, il contenente pel contenuto, ecc., ogni qualvolta il nome dato alla parte e al contenente basta per isvegliare nella mente il concetto del tutto o del contenuto, senza bisogno d' inventare un altro nome. Il che riesce ottimamente, attesa la naturale associazione dei sentimenti. Ora, se noi osserviamo che gli enti corporei hanno più parti, e che ciascuna può essere percepita da sè, è chiaro che può essere senza difficoltà altresì nominata da sè. Quindi rispetto alla persona umana, oltre il nome di uomo, s' inventarono facilmente il nome di capo, faccia, braccio, mano, ecc.. Ma ognuna di queste parti ha poi sue speciali doti e proprietà, le quali si percepiscono insieme con quella parte a cui appartengono. A ragion d' esempio, una di queste proprietà sia la fortezza. Questa potrà denominarsi in due modi, o mediante un nome comune neutro, che venga a significare « ciò che è forte »; ovvero col nome della parte, nella quale si ravvisa più frequentemente e in modo interessante, per esempio nella mano, o nel braccio, o nel corno, ecc.. In qual maniera si nominerà ella? Nella maniera più facile. Ora è più facile adoperare la parola mano, braccio, corno, ecc. per indicare la potenza, ovvero inventare per essa un nome nuovo, un nome comune neutro? Posciachè i nomi di quelle parti robuste del corpo sono già inventati, è manifestamente più facile adoperare quei nomi che già si hanno, dando loro un significato metonimico. Perocchè è regola generale che « l' estendere o il trasferire il significato di un vocabolo, che già si ha, è più agevole che ritrovarne un altro del tutto nuovo ». Ora i nomi delle dette parti, significando oggetti di percezioni, sono dei primi che s' inventano. Dunque la mano, o il braccio, o il corno si prenderanno a significare la potenza, e questo è quello appunto che noi vediamo nelle lingue antiche « manus Domini (1) » o « brachium Domini (2) » si usa continuamente nella Scrittura per indicare la potenza di Dio, « cornu David » per indicare la potenza di Davide (3). Ed ecco già trovato il segno, a cui la mente può legare veramente un concetto astratto; e via più apparisce che quel nome già significa un astratto, quando quel nome vada perdendo, come talora avviene, il suo primitivo significato, e rimanga unicamente significativo dell' astratto. Così la faccia od il volto , dove si conoscono gli affetti della persona, applicati a Dio si prendono per la sua benevolenza o anche per l' ira sua (4); la strada per la sua provvidenza, ecc.; e in tal modo si può, a dir vero, andare molto innanzi nella formazione degli astratti puri; si può giungere ad un' astrazione grandissima. Rechiamo ancora un esempio delle astrazioni maggiori. Primieramente per metonimia si prende il segno per la cosa segnata. Questo è comunissimo e naturalissimo. Poniamo che si domandi: che cosa è questo? E che si risponda: « è corpo, è luce, è un elefante, ecc. ». In questa risposta si prende il segno per la cosa segnata, poichè invece di dire con lungo ambito: è quell' ente che viene significato dal vocabolo corpo, o dal vocabolo luce, o dal vocabolo elefante, ecc., si dice brevemente che è il vocabolo stesso. Ebbene quale meraviglia ora che la voce parola, verbum, «logos», sia usata nelle Scritture, e nei greci e nei latini scrittori, per significare qualunque fatto, avvenimento, e fin anche pel generalissimo cosa , come si può vedere nei lessicografi? [...OMISSIS...] ; e questo parlare è frequentissimo nei libri santi. Così la voce parola o verbo , venne a prendersi pel maggior astratto col quale si possa concepire l' ente reale ed efficiente ; e quella voce stessa fu applicata a significare altresì la seconda delle Persone divine. Anche l' essere ideale potè essere significato come rappresentativo del reale, trasportando ad esso la parola immagine o cosa veduta , come fecero le lingue antiche. Ora, pervenuta la mente a fissare alcuni astratti coll' aiuto di tali segni sensibili somministrati dalla natura, e quindi denominati, applicando ad essi il nome imposto da principio a cotali segni, già il cammino della mente non trova più impedimenti insuperabili, e però tutto il suo svolgimento rimane naturalmente spiegato. Dati dunque coll' anima i termini e gli stimoli necessari per uscire ai suoi atti, ella tiene in questi un modo suo proprio. E questo si è che ella, avendo un' attività limitata, quando vuole unirsi più al suo termine, allora concentra quell' attività in una sola parte di esso, e così la sottrae alle altre parti; di che nasce l' analisi materiale o formale, secondo che l' oggetto su cui si esercita ha estensione o no. L' analisi formale è l' astrazione propriamente detta, che in un oggetto ideale o spirituale considera un elemento, lasciando il resto; e questa è quella legge psicologica, che risponde alle leggi ontologiche sopra descritte. Qui nasce una difficoltà, che domanda scioglimento. Come un oggetto ideale ovvero spirituale, che è semplicissimo, si può analizzare e quasi dividere in parti dall' uso dell' attenzione umana? E queste parti sono esse vere, oppure sono apparenti e ingannevoli? Per rispondere è necessario prima di tutto osservare: Che una cosa semplice molte volte si moltiplica dallo spirito, che la considera in relazione con molte; per esempio quando si dice: « l' essere ideale è la possibilità delle cose », non si fa che considerare questo essere in relazione colla sua realizzazione, senza che si predichi perciò la possibilità dello stesso essere ideale. Così tutte quelle che noi abbiamo chiamate idee elementari dell' essere ideale (1), si riducono ad altrettante relazioni di esso. Ora le molte relazioni di un essere semplice non tolgono a lui la sua semplicità, come al centro del circolo non è tolta la semplicità, quantunque si riguardi in relazione con tutti i punti assegnabili nella circonferenza, che non hanno numero. Le dette relazioni altro non dimostrano se non che quell' ente semplice non è solo, ma vi sono altri enti, i quali a lui si possono riferire e paragonare col pensiero, e lui ad essi. E per vero, se vi fosse il solo essere ideale e niun ente reale (il che è impossibile), in tal caso niente si potrebbe distinguere in quello, che si rimarrebbe interiormente uniforme. E però qualora Parmenide, ammettendo un solo ente, avesse inteso l' ente ideale, l' idea dell' ente, in tal caso solo riuscirebbero efficaci le obbiezioni che gli fecero Platone (2) ed Aristotele (3), i quali pretendono trovarlo in contraddizione, perchè a quell' ente attribuisce l' immortalità, l' immobilità, l' uniformità, l' integrità, la perfezione, ecc., poichè dicono che se l' ente è semplicemente uno, non gli si può aggiungere altro. Ma a quel tempo non si era ancora conosciuto che l' ente è sotto più forme, e però senza avvedersi si ragionava dell' ente ora sotto una forma, ora sotto l' altra; il che perdeva quei grandi ingegni in inestricabili labirinti. Ma per lo più, quando il ragionamento s' innalzava, finiva nell' idea dell' ente , e le proprietà di questa idea si attribuivano all' ente stesso. Onde come quell' idea non ha interna varietà, se non è in presenza del reale, si negava che anche l' ente avesse interna varietà ed ordine. Indi quelle obbiezioni, che paiono così difficili a risolvere. Che un ente può essere semplice, e tuttavia avere varietà nel suo seno. La ragione, che fa supporre il contrario, si è il non avere altro concetto della semplicità fuori di quello che si trae dal punto matematico; concetto negativo, che non dice se non l' ultima negazione dell' estensione. Ma gli enti semplici non consistono in una sola negazione, anzi sono positivi, più positivi ancora degli enti estesi. E` semplice adunque ciò da cui non si può levare cosa alcuna senza distruggerlo. Secondo questa definizione non è già contrario alla semplicità che un ente molte e varie cose in sè contenga; ma è uopo che tutte le cose che contiene sieno così unificate che il rimuoverne solo una basti a distruggere l' ente. Quindi varie classi di enti semplici. Il punto matematico non è un ente , come dicevamo, ma una negazione , non è un oggetto del nostro spirito, ma un atto che fa il nostro spirito sopra un oggetto (l' estensione). L' ente ideale è tutto uniforme, nè dentro ad esso, finchè resta solo, si può discernere cosa alcuna distinta; ma per distinguere alcuna cosa deve confrontarsi coll' ente reale. L' ente spirituale è semplice, e non uniforme nel suo interno, anzi quasi organato, sì fattamente però che niun suo organo, niun suo essenziale elemento si può divellere da lui senza distruggerlo. Il che non di meno vuole intendersi in più modi. Poichè: Se si parla della realità dell' ente spirituale, le sue parti accidentali possono mutarsi in altre , ma non dividersi per ciò; può anche moltiplicarsi , se si moltiplica il suo termine, come accade del principio animale; ma neppure questo è dividersi in più. Se si tratta dell' idea dell' ente spirituale, in questa si può colla mente: 1 concepire le mutazioni degli accidenti dell' ente e la sua moltiplicazione; 2 di più, dividerne altresì gli elementi col pensiero astratto, ma non col pensiero complesso, il quale rimane sempre nella mente; nè che il pensiero astratto e parziale trovi tali distinzioni si oppone colla semplicità dell' ente; nè ella è cosa contraria alla verità, perocchè quegli elementi sono nell' ente distinti veramente, benchè non separati. Ora il pensiero astratto ed analitico non li separa già, ma solo li distingue, e nello stesso tempo che questo atto del pensiero li distingue, il pensiero intero e complesso li tiene individualmente uniti. Che se talora l' uomo crede di separarli con ciò, egli s' inganna; quella sua credenza non gli nasce dal pensiero, ma dall' arbitrio, fonte degli errori. Niente si conosce se non l' oggetto del pensiero (idea), o ciò che dice lo spirito intorno all' oggetto del pensiero (verbo). Quando l' oggetto del pensiero siamo noi stessi, o ciò che è o che accade in noi, allora conosciamo noi stessi, o ciò che è o che accade in noi. Una tale cognizione dicesi coscienza . La coscienza è diversa dal sentimento , perchè quella è cognizione ed ha la dualità propria della cognizione (il conoscente ed il cognito come enti separabili); questo è semplice, ha solo quella dualità propria sua, per la quale si distinguono due termini così correlativi che l' uno non si può pensare come ente, se si separa dall' altro. Ora, fino a tanto che lo spirito umano ha per suo oggetto il solo essere ideale7infinito, egli non ha coscienza, perchè sè stesso e tutto ciò che passa in lui non è ancora divenuto oggetto di sua attenzione (1). L' attenzione , adunque, posta a sè stesso, è ciò che produce la coscienza. Conviene adunque che il principio umano (che più tardi si denomina Io) attiri la propria attenzione a sè. Ma il principio umano non è mosso ad attendere se non pel bisogno; e qual' è la definizione di questo bisogno? « Il bisogno è l' istinto di compiere un' azione incominciata, ossia è l' istinto di completare un' attività che ha cominciato a muoversi ». Ma tutta l' attività umana incomincia a muoversi mediante il suo termine reale, come abbiamo detto. Quindi solamente aggiungendosi al principio intellettivo un termine reale, è possibile che venga il caso pel quale egli sia mosso ad attendere a sè, e così formarsi la coscienza. Date poi le condizioni, alle quali l' uomo si forma la coscienza, egli può anche separare sè stesso positivamente dall' oggetto ideale, e conoscersi come soggetto contrapposto ad esso. Vi è dunque questa differenza fra il primitivo stato dell' uomo anteriore ad ogni suo sviluppo e lo stato in cui ha coscienza di sè; vi è questa differenza, dico, circa il distinguere l' essere ideale da sè, che: Nel primitivo stato egli conosce il solo essere ideale e non sè stesso; perciò non confonde l' essere ideale con sè, perchè il sè non lo conosce, non è ancora formato, ma neppure lo distingue, perocchè non si può distinguere una cosa da un' altra senza conoscerle entrambe. Nello stato di coscienza può conoscere l' essere ideale e conoscere sè come soggetto opposto a questo oggetto, e così distinguersi con un atto positivo. Si può adunque stabilire che lo spirito ha per legge psicologica di conoscere senza coscienza, e che la coscienza gli nasce solo in conseguenza degli stimoli reali, che lo traggono ad operare. Ma quello che lo spirito aggiunge del suo è il verbo , cioè quella parola interiore colla quale afferma o nega. Con questo atto lo spirito acquista una nuova cognizione, ma, si noti bene, non già un nuovo oggetto , perchè ciò che lo spirito pronuncia suppone l' oggetto a lui dato per intuizione, percezione, ragionamento, chè anzi il pronunciato dello spirito si fa intorno all' oggetto dato, quasi a sua materia. Ora questo verbo, giudizio, affermazione, o come si voglia in altro modo chiamare, è mosso dalla ragione pratica influente sulla teoretica, e però appartiene più alla ragione pratica, come a sua causa, che non alla teoretica; benchè talora l' atto dell' affermare segua immediatamente, e per un cotale psicologico istinto, alla teoretica visione. Affinchè questo atto della parola interiore sia fatto dallo spirito, conviene che lo spirito nell' oggetto possa trovare una dualità, che poi diviene predicato e soggetto. E posciachè l' ente ideale infinito , diviso da ogni reale, è così uniforme che non ammette moltiplicità nel suo seno, perciò nella semplice intuizione di lui non è possibile alcun pronunciato, alcun giudizio (1). Quindi, acciocchè lo spirito affermi o neghi, egli ha bisogno di essere posto in comunicazione con qualche essere reale, fonte della pluralità. Ma qual' è la natura della cognizione, che acquista lo spirito per via del suo verbo, se questo non gli aggiunge niun oggetto nuovo? La cognizione prodotta dal verbo della mente è interamente diversa da quella prodotta dall' idea (dall' ente); ella è soggettiva , laddove la cognizione dell' idea è essenzialmente oggettiva , come abbiamo veduto. Quando diciamo cognizione soggettiva non intendiamo cognizione falsa, tutt' altro; intendiamo dire che essa ha in sè la sua verità, come la cognizione che viene dall' idea, ma deve riceverla dall' idea, dall' oggetto, a questo accordandosi ed adattandosi. Quindi l' oggetto, l' ente, l' idea, essendo la verità stessa, è superiore al vero ed al falso, e non riceve queste predicazioni, ricevendo solo la denominazione di verità, quasi un sinonimo di lei stessa (2). Il vero dunque ed il falso appartengono ai pronunciati dello spirito e non all' oggetto. Di qui si scioglie quel celeberrimo sofisma degli antichi, che argomentavano: [...OMISSIS...] (3). A cui rispondiamo negando la maggiore, presa nella sua totalità; ovvero, distinguendo le parti di essa, diciamo così: « Non si pensa che l' ente »; distinguo: se per le parole « non si pensa »s' intende esprimersi un pensare oggettivo, concedo; se s' intende esprimere ogni modo di pensare anche soggettivo, che è il pronunciare qualche cosa intorno all' ente, nego; « e quindi non si può pronunciare che l' ente », nego, perchè il pronunciare, essendo affermare o negare qualche cosa, non ha per oggetto l' ente, ma il nesso, cioè la predicazione stessa. Ora intorno all' ente si può pronunciare il falso e il vero; nel qual caso non è che l' ente diventi falso, ma il falso giace nel pronunciato, che è operazione soggettiva dello spirito. Di questa importantissima distinzione, per quanto io so, i filosofi non hanno ben sentita la forza, nè abbastanza conosciuta e descritta la natura della cognizione soggettiva, per via di pronunciamento, giudizio, o verbo dello spirito. In che consiste adunque la natura di questa maniera di conoscere? Non consiste nell' acquisto che lo spirito faccia per essa d' un oggetto nuovo, come abbiamo detto di sopra, ma consiste « in potere lo spirito disporre sè stesso in un certo modo, relativamente all' oggetto che ha dinanzi ». Se lo spirito afferma, dispone sè stesso in un certo modo relativamente all' oggetto; se lo spirito nega, dispone sè stesso in un altro modo. L' oggetto resta il medesimo; perocchè che cosa è l' oggetto? per dirlo ancora « è l' essenza della cosa veduta nell' idea ». Dunque nell' oggetto non è affermazione, nè negazione; questa è tutta opera dello spirito; l' essenza rimane la stessa dinanzi alla mente, tanto se si afferma qualche cosa di quella essenza, quanto se si nega. Nego che in questo giardino sia un pero o un fico: l' essenza del pero o del fico, che è l' oggetto della mente, è quella di prima; solamente lo spirito dichiara a sè stesso che quella essenza non è realizzata in quel giardino. Se avesse affermato, l' essenza non avrebbe egualmente sofferta modificazione di sorte. Qual' è l' effetto che produce questo atto nello spirito? Come si può denominare questo effetto, questa disposizione che lo spirito dà a sè stesso col suo atto? Noi l' abbiamo denominata persuasione , onde questa specie di scienza si può chiamare anche scienza di persuasione ovvero scienza di predicazione . Gli antichi confusero talora la persuasione coll' opinione; differisce grandemente, potendo questa essere congiunta con una ferma persuasione, o con una persuasione debole e vacillante. Procuriamo di dissipare dall' animo le difficoltà che vi potessero insorgere. Altro è l' oggetto intuìto ed appreso direttamente dallo spirito, altro è ciò che susseguentemente lo spirito predica di lui. Nell' intuizione e nell' apprensione diretta dello spirito non può cadere errore (1). Nell' atto del predicamento che fa lo spirito può cadere errore, perchè può essere fatto in modo conforme all' oggetto e in modo da lui difforme. Qui facilmente sorge difficoltà nelle menti, che potrebbero ragionare così: « Se io predico qualche cosa dell' oggetto, questo qualche cosa predicabile non è anch' egli un oggetto? Se sì, dunque anche la scienza di predicazione ha per suo termine l' oggetto, un oggetto nuovo ». Alla quale difficoltà si risponde che il termine della scienza di predicazione non è alcun oggetto, cioè non è nè il soggetto, nè il predicabile, ma è la loro congiunzione; io conosco per la predicazione, che fa il mio spirito, la loro congiunzione in un medesimo oggetto. Replicasi che, dunque, la congiunzione del soggetto col predicato è l' oggetto della scienza di predicazione; e però questa scienza ha un oggetto suo proprio, per essa dunque è dato un oggetto nuovo allo spirito. Chi così ragiona prende una di quelle illusioni comuni, difficilissime ad evitarsi, che noi continuamente cerchiamo di manifestare, perchè impediscono alla mente il filosofare rettamente. L' illusione è questa. La relazione fra il predicato ed il soggetto si può considerare unicamente come possibile (intuibile), e così considerata ella è un oggetto; ma allora ella non è già ciò che si conosce per via di predicazione , ma la si conosce per via d' intuizione. Diamo un esempio; dicendo io: « questo corpo è freddo », io predico il freddo di questo corpo, e mi persuado che questo corpo sia freddo. Ma prima di affermare che quel corpo è freddo, io posso concepire la relazione fra il freddo e quel corpo senza affermarla; allora io la intuisco semplicemente come possibile, e insieme con essa posso anche intuire la relazione fra quel corpo e il caldo; non affermo ancora nè l' una nè l' altra. Intuendo così tali relazioni possibili, il mio spirito ha già l' oggetto, che egli può affermare o negare. Quando dunque afferma o nega, l' oggetto egli lo ha già, e non è lo scopo dell' affermazione o della negazione; l' una e l' altra delle quali operazioni fa solo questo, di rendere persuaso lo spirito che l' una delle due relazioni, intuìte come possibili, sia; e si rende persuaso, quando pronuncia che quella è. Ma di nuovo: « Che cosa vuol dire questo è , che si pronuncia di una delle relazioni possibili, contradittorie? ». Questo è ha due valori, perchè può significare l' atto dell' essere ideale o l' atto dell' essere reale. Se l' affermazione non esce dalla sfera della possibilità, come accade nelle affermazioni logiche e matematiche, per esempio « la conseguenza è contenuta nel principio », ovvero « la somma dei tre angoli del triangolo è uguale a due retti »; quell' è copulativo non significa che l' essere ideale. Se l' affermazione discende alla sfera della realità, come accade nelle affermazioni fisiche, per esempio « questo metallo è oro », ovvero « il sole è un corpo »; quell' è copulativo significa una realità appartenente ad un subbietto reale. Può anche il subbietto essere l' ente astratto dalle sue forme, e il predicato essere la forma reale, per esempio « questo ente sussiste », dove la sussistenza , ossia realità, si piglia come predicato dell' essenza dell' ente. Ora se l' è copulativo, che è ciò che sempre si pronuncia nel predicamento, significa essere ideale, in tal caso ecco la cosa come accade. L' ente ideale è l' oggetto, il quale se non fosse dinanzi alla mente, nulla lo spirito potrebbe predicare di lui. Ora tale oggetto è dinanzi alla mente, che lo intuisce tutto intero, secondo quelle leggi ontologiche che abbiamo esposte. Ma nello spirito, oltre esservi la facoltà dell' intuizione, vi è quella dell' astrazione , la quale si fa per limitazione e concentramento di attenzione. Questa astrazione non distrugge l' oggetto, ma lo spezza, distinguendo in esso i suoi elementi. Questa operazione è soggettiva , l' oggetto non ne soffre, e rimane intatto sì in sè come dinanzi alla mente; solo che la mente, oltre avere l' oggetto intero dinanzi per intuizione, ha altresì l' oggetto diviso nei suoi elementi per astrazione. Questa astrazione , che è una specie di analisi o scomposizione, dà luogo alla predicazione , che è una specie di sintesi, per la quale si ricongiungono quegli elementi scomposti. Quando dico analisi e sintesi , parlo della forma che prende l' operazione dello spirito, e non propriamente del loro risultato. Infatti si può fare una divisione in forma di sintesi, quando accade che invece di affermare si neghi un predicato di un soggetto. Ma posciachè parliamo di operazioni soggettive, conviene che badiamo alla loro forma e non al loro risultato. Ora se la predicazione è falsa, congiungendo un elemento dell' oggetto ad un altro elemento che non gli appartiene, lo spirito in tal caso pronuncia un assurdo (trattandosi del mondo ideale, nel quale ora siamo); e un assurdo non è un oggetto se non putativo. Dico che pronuncia un assurdo, perchè quando afferma un predicato ideale d' un soggetto ideale, come è il caso nostro, allora l' affermazione riguarda la possibilità; e se pronuncia possibile ciò che non è possibile, altro non pronuncia che un assurdo. Predicare adunque la possibilità non è altro che riconoscere ciò che si conosce , affermare d' intuire ciò che s' intuisce. Ma se non si tratta che di riconoscere, cioè conoscere in altro modo ciò che già si conosce, dunque non si produce con ciò un oggetto nuovo dinanzi allo spirito; cangia solamente il modo col quale lo spirito toglie a conoscere lo stesso oggetto; e questo modo diverso, che non può appartenere all' oggetto, appartiene al soggetto; è dunque una mera disposizione nuova, che prende lo spirito rispettivamente al suo oggetto; la quale disposizione dicesi cognizione soggettiva o persuasione , dove si dà il vero ed il falso, secondochè ella si conforma all' oggetto o da esso discorda. Che se l' è copulativo significa essere reale, come negli esempi addotti, accade il medesimo. Solamente che gli elementi del giudizio o predicamento non sono dati dall' astrazione, e quindi se il giudizio è falso, non è necessariamente assurdo; per esempio, quando dico: « questo metallo è oro », laddove egli è ottone, io dico il falso, ma non l' assurdo, perchè non è impossibile a concepirsi che fosse oro; e quando dico: « la fenice sussiste », dico del pari cosa falsa, non impossibile. Qui dunque gli elementi del giudizio sono dati in parte dal sentimento, almeno dalla parte del predicato , il quale è un reale; nè reale vuol dir altro che cosa cadente nel sentimento. Il sentimento poi è soggettivo e al tutto fuori dell' oggetto della mente; ma lo spirito, che è il soggetto, fa un atto pel quale congiunge in una il predicato7sentimento (reale) col subbietto del discorso, che può essere anch' esso reale, ovvero può essere l' essere essenziale, astrazione fatta dalle sue forme. Ora questa congiunzione d' identità non produce novità alcuna nell' oggetto, ma è una congiunzione che avviene tutta nel soggetto che la fa, ed è la disposizione nuova di questo, di cui parlavamo, la quale costituisce la cognizione soggettiva . Infatti noi abbiamo già distinta l' unione fondamentale del soggetto coll' oggetto, ed è quella che accade per via d' intuizione, dall' unione più intima che il soggetto stesso fa col suo oggetto. Questa seconda unione, che dicemmo appartenere alla ragione pratica od operativa, non produce un oggetto nuovo, ma un nuovo grado e modo di unione, e però una nuova cognizione relativa al medesimo oggetto, nella quale cade il vero ed il falso. Ma la realità non si aggiunge? e non è ella un oggetto nuovo? La realità si aggiunge, ma non è un oggetto nuovo, bensì un predicato, un' apparenza dell' oggetto precedente. Poichè se l' oggetto precedente era l' essenza del pane intuìta nell' idea del pane, quando dico « il pane sussiste », altro non fo che aggiungere all' oggetto che conosceva prima (il pane ideale) la realità, la quale non è oggetto, ma è sentimento soggettivo; e però il subbietto di quella proposizione è veramente oggetto, ma il predicato non è oggetto, anzi è piuttosto termine dell' affermazione, termine soggettivo, perchè giacente nel sentimento del pane; sicchè quella proposizione equivale a quest' altra: « il pane, oggetto della mia mente, ha un modo di essere fuori della mia mente, e questo modo di essere è a me sensibile così e così ». Si noti bene che se l' essere sensibile io lo prendo come oggetto della mente e non come sentimento, in tal caso egli è un possibile, e non c' è ancora l' affermazione; non è quello di cui parliamo. Se dunque i due termini della proposizione: 1 il pane, 2 la sussistenza, io li considero come possibili, essi sono oggetti, e in tal caso la sussistenza non è più sussistenza, ma idea di sussistenza; siamo tornati all' ordine ideale. Allora di questi oggetti non ho già io pronunciato la connessione; ma quando la pronuncio, non aggiungo altro oggetto; la stessa fin tanto che io la intuisco come possibile, non la pronuncio, non l' affermo; e quando l' affermo, diviene persuasione, cognizione soggettiva. Nell' essenza ideale adunque di un ente si contiene già la realità come ideale; ma questa non è propriamente per lo spirito umano realità se non allora che egli l' afferma. Lo spirito afferma dunque l' oggetto che già intuiva; e l' afferma perchè lo sente; e l' affermarlo non è altro che un nuovo modo di unire a lui sè stesso. E qui crediamo di non dover tralasciare un corollario importante, che procede dall' esposta dottrina. L' umana cognizione è di due maniere, oggettiva e soggettiva , perchè due sono le attività del principio razionale, l' una suscitata unicamente dall' oggetto e l' altra propria del soggetto. All' attività prima del principio razionale, suscitata dall' oggetto, risponde la cognizione oggettiva, regolata tutta dalle leggi ontologiche che abbiamo esposte. All' attività seconda, propria del soggetto, corrisponde la cognizione soggettiva per via di predicazione, regolata dalle leggi psicologiche. La prima di queste due maniere di cognizione ha per suo termine l' oggetto intuìto (il possibile), e rispetto ad essa si avvera la proposizione che scientia est de necessariis (1). La seconda ha per suo termine la persuasione , ossia un certo stato dell' animo relativo all' oggetto, pel quale l' animo, il soggetto, si unisce all' oggetto in un altro modo, e così accresce la sua cognizione; e rispetto ad essa non ha luogo la proposizione che scientia est de necessariis , potendo essere dei contingenti, perchè il reale può essere contingente, anzi ogni contingente è reale, benchè non ogni reale sia contingente. La quale distinzione basta a distruggere il panteismo idealistico, che dal falso principio che « ogni sapere sia oggettivo » induce che, dunque, ogni sapere è delle cose necessarie, le quali si riducono in Dio. Quindi pone che Iddio sia l' oggetto universale e immediato del sapere. E posciachè ogni entità è oggetto di sapere, tosto raccoglie che ogni entità è Dio. Del quale ragionamento l' errore consiste nel principio; essendo falso, come dicevamo, che ogni sapere sia oggettivo, come pure che ogni sapere sia de necessariis , essendovi un modo di sapere che riguarda i contingenti, un sapere soggettivo che si fa per via di predicazione. La quale distinzione medesima fra il sapere per intuizione e il sapere per affermazione, dà una solida base al metodo filosofico , escludendo l' errore di quelli che dicono che tutto il sapere dell' uomo si riduce ai fatti , e che l' uomo non conosce le ragioni delle cose; che perciò le scienze speculative non hanno alcun vero valore, ma solo le positive, ecc.. Ora la parola fatti si può prendere in più significati; nel senso più ovvio i fatti sono il termine di quella cognizione che si acquista per affermazione . La quale non è la sola scienza dell' uomo, anzi, prima che per affermazione egli conosce per via d' intuizione, per via di oggetto ideale. Quindi egli può anche riportare le cognizioni acquistate colle sue affermazioni (i fatti conosciuti) alle cognizioni sue per via di intuizione , e trovarne i rapporti; nei quali rapporti stanno le ragioni dei fatti , che diventano un terzo genere di cognizioni. Di questo errore non va immune neppure la filosofia scozzese (2). Che se alla parola fatto si dà un senso estesissimo, benchè improprio, in tal caso conviene distinguere: 1 i fatti reali; 2 i fatti ideali; 3 i rapporti di questi con quelli, ossia le ragioni che spiegano i fatti reali. E solo in questo senso improprio si può dire che tutte le cognizioni umane si riducono ad avere per loro materia dei fatti. Noi non abbiamo potuto esporre le leggi psicologiche del principio razionale se non mescolandole a ciò che somministra allo spirito il mondo, perchè il movimento degli atti secondi non è dato allo spirito se non dall' azione del mondo. Quindi sono da distinguersi le leggi, che presiedono a produrre il movimento del principio razionale già costituito, che chiameremo leggi della mozione , dalle leggi che determinano il modo che tiene il movimento, le quali noi possiamo chiamare leggi della qualità del moto . Le leggi della mozione sono cosmologiche, cioè imposte allo spirito dalle entità contingenti, che sopra di lui agiscono. Le leggi della qualità del moto sono in parte cosmologiche e in parte psicologiche. Di che noi ridurremo tutte le leggi cosmologiche a due supreme, l' una delle quali chiameremo legge della mozione, perchè esprime la dipendenza degli atti dello spirito dall' azione stimolante del mondo; l' altra chiameremo legge dell' armonia estetica , perchè esprime la qualità e il modo del movimento dello spirito e degli atti secondi, determinato dall' armonia del mondo prestabilita dal Creatore, acciocchè una pari armonia si trasporti nello spirito che svolge la sua attività. Nel sensismo di Fichte (l' idealismo di questo filosofo è puramente sensismo) lo spirito pone sè stesso con quell' atto con cui pone il mondo. Egli afferma ad un tempo l' io e il non io come contrapposti correlativi, l' uno dei quali limitando distingue l' altro. Secondo noi lo spirito non si costituisce in questo modo, ma egli procede per via degli atti seguenti: Intuisce l' oggetto, l' essere in universale, senza affermarlo, senza affermare sè stesso, senza avere alcuna coscienza nè di sè, nè del suo atto; egli vive ed è nell' essere. Contemporaneamente percepisce un sentimento fondamentale, e perciò ha una percezione fondamentale , la quale è apprensione senza espressa affermazione . Ma con ciò non percepisce sè stesso come percipiente , nè ha coscienza di sè, benchè abbia cognizione del proprio sentimento, del termine del sentimento e del principio del sentimento, senza che questo sia diviso con un alcun atto dello spirito dal termine in cui si giace. La coscienza, poi, e l' io viene molto tempo appresso nella maniera da noi spiegata. Dunque il termine del sentimento fondamentale non si percepisce pronunciando un non7io , che è la relazione coll' io , la negazione di questo; ma si percepisce semplicemente come esteso senza confronto alcuno coll' io; chè l' io non è per anco rivelato. Perocchè l' io non è il principio senziente, ma è il principio razionale percipiente il sentimento, che acquistò colla riflessione7coscienza, ossia che si è percepito. Tuttavia nel sentimento vi è la dualità male espressa da Fichte colle parole di io e non7io ; la quale si doveva esprimere colle parole significanti i concetti correlativi di principio e di termine. Ora la mutazione, che nasce nel sentimento, è la condizione della mozione che riceve il principio razionale ai suoi atti secondi; e perchè quella mutazione accade naturalmente per l' azione degli agenti, che compongono il mondo, perciò lo spirito si dice soggetto a questa legge di dipendenza nel suo sviluppo dal mondo, legge cosmologica. Questa legge adunque si riduce a quello che abbiamo già indicato, cioè che il reale è il termine suscitatore dell' attenzione , che è la forza radicale del conoscere soggettivo , e la attua e concentra (1). Onde venendo tolto il reale all' anima, niun atto conoscitivo può a lei restare eccetto l' atto primo d' intuizione, senza attenzione soggettiva, senza concentrazione alcuna di questa. Di che può dirsi in un senso che il soggetto, come soggetto, non abbia in tale stato alcuna cognizione attuale sua propria. Ma in questa legge sono da considerarsi due cose: La ragione perchè il principio razionale passi ai suoi atti secondi, uscendo dalla sua inerzia; il che si può esprimere così: « Il reale, quale termine del principio razionale, è ciò che suscita l' attenzione di lui e lo conduce agli atti di conoscere soggettivo ». La ragione perchè questi atti secondi del principio razionale sono vivaci, durevoli e soddisfacenti; il che si può esprimere così: « Se gli atti secondi del principio razionale trovano un termine reale, in tal caso sono stabili e vivaci; altrimenti sono languidi, faticosi, e cessano prestamente ». Consideriamo l' una e l' altra parte di questa legge. Questa legge è patente dall' esperienza. Su di essa giova fare le seguenti osservazioni: Non ogni reale eccita il principio razionale ad un medesimo grado di attenzione e pone in lui un' eguale quantità di azione; ma alcuni reali attirano a sè unicamente l' attenzione che nella percezione s' acqueta, altri all' incontro muovono il ragionamento . I reali, che muovono il ragionamento e non la sola percezione, sono i bisogni; onde il principio razionale ricorre istintivamente a tutte le vie per soddisfarli, e però anche al ragionamento; il bisogno poi non è un sentimento semplice, ma è un sentimento che risulta da molti sentimenti semplici, aggruppati con un certo ordine; dove sta propriamente la ragione di quella mozione, che si svolge anch' essa in atti molteplici. I reali eccitano ancora il ragionamento e un' azione che si estende oltre la percezione, quando sono connessi insieme in virtù delle leggi dell' animalità e degli istinti animali; onde accade che, data un' immagine, se ne suscitano altre ed altre; dato un sentimento, a questo altri si accoppiano secondo il tenore di dette leggi. Quando il pensiero è giunto a concepire e proporre un fine alla volontà, allora nasce il decreto libero di pensare ai mezzi, e quindi si estende l' attività; ma questa stessa attività cogitativa ha bisogno di continuamente aiutarsi con nuovi reali, pei quali trascorre il pensiero e l' azione. Non ogni reale, benchè ecciti una percezione vivace, è bastevole a produrre la coscienza , cioè a muovere l' uomo a riflettere su di sè; ma l' uomo è indotto a questo principalmente dal linguaggio sociale e dai suoi bisogni. Infatti, nella società i nomi e i pronomi personali eccitano la riflessione a ripiegarsi sopra la persona; e il bisogno nasce ben presto; come, poniamo, se viene fatto un torto al bambino, egli, pigliando a difendere il proprio diritto e a giudicare fra sè e il compagno offensore, incomincia a riflettere sulla propria persona e sull' altrui. Finalmente i sentimenti, essendo durevoli per qualche tempo, aiutano il pensiero a mantenersi in atto; il che forma la seconda parte della legge che noi esponiamo. Niuno di quelli che sogliono osservare la maniera di operare dell' uomo negherà questo fatto. Ma qui si presenta una curiosa ricerca. Noi abbiamo veduto: 1 che il movimento non è continuo, ma che si fa per mutazioni istantanee di stato a stato, ciascuno dei quali stati dura un tempuscolo; 2 che ai sentimenti eccitati precedono o certo corrispondono dei movimenti extra7soggettivi nella fibra. Ora altro è il sentimento, altro la mutazione di un sentimento ad un altro; questa può farsi in un istante, quello deve avere qualche durata. Il sentimento eccitato adunque è sempre uno stato più o meno durevole. Se dunque il sentimento eccitato è uno stato durevole, e se tuttavia egli viene eccitato in compagnia di mutazioni (movimento di fibre) non durevoli, conviene dire che le mutazioni istantanee, che si hanno nel movimento, nè sono i sentimenti, nè possono essere la causa piena dei medesimi; la pienezza di questa causa deve venire dallo stesso principio senziente che dura. In secondo luogo si conferma che vi è un sentimento non eccitato , il quale ha per suo termine l' esteso, cioè più estesi che si confricano, e non il movimento (1). In terzo luogo si scorge che i movimenti, che nascono nell' esteso, non sono sentiti nelle loro singole mutazioni istantanee, perchè: 1 in tal caso la mutazione essendo istantanea, e il sentimento non durando se non quanto dura il suo termine, egli non durerebbe nulla se avesse per termine le sole dette mutazioni; e però non sarebbe sentimento; 2 se così avvenisse, noi non avremmo mai un sentimento costante, ma dovremmo sentire in ogni sentimento una mutazione incessante, ogni sentimento sarebbe un complesso di molti sentimenti successivi, fra l' uno e l' altro dei quali rimarrebbero degli intervalli senza sentimento; il che è al tutto opposto al fatto dell' esperienza. Nè si può dire che tale moltiplicità e tali intervalli sieno in ogni sentimento senza che noi li avvertiamo, perocchè, qualora la cosa così avvenisse, noi dovremmo assai più facilmente accorgerci degli intervalli di un sentimento all' altro che avrebbero durata, che non sia degli stessi sentimenti che non ne avrebbero alcuna; sicchè tutti quei sentimenti, presi insieme, durerebbero meno di un solo intervallo, come la niuna durata è meno di qualsiasi minima durata. Oltracciò la ragione per la quale non avvertiamo certe cose, che passano in noi, si è perchè noi siamo occupati e distratti da altre più sensibili, che attirano e legano la nostra attenzione razionale. Ora nel detto caso la cessazione del sentimento che durerebbe si dovrebbe poter avvertire, anzi sarebbe più atta a tirare e tenere a sè la nostra attenzione che i sentimenti che nulla durerebbero. Perocchè è da stabilire che « tutto ciò che l' uomo sente e tutti i passaggi di un sentimento ad un altro sono per sè avvertibili », ed è solamente accidentale che non s' avvertano per la ragione detta. Finalmente altro è non avvertire ciò che vi è, altro avvertire ciò che non vi è. Al primo siamo soggetti per distrazione, al secondo no. Laonde rimarrebbe inesplicato come noi avvertiamo la durata dei nostri sentimenti, se questa durata non fosse. Anzi dobbiamo dire: « noi l' avvertiamo, tutti gli uomini l' avvertono, dunque vi è »; se ella non fosse, non la potremmo avvertire. E` dunque da conchiudere con questa bella ed importante proposizione, che dichiara non poco la natura del sentimento animale: « Le sensazioni e gli altri sentimenti eccitati non hanno per loro termine il movimento della fibra, cioè la mutazione di luogo o di stato delle parti che compongono il sentito esteso, ma hanno per termine lo stesso sentito esteso; dal movimento però delle parti dell' esteso, e dalla pressione e confricazione reciproca di esse, consegue che l' esteso sia sentito in altro modo e con maggiore vivacità »(1). Ora poi una cosa prova l' altra: il fatto della durata del sentimento eccitato prova l' impossibilità del moto continuo, come suo termine; il moto continuo non ha alcuno stato o luogo durevole, dunque non può essere termine del sentimento. Laonde è a dire che le mutazioni, che accadono nel moto della fibra, possono essere eccitatrici (a loro modo) del sentimento, non essere da sè sole suo termine; e che il sentimento eccitato dura in istato, quantunque lo stimolo eccitante (la mutazione della fibra) non duri. Se non avesse disposto il Creatore che le sensazioni si prolungassero nella durata, non sarebbero bastate al bisogno, nè sarebbero possibili le osservazioni e le esperienze degli studiosi della natura. Veniamo ora a giovarci della seconda parte della legge della mozione alla spiegazione di alcuni fatti. E` certo che il principio razionale, tratto una volta ai suoi atti secondi, acquista un movimento libero, cioè tale che può dirigersi secondo i fini della volontà; e nondimeno, se il detto movimento razionale (mosso in origine da un termine reale, da un bisogno, ecc.) non trova pure un termine reale a suo scopo, egli non può formare atti lungamente durevoli, facili e vivaci. I fatti, che vengono spiegati mediante questa legge, sono principalmente i seguenti; ella spiega: Perchè senza sensazioni o fantasmi la mente non può pensare soggettivamente (1). Perchè le sostanze incorporee riescano difficili a concepirsi puramente, senza mescolarvi cosa alcuna di corporeo. Di che la ragione è questa: noi non percepiamo nell' ordine della natura altra sostanza incorporea che l' anima nostra, e l' anima nostra noi la percepiamo per via di sentimento, in questo come in suo principio. Ora il sentimento nostro proprio ha per termine l' esteso puro o corporeo. Vero è che il principio intuente è l' atto primo dello stesso sentimento, ma appunto perciò non ha coscienza; è un reale, ma non è un reale7termine , ed è solo il reale7termine che suscita l' attenzione. Ora l' uomo nell' ordine naturale non ha altro reale termine che il corpo, e perciò l' attenzione del principio razionale è attirata dal sentimento corporeo, e solo in appresso per libera riflessione considera il principio intuente; e questo non lo può conoscere con una concezione viva e concentrata, appunto perchè non vi trova alcun reale che gli possa servire di termine eccitatore. Non essendovi dunque in noi percezione di alcuna sostanza incorporea se non della nostra propria, la quale non si rende termine eccitante la nostra attenzione se non in quanto è unita al corpo, indi avviene che siamo inclinati a concepire ed immaginare le altre sostanze di quella natura che è il termine della nostra, cioè di natura corporea. Perchè le astrazioni hanno bisogno di segni, o naturali o artificiali, per pensarsi e per ragionare con esse o sopra di esse. Perchè le sostanze spirituali e gli astratti nelle lingue più antiche sono sempre significati con vocaboli tratti da cose corporee. Così anima, animus, «anemos», spiritus, «pneuma» , sono tutte voci significative del vento o aria corporea, trasportate a significare la sostanza incorporea. Così pure l' astratto del bene morale non ebbe un nome suo proprio, ma fu chiamato ora virtù , che significa forza (1), ora honestas , che significa bellezza, ora mos , che significa consuetudine; la parola obligatio è pure tolta dal legame sensibile e trasportata a significare la forza della legge. E del pari si può dire di ogni sostanza spirituale e di ogni astratto, eccetto il solo verbo essere , che non fu mai espresso per via di metafora; il qual fatto è già solo per sè una manifesta testimonianza del senso comune, che depone a favore del sistema filosofico da noi proposto, dimostrando che l' essere non è a confondersi colle altre astrazioni, siccome quello che è oggetto immediato e sempre presente della mente (2). Perchè le lingue sono strumenti acconci al pensiero, tanto per sintesizzare, quanto per analizzare. Per sintesizzare, si vede nell' imposizione delle parole, allorquando s' impone un nome affine di legarvi un gruppo di idee o di rimembranze. Essendo obbligato il pensiero all' unità per legge ontologica, quando egli deve ritenere più concetti o pensieri, cerca di raggrupparli; ed uno dei modi che adopera è di attaccarli ad una sola parola , la quale, essendo un reale, tiene desta e viva l' attenzione e la memoria, chè altrimenti svanirebbe, se nella pluralità delle cose non vi fosse un vincolo reale , che le congiungesse ed unificasse. Quindi l' istinto di segnare i luoghi, dove è avvenuto qualche avvenimento che preme di mantenere nella memoria, con un vocabolo che lo rammemori; giacchè l' avvenimento e il luogo non hanno connessione naturale ed essenziale, e però si trova un segno unico commemorativo di entrambi. Questo istinto razionale non ha solamente lo scopo di tramandare ai posteri quelle memorie, ma ben anche di renderle presenti a sè stessi; e si scorge più attivo nei primi uomini, il cui linguaggio era ancor povero, onde avevano più bisogno al loro uopo di tali imposizioni di nomi. Così Agar impone il nome di « pozzo del veggente »a quello presso il quale erale apparso l' angelo del Signore (1). Abramo, similmente, al monte del sacrificio impone il nome « il Signore vede »(2); Giacobbe al luogo, dove ebbe la visione della scala, pose il nome di Bethel, ossia « casa di Dio »(3); al luogo di un' altra visione di angeli, dove aveva detto quasi espressione spontanea del suo sentimento (il che mostra l' istinto del pronunciare): « questi sono gli accampamenti di Dio », pose nome Mahanaim , cioè « accampamenti »(4). Così si nominavano i pozzi, che facevano scavare i patriarchi, secondo l' avvenimento che aveva occasionato quell' opera, e il sentimento da cui erano all' istante animati (5); ed è frequentissimo in tutta la Genesi questo fatto dell' imposizione dei nomi ai luoghi dei più insigni eventi. Sospinti gli uomini dallo stesso istinto razionale, agli astri stessi diedero dei nomi, i quali rammemorassero qualche eroe o qualche avvenimento, di cui volevano perrennar la memoria, quando essendo egli passato, aveva cessato di essere, ossia di operare come reale; conseguendo il loro intento col legarlo appunto a due reali, l' uno dei quali feriva sempre vivamente gli occhi col suo sublime aspetto, nè poteva guastarsi dal tempo siccome si guastano i monumenti terreni; l' altro feriva l' orecchio, ed era il nome consegnato alla società delle succedenti generazioni. Onde Giuseppe Bianchini con sapienza scrisse: [...OMISSIS...] Noi possiamo dire che ogni parola è una sintesi, giacchè assai di rado una parola significa un concetto solo, come scorgesi dei sinonimi, i quali, convenendo in un concetto principale, ne risvegliano tanti altri, che difficilmente si osservano se non dai più sagaci osservatori, qual' è un Tommaseo, e pure si sentono dal comune degli uomini, i quali si accorgono unanimi se nell' uso delle parole pur manchi qualche cosa alla proprietà del parlare; nè però sanno dire con distinzione che cosa manchi, e se vogliono dirlo, talora sbagliano, e se vogliono scrivere, mancano alla proprietà essi medesimi. I vocaboli adunque prestano fra gli altri quest' ufficio al pensiero, di dare unità a certe pluralità di concetti, la quale pluralità , non essendo un reale, ha bisogno di un segno reale per essere ritenuta e marcata. Laonde tutto ciò che non è un reale operante sull' uomo: a ) le sostanze incorporee, b ) gli astratti, c ) i molteplici, d ) i reali passati, come i fatti storici che non sono più operanti sull' uomo, e ) i reali assenti, e però del pari non operanti, e così via, esigono dei segni reali acciocchè l' uomo possa mantenere e concentrare in essi la sua attenzione. Quanto ai reali assenti, la prova di ciò che diciamo è nel desiderio che ha l' uomo di avere ritratti e memorie , che gli facciano sovvenire vivacemente le persone o le cose amate, le quali egli non può avere di continuo presenti. E le sostanze incorporee si possono considerare come assenti, in quanto che non operano come reali immediatamente sopra di noi; quindi la propensione e il bisogno delle immagini e dei simboli che le rappresentano alla nostra venerazione, e la ragione di tutto il culto esterno. Onde gli Iconoclasti, abusando di vane sottigliezze, oppugnavano le leggi della natura. Come poi ogni parola è una sintesi , così ogni proposizione e ogni discorso è un' analisi . E che il pensiero per analizzare, e specialmente astrarre, abbia uopo giovarsi dei segni e massimamente dei vocaboli che sono i più acconci e naturali, si vede da quello stesso che dicevamo, cioè che la pluralità non è un reale; ora l' analisi non fa altro che scomporre l' uno in più. Riconducendo dunque alla pluralità , già per questo solo abbisogna dei segni a cui legare l' attenzione, acciocchè questa possa concentrarsi nelle singole parti, e nello stesso tempo abbracciarle in modo da non dimenticare che sono parti di un tutto solo. Al che mirabilmente giova la lingua, strumento sintetico ad un tempo ed analitico. Coll' invenzione adunque della lingua l' uomo: 1) - Soddisfa ad un bisogno proprio del suo pensiero; e perciò la lingua non s' inventa solamente per comunicare altrui i propri pensieri, ma per fissare il pensiero proprio, dirigere, fermare e concentrare la propria attenzione. 2) - Soddisfa altresì al bisogno di comunicare i propri pensieri ai suoi simili, fornendo loro quello stesso facile mezzo di pensare, cioè di dirigere e concentrare la propria attenzione, che adopera per aiutare a ciò sè stesso. Nel che è da ammirare la sapienza del Creatore, il quale non ha abbandonato questa invenzione della lingua al solo operare libero e calcolato del pensiero umano; ma ne ha messo nell' uomo l' istinto, come diremo parlando di quella specie di leggi psicologiche del pensiero, che rispondono alle cosmologiche; e di più gliene ha egli stesso comunicati positivamente i primi elementi. Si spiegano per questa via anche le leggi della memoria, nella quale si rinvengono alcuni fatti di non facile spiegazione: La prima cosa, che riesce difficile a spiegare, si è come le cognizioni si conservino in noi, senza che noi ci pensiamo. - Nasce ciò solamente perchè non vi rivolgiamo più l' attenzione, come accade che un quadro, benchè ci sia continuamente presente, non lo vediamo se non volgiamo a lui gli occhi? Questo non basta a spiegare il fatto pienamente; perocchè se il giacere in noi le cognizioni, senza che noi ci pensiamo, dipendesse solo da non darvi avvertenza, in tal caso ogni qual volta vorremmo, potremmo risovvenirci di checchessia, come possiamo ogni momento riguardare il quadro, che ci sta dinnanzi a nostra libera voglia. All' incontro, molte cose dimenticate noi non possiamo più richiamarcele, o ce le richiamiamo a fatica. Conviene dire che in tal caso l' attenzione non è attivata e tenuta da alcun reale, cioè da alcuna immagine o altro sentimento; e però ella non sa dove volgersi e dove affissarsi per trovare la notizia o la cognizione che cerca nell' anima. Quando dunque cessano le immagini e i sentimenti, ai quali è legata la notizia o cognizione desiderata, allora ella s' immerge nell' essere universale uniforme, dove si sta nascosta, che è quello che gli antichi dicevano conoscere potenzialmente o virtualmente. Ma ivi non è tuttavia smarrita per sempre; ella ne emerge ogniqualvolta alla forza dell' attenzione riesce di afferrare un' immagine o un sentimento reale, a cui quella notizia è congiunta nell' istinto dell' attenzione medesima; del quale reale ella quasi si veste, o a parlar propriamente, è segnata. Onde le cognizioni, che si smarriscono affatto e di cui non vi è reminiscenza, si possono dire cognizioni non segnate , e quindi non distinte nell' essere ideale. La seconda cosa a spiegare circa i fatti della memoria si è perchè alcune cognizioni o notizie ci riappariscano da sè stesse al pensiero, senza ed anche contro nostra volontà, e così talora diano luogo a quelle che diciamo poi distrazioni, tentazioni, ecc.. La ragione ne è la medesima: posto il principio che le notizie e cognizioni che in noi stanno, richiamano e tengono la nostra attenzione ogniqualvolta sono segnate, ossia legate a qualche reale, siccome immagini, sentimenti, corpi esterni, ecc., e posto d' altra parte che i reali, a cui sono legate, si presentano a noi senza ed anche contro volontà nostra, come quelli che dipendono dal gioco dell' animalità e delle animali potenze; è manifesto che molte notizie obliterate ci devono da sè ritornare al pensiero, e attirare a sè l' attenzione nostra cogitativa secondo le leggi dell' istinto e delle abitudini, e talora anche farci violenza, quand' elle sieno più forti a trarre e tenere l' attenzione che non sia la volontà nostra a ritrarnela. E quale sia la forza e l' indipendenza delle immaginazioni e dei sentimenti animali, ogni giorno si prova per esperienza; il che è una grande umiliazione dell' uomo, che risiede nel principio razionale, perocchè questo principio, che è l' uomo, vedesi così sgagliardito che, dovendo egli per ogni buona ragione precedere e imperare, in quella vece segue siccome schiavo incatenato ed ubbidisce, renitente indarno e contendente. La terza cosa a domandare si è perchè alcune notizie si richiamano con facilità al pensiero, ed altre difficilmente. - Veduto che la presenza dei sentimenti reali , onde si segnano le notizie, non dipende interamente da noi, resta facile intendersi anche questo fatto. Poichè i movimenti e sentimenti animali nè sono intieramente sommessi nè interamente sottratti al potere del principio razionale; ma questo può molto in essi, non però tutto quello che vuole. Onde talora gli riesce facile il muovere quei sentimenti in sè stesso, talora difficile, talora poi del tutto impossibile. Se poi si chieda secondo quale legge si digradi questa facilità o difficoltà, restringendoci a quello che riguarda solo la reminiscenza, noi diciamo: 1 che l' uomo che pensa ha sempre dei reali presenti (pei quali reali s' intende immagini e sentimenti); 2 che i reali presenti sono più o meno legati coi reali non presenti; 3 che questo legame è un legame di segno , o anche un legame organico , onde un movimento sensibile è continuazione od effetto immediato di altri, o un legame consensuale per istinto ed abitudine , ecc.. Acciocchè dunque il principio razionale possa suscitare e ridurre in atto i sentimenti che egli cerca: 1 questi debbono avere connessione con quelli che gli stanno attualmente presenti in atto; 2 debbono poi altresì avere una connessione più o meno felice e di spontaneo passaggio, secondo la qual condizione il principio razionale più o meno facilmente riesce a ridurre in pristino i movimenti animali e i sentimenti annessi che cerca, siccome segni delle notizie che gli bisogna rammemorare. Per legge cosmologica dell' operare del principio razionale intendemmo quella che gli viene imposta dall' azione delle cose create, dal mondo o, come direbbe Fichte, dal non7io . Nel quale concetto del mondo il principio stesso razionale viene escluso ed al mondo contrapposto, benchè questo stesso principio, questo io , formi pure anch' esso parte del mondo; altro errore del fichtiano sistema (1). Tuttavia, poichè l' anima intellettiva ha nell' idea lo specchio del mondo reale ed anche di sè stessa, non è al tutto assurdo pigliarla in due aspetti, come cognita e come conoscente, come parte del mondo e come opposta al mondo. Così la natura del mondo, compresa l' anima termine del conoscere, è il fonte delle leggi cosmologiche, secondo le quali opera il principio razionale (l' anima); e la natura dell' anima, principio razionale, è il fonte delle leggi psicologiche corrispondenti. Ma qui ci si domanda se l' animalità appartenga all' anima conoscente, a cui somministra l' immediata materia. La quale questione deve sciogliersi prima di entrare a parlare della legge dell' armonia, acciocchè si sappia se questa legge, in quanto è cosmica, debbasi derivare non solo dall' ordine delle cose esteriori, ma ancora dall' ordine intrinseco all' animalità, come formante parte di quel mondo che si considera contrapposto al principio razionale. Rispondiamo che l' animalità, come tale, non appartiene all' anima conoscente, la quale significa principio, quando quella non è rispettivamente che termine, in quanto cade nella percezione fondamentale. Laonde l' armonia, che il principio razionale trova nel suo termine e ond' egli stesso partecipa, gli viene non solo dall' armonia che vi è nelle cose esterne diverse dai sentimenti animali, ma dall' armonia che sta nella stessa animalità. Gli antichi pensatori della scuola italica avevano conosciuto l' esistenza della legge dell' armonia nelle operazioni del principio razionale, ma l' avevano creduta piuttosto una legge unicamente psicologica che una legge in parte almeno cosmologica . Di che la ragione si fu che essi non sapevano concepire l' anima puramente intellettiva, neppure intendevano la natura dell' anima razionale, ma movendo il pensiero filosofico da ciò che è più ovvio agli uomini, la materia ed il senso, fissavano lo sguardo della loro mente nell' anima sensitiva, ed a questa come a principio riducevano ogni operazione anche intellettuale. Nell' anima sensitiva poi non erano ancora pervenuti a distinguere il principio , al quale solo spetta il nome di anima, dal termine , che è l' esteso ed il materiale. Onde attribuivano all' anima in proprio anche ciò che le veniva dal suo termine. E poichè dove più sensibilmente e vivamente si sente l' ordine sono i suoni bene accordati, perciò ad ogni ordine e armonia diedero il nome di musica , generalizzando il significato di quella parola che da prima era imposta al diletto, che prendeva l' orecchio dai suoni convenienti (1), secondo le leggi dell' invenzione delle parole da noi esposte. Quindi la musica, collocata primieramente nell' anima del mondo, poscia nelle altre anime, che, di quella prendendo, si costituivano e individuavano, come si vede in questo luogo di Macrobio, che riassume le antiche dottrine. Non deve far meraviglia, dice, che la musica abbia cotanta potenza sugli uomini non meno che sulle bestie (ecco come si aveva l' occhio all' anima sensitiva); [...OMISSIS...] . Ora poi, dall' essere conosciuto che l' armonia, che dirige segretamente il principio razionale come pure il principio senziente, viene a questo dal termine e non l' ha in sè, rimane abbattuto questo errore degli antichi, i quali attribuivano unicamente all' anima, che è il principio, l' origine dell' armonia; il quale errore sospinsero così innanzi che molti pronunciarono nell' armonia stessa consistere la natura dell' anima (2). L' animalità, adunque, non è il principio razionale, rispetto al quale ha ragione di termine, e però appartiene al mondo in contrapposto dell' anima razionale; l' anima razionale poi partecipa dell' armonia, che nell' animalità si contiene. Ma se si parla dell' anima sensitiva, che è il principio immediato del sentimento, si può domandare se l' armonia, che nell' animalità si trova, proceda dall' anima, cioè dal principio sensitivo , o dall' esteso, che ne è il termine . E qualora gli antichi avessero così posta la questione, il loro errore di attribuire all' anima sola l' origine dell' armonia sarebbe stato minore, perchè veramente, almeno in parte, l' armonia viene dalla natura dell' anima sensitiva. Ma essi confusero l' anima sensitiva colla razionale, e parlarono di quella come se fosse questa. Ora il nostro intento si è di spiegare l' origine della legge dell' armonia rispetto all' anima razionale, e di mostrare come, rispetto a questa, quella legge sia cosmologica, appunto perchè la stessa anima sensitiva, che è il principio rispetto all' esteso, termine suo proprio, è termine rispetto al principio razionale, che percepisce il senziente nel sentito; e però appartiene anch' essa al mondo contrapposto al principio razionale. Vediamo dunque come l' anima sensitiva sia in parte fonte dell' armonia che trovasi nell' animalità, benchè di questo stesso argomento dovremo parlare più a lungo in appresso. In primo luogo l' esteso continuo acquista l' unità, e insieme coll' unità la natura di continuo, dalla semplicità del principio sensitivo (1). In secondo luogo vedemmo come nella semplicità del principio sensitivo giaccia l' unità del tempo. Ora nell' estensione sentita e nel tempo si manifesta l' armonia dell' animalità, perocchè nell' estensione sentita nasce la moltiplicità necessaria all' armonia, nel tempo il numero . E veramente la moltiplicità e il numero non sarebbero, se non ci fosse un ente semplice, al quale e nel quale più unità fossero presenti; giacchè ogni unità, come tale, se è presente a sè stessa, non può essere alle altre; chè ogni unità, come tale, è finita in sè e non può varcare i confini dell' essere suo. All' incontro lo stesso principio sensitivo è suscettivo di più sentimenti, e contemporanei e successivi, onde in lui solo (e più eminentemente e in altro modo nel principio razionale) la moltiplicità, il numero e la successione di più cose ritrovasi. Risultando dunque l' armonia dall' unità e dalla pluralità , l' unità è posta dall' anima, e però è elemento psicologico , e la pluralità è data all' anima sensitiva dal termine, e però è elemento cosmologico; quindi si può dire che l' armonia nella sfera del sentimento animale sia una cotale unione di natura, e quasi un abbracciamento genetliaco dell' anima col mondo. Ora l' unità è propriamente la forma del bello, come osserva S. Agostino (2). Di che si raccoglie che la parte formale dell' armonia sensibile è di natura psicologica, la parte materiale di natura cosmologica. Ma come accade che nel sentito sia la pluralità ridotta ad unità? ond' ella viene? qual parte tiene in formarla il principio, quale il termine? Il termine del sentimento corporeo è un solo esteso continuo, e non più; poichè se l' esteso corporeo si dividesse in più continui, già si moltiplicherebbero i principŒ senzienti. Qui abbiamo intanto una unità di continuo. Ma posciachè il continuo ha dei limiti che costituiscono una specie di pluralità, indi la domanda: onde i limiti (1) che determinano la grandezza e la forma di questo unico continuo? - E la risposta si è che questi limiti non vengono dal principio senziente, indifferente per sè ad ogni estensione e figura di sentito; dunque essi vengono dalla virtù esteriore cosmica. Noi abbiamo già detto che vi è un' estensione (di cui sono condizioni o limiti la grandezza e la forma), come pure una virtù sensifera extra7soggettiva (2), il cui principio deve certamente essere inesteso (principio corporeo). Oltre la moltiplicità della grandezza , della forma , dei limiti , che si rivelano in appresso colle sensazioni acquisite, si dimostra nell' animalità il molteplice delle sensazioni. Quindi un' altra questione: come nell' unico esteso continuo cada varietà di sensazione. E dicemmo da questo, che lo stesso sentimento fondamentale esteso non è al tutto uniforme nella qualità, ma variato e per così dire screziato; il che si può congetturare dover essere (benchè non credo che l' avvertenza dell' animo possa discernerlo, a cagione dell' indole del sentimento fondamentale, poco e quasi nulla atto a tirare e tenere la nostra attenzione intellettiva) (1) dal diverso grado di sensitività eccitata, di cui sono fornite le diverse membra del corpo e i diversi organi sensorii. Perocchè, essendo una parte più sensitiva o diversamente sensitiva all' eccitamento, pare che vi debba essere un primitivo sentimento diverso, nel quale ogni parte si senta in vario grado e in diverso modo. A ragion d' esempio, io credo che il nervo ottico abbia un sentimento fondamentale diverso, voglio dire di tutt' altro tocco delle altre parti sensibili del corpo, il quale sia appunto il sentimento del nero ; perocchè definire il nero nulla più che la mancanza dei colori è un confondere la causa delle sensazioni visive colle stesse sensazioni. Certo è verissimo che, tolti via tutti gli stimoli esterni dalla retina, rimane il nero; il nero si ha, quando manca intieramente la luce. Ma il corpo stimolante, che si dice luce, non è la sensazione che esso produce. Le sensazioni poi dei colori, prodotte dallo stimolo della luce, sono sensazioni parziali, ossia modificazioni speciali di un sentimento precedente fondamentale, onde questo non può essere che il sentimento del nero. Per convincersene si entri in luogo perfettamente oscuro, si ponga attenzione a ciò che si prova di sentimento nei propri occhi, e si confronti con ciò che si esperimenta in un' altra parte del corpo, per esempio nella nuca, e stando bene attenti ciascuno si convincerà che negli occhi vi è il sentimento del nero, sentirà come tappezzati gli occhi suoi d' un panno nero, il quale sentimento non l' avrà nella nuca. Nè ciò si può attribuire alla reminiscenza delle sensazioni colorate avute innanzi, le quali ora mancano; perocchè, qualora si faccia grande attenzione, s' intenderà che si tratta propriamente di un cotal sentimento che sta negli occhi, anche prescindendo da ogni rimembranza e riflessione della mente. Io credo che rispetto al nervo acustico si possa dire qualche cosa di simile, e che ci sia il sentimento del silenzio (sentimento fondamentale proprio di quel nervo), sicchè il silenzio (prescindendo dalla sua occasione esterna, che è certamente negativa, e considerato come sentimento) non sia cosa al tutto negativa, anzi abbia un che di positivo fondamento a tutte le sensazioni acustiche. All' accennata domanda, adunque, rispondo che la varietà che cade nel sentimento esteso, deve nascere dalla diversa tessitura del continuo sentito, il quale può avere maggiori o minori intervalli, risultare da molecole di diversa forma, una molecola attenersi e premere sull' altra con forza maggiore, le molecole specifiche essere più o meno involute, e da altre sì fatte condizioni dei tessuti, onde anche risultano i vari organi. La moltiplicità, che si scorge nel sentimento di eccitazione, ci porge una terza domanda, cioè: Onde nasce la varietà delle diverse parti del sentimento eccitato, la quale varietà è evidente, costituendo essa anche la varietà delle sensazioni figurate, diverse d' indole e d' intensità? nasce dall' anima o dal mondo? - Fu veduto che tali varietà eccitate nel sentito rispondono al movimento delle molecole componenti il sentito; il qual movimento parte viene determinato da stimoli esterni, parte dall' attività del principio stesso sensitivo; onde la causa di questo vario movimento deve appellarsi parte cosmologica , parte psicologica; cosmologica, in quanto vince l' inerzia dello spirito, psicologica, in quanto ubbidisce alla legge di spontaneità , di cui lo spirito stesso è fornito (1). Ma questo movimento non è la sensazione stessa; parliamo dunque di questa. Si deve distinguere: 1 il modo della sensazione, che è l' estensione, e le condizioni proprie dell' esteso, che sono i limiti, ossia la grandezza e la forma ; 2 la causa eccitatrice extra7soggettiva, ossia cosmologica, della sensazione, che è la virtù sensifera , e i movimenti intestini nell' esteso sentito; e finalmente 3 la sensazione pura, che è o sedata e primitiva, o eccitata. A costituire il modo esteso della sensazione e dei sentimenti contribuisce indubitatamente l' azione cosmologica, di cui quel modo è termine , essendo egli termine ad un tempo anche dell' anima. La causa extra7soggettiva, cioè il principio corporeo, la virtù sensifera, è ancora azione cosmologica. Ma la sensazione pura è così propria del principio senziente che ella è l' atto proprio di questo, e però appartiene intieramente all' essenziale virtù di questo principio; è quindi del tutto soggettiva, del tutto psicologica (2). L' azione cosmologica, adunque, è causa che contribuisce a porre in essere quell' atto, e con esso lo stesso principio senziente, l' anima, e a determinare quell' atto in quanto al suo modo dell' estensione; ma finalmente l' atto del sentire, è atto del principio senziente, il quale è il soggetto unico di tutte le sensazioni. La sensazione pura, adunque, dipende dal mondo esterno come da suo termine, ma non è atto del mondo esterno, sì dell' anima. Ora la sensazione pura, che chiamerò il tocco della sensazione per darle una denominazione apposita che la astragga dall' estensione, cangia, restando la stessa grandezza e forma di esteso, come si vede nelle sensazioni dei vari organi sensorii ed anche di uno stesso organo; giacchè non solo l' odore è di un tocco al tutto diverso dal colore, ma nel colore e nell' odore stesso varia il tocco di qualità e di grado. Ora, quantunque il tocco della sensazione riesca variato di specie e di grado, per cagione del diverso termine esteso e dei diversi movimenti intestini mossi entro al medesimo, tuttavia ognuno può intendere che il detto tocco, qualità positiva della sensazione, non è l' estensione, nè il movimento, ed è anzi sempre l' atto variato del solo principio sensitivo. Il che, quanto all' estensione, si vede da questo, che una sensazione può variare di tocco e non di estensione. Così una stessa estensione può essere quella in cui termina la sensazione dell' occhio, e in cui termina la sensazione del tatto; e tuttavia le sensazioni riescono diversissime, sono di un diversissimo tocco. Quanto poi al movimento, abbiamo già dimostrato innanzi che il tocco della sensazione, eccitato dai movimenti dell' organo sensorio, non ha similitudine alcuna con questi movimenti, i quali sono molti, e il tocco della sensazione eccitata è uno; i movimenti sono istantanei (essendo ogni mutazione istantanea), e il tocco della sensazione ha durata, chè altrimenti niente si sentirebbe. Dunque il tocco della sensazione è tutto dovuto all' anima sensitiva, come l' atto è dovuto al soggetto, e conseguentemente è di natura intieramente psicologica . Ma rimane sempre a vedere come il tocco possa variare col variare degli organi e dei loro movimenti, e col numero di questi. Il che riesce più malagevole a rilevare e descrivere, per l' immischiarsi fra i sentimenti che fa l' attenzione e l' operazione razionale, le quali dividono a loro modo anche ciò che nel sentimento va unito. Tuttavia non lascieremo intentata alcuna difficoltà. Il principio razionale converte in ente il sensifero e lo stacca dal senso; senza l' opera di tal principio, il sensifero sarebbe un mero agente dimorante nel senziente, l' azione di un ente, non un ente. Ma poichè il principio razionale cangia in enti i termini sensiferi delle percezioni sensitive, perciò accade che ogni organo sensorio spazii in un mondo suo proprio. Ciascuno di questi mondi è affatto diviso, prescindendo dall' estensione, e neppure simile in quanto al tocco specifico del sentimento, da ciascun altro mondo proprio di un altro sensorio. Che se il principio razionale confronta questi diversi mondi e se ne fabbrica uno di tutti, ciò egli fa per via di analogia e non per vera similitudine che sia fra loro; non lo fa perchè abbiano somiglianza nella qualità del tocco sensibile, ma perchè convengono nel numero, nello spazio, ecc., in cose cioè che non spettano alla sensazione pura. Nell' identità di queste condizioni, che non costituiscono la sensazione, il principio sensitivo per la sua semplicità le congiunge ed armonizza. Così quando l' occhio dirige la mano a toccare un oggetto, la sensazione visiva (esteso sentito dall' occhio) è intieramente diversa dall' esteso, in quanto è toccato dalla mano; ma la sensazione visiva presta il medesimo servigio alla mano che presta una carta geografica accuratissima al viaggiatore, coll' aiuto della quale egli dirige i suoi passi. Del che non è facile accorgersi; perocchè vi è questa differenza notabilissima fra la carta geografica e la sensazione visiva: che si percepisce la carta geografica come uno spazio piccolissimo in paragone dello spazio da percorrersi dal viaggiatore, laddove la sensazione visiva presenta l' oggetto d' una dimensione che pare eguale a quella che sente la mano toccando, benchè ciò non sia; giacchè la sensazione dell' universo ottico non è più estesa veramente di quel che sia estesa la retina che lo contiene (percepita questa retina col tatto). Ma la differenza sta in questo: che quando io vedo la carta geografica, vedo contemporaneamente tutto ciò che sta di là da essa, tutto lo spazio che eccede i suoi confini, l' immenso spazio, per esempio, delle pianure e delle montagne e del cielo; e al di là di quel che vedo immagino altro spazio, al paragone dei quali spazi la carta geografica mi riesce al tutto piccolissima, e in questa piccolissima carta io trovo segnati e distinti quei piani e quei monti, quei mari e quei cieli, che vedo coll' occhio; e coll' occhio che m' accompagna viaggiando, vedo due volte le cose stesse, vedo segnato in piccolo sulla carta quello stesso che vedo in grande nella natura, e questo piccolo rappresentante e questo grande rappresentato è veduto dallo stesso organo, cioè dall' occhio, sicchè coll' aiuto dello stesso sensorio io confronto diverse parti della sua sensazione. All' incontro accade tutt' altro, quando lo spirito non confronta la grandezza delle varie parti d' una sensazione dello stesso sensorio, ma confronta la sensazione di un sensorio, per esempio dell' occhio, colla sensazione di un altro sensorio, per esempio del tatto. Allora si paragonano due universi, non le parti dello stesso universo; si paragona l' universo veduto coll' universo toccato, poichè nella sensazione totale dell' occhio, che noi chiamiamo specchio visivo, vi è tutto l' universo ottico, cioè tutto ciò che può vedere l' occhio con uno sguardo, e la ritentiva e l' immaginazione con più sguardi. In questo universo ottico vi è la mano che tocca e l' oggetto toccato; e l' una e l' altro colle loro proporzioni, sicchè se l' oggetto toccato è più piccolo della mano, anche nello specchio visivo compare più piccolo, e se è più grande, compare più grande. Di più, la mano e l' esteso toccato tengono la proporzione debita a tutti gli altri oggetti circostanti, che nello specchio visivo si trovano; e però l' occhio fa discernere al principio razionale tutte queste proporzioni, e il principio razionale sa conseguentemente dire a sè stesso quanto è più grande quella colonna, cui la mano tocca, della mano stessa, e quanto il tempio della colonna, e quanto il monte, che gli sta accanto, del tempio, ecc.. Il perchè, se la mano è toccata tutta da un corpo, il principio razionale, guidato dall' occhio, sa dire che « quel corpo è così esteso come è estesa la sensazione di tutta la mano »; poichè tutte queste proporzioni sono segnate nei colori sentiti nella retina come sopra carta geografica. Ma al di là di tutto questo, al di là dello specchio visivo, di questa carta geografica, l' occhio non vede altro; vede dunque la sola carta geografica, questa è il suo universo, e però egli non può paragonare questa carta geografica con altra cosa maggiore di lei, nè trovar cosa che sia maggiore di lei, perchè altra non ne vede. Quanto è dunque grande lo specchio visivo? Altrettanto quanto è grande l' universo, cioè l' universo visivo, perchè parlando del detto specchio non vi sono altri universi. Quando dunque l' anima dirige la mano ed il piede colla scorta dell' occhio, allora la mano e l' esteso che vuol prendere, e il piede e la via che vuol percorrere, e gli spazi circostanti sono tutti disegnati nell' universo visivo, nello specchio ottico; e questi disegni sono il principio dei movimenti regolati, che fa la mano od il piede ad impero dell' anima. Quei segni adunque, che occupano una parte piccolissima della retina e che rispondono distintissimamente alle proporzioni della mano, del piede, ecc., contengono sì fattamente il principio dei movimenti della mano e del piede che basta che l' anima voglia, ella con solo quei segni accosta realmente la mano all' oggetto che vuol prendere, e rivolge i passi per la direzione che brama. Si consideri bene che nè la strada, nè l' oggetto, nè la mano, nè il piede è nell' occhio; ma che la mano ed il piede, che si deve muovere, comunica per via dei nervi sensorii o motori col cervello; e che nel cervello termina pure il sensorio ottico, che rappresenta la mano ed il piede; si consideri che il principio animale unifica in sè la mano ed il piede veduto col sensorio ottico, sentimento passivo, ed il sentimento attivo dei nervi motori; si consideri che i movimenti della mano e del piede incominciano da movimenti piccolissimi del cervello per imperio dell' anima, i quali minimi movimenti si propagano, per la legge di spontaneità, ai nervi ed ai muscoli. Se dunque vogliamo dire che la sensazione visiva occupa un minimo spazio del cervello, potremo dire egualmente che l' anima, diretta o anche eccitata da quella sensazione, basta che ecciti un minimo movimento nel cervello, perchè si muova la mano od il piede, che nel sentimento soggettivo sono intimamente uniti con esso. Ora non è difficile concepire come una sensazione occupante uno spazietto minimo (nel sensorio ottico), quale sentimento passivo, dia principio al suo corrispondente sentimento attivo in un altro spazietto minimo (nelle radici dei nervi motori); nel quale spazietto minimo iniziandosi i movimenti, questi poi, per la legge che « l' animale tende a conservare ed accrescere i moti a lui grati », si vadano aumentando fino a muovere la mano ed il piede nella direzione determinata dalla sensazione visiva. Questo altro non dimostra se non l' ammirabile armonia, che pose il Creatore nella composizione dell' animale. Ma come accade, si dirà, che noi pur ci accorgiamo che l' universo visivo, essendo limitato all' estensione della retina, sia minimo rispetto all' universo reale? - Questo non può accadere mediante il paragone fra le grandezze date dal tatto e quelle date dall' occhio, perchè le grandezze date dal tatto vanno sempre d' accordo con quelle date dall' occhio, e quelle date dall' occhio vanno in perfetto accordo con quelle date dal tatto, sicchè le une commisurano le altre. In questo confronto si può bensì rilevare a che misura data dal tatto corrisponda la misura data dall' occhio, o a che misura data dall' occhio corrisponda la misura data dal tatto; ma non si arriverebbe mai a conoscere se una sensazione fosse più estesa assolutamente dell' altra. Per esempio, l' occhio mi dimostra una statuetta nel tempo che la mano la tasta. L' uomo dalla contemporaneità di queste due sensazioni altro non può indurne se non che l' oggetto, veduto dall' occhio, è così grande che produce tale ampiezza di sensazione nella mano; o viceversa l' esteso, tastato dalla mano, è così grande che adduce tale ampiezza di estensione visiva. Le sensazioni dunque dell' occhio e della mano, divenendo misura l' una dell' altra, non possono mai dare misure discordi, ma debbono dare misure scambievolmente commisurate, che sono misure di proporzione, non misure assolute. Come è dunque, per ripetere la domanda, che noi pure ci accorgiamo che la sensazione visiva di un esteso occupa meno spazio della sensazione tattile del medesimo esteso? Qui si tratta di trovare la ragione fra lo spazio, che occupa la sensazione di un sensorio, e lo spazio, che occupa la sensazione corrispondente di un altro sensorio. Ora questa proporzione non esiste fra i due sensorii, perchè nè l' uno nè l' altro somministra una misura comune , la quale potesse andar bene a misurare quelle due sensioni specificamente diverse; giacchè il sensorio ottico niente abbraccia del sensorio tattile, e il sensorio tattile niente abbraccia del sensorio ottico; ogni sensorio è limitato al proprio mondo; e quando il principio animale o razionale li paragona, altro non trova che eguaglianza; perchè il paragone è unicamente fatto per analogia, sicchè non paragona ampiezza ad ampiezza, ma proporzione a proporzione. Conviene dunque dire che la misura dell' estensione della grandezza della sensazione ottica sia la stessa sensazione; e la misura della grandezza della sensazione tattile sia la sensazione tattile; ed ecco in che modo. La retina ha due relazioni con noi: la relazione di sensorio e la relazione di termine esterno sentito. La retina nell' atto che fa da sensorio è lo stesso specchio visivo, è l' universo visivo; fuori di questo universo visivo, che è quanto dire fuori della retina, non vi è alcuno sentimento visivo. L' anima dunque, veggente per quest' organo, non può paragonare lo specchio somministrato da quest' organo ad altra cosa, perchè non vede alcun' altra cosa fuori di lui; e benchè non senta che l' organo, tuttavia neppure si dice che vegga l' organo; perchè la parola vedere si riferisce ai termini staccati e distinti dall' organo, portandosi l' attenzione ad essi e non fermandosi all' immediato sentito, cioè alla retina che li segna e rappresenta. In questa maniera la retina si sente soggettivamente; al che non si ferma l' attenzione, la quale anzi procede ai diversi colori di cui la retina è variegata, che prende (in virtù del principio razionale) per altrettanti oggetti esterni, ossia enti. Fino a tanto dunque che l' anima sente la retina così soggettivamente, qual sensorio in atto, ella non può paragonare lo spazio della retina ad altro spazio, perchè tutto lo spazio possibile dato all' anima da contemplare, tutto lo spazio dell' universo visivo è la retina stessa, non esiste che essa per l' anima; non esiste la testa del riguardante dove è l' occhio e la retina, non esiste il corpo del medesimo dove è la testa, ecc., perchè se esistono tutte queste cose, esistono nella retina e non fuori di lei. Ma consideriamo la retina nell' altra sua relazione con noi, cioè non più come sensorio, ma come termine esterno sentito. L' opposizione di queste due relazioni, che ha la retina con noi, si scorge ponendoci a riguardare coll' occhio nostro la retina dell' occhio altrui. In tale posizione l' occhio nostro fa a noi l' uffizio di sensorio; l' anima nostra sente internamente, soggettivamente, la retina di lui, quando la retina dell' occhio altrui, rispetto a noi che lo rimiriamo, non fa già l' ufficio di sensorio, ma di termine esterno da noi sentito, veduto. La retina dell' occhio altrui in questa relazione con noi non è rappresentante, ma rappresentata; è rappresentata nella retina nostra, ella occupa nella retina nostra uno spazietto piccolissimo e diventa una minima parte del nostro specchio visivo, del nostro visivo universo, diventa un' estensione assai più piccola dell' occhio altrui che io considero, più piccola ancora del capo o del corpo altrui, e via più piccola dell' interno universo visivo, che io sento nella mia retina. La mia retina, adunque, sentita soggettivamente è ampia come lo spazio dell' universo, e la retina altrui, da me sentita extra7soggettivamente, non è più ampia che una piccolissima particella dell' universo. Ma accade il somigliante rispetto a colui, la cui retina io miravo; la retina di lui, come sensorio in atto, è lo spazio universo, e la retina mia è una minima particella di questo spazio. Ciascuno può anche guardare la retina sua propria in uno specchio, e in tal caso la stessa retina acquista verso del riguardante le due relazioni: come sentita soggettivamente è l' universo visivo, come veduta, ossia sentita extra7soggettivamente, è un minimo spazietto dell' universo medesimo. Io conosco poi che la retina sentita soggettivamente come sensorio in atto, e la retina veduta, cioè sentita extra7soggettivamente come termine esterno, è identica, osservando che, coprendo quella retina che vedo come oggetto esterno, cessa la visione, cioè cessa la retina di essere sensorio in atto. Che se io voglio misurare la grandezza degli oggetti col tatto, fra questi oggetti trovo ancora la retina; ed allora il paragone delle sensazioni del tatto stesso mi dice che la retina occupa un piccolissimo spazietto nell' universo tattile. Provo poi che la retina toccata è quella stessa che fa l' ufficio di sensorio, accorgendomi che al sovrapporle la mano ella cessa di vedere. Ora questi fatti confermano quanto abbiamo detto più sopra, cioè che lo spazio continuo è nel principio senziente; e l' uomo non misura la grandezza degli oggetti esteriori se non applicando loro lo spazio che ha in sè, cioè lo spazio in cui termina il proprio sentimento; onde dai diversi modi, nei quali quei corpi si commisurano allo spazio soggettivo e fondamentale, ricevono diverse misure. Ma poichè i corpi veduti non toccano propriamente l' occhio, ma sono disegnati in esso dalla luce che vibrano, quindi la percezione degli occhi è percezione di segni corrispondenti ai corpi e non dei corpi stessi. Ma la grandezza di questi segni, benchè sì piccoli, sembra eguale alla grandezza dei corpi percepiti col tatto, perchè queste due maniere di sentire, come dicevamo, non hanno una misura comune alle loro grandezze rispettive, ma ciò che hanno di comune è la proporzione delle parti eguale in entrambe, la quale proporzione soltanto il principio razionale paragona. Rimane tuttavia a cercare come lo spazio occupato dalle sensazioni ottiche appaia così separato dallo spazio totale del sentimento fondamentale. Chè se non apparisse separato, già vi sarebbe la misura comune, nè lo spazietto della retina, dove sta il sentito, darebbe un mondo a parte, ma altro non sarebbe che una particella dello spazio totale del sentimento fondamentale. Ora questo avviene per più cagioni: Lo spazio, termine del sentimento fondamentale, non è misurato nel sentimento stesso, ma solo viene misurato poscia dalle sensazioni esterne, figurative e superficiali, appartenenti ad organi speciali; i confini non formano parte del sentimento fondamentale, e la sua continuità non ha traccia di linee o figure di sorte. Ma quei confini sono le stesse sensazioni superficiali, che appartengono al sentimento eccitato in organi speciali. Quindi accade che se vi è una sensazione superficiale, che stabilisca un confine limitato al sentimento superficiale, l' estensione di questa sensazione è unicamente quella che si sente; ella non si può paragonare coll' estensione totale del sentimento fondamentale, perchè questa estensione totale non si sente a quel modo, non esiste per noi facienti uso di quegli organi, che soli dànno i confini e però le misure determinate. Così quando l' uomo sente il piccolo spazio della retina dove la luce ha eccitato il sentimento, quel piccolo spazio è sentito del tutto isolato dal rimanente spazio superficiale del corpo umano, perchè in quel solo spazietto è l' eccitamento e non nel resto. Di più, quand' anche avvenisse che nello stesso tempo che la retina è eccitata dai colori, le parti circostanti fossero eccitate da stimoli loro propri, sicchè dessero anch' esse una sensazione superficiale; non avverrebbe ancora tuttavia che l' uomo sentisse quelle sensazioni disposte in una sola superficie continua, perchè vi è intervallo e separazione fra il nervo ottico e i nervi circostanti, che, venendo eccitati, ci fanno sentire; onde la sensazione superficiale riterrebbe delle lacune, che la separerebbero in più sensazioni, ognuna delle quali misurerebbe sè stessa, ma non l' altra, perchè niuna di esse sarebbe parte di una sensazione superficiale maggiore, la quale è condizione per essere misurata, giacchè nel caso nostro le parti non si misurano altrimenti che mediante il loro rapporto col tutto. Ancora, il tocco della sensazione riuscendo diversissimo, e al sommo vivo e distinto quello della luce, la retina richiamerebbe tuttavia a sè l' attenzione, e darebbe una superficie diversa da quella che le sarebbe contigua. Finalmente, e questo nasce principalmente dall' ingerenza del principio razionale, l' attenzione dell' uomo non si ferma alla sensazione soggettiva della retina, e neppure alla sensazione extrasoggettiva, ma va direttamente agli oggetti esterni rappresentati nello specchio visivo, e crede di percepirli immediatamente. Onde cessa la possibilità di paragonare la sensazione superficiale della retina colla superficie totale del corpo umano, perchè a quella non si attende, ma si attende agli oggetti, di cui ella presenta i segni, che ne formano la espressione. La seconda e la terza delle ragioni da noi date meritano qualche maggior considerazione. E` da riflettersi che la diversa organizzazione delle parti sensitive del corpo umano fa sì che una di esse sia suscettiva di un eccitamento, e un' altra di un altro diversissimo, onde se ne hanno sensazioni di un tocco così diverso come è quello proprio di ciascuna specie delle sensazioni dei cinque organi, le quali, rispetto al tocco, in nulla si assomigliano, giacchè niuno potrebbe trovare similitudine fra il colore, l' odore, il sapore, ecc.. Di che tali organi si chiamano altrettanti sensorii differenti. Ma la natura volle di più separarli in modo che le sensazioni degli uni non si continuassero alle sensazioni degli altri, le sensazioni dell' uno di essi occupassero uno spazietto discontinuo alle sensazioni di un altro; ed essendo discontinuo, non vi è uno spazio unico in cui cadano le dette sensazioni, mediante il quale si possa vedere quale parte di spazio occupa ciascuna di esse. Quindi la estremità del nervo acustico, che riceve l' impressione dell' aria vibrata, è in un luogo tutto differente da quello occupato dall' estremità del nervo ottico, che riceve l' impressione della luce; e così si dica degli altri sensorii speciali. Neppure si può dire che tali nervi o sensorii si continuino con parti che appartengono al senso del tatto, perocchè ciascuno è protetto e vestito di parti insensate; e quand' anche fossero sensate, elle o non sarebbero eccitate tutte contemporaneamente, o l' eccitamento darebbe una sensazione così debole che non si osserverebbe all' atto della sensazione vivacissima del sensorio con cui confina; onde ancora lo spazio occupato dalla sensazione di questo sensorio sarebbe isolato e non appartenente, come parte, a tutto lo spazio superficiale del corpo umano. Senonchè vi è discontinuità anche negli spazietti eccitati in uno stesso sensorio. Quando io considero come l' orecchio senta distintamente diversi suoni venienti da diversi punti, per esempio i suoni dei vari strumenti di un' orchestra, allora debbo credere che i raggi sonori vadano a colpire ed eccitare diverse parti del nervo acustico. E converrebbe forse studiare i diversi ingegni di cui si compone l' orecchio, di cui l' uso appieno non si conosce sotto questo aspetto, cercando se uno dei loro fini sia quello di tenere separati i suoni, facendo che i raggi sonori eccitino il nervo in parti diverse (1). I fisici spiegano benissimo come le onde sonore non si confondano fra loro pel principio da loro detto della « sovrapposizione dei piccoli movimenti »; ma questa non basta a spiegare il fenomeno delle sensazioni distinte, che non avviene nelle onde aeree, ma nel sensorio. Supposto poi che le onde sonifere, restringendosi ed appuntandosi, quasi come fa la luce col rifrangersi o riflettersi nelle lenti, vadano ad eccitare punti diversi della membrana acustica, è chiaro che non tutta la detta membrana è eccitata, ma solo quei punti di essa che vengono percossi; e ciò perchè l' onda non parte da ogni punto del corpo sonoro, ma il corpo sonoro che vibra produce un' onda sola, di cui approdano all' orecchio alcuni raggi, che finiscono in un solo punto, a differenza di ciò che fa la luce, la quale è mandata da ogni punto del corpo luminoso come da centro diverso. Onde la retina è tutta eccitata, e il suo eccitamento è vario come sono vari i punti dei corpi, che le riflettono la luce; il che fa la sensazione visiva, attissima a rappresentare in sè i corpi disegnati con proporzioni, o piane o prospettiche, accuratissime; laddove tutt' altro avviene nell' orecchio, che riceve suoni isolati, perchè non tutta la membrana acustica è colta, ma solo quei punti dove urta il raggio sonifero, rimanendo nella stessa membrana diversi spazietti non eccitati, e però privi della sensazione sonora (2). La spiegazione della diversità del tocco delle sensazioni eccitate non sarebbe perfetta, se non aggiungessimo qualche cosa intorno alla relazione che passa fra quel tocco e i movimenti extra7soggettivi e vibratorii delle molecole, di cui constano le fibre nervose. In primo luogo si ricordi che la causa efficiente delle sensazioni non sono i movimenti delle molecole della fibra, ma l' attività del principio sensitivo; i movimenti non sono più che la causa eccitatrice; quindi gli stessi movimenti, che sono accompagnati da sensazione in un corpo animato, rimangono privi di sensazione in un corpo non animato, perchè vi sarebbe l' eccitante, ma la causa che viene eccitata ed attuata non c' è. In secondo luogo il sentimento eccitato ha sempre per suo termine un esteso , altrettanto quanto il sentimento sedato , nè coi movimenti che si eccitano nel termine esteso sentito si rompe e discontinua l' estensione, ma si tratta unicamente d' uno spostamento di molecole, che, senza cessare di essere continue fra loro, si muovono quasi strofinandosi con più o meno di pressione alle loro superficie. Ciò posto, è chiaro: Che il movimento eccitatore non deve avere per effetto la mutazione dell' esteso continuo, il quale non si muta (se non forse nei suoi limiti che sono insensibili), ma deve cangiare il modo del sentire, deve rendere più vivo e diverso il modo, onde l' esteso continuo si sente dall' anima; il quale modo diverso e più vivo fa che la sensazione sia di un altro tocco. Perocchè il sentimento non ha per termine immediato il moto, come dicevamo, ma l' esteso intestinamente mosso. Quindi il movimento delle molecole non si può sentire in ciascuna sensazione speciale, ma si deve sentire lo stesso esteso, non entrando il movimento eccitatore nel principio senziente, il quale anzi è costantemente causa dell' unità del sentito, cioè della sua continuità. Per dirlo in altro modo, tale è la legge dell' attività sensitiva (animale) che ella produce un sentimento continuo . Ora nel continuo non vi è movimento sensibile, perocchè per sentire il movimento converrebbe dividere il continuo, cioè converrebbe conoscere i confini delle parti che si muovono, e così distinguere queste parti, laddove nel continuo è abolita la distinzione delle parti ed i loro confini. Quindi è che più movimenti vicini di tempo nello stesso organo sensorio non producono più sensazioni, ma una sensazione sola; ossia altro non possono fare se non che il tocco della sensazione si cangi, secondo il numero delle vibrazioni comunicate all' organo sensorio nel tempuscolo in cui si forma la sensazione, come si vede nei toni musicali, che sono altrettante sensazioni di tocco specificamente diverse, e diversificano secondo il numero delle vibrazioni del corpo sonoro (1); al qual numero di vibrazioni deve rispondere un pari numero di scosse, ossia di vibrazioni nelle molecole elastiche dell' organo sensorio, che da esse è urtato. Ma la ragione perchè supponendo che 24 vibrazioni di un corpo sonoro producano il tono do , ce ne vogliano 27 a produrre il re , non può cercarsi che nell' indole speciale della costituzione del sensorio acustico, e più ancora nella natura del principio sensitivo, che è il produttore di quella sensazione; onde questa ragione deve indubitatamente essere psicologica in parte, ed in parte cosmologica. Lo stesso è da dirsi della ragione perchè fra i primi tre toni (supponendo sempre il do prodotto da 24 vibrazioni) vi sia una differenza di tre vibrazioni; laddove dal mi al fa non vi sia che la differenza di due vibrazioni, e in questo caso l' orecchio stesso discerne fra questi due toni correre un intervallo minore che fra gli altri; come pure è da dirsi lo stesso della ragione perchè fra gli ultimi tre toni vi sia una differenza di quattro vibrazioni, e l' orecchio non discerna tuttavia fra il sol, la, si che un intervallo tonico pari a quello che discerne fra il do, re, mi (1). Riassumendo adunque ciò che vi è di natura psicologica nei sentimenti animali, ossia riassumendo gli elementi che l' anima somministra colla propria attività all' armonia che trovasi nel sentimento, diciamo che questi elementi psicologici sono: 1 L' unità dello spazio; 2 l' unità della successione; 3 l' unità della moltiplicità, e quindi la forma dell' armonia che si trova nell' animalità; 4 il tocco del sentimento. Ma noi dobbiamo investigare più addentro come sorga l' armonia nell' animalità; perocchè, quantunque fin qui ne abbiamo indicati gli elementi, e l' origine o psicologica o cosmologica di ciascheduno, tuttavia non abbiamo ancora esposto il modo come ella sorge ed è formata. Il tempo e lo spazio è quasi la sede della moltiplicità, che è nel senso animale; a questa l' anima dà unità. Ma non ci sarebbe armonia, se non ci fosse diletto, e questo senso dilettevole è da cercarsi nel tocco del sentimento. Ciò non basta ancora a compire il concetto dell' armonia sensibile, perocchè ogni sentimento singolare ha il suo tocco proprio, ma l' armonia non può risultare che da più sentimenti. Dall' anima viene anche l' unità dilettevole di questi vari sentimenti. Acciocchè dunque vi sia armonia non basta che l' anima dia la sua unità allo spazio che è la continuità, non basta che la dia al tempo che è la durata; ma deve di più dare unità alla moltiplicità dei sentimenti; l' anima gliela dà, sieno essi di vario o del medesimo tocco (1), i quali sorgono nel seno del sentimento sedato fondamentale. Nè qui è ancor tutto; l' anima a fare che insorga l' armonia, deve dare a più sentimenti non una unità qualsiasi (perocchè ella dà sempre e necessariamente qualche unità ai sentimenti dei quali ella è l' identico soggetto), ma una unità dilettevole ; ed è questa che si tratta di spiegare da noi, distinguendola da quella unità che non manca mai per l' identità del soggetto senziente. Ora per dichiarare quale sia e onde risulti questa unità piacevole, noi dobbiamo ascendere a quelle leggi universali (ontologiche o cosmologiche), secondo le quali agisce e patisce convenevolmente ogni sostanza; le quali leggi si possono egualmente applicare al principio sensitivo ed al razionale. Esse sono le seguenti. La prima si annunzia così: « L' ente ama quell' atto, a cui egli è avviato, e riceve molestia, se incontra qualche impedimento che glielo mozzi per via; trova all' opposto diletto, se può spiegare tutto il suo atto fino all' ultimo finimento, a cui il libero suo movimento giungerebbe ». Diciamo « l' ente ama quell' atto a cui egli è avviato », perocchè se non avesse preso già l' avviamento ad un atto, egli non riceverebbe molestia dall' andarne privo; solo gli mancherebbe il diletto, che ogni atto d' un ente sensitivo racchiude per propria essenza. Diciamo « sino all' ultimo finimento, a cui il libero suo movimento giungerebbe », perchè quando un ente è in via ad un atto, il suo moto è limitato di specie e di grado dalla propria virtualità, e quindi ha un fine naturale dove il moto si quieta. Applicando questa legge al principio sensitivo, cade sotto di essa la spiegazione che noi davamo del dolore; il principio animale volto all' atto di porre il sentimento fondamentale nel modo più pieno che gli sia possibile (istinto vitale), sta male se di ciò far pienamente gli è conteso, e questo suo star male è il dolore. La seconda legge riceve questa espressione: « L' atto, a cui un ente è avviato, talora è molteplice per successione, cioè risulta da una serie di anelli, i quali si possono considerare come un atto solo per l' unità dell' ente, che spiega la sua attività in più potenze comunicanti. In tal caso l' ente tende a percorrere tutta la serie di quegli anelli fino all' ultimo, e il venire arrestato per via gli è molesto ». Diamo un esempio di questa legge, togliendolo dall' operare del principio razionale, a cui è connesso e subordinato il principio sensitivo. Il principio razionale ha un atto composto di tre anelli: 1 giudizio, 2 affetti, 3 movimenti esterni; e talora di quattro: 1 giudizio, 2 affetti, 3 decreti, 4 atti esterni. L' attività di quel principio non suole dunque fermarsi al semplice giudizio, ma a tenore del giudizio (primo anello) produce gli affetti (secondo anello) verso la cosa giudicata buona o mala, ecc.; nè si ferma qui; ma o interpone decreti ed operazioni esterne conseguenti, o gli affetti producono istintivamente i movimenti nel corpo corrispondenti (terzo anello). Fra i movimenti corporei vi sono quelli dei suoni vocali; ed è perciò che l' uomo è inclinato a far seguire a un vivo sentire l' emissione della voce, naturale finimento della sua attività sensitiva tratta in movimento. Questi suoni poi, legati intimamente come ultimi effetti col pensiero e coll' affetto, diventano segni naturali esterni, dai quali si può dagli altri uomini, che esperimentano lo stesso, conoscere ciò che l' uomo pensa e sente dentro di sè. Ma prima che passino a servire a questo ufficio, essi sono lo spontaneo e naturale finimento dell' atto sensitivo e razionale dell' uomo, il quale vuole completarsi, vuole andare fin dove egli può. Il che si vede manifesto principalmente quando l' uomo, mosso dentro da un grande sentimento, manda fuori qualche grande suono od anche qualche grande espressione, che non ha propriamente legame col suo pensiero o col suo sentimento, se non perchè quello sfogo è l' ultimo termine dello stesso; per esempio, nella collera uscirà in una bestemmia, in una imprecazione a tutt' altro che a ciò con cui si adira, o pronuncierà una parola sconcia o sonante anche priva di significato, come «babai», papae, capperi , ma più comunemente pronuncierà il nome di Dio, per isfogarsi dicendo la cosa più grande che egli sappia trovare. Così nella lingua ebraica la parola Dio si aggiungeva come superlativo a tutti i vocaboli, dicendosi « monte di Dio », « principe di Dio », ecc. per significare monte altissimo, gran principe, ecc. (1). Lo stesso usano di fare gli Arabi (2) e tutti gli Orientali, e in Euripide s' incontra la stessa maniera (3). Quindi anche l' origine del giuramento e delle esclamazioni, che si mandano fuori quasi istintivamente senza considerazione, come facevano i Latini colle parole Pol, Edepol, Jupiter , ecc.; onde fu bisogno una legge positiva, colla quale si vietasse agli uomini di nominare invano un nome sì augusto, affine di raffrenare l' umano istinto, che non poteva quasi a meno di pronunciarlo. E così si fa servire allo stesso sfogo il pronunciare di una cosa grande qualsiasi, come in italiano diciamo « Poffare il cielo, poffare il mondo! potenza in terra! » ecc.. Ed il giurare pel capo di alcuno o per altra creatura è come un divinizzarla, onde anche per questo fu vietato. I quali sfoghi, che terminano in una voce, conviene osservare che appartengono al principio razionale, a cui il sensitivo si continua; ed è perciò che, qualunque sia la voce o l' espressione che si pronuncia, intende sempre chi la emette di dire qualche cosa, non semplicemente di fare uno scoppio sonoro, intende di dire e segnare una cosa grande oltremodo, anche ove per sè la voce nulla significasse; nel qual caso è voce nuova, inventata a bella posta per ultimare l' atto di quel pensiero, il quale non può stare chiuso, ma vuol rendersi sensibile, legarsi ad un reale, che lo renda più vivo e più consistente a lui stesso che l' ha; ufficio che, come abbiamo veduto, sogliono prestare i reali immaginari o in generale sensibili, rendendosi compimento (segni) degli interni pensieri. Ed è tanto grande questo bisogno che ha l' uomo di ultimare così in un segno reale esterno l' atto cominciato nel suo pensiero che, dopo vietato dalla divina legge l' interporre invano il nome della divinità, pur i migliori uomini ne sentono il bisogno, e quasi per ingannare sè stessi sostituiscono vocaboli simili, siccome fanno i fiorentini, che invece di « Poffare Iddio » sogliono dire « Poffare il zio », ed i Cappuccini, che hanno inventata la esclamazione « Pojane! »quale innocente intercalare di meraviglia. L' istinto che ha l' uomo di completare l' atto suo, che incomincia nel pensiero, si continua all' affetto, muove talora la volontà a fare i decreti, e si consuma nell' azione esterna, in cui l' uomo stesso che la fa, ne scorge l' espressione che glielo rende più vivo, è istinto potentissimo, e se ne ha grave molestia se viene contraddetto e rimane storpiato dall' ultimazione dell' atto suo. Onde questo istinto vale a dar buona ragione di molti altri fatti dell' umano operare. E perchè mai se non per questa cagione appunto l' uomo, a cui soppravvenga sciagura grandissima, manda grida e lamenti, e di più fa onta e danno a sè stesso, e si sciupa le vesti, e si lorda di cenere e di fango, e si batte la fronte e si strappa il crine, e siede e ravvoltolasi per terra, e si morde e si dilacera, e perfino si uccide? Per quella legge che dicevamo; ed una delle origini del suicidio è pur questo istinto, e il bruciarsi sul rogo del marito delle vedove indiane, non tutte finte, ne è una prova evidente (1). Cerca forse l' uomo sollievo e diminuzione ai suoi mali col farne degli altri a sè stesso, coll' aggiungersene di nuovi? Non è questa la causa del suo incrudelire seco medesimo; ma si è quell' atto interno di dolore veementissimo, che non può tenersi e fermarsi al primo passo, ma vuole trascorrere la sua via e spiegarsi in tutta la naturale sua protensione; vuole ingrandirsi, ed ultimarsi, e segnarsi, e quasi lasciare di fuori nella straziata persona di sè un monumento; onde i mali, che fa l' uomo in tale condizione a sè stesso, gli sono più agevoli a tollerare che agevole non gli sia il rattenere quell' istinto, lasciando dimezzato l' atto del suo dolore cominciante nel pensiero e finiente nel corpo, per l' unità del soggetto intellettivo7animale, per quel nesso dinamico che lega insieme le varie potenze, e il moto dell' una fa trascorrere e continuarsi nell' altra. Laonde, anche quando l' animo esultante di gioia induce l' uomo a gongolare e trionfare nei suoi gesti esteriori, e lisciarsi, e azzimarsi, e coronarsi di rose, e banchettare, e inebbriarsi, e magnificamente e copiosamente parlare, non è a credere che egli faccia tutto ciò unicamente per trovare in cotali cose maggiore diletto; ma vi tiene gran parte l' istinto di far sì che l' atto della sua gioia interna percorra e rivolga, a così dire, tutta la naturale sua orbita, e se ne sfoghi ed esaurisca l' attività. Vero è che, come dice Seneca, parvae et lenes curae loquuntur, ingentes stupent ; ma questo stupore si spiega colla stessa legge, considerando parte che la veemenza della passione animale offende gli organi, a cui è tolta ogni virtù di continuare il movimento dell' animo, parte che la intensità dell' atto interiore compensa la sua estensione, sicchè l' istinto si nutre, per così dire, e si soddisfa nel desiderio e nello sforzo di perfezionare l' atto del dolore interno coll' accrescerne il grado, e tuttavia non ne viene a capo, sicchè non trovando forze di svolgere l' atto e comunicarlo alle potenze esterne, l' addolorato dentro impetra. La solitudine adunque sì amata e ricercata dall' uomo profondamente afflitto, e il non poter mai togliere il pensiero dalla causa del suo dolore, nè parlare d' altro che della sua sciagura, e il voler anatomizzarla e considerarla in tutte le più minute circostanze, e riuscirgli intollerabile chi gliela pretende diminuire; nasce dalla legge stessa, dallo stesso istinto, che tende a far sì che l' atto stesso del dolore, già avviato, si compia e si perfezioni con quanta attività egli s' abbia maggiore; sicchè non rimangasi rannicchiato in germe, anzi ciò che è nel seme acquisti suo corpo e cresca adulto quanto mai egli può. Ed alla stessa legge deve riputarsi la causa perchè le lagrime sollevano l' infelice, a cui non è forse cosa più cara del pianto. E` l' ultimo sfogo dell' atto, senza il quale l' atto, non consumato ancora, rimane pieno di virtù e in conato di germinare. L' origine dei sacrifizi alla divinità e specialmente dei sacrifizi umani (ai quali furono surrogati quelli in cui s' immolavano a Dio le cose più care dell' uomo invece dell' uomo) deve pure a questa legge riferirsi. Il sentimento della somma umiliazione, di un Signore supremo di tutte le cose, e specialmente del riconoscersi rei di peccato in faccia a quel potentissimo, a quel Sovrano infinito, addimanda più che un atto sterile e freddo di solo pensiero; vuole spiegarsi in un atto realissimo, che, trascorrendo tutto l' uomo, lo penetri e domini; il quale atto di natura infinito, perchè rispondente al concetto di un ente infinito, l' uomo non trova come completarlo se non colla distruzione di sè, e più imperfettamente colla distruzione delle cose sue. Perocchè l' essenza del sacrificio, sia esso olocausto, o sia per il peccato, esige propriamente che l' uomo stesso ne sia vittima; gli altri sacrifizi non sono più che un surrogato a quello perfetto. Infatti nell' olocausto l' atto del sentimento muove da questo pensiero: « in paragone del Creatore la creatura è nulla, il Creatore solo è ente ». Il sentimento del nulla non si esprime sensibilmente e, per così dire, monumentalmente se non colla distruzione. Nel sacrificio per il peccato l' atto del sentimento muove da quest' altro pensiero: « la creatura, che ha offeso il Creatore, non deve esistere ». Il pensiero dell' indebita esistenza non riceve l' ultima sua attuazione se non realizzando la non esistenza, e così ancora colla distruzione. Finalmente, anche espressione di un sommo amore è il sacrifizio, perchè non essendovi atto in cui l' amore sia più intenso ed operativo che nel soffrire per la persona amata, l' amatore grande cerca questo atto come l' ultimo sforzo amoroso che di far gli sia dato; a cui massimamente è invitato, quando disperato dolore dell' amata persona perduta lo determina e già lo avvia agli atti crudeli. Quindi alla morte di Patroclo i soldati di Achille si rasero i capelli e ne copersero il cadavere; quindi le crudeltà in uso presso tutti i popoli antichi nei funerali o nelle feste pei trapassati (1). La terza legge dell' armonia, ossia della conveniente azione degli enti, si formula: « L' atto semplice o molteplice, continuato pel nesso di più potenze che lo si comunicano, dopo compiuto, non cessa sempre d' un tratto, ma rimettendo con una certa legge, per la quale quell' atto passa a stati diversi ordinati in serie successive; il qual passaggio graduato fino alla totale estinzione dell' atto, è grato al soggetto che lo fa, perchè a lui naturale, e se gli è impedito, ne riceve molestia ». A provar questa legge nell' « Antropologia » abbiamo recato l' esempio dei colori immaginari e dei suoni (1); diciamone ancora qualche cosa. Ciò che Fresnel e Arago hanno detto del sistema delle ondulazioni per ispiegare i fenomeni della luce fu riputato assai probabile. Ma essi limitarono i loro studi alle leggi secondo le quali procedono le onde luminose del fluido, che suppongono diffuso in tutta la natura; il che non basta a spiegare la visione. Questa nasce nel sensorio visivo e non nell' etere, che non può far altro officio che di eccitatore. Lo psicologo, adunque, deve giovarsi delle loro fatiche per riuscire a conoscere o congetturare in qual maniera il detto sensorio operi, quando insorgono nell' anima le sensazioni luminose. Io credo che riceverebbe non piccolo vantaggio questa difficile questione, se si trasportasse nel sensorio stesso quanto quei due perspicaci fisici trovarono o congetturarono dover avvenire al di fuori di esso nel detto fluido. Secondo questo concetto il nervo ottico sarebbe un fascicolo di filamenti nervosi, pieno di una sostanza sommamente elastica (e forse fluida), le molecole della quale riceverebbero l' impressione delle ondulazioni eteree, e vibrerebbero longitudinalmente; queste vibrazioni riuscirebbero simili alle vibrazioni longitudinali di una corda di violino. L' ampiezza di queste onde, la loro celerità, il loro numero, i loro incontri diversi spiegherebbero i fenomeni della visione. Primieramente i diversi colori risulterebbero dal diverso numero di vibrazioni, che opererebbero le molecole nel filamento nervoso; il qual numero sarebbe corrispondente al numero delle vibrazioni eteree. Si può avere per dimostrato che il numero delle vibrazioni eteree varia secondo i vari colori; per esempio, le vibrazioni della luce gialla sono in maggior numero delle vibrazioni di quella che eccita il colore rosso. Quanto le onde sono in maggior numero, tanto elle sono più veloci e meno ampie. Simili vibrazioni, con questa diversa velocità, ampiezza e numero, debbono sorgere nelle molecole della sostanza nervosa, e così produrre eccitamenti diversi, e così dare colori diversi; il che spiega come ciascun filamento nervoso possa esser atto a dare la sensazione di tutti i colori, pel diverso eccitamento che riceve dai diversi raggi luminosi (1). Di più, le vibrazioni poi propagate lungo il filamento nervoso dovrebbero, giunte all' estremo, riflettersi e tornare indietro secondo certa legge; e questo ritorno delle vibrazioni spiegherebbe i colori immaginari e complementari, di cui si ha l' immagine (2), al venir meno di una sensazione esterna. Infatti la vibrazione che s' infrange, urtando in un ostacolo prima di esser compiuta, ne produce una riflessa, la cui velocità deve variare dalla prima secondo una legge complementaria. Quindi ancora s' intenderebbe perchè i colori accidentali complementari sieno opposti e si annullino, cioè producano del nero invece che del bianco. Se nel filamento nervoso ritorna una vibrazione riflessa complementaria, e contemporaneamente l' occhio sia impressionato dallo stesso colore, si deve produrre una vibrazione in senso opposto, che rimetta in quiete la pupilla. Rammentiamo un esperimento noto ai fisici. Sieno collocati sopra un fondo nero due piccoli quadrati, colorati l' uno in violetto e l' altro in aranciato, i cui centri sieno punti neri. Fissati alternativamente di secondo in secondo questi due punti, e poi chiusi gli occhi, sembrerà di vedere tre quadrati, l' uno dei quali di color giallo, che è complementario del violetto, l' altro bleu, che è complementario dell' aranciato, il terzo in mezzo di colore verde, che è il colore risultante dalla composizione del giallo e del bleu. All' incontro, se i due quadrati sono colorati essi stessi di colori complementari fra loro, per esempio di violetto e di giallo ovvero di aranciato e di bleu, il quadrato di mezzo non si vede più, cioè si fa nero. Questi fenomeni sembrano potersi spiegare così: Gli assi ottici non hanno la stessa direzione quando guardano successivamente i due quadrati colorati; indi avviene che i due quadrati colorati colpiscono la retina in ispazietti diversi, sicchè ciascun occhio ha l' impressione di due quadrati, quattro impressioni. Ma due di queste impressioni battono nello stesso spazietto delle due retine, e l' una di queste due impressioni è d' un quadrato, l' altra dell' altro, perchè l' asse ottico di un occhio è diretto ad un colore nella stessa direzione nella quale l' asse ottico dell' altro occhio è diretto all' altro colore; sicchè le impressioni dei due colori vengono a battere nello stesso spazietto della retina di entrambi gli occhi. Tuttavia i due occhi, finchè fissano i quadrati, non ne veggono che due, sia perchè le impressioni non hanno tempo di comporsi, sia perchè la spontaneità dell' anima non concorre allora a produrre immagini fantastiche, sia perchè l' attenzione non è volta che a vedere i due quadrati ed ad altro non bada. Ma non così accade dei colori immaginari, che succedono appresso. Essendo impressionati tre spazietti diversi nelle due retine, questi debbono dare tre serie di vibrazioni longitudinali nei filamenti nervosi. I due spazietti impressionati di un colore solo debbono dare ciascuno per colore immaginario o riflesso il colore complementario, perchè la vibrazione riflessa deve essere complementaria di quella che s' infranse. Lo spazietto di mezzo, impressionato dai due colori contemporaneamente, deve dare due vibrazioni riflesse complementarie dei singoli colori, le quali, essendo di ampiezza e celerità diversa, ritornano senza confondersi; e perchè un filamento nervoso non può che dare una sensazione sola alla volta, proporzionata al numero delle vibrazioni delle sue molecole, perciò ne viene un colore composto dai due complementari. Ma se i due colori dei quadrati sono complementari essi stessi, allora, mentre è in corso la vibrazione suscitata da uno di essi per recarsi dal di fuori al di dentro, è chiaro che gli deve venire incontro dal di dentro all' infuori la vibrazione riflessa dell' altro colore eguale perfettamente ad essa, ma in senso contrario; e così le due serie di vibrazioni si elidono reciprocamente, e quelle che vanno distruggono alternativamente le altre due serie che ritornano riflesse. Colla stessa ipotesi sarebbe spiegato altresì perchè un colore, prima di morire nell' occhio, lasci dopo di sè altri colori; per esempio, il bianco si converta in giallo e poi in rosso, e poi in indaco, e poi in azzurro e finalmente in verde, col quale svanisce. Quando si considera che la vibrazione molecolare, che ritorna indietro dall' estremità interna del filamento nervoso, è complementaria del colore di cui la retina fu impressionata, si può concepire che di nuovo quella vibrazione riflessa complementaria s' infranga, venuta che sia all' estremità esterna del filamento nervoso; nel qual caso deve ritornare di nuovo dal di fuori al di dentro con una celerità differenziata. E questo andare e venire di onde sempre diverse deve dare i diversi colori immaginari, fino a che l' eccitamento si acqueta del tutto, o diviene la vibrazione sì piccola che non è sufficiente a produrre un colore distinto (1). Dei ragionamenti simili a questi si potrebbero fare a spiegare le leggi del meccanismo, con cui il nervo acustico ammette l' eccitamento che dà il suono. Ed io penso dover essere assai probabile che le sensazioni di tutti gli altri sensorii nascano per somiglianti vibrazioni, ed ubbidiscano a leggi analoghe. Ora, se ad ogni soggetto è dilettevole l' atto suo, e conseguentemente gli è molesto l' impedimento che ritrova per via al suo atto, o il turbamento che s' ingerisce in esso, sforzandolo ad interrompere un atto a mezzo per farne un altro, ne avverrà che all' anima sensitiva dovranno essere grate quelle vibrazioni delle molecole sensorie, che producono in essa un maggior sentimento; e però quelle vibrazioni, che procedono accordate fra loro in modo che non s' impediscano l' una coll' altra, nè si turbino o confondano fra loro, ma sì anzi quelle che vanno tutte insieme ad accrescere il maggiore eccitamento possibile. Ora questo spiega perchè alcuni colori ed alcuni toni sono armonici e grati a vedersi o ad udirsi insieme, ed altri più o meno ingrati. Deve dirsi, come abbiamo già toccato nell' Antropologia , che i colori e toni grati sieno quelli le cui vibrazioni sono naturali e spontanee, il che accade altresì dei colori e suoni complementari ed immaginari; quelli a cui lo stesso meccanismo del sistema nervoso è già da sè spontaneamente determinato, sicchè l' esterna impressione non fa che associarsi alla spontaneità sensitiva, ed aiutarla e secondarla, alleggiando così anche la fatica a quel che vi pone del suo l' attività del principio senziente. All' incontro, quando il principio senziente riceve eccitamenti contrari o tali che si turbano fra loro e s' impediscono, sicchè egli non sia lasciato continuare e finire gli atti sensitivi da lui cominciati, costretto dai nuovi eccitamenti a farne altri diversi lasciando i primi; allora ne ha molestia, è un disaccordo, una disarmonia che l' affligge. Applichiamo questa teoria a spiegare le consonanze e gli accordi dei suoni. Primieramente se più suoni partissero dallo stesso luogo e nello stesso tempo, essi non produrrebbero che una sensazione sola, corrispondente alle vibrazioni di quel filamento nervoso che ecciterebbero. Questo si può provare coll' esperienza di Savart, che fece girare una ruota dentata in modo che i suoi denti percotessero contro una carta ferma. Se la ruota gira lentamente, si distinguono i colpi che dànno i denti della ruota nella carta, perchè quei colpi sono dati con notevole intervallo di tempo fra loro. Ma se si accelera assai il movimento della ruota, non si ode più che un suono solo continuo, la cui acutezza si aumenta colla velocità della rotazione, producendo così vibrazioni più frequenti; e ciò perchè i diversi colpi si succedono con un intervallo di tempo minimo, cioè minore di quello che è necessario a formarsi la sensazione. Acciocchè dunque vi siano più sensazioni acustiche e però vi sia accordo, è necessario che le vibrazioni aeree non approdino all' orecchio nello stesso tempo, ovvero partano da un diverso luogo; nel qual caso operano sopra un diverso filamento nervoso. Vi può essere accordo tanto fra i suoni successivi, purchè distanti di assai breve intervallo, quanto fra i suoni contemporanei venienti da diversi luoghi, per esempio dai diversi strumenti di un' orchestra. L' accordo dei suoni successivi, come sono quelli che ci vengono da un solo cantore o da un solo strumento, dovendo eccitare la sensazione negli stessi filamenti nervosi, non ci potrebbe dilettare, se l' anima, che raccoglie quei diversi suoni, non li rendesse contemporanei mediante la sua natura immune dal tempo. E` dunque l' anima quella che sente un sentimento solo risultante da più suoni successivi, il qual sentimento è quello della melodia; il che prova di nuovo la semplicità e identità in tempi diversi del principio sensitivo. Infatti l' atto del sentimento fondamentale ha una durata costante, e i suoni successivi sono modificazioni di quel sentimento identico; in questo sentimento adunque che rimane essi trovano il loro confronto, e lasciano il dilettevole armonico, che si chiama melodia. Qui di nuovo si vede come l' unità dell' armonia è di origine al tutto psicologica. Ma, secondo la legge da noi posta, questo diletto nasce all' anima essenzialmente sensitiva per la ragione che i due o più suoni successivi le sono naturali e spontanei, cioè sono tali che in essi ella spiega la sua attività facilmente, e produce atti sensitivi senza essere storpiata, impedita, costretta a mutarli prima di averli perfezionati. Perocchè: 1 vi è un diletto che viene all' anima da ciascuno dei suoi atti, essendole il sentire sempre dilettevole; e questo non è armonia, ma semplice diletto, che viene offeso quando i singoli atti le si storpiano a mezzo; 2 vi è un diletto che viene all' anima da più atti, quando l' uno di essi non disturba l' altro, anzi l' aiuta; e questo è il diletto dell' accordo, ossia dell' armonia. Infatti l' anima trova diletto, allorquando ella fa il suo atto colla maggiore facilità possibile e colla minore fatica possibile; e questo le accade quando non è costretta a mutarlo. Ond' è che la regolarità dei suoi atti le sia piacevole, perchè non le impone il bisogno di mutare stampo alla sua operazione, ma conserva quel metro o quella forma di operare, senza novità e cangiamenti. Quindi anche si trova che i suoni armonici, che fanno accordo fra loro, sono quelli che vengono prodotti da tali numeri di vibrazioni, il rapporto dei quali sia quello dei numeri naturali 1, 2, 3, ecc., senza frazioni; di che avviene che l' ampiezza delle vibrazioni sia pure come quei numeri, sicchè due o tre o quattro, ecc. vibrazioni di un suono siano eguali appunto ad una vibrazione d' un altro suono. Così la velocità delle vibrazioni d' un suono riesce appunto doppia, o tripla, o quadrupla, ecc. dell' altro suono, senza che avanzi nulla. In questo modo distribuite le vibrazioni: 1 non si confondono mai, nè impediscono; 2 hanno rapporti facilmente percettibili; 3 questi rapporti sono sempre gli stessi, sicchè l' eccitamento ha un metro costante. Quindi l' anima, dovendo concorrere colla sua attività alla produzione di tali sensazioni, trova subito la legge secondo cui produrle, cioè la sua azione è regolare; e questo stampo regolare è ciò che produce l' abitudine, l' operare secondo la quale le è spontaneo e facilissimo. Basterà dunque osservare quali suoni si producono con vibrazioni eteree, che abbiano i rapporti dei numeri naturali, per conoscere quali sieno i suoni che meglio s' accordino insieme. Si trova corrispondere a questa condizione l' accordo di ottava, le cui vibrazioni sono come 1 a 2; l' accordo di quinta, le cui vibrazioni sono come 2 a 3; l' accordo di quarta, le cui vibrazioni sono come 3 a 4 (1), l' accordo di terza, le cui vibrazioni sono come 4 a 5; gli accordi che si dicono perfetti: fa, la, do; do, mi, sol; sol, si, re ; i cui numeri delle vibrazioni sono sempre come 4, 5, 6. Ora poi la sapienza divina ordinò le cose esterne corporee per modo che aiutassero l' anima ai suoi atti colle loro proprie leggi. Quindi è noto che una corda vibrante, oltre la vibrazione di tutta la corda, vibra altresì colla sua metà, colla sua quarta parte, ecc., in modo che unitamente al suono dell' intera corda fa sentire altri suoni, e quelli appunto che formano fra loro armonia (2). Venendo agli accordi, che nascono dai suoni contemporanei che ci vengono da luoghi diversi, la ragione di essi è la medesima. Perocchè, quantunque noi supponiamo che le sensazioni discordi sieno ricevute da filamenti nervosi diversi, onde non si possono confondere fra loro, tuttavia la spontaneità dell' anima vi concorre a produrle; e però ella è sempre obbligata ad operare irregolarmente, ed a variar metro nel suo operare, se i numeri delle vibrazioni non hanno un giusto e netto rapporto fra loro. E questo suggella e conferma ciò che dicevamo, cioè che l' unità dell' armonia è di origine psicologica, benchè la spontaneità dell' anima venga eccitata, o con regolarità o senza, dagli stimoli esteriori che mutano il suo termine. Finalmente la ragione, per cui piace il tempo a battute regolari, trovasi nella stessa legge che presiede all' operare dell' anima. Dalle quali cose possiamo conchiudere: Che il mondo corporeo ricevette dalla sapienza creatrice un ordine ammirabile, acciocchè egli somministri ordine e armonia al sentimento e al principio razionale. Che quest' ordine non giace solamente nelle cose esterne all' uomo, ma altresì nella sua organizzazione (su di che torneremo ancora), nella fabbrica squisita dei suoi sensorii, i quali sono architettati e condotti con tale arte e maestria di proporzioni che mirabilmente rispondono e s' accordano alle proporzioni del mondo esterno e materiale. Che lo stesso principio sensitivo raccoglie il mirabile ordine del mondo esterno e del suo proprio termine (i sensorii), ed è quello che colla sua attività vi pone la forma , e fa sì che il mondo esterno, che non avrebbe per sè natura di ordine, di proporzione, di armonia, ma solo di entità ed azioni separate e disgiunte, riceva tutto ciò da lui stesso, per l' unità che il medesimo principio senziente crea in quella acconcia molteplicità. Ora quest' ultima parte formale dell' armonia, benchè non sia di origine razionale , è nondimeno di origine psicologica , perchè viene dall' anima in quanto è sensitiva.

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